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chiusi. Mi sembrò colpito. Disse dal buio: — Non sono abbastanza altruista per farlo. Non è un piacere che mi attiri.

— Lui lascia che la gente si ammazzi da sé, — dissi a Pieretto.

Tacemmo a lungo e contemplammo le stelle. Dalla collina nel fresco dei pini saliva un odore dolce, quasi di fiori. Mi ricordai quei gelsomini del chiosco, che un tempo sotto l’ombra del boschetto dovevano esser parsi tante stelle. ci aveva mai vissuto qualcuno in quel chiosco?

— Le bestie, — disse Poli, — capiscono l’uomo. Sanno star sole, piú di noi...

Come Dio volle, ritornò Gabriella correndo. — Non mi prendi, — gridava. Giunse Oreste, piú calmo. — Il tuo fiore, — le disse.

— Oreste vede al buio come i gatti, — rise lei. — Al buio mi dà anche del tu.

— Sentite, — ci fece. — Datemi tutti del tu e sia finita.

Quando rientrammo e accendemmo, eravamo disinvolti. Ci disperdemmo per la sala e Gabriella canterellando cercò un disco. Aveva un fiore di leandro nei capelli. S’abbandonò su una poltrona e ascoltò la canzone. Era un blues molle, sincopato, un contralto squillante. Oreste taceva in piedi, presso il grammofono.

— È bello, — disse Pieretto. — Non l’avevamo mai sentito.

Gabriella sorrideva, in ascolto.

— È dei dischi di Maura? — disse Poli.

Cosí fini quella serata, e andammo a letto. Dormii male, d’un sonno pesante. Mi svegliò Pieretto che m’entrò nella stanza, a sole alto.

— Ho mal di capo, — gli dissi.

— Non sei il solo, — disse lui. — Sentili, dànno già dentro.

La voce del disco, il contralto, riempiva la casa. — Sono pazzi, a quest’ora?

— È Oreste che saluta la bella, — disse Pieretto. — Gli altri dormono.

Cacciai la faccia nel catino e sbuffavo. — Non esagera Oreste?

— Sciocchezze, — disse Pieretto. — Chi non capisco bene è Poli. Non mi aspettavo di sentirlo lamentarsi. Si direbbe che non vuole le corna.

Mi pettinavo, e mi fermai. — Se ho ben capito, — gli dissi, Poli è stanco di donne. Ha detto che gli levano il fiato. Preferisce le bestie o noialtri.


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