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XIII.
Ma io sapevo già tutto da Dina, che un giorno trovai seduta su uno sgabello in terrazzo e cuciva.
— Allora presto ti sposi, — le dissi.
— Prima tocca a lei, — rimbeccò, — che è un giovanotto.
— Ma i giovanotti hanno tempo, — dissi. — Guarda Oreste che non ci pensa nemmeno.
Seguí un giochetto di botta e risposta, e Dina si godeva il mio stupore. A bassa voce, e con malizia, vuotò il sacco. Mi disse che Oreste parlava con Cinta; i suoi di Cinta lo sapevano ma qui in casa nessuno; Cinta era figlia del cantoniere e lavorava con la sarta; era brava, si faceva i vestiti da sé, e girava in bicicletta. Sapeva perfino, Dina, che siccome il padre di Cinta si zappava lui la vigna, Oreste era costretto in paese a far finta di scherzare soltanto.
— È carina? — le dissi, — ti piace?
Dina alzò le spalle. — Per me. Deve sposarsela Oreste.
E fu Dina che s’accorse, la sera del fieno, che eravamo bevuti.
— Stasera con Oreste si è parlato di Cinta, — le fiatai sugli scalini dov’eravamo seduti sotto lo spicchio di luna.
E lei fissandomi con gli occhi grandi: — Avete aperto una bottiglia? Quante?
— Come lo sai?
— Tutto il tempo della cena ha coperto il bicchiere con la mano.
Mi chiedevo che sorta di donna sarebbe diventata la piccola Dina. Guardavo le vecchie, Giustina, le altre, la madre di Oreste; le confrontavo con le ragazze del paese che si vedevano ai lavori, gambe solide, brune, facce tozze, di buon sangue. Era il vento, la collina, il sangue spesso, a farle cosí dure e tarchiate. A volte, men-
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