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II.
Lo trovammo sul predellino dell’auto, con la faccia tra le mani. Non si mosse. Stemmo a guardarlo a pochi passi, come una bestia pericolosa.
— Non dici che vomita? — disse Pieretto.
— Facile, — disse Oreste. Gli andò vicino e gli pigliò la fronte come si fa per tastare la febbre. L’altro premeva con la fronte contro la mano, come un cane che gioca. Ebbero l’aria di respingersi e sentii che ridacchiavano. Oreste si voltò.
— È Poli, — disse. — Questa sí. Sono padroni di una villa.
L’altro, seduto, teneva una mano d’Oreste, e scrollò la faccia come chi esce dall’acqua. Era un bel giovanottone di qualche anno piú di noi, con gli occhi pesti e sbigottiti. Attaccato alla mano di Oreste, ci guardò senza dar segno di notarci.
Fu allora che Oreste gli disse: — Non eri a m Milano?
— C’è ancora tempo per i passi, — disse l’altro. — Tu vieni a scoiattoli?
— Credi mica che siamo alle Coste, — disse Oreste e liberò la mano. Poi disse squadrando la macchina: — L’avete cambiata?
«Cosa sta a ragionare con uno che è ubriaco?» pensai. Lo spavento di prima s’era fatto irritazione. «Perché non lo lascia in un fosso?»
Quel tale Poli ci guardava. Sembrava quei malati che fissano dal fondo di un letto, sbigottiti e tristi. Nessuno di noi s’era mai ridotto cosí. Eppure era abbronzato e degno in tutto della macchina. Mi vergognai del nostro urlaccio di prima.
— Non si vede Torino di qui? — disse quello, alzandosi in piedi
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