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XXI.

Presi in giro Oreste che da tre giorni non tornava piú al paese, e dormiva in una stanza a pianterreno vicino a quella della cuoca. — Di lui mi fido, — aveva detto Gabriella.

Oreste saliva la mattina a svegliarmi e fumavamo alla finestra...

— È da stanotte che giro nei boschi, — mi disse.

— Perché non hai fischiato? venivo anch’io.

— Volevo stare solo.

Feci la faccia che avrebbe fatto Pieretto, e subito mi dispiacque. Oreste abbassò gli occhi come un cane.

— C’entra qualcuno in questa storia?

Oreste non rispose, e guardava la sigaretta.

— Andiamo sul terrazzo, — dissi.

Al terrazzo si arrivava per una scaletta di legno che finiva a botola. Non c’eravamo mai saliti. A mezzogiorno Gabriella prendeva il sole lassú.

Traversammo il corridoio in punta di piedi. La scaletta scricchiolò maledettamente al nostro peso. Oreste sbucò per primo.

Era una specie di loggetta scoperta sotto il cielo, e il sole fresco la riempiva tutta. Un muricciolo di mattoni la chiudeva, e colonnine tutt’intorno reggevano travi di legno posate a pergola. Sul muricciolo c’erano vasi di gerani scarlatti, e le punte scure dei pini affioravano intorno.

— Mica male. Questa donna sa vivere.

Oreste guardava, perplesso. Sgabelli e accappatoi di spugna e uno sdraio eran piegati contro il muro. Pensai che dallo sdraio aperto non si doveva veder altro che il cielo e i gerani.


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