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con vivacità e guardandosi attorno. — Si dovrebbe. Non vedete Torino?

Non fosse stato per la voce che pareva imbottita, rauca e debole insieme, adesso era quasi normale. Guardava intorno e disse a Oreste: — Sono qui da tre notti. C’è un posto di dove si vede Torino. Non volete venire? È un bel posto.

Adesso facevamo crocchio, e Oreste gli chiese a bruciapelo: — Sei scappato di casa?

— A Torino mi aspettano, — disse. — Gente arricchita, insopportabile — . Ci guardò sorridendo come un bambino vergognoso, con quegli occhi. — Com’è schifosa certa gente che fa tutto coi guanti. Anche i figli e i milioni.

Pieretto, accostato, lo guardava sornione.

L’altro tirò fuori le sigarette e fece il giro. Erano morbide, tostate. Accendemmo.

— Se mi vedessero con te e coi tuoi amici, — disse Poli, — riderebbero. Quella gente mi diverte piantarla.

Pieretto disse forte: — Si diverte con poco.

Disse Poli: — Mi piace scherzare. Non piace anche a lei?

— Per dir male di chi si è arricchito, — disse Pieretto, — bisogna saper fare altrettanto. O vivere senza spendere un soldo.

Allora Poli, con un viso costernato, disse: — Crede? — Lo disse con tanta sollecitudine che anche Oreste non trattenne un sorriso. Subito quello ci raccolse allargando le braccia, con l’aria di prenderci complici, e disse con voce bassissima: — C’è un altro motivo.

— Dillo.

Poli lasciò cader le braccia e sospirò. Ci guardava umilmente, dal fondo degli occhi, e sembrò proprio mal ridotto.

— C’è che mi sento come un dio stanotte, — disse piano.

Nessuno rise. Ci fu un istante di silenzio, e Oreste propose: — Andiamo a vedere Torino.

Scendemmo un pezzetto di strada, fino al terrazzo di una curva dove il bagliore di Torino faceva riverbero. Ci fermammo sul ciglio. Noialtri salendo non c’eravamo mai voltati. Poli, col braccio sulla spalla d’Oreste, guardò il mare di luci. Gettò la sigaretta e guardava.

— Allora. Che si fa? — disse Oreste.

— Quant’è piccolo l’uomo, — disse Poli. — Straducce, cortili,


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