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— Ma Oreste dice che di Poli non sapevi che fartene. Vi siete separati. Quando Poli era in clinica tu dov’eri?

Mi vergognai di averlo detto. Gabriella taceva. Di nuovo il cuore mi pulsava forte.

— Senti, — mi disse, — tu mi credi?

Aspettai.

— Mi credi o no?

Alzai la testa.

— Io a Poli, — susurrò Gabriella, — voglio bene.

— Ti sembra assurdo? — insisteva.

— E lui? ti vuol bene?

Gabriella si alzò e mi disse: — Pensaci. Devi dirglielo a Oreste. Quando andrete via, devi dirglielo tutti i momenti... Sei caro.

Se ne andò, sotto i pini. Mi girava la testa. Quando mi alzai, sarei corso giú dal Greppo, avrei voluto camminare camminare fino all’alba, fino a Milano o chi sa dove, come facevo a Torino nelle notti di smanie. Invece rientrai in sala, per bere dell’altro.

Usciva allora, dalle scale. Poli. Aveva due giacche sulle spalle, nessuna infilata, e gli occhi come cenere, come brace nella cenere. Che fosse ubriaco me l’aspettavo, ma non in quel modo. Mi disse di stare con lui, di sedermi e fumare con lui. Lo disse piano, con voce insistente.

Gli chiesi, per creanza, se quegli amici li conosceva da un pezzo. E in quel momento mi accorsi che non era ubriaco. Non d’alcol, almeno. Aveva gli occhi di quella notte che l’avevamo incontrato in collina.

— Poli, — gli dissi, — non stai bene?

Lui mi guardò di sotto in su e con le mani stringeva i braccioli della poltrona.

— Comincia a far freddo, — disse. — Almeno nevicasse. Oreste potrebbe uccidere qualcosa...

— Ce l’hai con Oreste?

Scosse il capo, senza sorridere.

— Vorrei che steste sempre qui. Non ti diverti questa sera? Non vuoi mica andar via?

— I tuoi amici di Milano vanno domattina.

— Mi annoiano, — disse. — È gente vecchia che non sa parlare — . Ebbe un sussulto come di vomito e strinse le labbra. Abbassò gli occhi e si riprese. — È incredibile, — disse, — come l’anima piú


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