Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano/52

CAPITOLO LII

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CAPITOLO LII.

I due assedii di Costantinopoli fatti dagli Arabi. Loro invasione in Francia, e loro sconfitta per opera di Carlo Martello. Guerra civile degli Ommiadi e degli Abbassidi. Letteratura degli Arabi. Lusso dei Califfi. Imprese navali contro l’isola di Creta, contro la Sicilia e Roma. Decadimento e divisione dell’impero de’ Califfi. Sconfitte e trionfi degli imperatori Greci.

Quando per la prima volta uscirono del lor deserto, avranno sicuramente gli Arabi maravigliato di vedere così facili e rapidi i loro trionfi. Ma quando nella lor corsa vittoriosa, pervennero alle rive dell’Indo e alla vetta dei Pirenei; quando dopo infinite prove ebbero conosciuto la forza delle lor scimitarre, e l’energia della lor fede, si saranno egualmente stupiti di incontrare qualche nazione che potesse resistere alle lor armi invincibili, e qualche limite che oppor si potesse alla dilatazione dell’impero de’ successori del Profeta. Temerità è questa che pure è perdonabile in fanatici e in soldati, se si pensa alla fatica che dee durare uno storico, che a mente fredda tien dietro presentemente ai trionfi dei Saracini, quando vuole rendere a sè stesso ragione del come abbiano potuto la religione e i popoli dell’Europa, eccetto la Spagna, salvarsi da quel rischio imminente e quasi inevitabile in apparenza. I deserti degli Sciti e dei Sarmati eran difesi dalla ampiezza loro, dalla miseria e dal coraggio de’ pa[p. 317 modifica]stori del settentrione; remotissima ed inaccessibile era la Cina: ma i Musulmani s’erano insignoriti della maggior parte della Zona temperata; i Greci erano indeboliti dalle calamità della guerra, dalla perdita delle più belle province, e la precipitosa caduta della monarchia de’ Goti potea sbigottire i Barbari dell’Europa. Ora io m’accingo a svolgere le cagioni che preservarono la Brettagna e la Gallia dal giogo civile e religioso del Corano, che protessero la maestà di Roma, e ritardarono la servitù di Costantinopoli; che rinvigorirono la resistenza dei cristiani, e fra i Maomettani disseminarono germi di discordia e di debolezza.

[A. D. 668-675] Quarantasei anni dopo la fuga di Maometto, comparvero armati i suoi discepoli davanti alle mura di Costantinopoli1; essi erano animati dalle promesse, o vere o supposte, del Profeta che la prima armata che assediasse la città dei Cesari avrebbe il perdono dei peccati: vedeano inoltre gli Arabi la gloria di quella lunga serie di trionfi che ottennero i primi Romani, trasfusa giustamente nei vincitori della nuova Roma, e la ricchezza delle nazioni versata in quella metropoli, che per la sua bella situazione era fatta veramente per essere a un tempo il centro del commercio e la sede del governo. Il Califfo Moawiyah, dopo avere strozzati i suoi rivali [p. 318 modifica]e assodato il trono, volle colle vittorie, e il vanto di questa santa impresa, espiare il sangue de’ cittadini versato nelle guerre intestine2. Gli apparecchi che fece in mare e in terra furono adeguati alla grandezza della spedizione; ne fu affidato il comando a Sophian, vecchio guerriero; ma furono rincorate le soldatesche dalla presenza e dall’esempio d’Yezid, figlio del comandante de’ fedeli. Poco aveano i Greci a sperare, poco i lor nemici a temere dal coraggio e dalla vigilanza dell’Imperatore che deturpava il nome di Costantino, e non imitava del suo avo Eraclio se non se gli anni che aveano ottenebrata la sua gloria. Senza essere arrestate, e senza incontrare ostacolo, le forze navali de’ Saracini passarono il canale dell’Ellesponto, che pur oggi dai Turchi è considerato come il baloardo posto dalla natura a difesa della capitale3. L’armata araba gittò l’ancora, e sbarcarono le milizie presso il palazzo di Hebdomon, distante sette miglia della Piazza. Dall’alba sino a notte fecero [p. 319 modifica]esse per molti giorni parecchi assalti lungo le mura dalla porta dorata al promontorio orientale, e l’urto delle colonne, poste di dietro, spingevano avanti i guerrieri della prima linea. Ma gli assedianti aveano calcolato male la forza e le difese di Costantinopoli. Da numerosa e ben disciplinata guarnigione erano protette le sue mura solide ed alte, e il valore Romano si riscosse in faccia al pericolo, onde era minacciata la religione e l’impero: gli abitanti fuggiaschi dalle province già conquistate, ricoverati colà, rinnovarono con miglior successo i modi difensivi usati in Damasco e in Alessandria, e sbalordirono i Saracini mirando i prodigiosi e strani effetti del fuoco greco. Una resistenza tanto ostinata gli determinò a volgersi ad imprese più facili; corsero quindi a mettere a sacco le coste d’Europa e d’Asia, che cingono la Propontide, e dopo aver tenuto il mare, dal mese d’aprile fino a settembre, si ritirarono per ottanta miglia dalla capitale nell’isola di Cisico, ove formato aveano i magazzini, e depositata la preda. Furon sì pazienti nella perseveranza, o sì deboli nelle operazioni, che per sei estati successive eseguirono l’istesso disegno d’assalto che terminò con ugual ritirata. Quindi ogni impresa, manchevole di effetto, scemava in essi il vigore non che le speranze di vincere, sino a tanto che i naufragi e le malattie, il ferro e il fuoco del nemico gli astrinsero ad abbandonare quell’inutile tentativo. Ebbero essi a piangere la perdita o a celebrare il martirio di trentamila Musulmani, che lasciarono la vita all’assedio di Costantinopoli, e i pomposi funerali di Abù-Ayub, o Giob, solleticarono la curiosità de’ cristiani medesimi. Questo Arabo venerando, uno degli ultimi com[p. 320 modifica]pagni di Maometto, era nel numero degli Ansar, o ausiliarii di Medina, che accolsero il Profeta quando fuggì dalla Mecca. Da giovanetto erasi trovato alle battaglie di Beder e di Ohud; giunto all’età matura era stato l’amico e il collega d’Alì, e aveva logorato il resto delle sue forze lungi dalla patria in una guerra contra i nemici del Corano. Sempre fu rispettata la sua memoria: ma fu negletto, ed anzi ignorato, il luogo della sua sepoltura per otto secoli sino a tanto che Maometto II prese Costantinopoli. Una di quelle visioni che sono le arti consuete in tutte le religioni del Mondo rivelò ai Musulmani, che Ayub era sepolto al piè delle mura in fondo al porto, e quindi fu eretta colà una Moschea che poi fu con ragione prescelta per luogo della inaugurazione semplice e marziale dei soldani Turchi4.

[A. D. 677] L’esito di quell’assedio risuscitò nell’oriente e nell’occidente la gloria dell’armi romane, ed oscurò per un poco quella de’ Saracini. A Damasco, in un consiglio generale degli Emiri o Coreishiti, fu accolto onestamente l’inviato dell’imperatore; e allora i due imperi segnarono una pace o tregua di trent’anni, nella qual occasione il comandante de’ credenti umiliò la sua dignità sino a promettere un annuo tributo di cinquanta cavalli di buona razza, di cinquanta schiavi e di tremila pezze d’oro5. Era [p. 321 modifica]già molto vecchio il Califfo, e volea godere della sua autorità, e terminare i giorni nella quiete e tranquillità; ma mentre al solo suo nome tremavano i Mori e gli Indiani, era poi la sua reggia e la città di Damasco insultata dai Mardaiti o Maroniti del monte Libano, i quali furono il miglior propugnacolo dell’impero sino al tempo che la sospettosa politica dei Greci, dopo averli disarmati, li confinò in un’altra contrada6. Dopo la sommossa dell’Arabia e della Persia, non rimaneva più alla casa d’Ommiyah7 altro dominio fuorchè i reami della Sorìa e dell’Egitto. Nel suo imbarazzo e nello spavento che provò, s’indusse a cedere sempre più alle premurose domande dei cristiani, e fu statuito il tributo d’uno schiavo, d’un cavallo e di mille pezze d’oro al giorno per tutti i 365 giorni dell’anno solare. Ma non così [p. 322 modifica]tosto l’armi e la politica di Abdalmalek ebbero rintegrato l’impero, ricusò un segno di servitù che feriva non men la sua coscienza che l’orgoglio: cessò dunque di pagare il tributo, e i Greci avviliti dalla stravagante tirannia di Giustiniano II, dalla legittima ribellion del popolo e dal frequente ricomparire d’altri avversari non poterono pretenderlo a mano armata. Sino al regno d’Abdalmalek, teneansi contenti i Saracini a godere i tesori della Persia e di Roma col conio di Cosroe o dell’imperator di Costantinopoli; il Califfo fece battere monete d’oro e d’argento, nominate dinari, con una iscrizione la quale, benchè potesse essere censurata da qualche severo casista, annunciava l’unità del Dio di Maometto8. Sotto il regno del Califfo Walid, si cessò d’usare la lingua e i caratteri greci nei conti della rendita pubblica9. [p. 323 modifica]Se questo cangiamento originò l’invenzione o stabilì l’usanza delle cifre, appellate comunemente arabiche o indiane, avvenne che poi con un regolamento di computisteria, immaginato dai Musulmani, si aprisse il campo alle più rilevanti scoperte dell’aritmetica, dell’algebra e delle matematiche10.

[A. D. 716-718] Mentre che il Califfo Walid sonnecchiava sul trono di Damasco, e dai suoi Luogo-tenenti si compiea la conquista della Transoxiana e della Spagna, un terzo esercito di Saracini inondava le province dell’Asia Minore e s’accostava a Bisanzio. Ma il tentativo ed il cattivo esito d’un secondo assedio era riserbato al suo fratello Solimano, sospinto, per quanto pare, da più operosa ambizione e da un ardir più marziale. Negli sconvolgimenti dell’impero Greco, dopo che fu punito e vendicato il tiranno Giustiniano, un basso segretario, cioè Anastasio o Artemio, fu dall’accidente o dal suo merito vestito della porpora. Sorvennero presto a spaventarlo le nuove di guerra, avendogli l’ambasciatore, da lui spedito a [p. 324 modifica]masco, riferito il terribile annunzio degli apparecchi che si faceano dai Saracini in mare e in terra, per un armamento ben superiore di quanti si fossero veduti, o di tutto ciò che si poteva immaginare. Le precauzioni d’Anastasio non furono indegne nè del suo grado, nè del pericolo che lo minacciava. Ordinò che sgombrasse dalla città qualunque persona che non avesse viveri bastanti per un assedio di tre anni; empiè i magazzini e gli arsenali; restaurò e munì fortemente le mura, e su quelle e su brigantini, di cui crebbe frettolosamente il numero, collocò macchine da lanciar pietre, dardi e fuoco. Havvi certamente maggiore sicurezza e più gloria a prevenire che a respingere un assalto: immaginarono i Greci un divisamento che vinceva il lor coraggio consueto, d’ardere cioè le munizioni navali del nemico, i legnami di cipresso tratti dal Libano e condotti sulle coste della Fenicia pel servigio dei navili egiziani. Grazie alla viltà o alla perfidia delle squadre, che con una nuova denominazione appellavansi le soldatesche del Tehme Obsequien11, andò fallita la magnanima impresa. Trucidarono esse il lor capitano, abbandonarono la bandiera propria nell’isola di Rodi, si sperperarono pel continente vicino, e poscia ottennero il perdono, o forse un premio, eleggendo ad imperatore un semplice ufficiale dell’erario. Il quale [p. 325 modifica]nomavasi Teodosio, e poteva pel suo nome piacere al senato ed al popolo; ma dopo un regno di alcuni mesi sdrucciolò dal trono in un chiostro, e cesse al braccio ben più vigoroso di Leone Isaurico l’onore di difendere la capitale e l’impero. Già già il più formidabile dei Saracini, Moslemah, fratello del Califfo, si avvicinava con cento ventimila tra Arabi e Persiani, la maggior parte dei quali montava cavalli o cammelli; e ben durarono lungamente gli assedi di Tiane, di Amorio, e di Pergamo, piazze che furono prese, ad esercitare la lor arte, e a crescerne le speranze. Nel noto passaggio d’Abido sull’Ellesponto per la prima volta tragittarono i Musulmani dall’Asia in Europa. Di là girando attorno le città della Tracia, situate sulla Propontide, andò Moslemah ad investire Costantinopoli dalla parte di terra: cinse il suo campo di fossa e di muro; appostò le sue macchine d’assedio, e ammonì, colle parole e le azioni, che se pari alla sua fosse l’ostinazione degli assediati, aspetterebbe in quel sito pazientemente il ritorno della stagion delle semine e del ricolto. Fecero i Greci della capitale la proferta di redimere la propria religione e l’impero con una menda o contribuzione d’una pezza d’oro per testa: ma questa magnifica offerta fu sdegnosamente ributtata, e l’arrivo delle navi dell’Egitto e della Sorìa sempre più raddoppiò la presunzione di Moslemah. Si è computato il numero delle navi a mille e ottocento, dal che si può argomentare quanto erano piccole, e venivano con loro venti vascelli in cui la grandezza facea danno alla celerità, e che per altro non conteneano che cento soldati armati pesantemente. Questa numerosa squadra procedea verso il Bosforo sopra un mare tranquillo, con vento favo[p. 326 modifica]revole, e, per valermi delle frasi dei Greci, la selva mobile adombrava la superficie dello stretto. Intanto dal generale Saracino s’era fissata la funesta notte destinata ad un assalto generale per terra e per mare. Per aumentare la fiducia del nemico, avea l’imperatore fatto abbassar la catena che custodiva l’ingresso del porto; ma intanto che i Musulmani stavano esaminando se convenisse giovarsi dell’occasione, o se avessero a temere di qualche insidia, venne a sorprenderli la morte. Lanciarono i Greci le lor barche incendiarie; gli Arabi, le lor armi, e le lor navi divenner preda delle fiamme, e quei vascelli che vollero fuggire si spezzarono gli uni contro gli altri, o furono inghiottiti dall’onde. Di modo che non si trova negli Storici alcun vestigio di quella squadra, che minacciava la distruzion dell’impero. I Musulmani ebbero però un disastro più irreparabile: morì il Califfo Solimano d’indigestione12 nel suo campo, presso Kinnisrin o Calcide in Sorìa, mentre era in punto di marciare a Costantinopoli col resto delle forze dell’oriente. Un parente nemico di Moslemah succedette a Solimano, e le inutili e funeste virtù d’un bigotto disonorarono il trono d’un principe dotato d’ingegno e di attività. Mentre il nuovo Califfo Omar attendeva a calmare ed a satisfare gli [p. 327 modifica]scrupoli della sua cieca coscienza, la sua trascuranza, piuttosto che la sua risoluzione, lasciava continuare l’assedio durante l’inverno13. Quella stagione fu oltre modo rigidissima: un’alta neve coperse la terra per più di cento giorni, e i nativi abitatori degli ardenti climi dell’Egitto e dell’Arabia si rimasero abbrividiti, e quasi senza vita nel lor campo gelato. Si rianimarono col ritorno della primavera, e già per essi s’era fatto un secondo sforzo onde soccorrerli; ricevettero infatti due numerosi navili carichi di biada, d’armi e di soldati; il primo di quattrocento barche di trasporto e galere veniva da Alessandria, e il secondo di trecento sessanta bastimenti dai porti dell’Affrica. Ma si riaccesero i terribili fuochi dei Greci, e fu meno grande la distruzione solo perchè aveano i Musulmani appreso per esperienza a star lontani dal pericolo, o perchè gli Egiziani, che servivano sul navile, tradirono e passarono coi loro vascelli ad unirsi coll’imperator de’ cristiani. Si riaperse il commercio e la navigazion della capitale, e la pesca supplì ai bisogni ed al lusso degli abitanti. Ma non tardarono le schiere di Moslemah a provare la penuria e le malattie, che crebbero ben presto in guisa terribile [p. 328 modifica]per la necessità di ricorrere agli alimenti i più disgustosi e rivoltanti per lo stomaco. Era scomparso lo spirito di conquista ed anche di fanatismo; non potean più i Saracini uscire delle linee soli, o in piccoli distaccamenti, senza essere esposti all’inesorabile vendetta de’ paesani della Tracia. Con doni e con promesse si procacciò Leone un esercito di Bulgari dalle rive del Danubio: questi Selvaggi ausiliari espiarono in qualche modo i danni, che con la sconfitta e l’eccidio di ventiduemila Asiatici avean recato all’impero. Si sparse scaltramente la nuova che i Franchi, popolazioni ignote del Mondo latino, armassero in favor de’ cristiani per mare e per terra, e questo formidabile soccorso, colmando di gioia gli assediati mise il terrore negli assedianti. Finalmente dopo tredici mesi d’assedio14, Moslemah privo di speranza ricevè lietamente dal Califfo il permesso di ritirarsi. La cavalleria araba varcò l’Ellesponto e le province dell’Asia, senza indugiare e senza essere disturbata. Ma un esercito Musulmano era stato tagliato a pezzi verso la Bitinia, e tanto in più riprese avea sofferto il rimanente dell’armata navale, per la procella e pel fuoco greco, che sole cinque galere portarono ad Alessandria la nuova dei tanti e quasi incredibili disastri sofferti15. [p. 329 modifica]

Se Costantinopoli fu salva dei due assedii degli Arabi, conviene soprattutto attribuirne il successo alle devastazioni e al terrore che spandeva il fuoco greco, divenuto ancor più terribile per la novità16. Il gran segreto di questa formidabile composizione, e la maniera di dirigerla, erano stati insegnati da Callinico, oriundo d’Eliopoli in Sorìa, il quale aveva abbandonato il servigio del Califfo per quello dell’imperatore17. Si vide il talento d’un chimico e d’un ingegnere adeguare la forza delle squadre e degli eserciti, e questa scoperta, o questo miglioramento nell’arte della guerra, cadde per ventura nel tempo che i Romani tralignati non poteano lottare contro il fanatismo guerriero, e la gioventù valorosa dei Saracini. Quello Storico che vorrà analizzare sì straordinario composto dee diffidare della propria ignoranza, e di quella degli autori Greci tanto dediti al maraviglioso, tanto negligenti, e in quest’occasione sì [p. 330 modifica]gelosi di custodire per sè soli questa scoperta. Dalle parole oscure, e forse fallaci che si lasciano sfuggire dalla penna, si potrebbe essere indotti a credere che la nafta18, ossia il bitume liquido, olio leggiero, tenace e infiammabile19 che sgorga dalla terra e che s’infiamma al tocco dell’aria, fosse il primario ingrediente del fuoco greco. La nafta, non so in che modo e in che proporzione, si mescolava col zolfo e colla pece che si cava dai pini20. Da questa mistura, che [p. 331 modifica]produceva un fumo denso, e un’esplosione fragorosa, usciva una fiamma ardente e durevole, che non solo si alzava in linea perpendicolare, ma che colla stessa forza abbruciava di fianco e abbasso, ed invece di estinguerla l’acqua l’alimentava e le cresceva attività: non v’erano che la sabbia, l’orina, e l’aceto che potessero mitigare la furia di quel formidabile agente, dai Greci giustamente chiamato fuoco liquido, o fuoco marittimo. Si adoperava con pari successo contro il nemico, in mare e in terra, nelle battaglie e negli assedii. Si versava dall’alto delle mura mercè d’una grande caldaia. Si gettava in palle di pietra o di ferro arroventate, o pure si lanciava sopra strali e chiaverine coperte di lino e di stoppe, molto inbevute di olio infiammabile; altre volte si deponeva in brulotti destinati a portare in maggior numero di luoghi la fiamma divorante; per lo più lo faceano passare attraverso lunghi tubi di rame collocati nella parte anteriore d’una galea, la cui estremità, figurando la bocca di qualche mostro selvaggio, parea che vomitasse torrenti di fuoco liquido. Quest’arte di gran momento era accuratamente custodita in Costantinopoli come il Palladio dello Stato. Quando [p. 332 modifica]l’imperatore prestava le galere e l’artiglieria ai suoi alleati di Roma, non si pensava certamente a svelare ad essi il segreto del fuoco greco, e l’ignoranza e lo stupore aumentavano e trattenevano il terror dei nemici. Uno degli imperatori21, nel suo Trattato sulla amministrazion dell’impero, accenna le risposte e le scuse colle quali si può eludere l’imprudente curiosità, e le importune istanze dei Barbari. Raccomanda che si dica che un angelo rivelò il mistero del fuoco greco al primo e al massimo dei Costantini, ordinandogli espressamente di non mai comunicare alle nazioni estere questo dono del cielo, e questa grazia speciale conceduta ai Romani; che sono obbligati del pari il principe e i sudditi a serbare in proposito un religioso silenzio, mancando al quale sarebbero esposti alle pene temporali e spirituali destinate al tradimento e al sacrilegio; che così fatta empietà tirerebbe subito addosso al reo la prodigiosa vendetta del Dio de’ cristiani. Queste precauzioni fecero sì che i Romani dell’oriente fossero padroni del lor secreto per quattro secoli, e alla fine dell’undecimo i Pisani, avvezzi a tutti i mari e pratici di tutte le arti, si videro fulminati dal fuoco greco senza poterne indovinare la composizione. Finalmente fu scoperta o indovinata dai Musulmani, i quali poi, nelle guerre della Sorìa e dell’Egitto, rivolsero contro i cristiani quel flagello che contro di loro avean quelli inventato. Un cavaliere, che non curava le spade nè le lancie de’ Saracini, racconta candidamente lo spavento ch’egli ebbe, del pari che [p. 333 modifica]i suoi compagni, alla vista e allo strepito della funesta macchina che vomitava torrenti di fuoco greco, così tuttavia nominato dagli scrittori francesi. Giugneva esso fendendo l’aria, dice Joinville22, sotto la forma d’un drago alato con lunga coda, e grosso quanto una botte; faceva il rimbombo del fulmine, era celere come il lampo, e colla sua orribile luce dissipava le tenebre della notte. L’uso del fuoco greco, o come potrebbe oggi appellarsi del fuoco saracino, continuò sin verso la metà del secolo quattordicesimo23, sin a quel tempo che il nitro, il zolfo ed il car[p. 334 modifica]bone, combinati per l’effetto di scienza o del caso, hanno colla scoperta della polvere da schioppo portato un gran cangiamento nell’arte della guerra e negli annali del Mondo24.

[A. D. 721 ec.] Costantinopoli e il fuoco greco impedirono agli Arabi il passaggio in Europa dalla parte dell’oriente; ma all’occidente e del lato de’ Pirenei venivano i vincitori della Spagna minacciando un’invasione alle province della Gallia25. Vedendo il digradamento della monarchia francese si sentivano allettati colà questi fanatici, sempre insaziabili di conquiste; nè i discendenti di Clodoveo ereditato aveano da lui il coraggio e l’indole indomita. Fosse disgrazia o debolezza di carattere, i nomi degli ultimi re della razza merovin[p. 335 modifica]gia non andavan disgiunti dal titolo di neghittosi26. Regnavano essi senza autorità, e morivano senza gloria. Un castello nelle vicinanze di Compiègne27 era la residenza loro, o per meglio dir la prigione; ma tutti gli anni, nei mesi di marzo e di maggio, un carro tirato da sei buoi li conduceva all’assemblea dei Franchi, ove davano udienza agli ambasciatori stranieri e ratificavano gli atti dei Prefetti del Palazzo. Era questo ufficial domestico il ministro della nazione, e il padrone del principe a un tempo: così la carica pubblica era divenuta il patrimonio di una sola famiglia. Il primo Pipino avea lasciato alla sua vedova e al figlio che n’ebbe la tutela d’un re già venuto all’età matura, e questa debole reggenza era stata rovesciata dai più ambiziosi fra i bastardi di Pipino. Era quasi disciolto un governo mezzo selvaggio e mezzo depravato: i duchi tributari, i conti governatori delle province, e i signori dei feudi ad esempio dei Prefetti del Palazzo s’adoperavano a farsi [p. 336 modifica]grandi sopra la debolezza d’un monarca spregiato. Fra i Capi independenti un de’ più arditi e de’ più fortunati fu Eude, duca d’Aquitania, il quale nelle province meridionali della Gallia usurpò l’autorità, e ben anche il titolo di re. I Goti, i Guasconi, e i Franchi si raccolsero sotto lo stendardo di questo eroe cristiano, il quale respinse la prima invasion de’ Saracini, e Zama Luogo-tenente del Califfo perdè sotto le mura di Tolosa l’esercito e insieme la vita: alla ambizione de’ suoi successori s’aggiunse lo sprone della vendetta: valicarono nuovamente i Pirenei ed entrarono nella Gallia con forze poderose, e con la risoluzione di conquistare il paese. Per la seconda volta prescelsero il sito vantaggioso di Narbona28, ove i Romani aveano formata la prima loro colonia; domandarono la provincia di Settimania, o di Linguadoca, come parte dependente dalla monarchia di Spagna. I vigneti della Guascogna e dei contorni di Bordeau divennero possessi del sovrano di Damasco, e di Samarcanda, e il mezzodì della Francia, dalla foce della Garonna sino a quella del Rodano, accettò i costumi e la religione dell’Arabia.

[A. D. 731] Ma questi angusti confini non bastavano al coraggio di Abdalraham, o Abderamo, dal Califfo Hashem ridonato ai voti de’ soldati e del popolo di Spagna. Quel vecchio ed intrepido generale destinava al giogo [p. 337 modifica]del Profeta il rimanente della Francia e dell’Europa, e tenendosi certo di superare quanti ostacoli potessero la natura o gli uomini opporgli, s’apparecchiò con un esercito formidabile a compiere il decreto da lui dato. Dovette da prima reprimere la ribellione di Manuza, capitano Moro, padrone dei passi più importanti dei Pirenei. Avea questi accettata l’alleanza del duca d’Aquitania; ed Eude, condotto da motivi d’interesse privato o da prospettive d’utilità pubblica, avea conceduta sua figlia, giovanetta di grande avvenenza, ad un Affricano infedele: ma Abderamo con armi più forti assediò le principali Fortezze della Cerdagna, e il ribelle fu preso ed ucciso nelle montagne, e mandata la sua vedova a Damasco per contentare le brame, o più probabilmente la vanità del Califfo. Varcati i Pirenei, Abderamo senza indugiare passò il Rodano e pose l’assedio ad Arles. Volle un esercito cristiano portar soccorso a questa città: nel tredicesimo secolo vedevansi ancora i sepolcri de’ lor capitani, e le rapide onde del fiume trascinarono a migliaia nel Mediterraneo i loro cadaveri. Non ebbe minor fortuna Abderamo dalla parte dell’oceano. Attraversò senza ostacolo la Garonna e la Dordogna, che congiungono le loro acque nel golfo di Bordeaux; ma al di là di questi fiumi, trovò il campo dell’intrepido Eude che avea formato un secondo esercito, e che sofferse una seconda sconfitta, funesta tanto ai cristiani che, per lor confessione, Iddio solo poteva contare il numero dei morti. Dopo questa vittoria inondarono i Saracini le province dell’Aquitania, i nomi gallici delle quali sono piuttosto mascherati che cancellati dalle denominazioni attuali di Perigord, Saintonge e Poitou; Abderamo [p. 338 modifica]inalberò il suo stendardo sulle mura o almeno davanti alle porte di Tours, e di Sens, e corsero i suoi distaccamenti il regno di Borgogna sino alle tanto note città di Lione e Besanzone. La memoria di quelle devastazioni è stata lungamente conservata dalla tradizione, avvegnachè non la perdonava Abderamo nè a paese, nè ad abitanti; e la invasion della Francia, fatta dai Mori e dai Musulmani, ha dato origine a quelle favole, con cui ne’ romanzi di cavalleria hanno guastato sì bizzarramente i fatti, e che dall’Ariosto furono ornate di tinte così brillanti e piacevoli. Nello stato di decadimento in cui giaceano la società e le arti, le città abbandonate dagli abitanti non offerivano ai Saracini che una preda miserabile: il più ricco bottino consistette negli spogli delle chiese e dei monasteri cui diedero al fuoco dopo averli saccheggiati. S. Ilario di Poitiers e San Martino di Tours29, in queste occasioni, dimenticarono quel poter miracoloso che dovea difendere le loro tombe30. Avean corso trionfando i Saracini lo spazio di più di mille miglia dallo scoglio di Gibilterra sino alle rive della Loira; continuando così altrettanto, sarebbero giunti ai confini della Polonia ed ai monti della Scozia: il passaggio del Reno non [p. 339 modifica]è già più malagevole di quello del Nilo e dell’Eufrate, e da un’altra parte il navile arabo avrebbe potuto penetrar nel Tamigi senza dare una battaglia navale. Oggi forse nelle scuole di Oxford si spiegherebbe il Corano, e dall’alto delle sue cattedre si dimostrerebbe31 a un popolo circonciso la santità, e la verità della rivelazione di Maometto32. [p. 340 modifica]

[A. D. 732] Ma il senno e la fortuna d’un sol uomo salvarono la cristianità. Carlo, figlio illegittimo di Pipino-il-Breve, si tenea contento al titolo di Prefetto o di duca dei Franchi: ma egli meritava di divenire il ceppo d’una stirpe di re. Governò per ventiquattro anni il regno, e colle sue vigilanti cure ristaurò e sostenne la maestà del trono: i ribelli della Germania e della Gallia furono successivamente schiacciati dalla attività d’un guerriero, che nella medesima campagna piantava le sue bandiere sull’Elba, sul Rodano e sulle coste dell’oceano. Nel punto del pericolo dalla voce pubblica fu chiamato in soccorso della patria; il suo rivale, il duca d’Aquitania, fu costretto a comparire tra la folla dei fuggiaschi, e dei supplicanti. „Oh Dio! esclamavano i Franchi, che disgrazia! che indegnità! già da gran tempo ci vien parlato del nome e delle conquiste degli Arabi; noi temevamo la loro invasione dalla parte d’oriente; essi han conquistata la Spagna, ed ecco che vengono dall’occidente ad occupare il nostro paese. Eppure per numero sono inferiori a noi, e le loro armi non vaglion le nostre, poichè non portano scudi. — Se baderete al mio consiglio, rispose loro il bravo Prefetto del Palazzo, non penserete ad interrompere la corsa, e non precipiterete i vostri assalti: è quello un torrente che mal si tenterebbe di [p. 341 modifica]arrestare nel suo impeto; sete di ricchezze, e sentimento di gloria addoppiano in essi il valore, e il valore può più dell’armi e del numero. Aspettate sino a tanto che, carichi di bottino, siano inceppati nelle lor mosse. Questi tesori ne divideranno i pareri, e faran sicura la vostra vittoria„. Forse questa sottil politica è un’invenzione degli scrittori Arabi, e forse la situazione di Carlo può attribuire ai suoi indugi un motivo men nobile e più personale, il segreto desiderio cioè, d’umiliare l’orgoglio, e di desolare le province del ribelle duca d’Aquitania. È più verosimile per altro che fossero forzati gli indugi di Carlo, ed alla sua brama contrarii. Ignoti erano alla prima e alla seconda razza, gli eserciti permanenti; dominavano allora i Saracini più che mezzo il reame; e, secondo la rispettiva lor condizione, tanto i Franchi della Neustria che quei dell’Austrasia troppo si dimostrarono sbigottiti, o poco attenti al pericolo che lor soprastava; ed i soccorsi, volontariamente forniti dai Gepidi e dai Germani, avean troppa via da correre per arrivare al campo de’ cristiani. Come tosto ebbe Carlo Martello raunate le sue forze, andò in traccia del nemico, e trovollo nel cuor della Francia, fra Tours e Poitiers. Le sue mosse ben regolate erano state nascoste da una catena di colline, e per quanto pare fu sorpreso Abderamo dall’inaspettato suo arrivo. Con pari ardore marciavano le nazioni dell’Asia, dell’Affrica e dell’Europa ad una battaglia, che dovea cangiare la faccia del Mondo. Passarono i sei primi giorni in iscaramuccie, nelle quali ebbero buon successo i cavalieri e gli arcieri dell’oriente. Ma nella battaglia ordinata, che seguì nel giorno settimo, furono op[p. 342 modifica]pressi gli Orientali dalla forza e dalla statura dei Germani, i quali con indomito cuore, e con mani di ferro33 assicurarono la libertà civile e religiosa della loro posterità. Il soprannome di Martello, che fu dato a Carlo, prova abbastanza il peso de’ suoi colpi intollerabili. Il risentimento e l’emulazione avvivarono il valore di Eude, e, agli occhi dell’istoria, i lor compagni d’armi sono i veri Pari, i veri Paladini della cavalleria francese. Si combattè sino all’ultimo chiarore di giorno; cadde ucciso Abderamo, e i Saracini si ritrassero entro il lor campo. Nella confusione e nella disperazion della notte, le varie tribù dell’Yemen e di Damasco, dell’Affrica e della Spagna si lasciarono trasportare dalla rabbia sino a rivolger le armi le une contro l’altre; gli avanzi dell’esercito improvvisamente si dissiparono, ed ogni Emir, più non pensando che alla propria sicurezza, fece precipitosamente la sua particolare ritirata. Allo spuntar dell’alba, tanta quiete del campo Saracino fu da prima considerata dai cristiani vittoriosi per una insidia. Pure sulle notizie avute dalle spie, si avventurarono finalmente ad accostarsi per veder le ricchezze lasciate nelle tende già vuote; ma, eccetto qualche famosa reliquia, non tornò in mano ai legittimi proprietari che una piccola porzione di bottino. Ben presto si sparse la gran nuova nel Mondo cattolico, e i monaci d’Italia asserirono e credettero che il martello di Carlo aveva accoppato trecentocin[p. 343 modifica]quanta, o trecento settantacinquemila Musulmani34, nel mentre che i cristiani non aveano perduto più di mille e cinquecento uomini nella giornata di Tours; ma queste novelle incredibili sono abbastanza smentite da quel che si sa della circospezione del general Francese, il quale temette i rischi dell’inseguire, e che rimandò alle lor foreste i suoi alleati della Germania. L’inazione d’un vincitore è una prova che egli ha perduto assai di forza, e veduto correre molto del suo sangue, e non è tanto il momento della battaglia, ma della fuga dei vinti quello che è segnato da strage maggiore. Nondimeno la vittoria dei Franchi fu intera e decisiva. Eude ricuperò l’Aquitania, e gli Arabi più non pensarono alla conquista delle Gallie, da cui Carlo Martello e i prodi suoi discendenti li respinsero ben presto al di là dei Pirenei35. Fa meraviglia che il Clero, debitore della sua esistenza a Carlo Martello, non abbia canonizzato o per lo meno lodato a cielo il salva[p. 344 modifica]tore del cristianesimo: ma nella pubblica angustia era stato astretto il Prefetto del Palazzo ad impiegare, in servigio dello Stato e per lo stipendio dei soldati, le ricchezze, o almeno le rendite dei vescovi e degli abati. Fu dimenticato il suo merito per sovvenirsi solamente del suo sacrilegio, e un Concilio di Francia osò dichiarare36, in una lettera ad un principe Carlovingio, che il suo avo era dannato, che quando ne fu aperta la tomba furono spaventati gli spettatori da un odor di fuoco e dalla vista di un orrido drago, e che un Santo di quel tempo avea goduto lo spettacolo di vedere ardere l’anima ed il corpo di quel sacrilego negli abissi per tutta l’eternità37.

[A. D. 746-750] Nella Corte di Damasco non fece tanta impressione la perdita d’un esercito e d’una provincia in occidente, quanto l’esaltazione e i progressi d’un rivale domestico. Eccettuati quei della Sorìa, giammai i Musulmani non aveano amato la Casa d’Ommiyah. Aveanla veduta sotto Maometto perseverare nell’i[p. 345 modifica]dolatria, e nella ribellione; aveva essa a malgrado suo abbracciato l’Islamismo; era irregolare e fazioso il suo innalzamento, e bagnato il suo trono dal sangue più sacro ed illustre dell’Arabia. Il pio Omar, che pur era il migliore dei principi di questa razza, non avea riconosciuto bastante il suo titolo, e nelle lor virtù personali non aveano tutti il modo di giustificarsi d’aver violato l’ordine della successione, e gli occhi, non che il cuor dei fedeli, erano volti verso la linea di Hashem, ed i parenti dell’appostolo di Dio. Fra quei discendenti del Profeta, i Fatimiti erano spensierati o pusillanimi, ma gli Abbassidi con ardimento e prudenza covavano speranze di gran fortuna. Dal fondo della Sorìa, ove traevano una vita oscura, fecero partire segretamente agenti e missionari, che nelle province d’oriente andavano predicando il diritto ereditario ed irrevocabile che loro competeva; Mohammed, figlio d’Alì, figlio d’Abdallah, figlio d’Abbas, zio del Profeta, diede udienza ai deputati del Korasan, e ne accettò un regalo di quarantamila pezze d’oro. Morto Mohammed, le truppe numerose di fedeli, che non aspettavano altro che un Capo e un segnale di ribellione, prestarono giuramento al suo figlio Ibrahim; il governator del Korasan continuò a deplorare le inutilità de’ suoi avvertimenti, e il funesto sonno dei Califfi di Damasco, sino al giorno in cui con tutti i suoi aderenti fu cacciato dalla città e dal palazzo di Meru da Abu-Moslem generale dei ribelli38. Questo creatore di re che chiamò, [p. 346 modifica]come è fama, gli Abbassidi a regnare, fu alla perfine pagato come s’usa nelle Corti per l’ardire avuto di farsi utile. Una nascita ignobile, forse in paese estero, non avea potuto frenare l’ambiziosa energia di Abu-Moslem. Geloso egli delle sue mogli, prodigo delle sue ricchezze e del sangue proprio, non che dell’altrui, si dava vanto con gran compiacenza, e forse per la verità, d’aver data la morte a seicentomila nemici; e tanta era la gravità del suo naturale e della sua fisonomia, che fuor d’un giorno di battaglia non fu mai veduto sorridere. Tra i colori scelti dalle diverse fazioni, il verde era quello dei Fatimiti; gli Ommiadi avevano preso il color bianco, e, come il più contrario a questo, il nero era stato preso dagli Abbassidi. I turbanti e gli abiti di questi erano offuscati da quel tetro colore: due stendardi neri elevati su picche, alte nove cubiti, precedan la vanguardia di Abu-Moslem, e si chiamavano la notte e l’ombra, volendosi con tai nomi allegorici oscuramente indicare un’unione indissolubile, e la succession perpetua della linea di Hashem. Dall’Indo all’Eufrate, fu sconvolto l’oriente dalle contese della fazion dei Bianchi, e dall’altra dei Neri: eran vincitori gli Abbassidi il più delle volte: ma lo splendore di queste vittorie fu scemato per le disgrazie personali del Capo. Scossasi infine da un lungo letargo, deliberò la Corte di Damasco di impedire il pellegrinaggio della Mecca intrapreso da Ibrahim, con luminoso seguito, per raccomandarsi al favor del [p. 347 modifica]profeta e del popolo a un tempo. Da un distaccamento di cavalleria furono precise le sue mosse: egli fu arrestato, e spirò l’infelice in una prigione di Harran, senza avere assaporato i piaceri del regno che gli era stato tanto promesso. Saffah ed Almansor, suoi fratelli cadetti, scamparono dalle mani del tiranno, tenendosi celati a Cufa sino a quel giorno che dallo zelo del popolo, e dall’arrivo dei lor partigiani dell’oriente, furono rincorati a mostrarsi al pubblico ansioso di vederli. Saffah, ornato dei fregi di Califfo e dei colori della sua Setta, seguitato da un corteggio religioso e militare, andò alla moschea, salì in pulpito, fece orazione, indi un discorso come successor legittimo di Maometto. Partito che fu, i suoi alleati ricevettero da un popolo affezionato il giuramento di fedeltà: ma non nella moschea di Cufa, ma sulle rive del Zab dovea terminarsi la gran contesa. Parea che la fazione dei Bianchi avesse tutti i vantaggi, l’autorità d’un governo ben assodato, un esercito di cento ventimila soldati contro un numero sei volte minore di nemici, la presenza e il merito del Califfo Merwan, quattordicesimo ed ultimo della casa d’Ommiyah. Prima di salire sul trono s’era acquistato, per le sue campagne in Georgia, l’onorevole soprannome di asino della Mesopotamia39, e [p. 348 modifica]si avrebbe potuto annoverarlo tra i più gran principi, se i decreti eterni, dice Abulfeda, non avessero stabilita quell’epoca per la rovina della sua famiglia: decreto, soggiunge egli, contro il quale indarno lotterebbero tutta la forza e la sapienza degli uomini. Si compresero male, o si violarono gli ordini di Merwan; vedendosi tornare il suo cavallo, che egli avea per una necessità corporale abbandonato un istante, fu creduto morto, e Abdallah, zio del suo competitore, seppe bravamente dirigere l’entusiasmo degli squadroni neri. Dopo una sconfitta irreparabile fuggì il Califfo alla volta di Mosul: ma di già sventolava sulle mura la bandiera degli Abbassidi, e allora ripassò il Tigri, gettò un’occhiata di dolore sul suo palagio di Harran, varcò l’Eufrate, abbandonò le fortificazioni di Damasco, e, senza soffermarsi nella Palestina, pose il suo ultimo campo a Busir sulle sponde del Nilo40. Era incalzato nella fuga [p. 349 modifica]dall’istancabile Abdallah, il quale inseguendolo cresceva ogni dì più in forza e riputazione. Le reliquie della fazion dei Bianchi furono totalmente disfatte in Egitto, e il colpo di lancia, che troncò la vita e le inquietudini di Merwan, gli parve forse tanto utile quanto lo era pel suo vincitore. L’inesorabile vigilanza del principe trionfante estirpò i rami più remoti della famiglia rivale; [A. D. 750] ne furono disperse le ossa, caricata d’imprecazioni la memoria, e vendicato ampiamente il martirio di Hosein sulla posterità dei suoi tiranni. Ottanta Ommiadi, che s’erano arresi sulla parola de’ lor nemici, o fidavansi alla lor clemenza, furono convitati ad un banchetto in Damasco, e colà furono indistintamente trucidati ad onta delle leggi della ospitalità; fu imbandita una tavola sui loro corpi, e dai gemiti della loro agonia si pascea la giovialità dei commensali. L’esito della guerra civile fermò saldamente la dinastia degli Abbassidi; ma furono soli i cristiani che dovessero trionfare delle conseguenze degli odi, e delle perdite che aveano sofferto i discepoli di Maometto41.

[A. D. 755] Se per altro le conseguenze di tale sconvolgimento [p. 350 modifica]politico non avessero portato danno alla forza e all’unità dell’impero de’ Saracini, avrebbe bastato una generazione a riempiere il voto dei Musulmani mietuti dalla guerra civile. Nella proscrizione degli Ommiadi, Abdalrahman, giovanetto arabo della stirpe reale, era il solo che si fosse salvato dal furor dei nemici, e fu inseguito dalle rive dell’Eufrate sino alle valli del monte Atlante. La sua giunta nelle vicinanze della Spagna rianimò lo zelo della fazione dei Bianchi. Sino a quel punto erano stati soli i Persiani ad immischiarsi nella causa degli Abbassidi; l’occidente non avea partecipato poco nè punto alla guerra civile, e i servi della famiglia cacciata dal trono vi possedeano tuttavia, ma precariamente, le proprie terre, e gli impieghi del governo. Fortemente riscaldati dalla gratitudine, dallo sdegno e dal timore indussero il nipote del Califfo Hashem ad occupare il soglio de’ suoi antenati. Nella disperata condizione in cui era, non potea ricevere altro consiglio da un’estrema temerità, nè da un’estrema prudenza. Dalle acclamazioni del popolo fu salutato il suo arrivo sulla costa d’Andalusia, e dopo più tentativi, coronati dal buon esito, fondò Abdalrahman il trono di Cordova, e fu il ceppo degli Ommiadi di Spagna, che per più di due secoli e mezzo regnarono dalle rive dell’Atlantico sino alle montagne de’ Pirenei42. Uccise egli in un combattimento un Luogo-tenente degli Abbassidi, venuto con una squadra ed un esercito ad assalire [p. 351 modifica]i suoi dominii. Un ardito emissario andò a sospendere davanti al palagio della Mecca la testa di Ala, conservata nel sale e nella canfora; ed il Califfo Almansor fu ben lieto, per la propria sicurezza, d’essere pei mari e per una vasta ampiezza di paese diviso da un sì terribile avversario. Non ebbero alcun effetto i loro nuovi divisamenti, e le dichiarazioni di guerra; la Spagna, invece d’aprir una porta al conquisto dell’Europa, fu staccata dal tronco della monarchia, e, impelagata in guerre continue coll’oriente, parve propensa a mantener la pace e i vincoli d’amicizia coi principi cristiani di Costantinopoli e di Francia. All’esempio degli Ommiadi si conformarono i discendenti veri o supposti di Alì, cioè gli Edrissiti di Mauritania, e i Fatimiti dell’Egitto e dell’Affrica, i più potenti di tutti. Nel decimo secolo tre Califfi, o comandanti de’ fedeli che regnavano in Bagdad, in Cairoan ed in Cordova si contendeano il trono di Maometto, si scomunicavano a vicenda, e non erano d’accordo che su questa massima di discordia, che un Settario è più odioso e più colpevole di un infedele43.

Era la Mecca il patrimonio della linea di Hashem, ma non si avvisarono mai gli Abbassidi di soggiornare nella città del Profeta. Presero avversione per Da[p. 352 modifica]masco, che già era stata la residenza degli Ommiadi bagnata del lor sangue, ed Almansor, fratello e successore di Saffah, gettò le fondamenta di Bagdad44, ove risiedettero per cinquecento anni i Califfi suoi successori45. Fu collocata la nuova capitale sulla riva orientale del Tigri circa quindici miglia al di sopra delle rovine di Modain; fu cinta d’un doppio muro di forma circolare, e sì rapido fu l’aumento di questa città, oggi ridotta a città di provincia, che ottocentomila uomini e sessantamila donne di Bagdad e dei villaggi vicini assistettero ai funerali d’un Santo, amato dal popolo. In questa città di pace46, in mezzo alle dovizie dell’oriente, assai [p. 353 modifica]presto gli Abbassidi posero in non cale la moderazione e la semplicità dei primi Califfi, e vollero emulare la magnificenza dei re Persiani. Almansor, dopo aver fatte tante guerre ed innalzato sì gran numero di edificii, lasciò quasi trenta milioni di lire sterline in oro e in argento47, e i suoi figli, sia pei vizi o per le virtù, dissiparono in pochi anni questi tesori. Mahadi, un di loro, spese sei milioni di danari d’oro in un solo pellegrinaggio alla Mecca. Forse per motivi di carità e di divozione fondò cisterne e caravanserai (ospizii) sopra una strada di settecento miglia; ma quella truppa di cammelli carichi di neve che lo seguivano, non potea servir ad altro che a dar maraviglia agli Arabi, e a rinfrescare i liquori e le frutta per la tavola del principe48. Non mancarono i cortigiani senz’altro di colmar di elogi la liberalità d’Almamon suo nipote, che, prima di smontar da cavallo, distribuì i quattro quinti della rendita d’una provincia, vale a dire due milioni e quattrocentomila danari d’oro. Alle nozze dello stesso principe, sulla testa della sposa si seminarono mille perle di primaria grossezza49, ed un lotto di terre e di case [p. 354 modifica]dispensò ai cortigiani i capricciosi favori della fortuna. Nel declinar dell’impero, lo splendor della Corte invece di scemare si accrebbe, e un ambasciator Greco ebbe occasione d’ammirare o di guardar con compassione la magnificenza del debole Moctader. „Tutto l’esercito del Califfo, tanto cavalleria che fanteria, era sotto l’armi, dice lo storico d’Abulfeda, e formava un corpo di cento sessantamila uomini: i grandi ufficiali, i suoi schiavi favoriti gli stavano a fianco, vestiti nel modo più luminoso con cinture brillanti di gemme e d’oro. Poi si vedeano settemila eunuchi, quattromila dei quali erano bianchi; vi erano settecento portieri o guardie d’appartamenti. Vogavano sul Tigri scialuppe e gondole riccamente decorate. Non era minore la sontuosità nell’interno del palazzo ornato di trent’ottomila tappezzerie, tra le quali dodicimila e cinquecento eran di seta ricamate in oro: inoltre ventiduemila tappeti da terra. Manteneva il Califfo cento leoni ognuno de’ quali avea un custode50. Fra gli altri raffinamenti d’un lusso mirabile non conviene dimenticare un albero d’oro [p. 355 modifica]e d’argento che spandea diciotto grossi rami, sui quali, non meno che sui più piccoli, si scorgevano uccelli d’ogni spezie fatti, del pari che le foglie dell’albero, dei medesimi metalli preziosi. Questo albero dondolava come gli alberi de’ nostri boschi, e allora si udiva il canto di vari uccelli. In mezzo a tutto questo apparato fu condotto l’ambasciator Greco dal visir a piedi del trono del Califfo51„. In occidente, gli Ommiadi di Spagna sosteneano con pari pompa il titolo di comandante dei fedeli. Il terzo e il più grande degli Abdalrahman eresse a tre miglia di distanza da Cordova la città, il palazzo e i giardini di Zebra in onore della sua sultana favorita. Vi spese venticinque anni di lavoro, e più di nove milioni sterlini; chiamò da Costantinopoli i più bravi scultori ed architetti del suo secolo; mille dugento colonne di marmo di Spagna e d’Affrica, di Grecia o d’Italia sorreggevano o abbellivano questi edificii. La sala d’udienza era incrostata d’oro e di perle, e figure d’uccelli e di quadrupedi d’infinito lavoro contornavano una gran vasca posta nel centro. In un alto padiglione, collocato in mezzo ai giardini, si vedeva uno di quei bacini o fontane che nei climi caldi sono sì deliziose, ma che invece d’acqua era pieno di argento vivo purissimo. Il serraglio di Abdalrahman, computandovi le mogli, le concubine e gli eunuchi neri, era composto di seimila e trecento persone, e [p. 356 modifica]quando andava al campo era seguìto da dodicimila guardie a cavallo che aveano cinture e scimitarre guarnite d’oro52.

Nella condizione privata avviene che le nostre voglie sono represse dalla povertà a dalla subordinazione: ma un despota, alle cui brame tutti servono ciecamente, dispone della vita e del braccio di milioni d’uomini presti sempre a soddisfare senza indugio ogni suo capriccio. Noi siamo abbacinati da una condizione sì luminosa, e, ad onta dei consigli della fredda ragione, pochi sono fra noi che ostinatamente ricusassero di provare i piaceri e le cure del regno. Può dunque riescire a qualche utilità l’indicare in proposito l’opinione di quel medesimo Abdalrahman, la magnificenza del quale ci ha mossi forse ad ammirazione e ad invidia, e il riportare uno scritto di sua mano trovato dopo la sua morte nel gabinetto di lui. „Presentemente io conto cinquant’anni di regno, sempre vittorioso o in pace, amato dai sudditi, temuto dai nemici, rispettato dagli alleati: ho avuto a seconda de’ miei desiderii ricchezza, onori, potenza e piaceri, e pare che nulla dovesse mancare sulla terra alla mia felicità. In questo stato ho voluto attentamente tener conto di tutti i giorni in cui ho provato una felicità vera; essi non furono che quattordici.... oh! uomo, non porre mai la tua fiducia nelle cose di questo Mondo53„. Il lusso dei [p. 357 modifica]Califfi, tanto inutile alla privata lor contentezza, indebolì la forza e limitò l’ingrandimento dell’impero degli Arabi. Non aveano i primi Califfi pensato che a conquiste temporali e spirituali, e dopo aver provveduto al personal loro mantenimento, che alle necessità della vita si restringeva, impiegavano scrupolosamente in que’ religiosi disegni tutta l’entrata. La moltitudine de’ bisogni, e il difetto d’economia impoverirono gli Abbassidi, i quali, invece di darsi tutti a’ grandi pensieri dell’ambizione, consacravano alle ricerche della pompa e dei piaceri le ore, i sentimenti e le forze del loro ingegno. Donne, ed eunuchi usurpavansi le ricompense dovute al valore, e il campo reale era ingombro del lusso della Corte. Uguali costumanze si seguirono dai sudditi del Califfo. Col tempo e nella prosperità s’era calmato il severo loro entusiasmo: cercavan fortuna nei lavori d’industria, gloria nella coltura delle lettere, felicità nella quiete della vita domestica. Non era più la guerra la passion dei Saracini, nè più bastavano lo stipendio accresciuto, le liberalità sovente rinnovate a sedurre i discendenti di quei prodi, che [p. 358 modifica]allettati dalla speranza del bottino o del paradiso giungevano in folla sotto lo stendardo d’Abubeker e di Omar.

[A. D. 754 ec.- 813 ec.] Quando gli Ommiadi regnavano, erano ristretti gli studii dei Musulmani ad interpretare il Corano, e a coltivar l’eloquenza e la poesia nella propria lingua. Un popolo esposto sempre ai rischi della guerra, debbe apprezzare l’arte della medicina o piuttosto della chirurgia; ma i medici Arabi si dolean sotto voce che l’esercizio e la temperanza riducessero a poco il numero dei malati54. I sudditi degli Abbassidi, dopo le guerre civili e le domestiche, esciano del letargo in cui s’erano assopiti gli ingegni. Impiegarono l’ozio, che aveano acquistato, a soddisfar la curiosità che lo studio delle scienze profane veniva ispirando negli animi loro. Questo studio da prima venne favorito dal Califfo Almansor, il quale, oltre il ben conoscere la legge musulmana, aveva imparato l’astronomia. Ma quando salì al trono Almamon, settimo degli Abbassidi, compiendo i disegni del suo avo invitò da ogni parte le Muse alla sua Corte. Dai suoi ambasciatori a Costantinopoli, dai suoi agenti nell’Armenia, nella Sorìa, nell’Egitto furono raunati gli scritti della Grecia, ed egli li fece tradurre in arabo da valenti interpreti, esortò i sudditi a leggerli assiduamente, e il successor di Maometto assistè con pia[p. 359 modifica]cere, e insiem con modestia, alle assemblee ed alle dispute degli eruditi. „Non ignorava, dice Abulfaragio, che coloro che consacran la vita a perfezionare l’intelletto, sono gli eletti di Dio, i suoi migliori e più utili servi. L’ignobile ambizion dei Cinesi e dei Turchi può ben insuperbirsi dell’industria delle lor mani e dei lor godimenti sensuali: ma quegli abili operai non devono considerare se non se con disperata invidia gli esagoni, e le piramidi delle celle d’un alveare55. La ferocia de’ leoni e delle tigri debbe atterrire quegli uomini valorosi, e nei piaceri dell’amore la forza loro è bene inferiore a quella dei più vili quadrupedi. I maestri della sapienza sono i veri luminari e i legislatori del Mondo, il quale senza di loro ricadrebbe nell’ignoranza e nella barbarie56„. Nei principi della Casa d’Abbas, che succedettero ad Almamone, pari fu la curiosità e lo zelo d’apprendere: i lor rivali, i Fatimiti d’Affrica, [p. 360 modifica]e gli Ommiadi di Spagna, comandanti anch’essi dei fedeli, furon pure i protettori delle scienze. Nelle province solevano gli Emiri indipendenti concedere al sapere quella protezione che da loro si considerava come uno dei doveri di chi regna, e la loro emulazione diffuse, da Samarcanda e da Boccara sino a Fez e a Cordova, il gusto delle scienze, e i guiderdoni da quelle meritati. Il visir d’uno di que’ Soldani donò dugentomila pezze d’oro per erigere a Bagdad un collegio, e lo dotò d’una rendita di quindicimila danari. Ne uscirono per avventura in vari tempi seimila scolari di tutte le classi, cominciando dal figlio del nobile sino a quello dell’artigiano. Gli alunni poveri ricevano una somma sufficiente ai lor bisogni, e i professori aveano stipendi proporzionati al merito od al talento loro. In tutte le città, il genio curioso dei dilettanti, e la vanità dei ricchi venivano moltiplicando gli esemplari delle opere della letteratura araba. Un semplice dottore rifiutò gli inviti del soldano di Boccara, perchè a trasportare i suoi libri sarebbe stato uopo di quattrocento cammelli. La biblioteca dei Fatimiti conteneva centomila manoscritti, vergati in bellissimo carattere e legati magnificamente, i quali senza timore e senza difficoltà erano prestati agli studenti del Cairo. Nondimeno questo numero sembrerà ancora assai moderato, se si voglia credere che gli Ommiadi di Spagna aveano formata una biblioteca di seicentomila volumi, fra i quali se ne contavano quarantaquattro pel solo catalogo. Cordova lor capitale, e le città di Malaga, d’Almeria e di Murcia diedero il giorno a più di trecento autori; e per lo meno settanta erano le biblioteche pubbliche nelle città solamente del regno d’Anda[p. 361 modifica]lusia. Il dominio delle lettere arabe si è prolungato per lo spazio di circa cinque secoli, sino alla grande irruzione dei Mongou, e fu contemporaneo al periodo più oscuro e più ozioso degli annali Europei; ma pare che la letteratura orientale abbia declinato dopo che le scienze comparvero nell’Occidente57.

Nelle biblioteche degli Arabi, come in quelle dell’Europa, la maggior parte di questo enorme ammasso di volumi non aveva che un valor locale ed un pregio immaginario58. Vi stavano in mucchio una farragine d’oratori e di poeti, lo stile dei quali era conforme al gusto e ai costumi del paese; d’istorie generali e particolari, a cui ogni nuova generazione recava il suo tributo d’eroi e di fatti; di raccolte e di commentari sulla giurisprudenza, che pigliavano la loro autorità dalla legge del Profeta; di interpreti del Corano, e di tradizioni ortodosse; finalmente tutto lo stuolo dei teologi polemici, mistici, scolastici e moralisti, considerati come i primarii o gli ultimi degli scrittori, secondo che sono guardati dall’occhio dello scetticismo, o da quel della fede. I libri di scienza o di speculazione poteano [p. 362 modifica]dividersi in quattro classi, filosofia, matematica, astronomia e medicina. Furono tradotti e spiegati in lingua araba gli scritti dei Saggi della Grecia, e si è ritrovato in queste versioni qualche Trattato di cui oggi è perduto l’originale59: tradussero gli orientali e studiarono, fra gli altri, gli scritti d’Aristotile e di Platone, d’Euclide e d’Apollonio, di Tolomeo, d’Ippocrate e di Galeno60. Fra i sistemi di idee che hanno variato col gusto d’ogni secolo, abbracciarono gli Arabi la filosofia d’Aristotile, del pari intelligibile ed oscura del pari pei lettori di tutti i tempi. Platone avea scritto per gli Ateniesi, e lo spirito delle sue allegorie è troppo intimamente connesso colla lingua e colla religion della Grecia. Caduta che fu questa religione, uscendo i Peripatetici [p. 363 modifica]della loro oscurità trionfarono nelle controversie delle Sette orientali, e lungo tempo dopo fu dai Musulmani di Spagna renduto alle scuole latine il loro fondatore61. In fisica, i progressi delle vere cognizioni erano stati inceppati dagli insegnamenti dell’accademia e del liceo, che invece dell’osservazione avean messo in questa scienza il raziocinio. La superstizione ha fatto troppo uso della metafisica dello spirito infinito, e dello spirito finito: ma dalla teorica e dalla pratica della dialettica sono fortificate le nostre facoltà intellettuali; le dieci categorie di Aristotile generalizzano e mettono in ordine le nostre idee62, e il suo sillogismo è l’arma più tagliente della disputa. Era questa abilmente impiegata nelle scuole dei Saraceni; ma siccome giova più per discoprire l’errore che la verità, non è maraviglia se si veggono nella succession dei tempi girare continuamente e maestri e discepoli nello stesso circolo d’argomenti. Le matematiche hanno un vantaggio particolare, quello cioè, di poter sempre, nel corso dei secoli, progredire più innanzi senza retrogradare giammai; ma gli Italiani, se mal non m’appongo, nel decimoquinto secolo presero la geometria quale si trovava presso gli antichi; e qualunque siasi l’etimologia della parola Algebra, gli stessi Arabi attribuiscono modestamente quella scienza a Diofanto un de’ Geo[p. 364 modifica]metri della Grecia63. Con più gloria coltivarono l’astronomia che sublima lo spirito umano, insegnandogli a non curare il piccolo pianeta in cui abita nella propria passaggera esistenza. Il Califfo Almamon somministrò i dispendiosi stromenti necessari agli osservatori: per altro il paese de’ Caldei aveva un terreno egualmente piano, e uno stesso Orizzonte sempre sgombro di nubi: nelle pianure di Sennaar, e la seconda volta in quelle di Cufa misurarono i matematici esattamente un grado del gran circolo della terra, e trovarono essere l’intera circonferenza del globo ventiquattromila miglia64. Dal regno degli Abbassidi sino a quello dei nipoti di Tamerlano, si osservarono le stelle con attenzione, ma senza l’aiuto dei cannocchiali; e le Tavole astronomiche di Bagdad, di Spagna e di Samarcanda65 [p. 365 modifica]correggono alcuni errori secondari, senza avere il coraggio di rinunciare all’ipotesi di Tolomeo, e senza avanzare un passo verso la scoperta del sistema solare. Non poteano esser ben accolte le verità scientifiche nelle Corti d’oriente se non se mercè della ignoranza e della sciocchezza; e si sarebbe ributtato l’astronomo, se non avesse avvilito il suo sapere e l’onestà sua colle vane predizioni dell’astrologia66. Ma nella scienza della medicina hanno gli Arabi ottenuto giustissimi elogi. Mesua e Geber, Razis ed Avicenna si sono innalzati alla sublimità dei Greci; e nella città di Bagdad si contavano ottocento sessanta medici approvati, ricchi per la pratica di loro professione67. In Ispagna si affidava la vita dei principi cattolici al sapere dei Saracini68, e la scuola di Salerno, nata dalle dottrine che avean essi portate, richiamò in Italia e nel resto dell’Europa i precetti dell’arte salutare69. Dovettero i buoni suc[p. 366 modifica]cessi di ciascun di que’ medici essere frutto della forza propizia di molte cagioni personali ed accidentali; ma si può formare un concetto più positivo di quanto sapevano in generale su l’anatomia70 la botanica71 e la chimica72, che sono le tre basi della lor teorica e della loro pratica. Per un rispetto superstizioso dei morti, non si permetteva ai Greci e agli Arabi che la sezione delle scimie e d’altri quadrupedi. Le parti più solide e più visibili del corpo umano erano note ai tempi di Galeno; ma al microscopio ed alle iniezioni dei moderni era serbato il conoscerne meglio la costruzione. La botanica esige indagini faticose, e poterono le scoperte della Zona torrida arricchire di duemila piante l’erbario di Dioscoride. Quanto alla chimica, forse i templi e i monasteri dell’Egitto conservavano per tradizione qualche dot[p. 367 modifica]trina di essa, e col praticare le arti e le manifatture s’erano imparati molti utili segreti; ma la scienza è debitrice della sua origine e del suo incremento alla fatica dei Saracini. I quali furono i primi ad usure il lambicco per distillare, e a noi ne tramandarono il nome; analizzarono le sostanze dei tre regni; osservarono le differenze e le affinità degli alcali e degli acidi, e dai minerali più pericolosi seppero ricavare medicamenti dolci e salubri. Ma la trasmutazione dei metalli e l’elixir d’immortalità furono le principali occupazioni della chimica araba. Migliaia di dotti videro sparire la lor fortuna, e la ragione e il senno nei crogiuoli dell’alchimia; si congiunsero insieme il mistero, la favola e la superstizione, degni socii per lavorare alla grand’opra della pietra filosofale.

Intanto i Musulmani aveano trascurato i maggiori beneficii che fornisce la lettura degli autori della Grecia e di Roma: cioè la cognizion dell’antichità, del buon gusto e della libertà di pensare. Alteri, baldanzosi delle ricchezze della propria lingua, sdegnavano gli Arabi lo studio d’un idioma straniero. Fra i cristiani dei loro dominii sceglievano gl’interpreti greci, e questi faceano le traduzioni talora sul testo originale, e forse più sovente sopra una versione siriaca; e pare che i Saracini, dopo aver pubblicato nella propria lingua tante Opere d’astronomia, di fisica e di medicina, non abbiano tradotto un poeta, un oratore, e nemmeno uno storico73. [p. 368 modifica]La mitologia d’Omero avrebbe ributtata la severità del lor fanatismo; governavano essi in una neghittosa ignoranza le colonie dei Macedoni, e le province cartaginesi e romane; non v’era più memoria degli eroi di Plutarco e di T. Livio, e l’istoria del Mondo, prima di Maometto, era ristretta ad una breve leggenda sui patriarchi e profeti, e i re della Persia. Forse gli autori greci e latini, in cui è occupata la nostra educazione, ci hanno per avventura inspirato un gusto troppo esclusivo, nè io son sollecito a condannare la letteratura e il giudizio delle nazioni di cui non m’è nota la lingua. So per altro che possono gli autori classici insegnare assai cose, e credo che molto hanno da imparare gli orientali da quelli; mancano specialmente d’una certa dignità temperata nello stile, delle nostre belle proporzioni dell’arte, delle forme del bello visibile ed intellettuale, dell’abilità di delineare esattamente i caratteri e le passioni, d’abbellire un racconto o un argomento, e di comporre regolarmente l’edificio dell’epopea e del dramma74. L’impero della verità e della ragione è sempre presso a poco lo stesso. I filosofi d’Atene [p. 369 modifica]e di Roma godevano la libertà civile e religiosa, e ne sosteneano coraggiosamente i diritti. Colle loro scritture di morale e di politica avrebbero a poco a poco rallentati i ferri del dispotismo orientale, e sparso uno spirito generale di discussione e di tolleranza: nel leggerli, avrebbero i saggi Arabi pensato che il Califfo poteva essere un tiranno, e il loro Profeta un impostore75. All’istinto della superstizione fecero anche timore le scienze astratte, e i più austeri dottori della legge dannarono l’imprudente e perniciosa curiosità di Almamon76. Deesi attribuire alla sete del martirio, alle visioni sul paradiso e al domma delle predestinazioni l’indomabile entusiasmo del principe e del popolo. La spada dei Saracini cessò d’essere tanto formidabile quando la gioventù passò dai campi ai collegi, quando gli eserciti de’ fedeli osarono leggere e riflettere. Pure la puerile vanità dei Greci s’inalberò al vedere quegli studii, e solo con gran ripugnanza s’indussero a comunicare il santo fuoco ai Barbari dell’oriente77. [p. 370 modifica]

[A. D. 781-805] Nel tempo della sanguinosa lotta fra gli Ommiadi e gli Abbassidi, aveano i Greci colto il destro di vendicarsi dei torti ricevuti ed allargare i confini. Ma pagarono caro questo piacere sotto Mohadi, terzo Califfo della dinastia, il quale fece esso pure suo pro dei vantaggi che gli presentava la debolezza della Corte bizantina, governata da una donna e da un fanciullo, Irene e Costantino. Dalle rive del Tigri giunse al Bosforo di Tracia un esercito di novantacinquemila Persiani ed Arabi, condotti da Haroun78 o Aronne, secondo figlio del Califfo, e l’imperadrice, che presto lo vide accampato in faccia al suo palazzo sulle alture di Crisopoli o Scutari, comprese allora d’aver perduta gran parte delle sue soldatesche e delle province. Colla sua approvazione, i ministri segnarono una pace ignominiosa, e i donativi scambievoli delle due Corti non poterono mascherare la vergogna d’un annuo tributo di settantamila danari d’oro a cui dovette obbligarsi l’impero Romano. I Saracini non aveano avuta bastante precauzione innoltrandosi in una terra nemica e lontana dal loro impero; per indurli a ritirarsi, furono promesse guide sicure e viveri in abbondanza, nè vi fu un solo Greco da tanto che insinuasse, potersi circondare e distruggere le loro milizie affaticate nel punto che passassero fra una [p. 371 modifica]montagna di malagevole accesso e la riviera di Sangario. Cinque anni dopo questa impresa, salì Haroun sul trono paterno; e di tutti i monarchi della sua famiglia fu quegli che mostrò più potenza ed energia. La sua alleanza con Carlo Magno gli ha data celebrità in occidente, e noi lo conosciamo sin dalla nostra infanzia per la figura che fa continuamente nelle Novelle Arabe. Egli denigrò il suo soprannome di Rashid (il Giusto), con la morte de’ generali Barmecidi, forse innocenti, il che, per altro, non impediva che potesse far giustizia a una povera vedova, la quale, saccheggiata da’ soldati, osò citare al despota negligente un passo del Corano, che lo minacciava del giudizio di Dio e della posterità. Si abbellì la sua Corte della pompa del lusso e delle scienze; nei ventitre anni del suo regno corse più volte le province del suo impero dal Korasan sino all’Egitto. Fece cinque pellegrinaggi alla Mecca; invase in otto epoche diverse il territorio dei Romani, ed ogni volta che questi ricusarono di pagare il tributo, impararono che un mese di devastazioni era più funesto che un anno di sommessione. Dopo la deposizione e l’esiglio della snaturata madre di Costantino, risolvette il suo successore Niceforo d’abolire questa marca di servitù e di disonore. La sua lettera al Califfo alludeva al giuoco degli Scacchi, che s’era di già diffuso dalla Persia nella Grecia: „La regina (diceva egli parlando d’Irene) vi considerava come una torre, e si credeva una pedina. Questa donna pusillanime aveva acconsentito a pagarvi un tributo, il doppio di quello che avrebbe dovuto esigere da un popolo barbaro. Restituite dunque i frutti della vostra ingiustizia, o preparatevi a decidere questa lite coll’ar[p. 372 modifica]mi„. Nel pronunciar queste parole gli ambasciatori gettarono a piè del trono un fascio di spade. Sorrise a quella minaccia il Califfo, e cavando la sua tremenda sansamah, quella scimitarra sì famosa negli annali della storia e della favola, troncò le deboli armi dei Greci senza smuzzare il taglio della sua. Dettò poscia questa lettera terribilmente laconica: „In nome del Dio misericordioso, Haroun-al-Rashid comandante dei fedeli, a Niceforo, cane Romano. Figlio d’una madre infedele, ho letto la tua lettera. Tu non avrai la mia risposta, ma la vedrai„. La scrisse in caratteri di sangue e di fuoco nelle pianure della Frigia; e per arrestare la celerità guerriera degli Arabi, dovettero i Greci ricorrere alla dissimulazione e all’apparenza di pentimento. Dopo le fatiche della campagna si ritrasse il Califfo vittorioso a Racca sull’Eufrate79, che era il palagio da lui prediletto. Ma i suoi nemici, vedendolo lontano cinquecento miglia, rincorati inoltre dal rigor della stagione, si avventurarono a violare la pace. Ebbero però a rimanere storditi dell’ardimento e dalla rapidità del Califfo, che nel cuor del verno ripassò le nevi del monte Tauro; avea già Niceforo esausti tutti gli stratagemmi di negoziazione e di guerra, e questo perfido Greco non uscì che con tre ferite da una battaglia che costò la vita a quarantamila sudditi. Sde[p. 373 modifica]gnò per altro anche una volta la sommessione, e il Califfo si mostrò parimenti preparato alla vittoria. Aveva Haroun cento trentacinquemila soldati di milizia regolare e più di trecentomila uomini d’ogni genere entrarono in campagna sotto il vessillo nero degli Abbassidi. Questo esercito sgombrò l’Asia Minore sino al di là di Tiane ed Ancyra, ed investì Eraclea del Ponto80, già capitale d’un paese florido, ed oggi miserabile borgo, il quale, al tempo di cui parliamo, sostenne colle sue vecchie mura l’assedio di un mese contra tutte le forze dell’oriente. Haroun la rovinò da cima a fondo, e i suoi guerrieri vi trovarono grandi ricchezze; ma se avesse conosciuta la storia della Grecia, avrebbe deplorata la perdita di una statua d’Ercole, che avea tutti gli attributi del Semidio, cioè la clava, l’arco, il turcasso, e la pelle di lione in oro massiccio. Per li progressi dei guasti in mare e in terra, dall’Eusino all’isola di Cipro, fu determinato Niceforo a ritrattare la sua superba disfida. Consentì Haroun alla pace: ma volle che rimanessero le rovine d’Eraclea per una lezione ai Greci, e per un trofeo alla sua gloria, e che la moneta del tributo portasse l’effigie e il nome di Haroun e de’ suoi tre figli. Ma questa pluralità di sovrani fu quella che diede ai Romani agio per sottrarsi al proprio disonore81. Dopo la morte del pa[p. 374 modifica]dre, i figli del Califfo si contesero l’eredità, e quegli che vinse la prova, il nobile Almamone, ebbe troppo che fare a ristabilire la pace domestica e la coltura delle scienze.

[A. D. 823] Mentre Almamone regnava in Bagdad, e Michele-il-Balbo in Costantinopoli, gli Arabi soggiogarono le isole di Creta82 e di Sicilia. I loro scrittori, che ignoravano la fama di Giove e di Minosse, non curarono la prima di quelle conquiste: ma non fu trascurata dagli storici Bizantini, che qui cominciano a spargere un po’ più di luce sulle cose del lor tempo83. Una [p. 375 modifica]turba di volontari della Andalusia, malcontenti del clima e del governo di Spagna, se ne andarono per mare in cerca d’avventure, e poichè non aveano che dieci o venti galere furono chiamati corsari. Come sudditi e difensori della parte dei Bianchi, credevano aver dritto d’invadere i dominii dei Califfi Neri. Da una fazione ribelle furono introdotti in Alessandria84; tagliarono a pezzi amici e nemici, posero a sacco le chiese e le moschee, vendettero più di seimila cristiani, e si tennero forti nella capitale dell’Egitto sino al tempo che Almamon piombò su loro col suo esercito. Dalla foce del Nilo sino all’Ellesponto, le isole e le coste, che appartenevano o ai Greci o ai Musulmani, furono esposte alle loro devastazioni. Allettati dalla fertilità della Grecia, e ardenti di voglia di insignorirsene, presto vi ritornarono con quaranta galere. Corsero gli Andalusii quell’isola senza tema e senza ostacolo; ma quando giunsero alla riva per imbarcarvi la preda, videro i lor navili in mezzo alle fiamme, e confessò Abu Caab, loro Capo, sè essere l’autore dell’incendio. Accusato dalle loro grida come stravagante o perfido, „di che vi lagnate? rispose l’accorto Emir. Io vi ho condotto in una terra, ove scorre il latte e il mele. Qui sta la vostra patria. Riposate dalle fatiche, e ponete in dimenticanza i deserti nativi. — E le nostre donne e [p. 376 modifica]i nostri figli? esclamarono i pirati. — Le vostre belle prigioniere faran le veci delle vostre mogli, soggiunse Abu Caab, e in braccio a loro diverrete ben presto padri d’una nuova famiglia„. Non ebbero da prima per abitazione che il loro campo sulla baja di Suda, cinto da una fossa e da un muro; ma da un monaco apostata, fu loro indicato nella parte orientale un sito più opportuno, e il nome di Candace, che diedero alla lor Fortezza e alla colonia loro, e divenuto quello dell’intera isola chiamata poi corrottamente Candia. Delle cento città sussistenti ai tempi di Minosse, non ne rimanean più che trenta, e una sola, per quanto si crede, Cydonia, ebbe coraggio di mantenersi in libertà e di non abbiurare il cristianesimo. I Saracini di Creta non tardarono a rifare vascelli; e i boschi del monte Ida solcarono ben presto i mari. Nei cento trentott’anni di una guerra continua contro quegli arditi corsari, non cessarono i principi di Costantinopoli di attaccarli e inseguirli senza frutto.

[A. D. 727-878] Un atto di severità superstiziosa fece perdere la Sicilia85. Un giovane, che avea rapita una religiosa, fu condannato dall’imperatore a perdere la lingua. Eufemio, tale era il nome del giovanetto, ebbe ricorso alla ragione e alla politica dei Saracini d’Affrica, e fece ritorno ben presto nel suo paese, vestito [p. 377 modifica]della porpora imperiale, seguìto da cento navi, da settecento cavalieri, e da diecimila fanti. Questi guerrieri sbarcarono a Mazara, presso le rovine dell’antica Selinunte; ma dopo alcune piccole vittorie, i Greci liberarono Siracusa86; rimase ucciso l’apostata nell’assedio, e gli Arabi furono ridotti a mangiar i cavalli. Vennero anch’essi soccorsi da un potente sforzo dei Musulmani della Andalusia; la parte occidentale, che era la più considerevole dell’isola, fu a poco a poco sottomessa, e i Saracini elessero il comodo porto di Palermo per sede della lor potenza navale e militare. Serbò Siracusa per cinquant’anni la fede giurata a Gesù Cristo e all’imperatore. Quando fu assediata l’ultima volta, mostrarono i suoi cittadini un avanzo di quel coraggio, che avea resistito altre volte alle armi d’Atene e di Cartagine. Più di venti giorni stettero fermi contro gli arieti e le catapulte, le mine e le testudini degli assedianti; e avrebbe potuto essere soccorsa la Piazza, se non fossero stati impiegati in Costantinopoli i marinai dell’armata imperiale a fabbricare una chiesa in onore della Vergine Maria. Il diacono Teodosio, non che il vescovo e tutto il clero furono strappati dagli altari, caricati di catene, condotti a Palermo, gettati in una prigione e continuamente esposti al rischio di scegliere o la morte o l’apostasia. Teodosio ha scritto, sopra la sua situazione, un discorso patetico che non è privo d’ele[p. 378 modifica]ganza, e che può considerarsi come l’epitaffio del suo paese87. Dal tempo che fu soggiogata la Sicilia dai Romani, sino a quello in cui fu conquistata dai Saracini, Siracusa, ora ristretta all’isola d’Ortigia che formò il suo primo recinto, avea a poco a poco perduto l’antico splendore. Nondimeno conteneva ancora grandi ricchezze; i vasi d’argento trovati nella cattedrale pesavano cinquemila libbre; il bottino fu valutato un milione di pezze d’oro, vale a dire circa quattrocentomila lire sterline, e il numero de’ prigionieri dovette essere più considerevole che in Tauromenio, d’onde furono trasportati diciassettemila cristiani in Affrica per vivere colà nella schiavitù. Dai vincitori fu annichilita in Sicilia la religione e la lingua dei Greci, e tanta fu la docilità della nuova generazione, che furono circoncisi quindicimila giovanetti in un sol giorno col figlio del Califfo Fatimita. Salparono dai porti di Palermo, di Biserta e di Tunisi le forze marittime degli Arabi, e assalirono e posero a ruba centocinquanta città della Calabria e della Campania, nè il nome dei Cesari o degli appostoli valse a difendere i sobborghi di Roma. Se fossero stati concordi i Musulmani, avrebbero di leggieri avuta la gloria di sottomettere l’Italia all’impero del Profeta; ma i Califfi di Bagdad aveano perduta in occidente l’autorità, gli Aglabiti e i Fatimiti usurpato le province dell’Affrica, mentre in Sicilia i loro Emiri anelavano alla independenza e [p. 379 modifica]i lor disegni di conquista e di ingrandimento si ristrinsero ad alcune scorribande di corsari88.

[A. D. 846] Fra le umiliazioni e i patimenti che desolavano allora l’Italia, il nome di Roma risveglia negli animi un’augusta e insiem dolorosa memoria. Parecchi navili Saracini della costa d’Affrica ebbero il coraggio di salire il Tevere ed accostarsi ad una città, che, sebben digradata, era ancora riverita come metropoli del Mondo cristiano. Un popolo tremante ne custodiva le porte e le mura; ma le tombe e le chiese di S. Pietro e Paolo, situate nei sobborghi del Vaticano e sulla strada d’Ostia, rimanevano abbandonate al furor de’ Musulmani. La santità di questi luoghi aveali protetti contro l’ingordigia dei Goti, dei Vandali, dei Barbari e dei Lombardi; ma gli Arabi aveano a sdegno l’Evangelo e la Leggenda, e dai precetti del Corano era approvata ed anzi stimolata la loro rapacità. Tolsero alle statue del cristianesimo le offerte onde erano arricchite; levarono dalla chiesa di S. Pietro un altar d’argento, e se lasciarono interi gli edificii ed i corpi dei Santi quivi sepolti, deesi attribuire questo riguardo alla fretta piuttosto che ai loro scrupoli. Nelle scorrerie che fecero sulla via Appia, saccheggiarono Fondi, e assediarono Gaeta, ma si allontanarono dalle mura di Roma, e la discordia loro salvò il Campidoglio dal giogo del Profeta della Mecca. Ma eran sempre minacciati i Ro[p. 380 modifica]mani dallo stesso pericolo, e mal poteano le lor forze difenderli da un Emir dell’Affrica. Invocarono essi la protezione del Re di Francia che allora dava legge ai medesimi: un distaccamento dei Barbari battè un esercito francese, e Roma ridotta allo stremo, pensava a tornare sotto l’impero del principe che regnava in Bisanzio; ma poteva questo divisamento aver sembianza di ribellione, e troppo lontani e precari erano i soccorsi che ne poteano sperare89. Parve che la morte del Papa, Capo spirituale e temporale della città, fosse un aumento a tanti mali; ma nell’urgenza delle circostanze si abbandonarono le forme e i maneggi ordinari d’una elezione, e la concorrenza dei suffragi a favor di Leone IV90 fu la salvezza del cristianesimo e di Roma. Questo Pontefice era nato Romano. Ardeva ancora nel suo petto il coraggio delle prime età della repubblica, e in mezzo alle rovine della patria teneasi ritto in piedi come una di quelle maestose e ferme colonne, che si vedono sollevare il capo sopra gli avanzi del Foro. Consacrò i primi giorni del suo regno a purificar le reliquie che fu[p. 381 modifica]ron messe in luogo sicuro, indi a far orazioni, processioni e tutte le cerimonie più solenni della religione, che per lo meno servirono a guarire la fantasia e a riconfortar le speranze della plebe. Da lungo tempo non s’avea pensiero di ciò che concerneva alla difesa della città; non già che si sperasse la pace, ma perchè l’angustia e la miseria dei tempi non davan luogo a simili cure. Leone ristaurò le mura come potè coi deboli mezzi che aveva e nella ristrettezza del tempo; quindici torri furono erette, o rifabbricate nei siti di più facile accesso: due di queste torri dominavano le due rive del Tevere, e si tirarono catene sul fiume per impedire alle navi nemiche il passaggio all’insù. Ebbero almeno i Romani qualche intervallo di riposo, poichè seppero avere i Saracini levato da Gaeta l’assedio, e i flutti ingoiato buon numero di Musulmani col sacrilego loro bottino.

[A. D. 849] L’esplosione della procella fu differita, per poi scoppiare in breve con più violenza. L’Aglabita91, che regnava in Affrica, avea redato dal padre un tesoro e un esercito; una squadra di Arabi e di Mori, dopo un breve soggiorno nei porti della Sardegna, venne ad approdare alla foce del Tevere, cioè a sedici miglia da Roma, e col numero e colla disciplina parea che annunciassero non una scorreria passeggera, ma la ben ferma intenzione di conquistare l’Italia. Leone intanto era stato sollecito ad allearsi colle città li[p. 382 modifica]bere di Gaeta, di Napoli e d’Amalfi, vassalle dell’impero Greco: alla giunta del Saracini, comparvero le galere di quelle nel porto d’Ostia capitanate da Cesario, figlio del duca di Napoli, giovine guerriero, caldo di valore e magnanimo, già vincitore dei navili degli Arabi. Co’ suoi primarii ufficiali andò al palazzo di Laterano per invito del Papa, che finse accortamente d’interrogarlo sul motivo del suo viaggio, e di ricevere con sorpresa pari alla gioia l’aiuto mandatogli dalla Provvidenza. Il Padre de’ cristiani si trasferì ad Ostia, accompagnato dalle milizie armate di Roma, fece la rivista de’ suoi liberatori e diede loro la benedizione. Gli alleati baciarono i piedi al Pontefice. Ricevettero essi la Comunione con una divozion guerriera, e Leone pregò il Dio che aveva sostenuto S. Pietro e S. Paolo sui flutti del mare, perchè sostenesse la forza delle braccia pronte a combattere i nemici del suo santo nome. I Musulmani, dopo un’orazione simile a quella de’ cristiani, e con pari coraggio, cominciarono ad assalire le navi cristiane, che tennero ferme il lor sito vantaggioso lungo la costa. Pendea la vittoria verso gli alleati, quando la gloria di determinarla col loro valore fu ad essi rapita da subitanea tempesta, che confuse l’abilità dei marinai più ardimentosi. I cristiani erano difesi dal porto, mentre le navi affricane furon disperse e spezzate fra le roccie e le isole d’una costa nemica. Quelle che camparono dal naufragio e dalla fame, venute in balìa de’ loro implacabili avversari non ne ottennero quella clemenza che già non meritavano. La spada e il patibolo liberarono i cristiani da una gran parte di quella pericolosa moltitudine di stranieri; gli altri, posti in catene, furono utilmente impiegati a ri[p. 383 modifica]parare i sacri edificii che avean voluto distruggere. Il Papa, seguìto dai cittadini e dagli alleati, andò a prostrarsi e a rendere grazie davanti ai Depositi degli appostoli, e dal bottino raccolto in questa vittoria navale si scelsero tredici archi d’argento massiccio per sospenderli all’altare del Pescatore di Galilea. Finchè durò il suo regno, Leon IV attese a munire e ad ornare la città di Roma. Ristaurò e abbellì le chiese, si valse di ottomila marchi d’argento a riparare i danni sofferti da quella di S. Pietro, e l’arricchì di vasi d’oro, che pesavano dugento sessanta libbre, adorni dei ritratti del papa e dell’imperatore, e contornati di un cerchio di perle. Ma è men degno di onore il carattere di Leone per questa vana magnificenza, che per la cura paterna con cui rialzò le mura di Orta e di Ameria, e raccolse nella nuova città di Leopoli, lontana dalla costa dodici miglia, i dispersi abitanti di Centumcellae92. Per le sue liberalità, potè una colonia di Corsi domiciliarsi colle mogli e coi figli in Porto, città posta alla foce del Tevere, che già crollava, e che egli riparò per essi: i campi e i vigneti di quel territorio furon distribuiti fra i nuovi coloni, e per aiutare le loro prime fatiche diede loro cavalli e bestiami, di modo che quei bravi fuorusciti, spirando vendetta contro i Saracini, giurarono di vivere e di morire sotto il vessillo di S. Pietro. A poco a poco i pellegrini dell’occidente e del settentrione, che venivano a visitare la tomba degli appostoli, avean formato il vasto sobborgo del Vaticano, e, secondo il [p. 384 modifica]linguaggio del tempo, si distinguevano le loro abitazioni col nome di scuole dei Greci e dei Goti, dei Lombardi e dei Sassoni; ma quel rispettabile recinto era sempre esposto senza difesa a un insulto dei sacrileghi. L’autorità fu prodiga di tutto il suo potere, la carità di tutte le sue limosine a circondarlo di mura e di torri, e per quattro anni, che durò questo pio lavoro, fu veduto, a tutte le ore e in tutte le stagioni, l’instancabile Pontefice intento ad incoraggiare gli operai colla sua presenza.

[A. D. 852] Il nome di città Leonina, da lui dato al Vaticano, lascia trapelare il suo amore di gloria, passion generosa ma terrena; nondimeno, molti atti di penitenza e d’umiltà cristiana temperarono l’orgoglio di quella dedica. Il Papa ed il clero girarono a piedi, e sotto il sacco e la cenere, il recinto segnato per la nuova città; salmi e litanie furono i canti di trionfo; si aspersero d’acqua santa i muri, e sul fin della cerimonia Leone pregò gli appostoli e l’esercito degli angeli a mantener l’antica e la nuova Roma sempre pure, felici e inespugnabili93.

[A. D. 838] L’imperator Teofilo, figlio di Michele-il-Balbo, è un dei principi più attivi e coraggiosi che abbiano nel medio evo occupato il trono di Costantinopoli. Mar[p. 385 modifica]ciò cinque volte in persona contro i Saracini in guerre offensive e difensive; terribile nell’assalto, ottenne anche nelle sconfitte la stima de’ nemici. Nell’ultima delle sue imprese, entrò in Sorìa, ed assediò l’oscura città di Sozopetra dove a caso era nato il Califfo Motassem, il cui padre Haroun, sì in pace che in guerra, si facea sempre accompagnare dalla prediletta delle sue mogli e delle sue concubine. Allora le armi dei Saracini erano rivolte contro la sedizione di un impostore Persiano, e non potè che intercedere in favore d’una città, per cui aveva una specie di attaccamento figliale. Le sue istanze noiose indussero l’imperatore ad offenderne l’orgoglio in punto sì sensibile. Sozopetra fu arsa; gli abitanti furono mutilati o ignominiosamente segnati da un marchio, e i vincitori rapirono sul territorio de’ contorni mille prigioniere. Era tra queste una matrona della Casa di Abbas, la quale disperata implorò il soccorso di Motassem: irritato questi dall’insulto de’ Greci, credette del suo onore il farne vendetta, e rispondere all’invito fattogli dalla sua parente. Sotto il regno de’ due fratelli maggiori, s’era ristretto il retaggio del più giovine all’Anatolia, all’Armenia, alla Georgia e alla Circassia, e questa situazione sulle frontiere gli avea dato modo di esercitare i suoi talenti militari, sì che fra i titoli che il caso gli avea dati al soprannome di Ottonario94, formano senza dubbio il più onorevole quelle otto battaglie che guadagnò, o almeno [p. 386 modifica]che fece contra i nemici del Corano. In questa contesa personale, le soldatesche dell’Irak, della Sorìa e dell’Egitto, levarono le lor reclute dalle tribù dell’Arabia e dalle masnade turche: numerosa dovette esser la sua cavalleria, benchè convenga dibattere un poco dai cento trentamila cavalli che gli danno gli storici; e le spese dell’armamento sono state valutate di quattro milioni sterlini, ossia centomila libbre d’oro. Si ragunarono i Saracini a Tarso, e in tre divisioni presero la strada maestra di Costantinopoli. Motassem comandava la battaglia: la vanguardia era guidata da Abbas suo figlio, il quale, nelle prime sue prove militari, poteva trionfare con più gloria o perdere con meno vergogna, ed il Califfo avea risoluto di vendicare con pari ingiuria l’ingiuria ricevuta. Il padre di Teofilo era nato in Amorio95 di Frigia, città già cuna della casa imperiale, segnalata pei suoi privilegi e monumenti, e, qualunque fosse l’opinion del popolo, non meno preziosa di Costantinopoli agli occhi del sovrano e della Corte. Fu scolpito il nome d’Amorio sugli scudi de’ Saracini, ed i tre eserciti si riunirono sotto le mura di quella città proscritta. Era stato avviso dei consiglieri più saggi di votar la Piazza, di sgombrarla d’abitanti, e di abbandonarne gli edificii alla vana furia dei Barbari. S’appigliò l’imperatore al più generoso partito di sostenere un assedio, e di dare una battaglia per [p. 387 modifica]difendere la patria de’ suoi antenati. Quando gli eserciti si avvicinarono, parve che la fronte della linea musulmana fosse la più abbondante di picche, e di chiaverine: ma dall’una e dall’altra parte, non fu per le milizie nazionali glorioso l’esito della pugna. Gli Arabi furono sbaragliati, ma dalle spade di trentamila Persiani che aveano ottenuto servigio e domicilio nell’impero Greco. Furono respinti e sconfitti i Greci, ma dalle freccie della cavalleria turca; e se una pioggia caduta la sera non avesse bagnate e allentate le corde degli archi, a stento avrebbe potuto l’imperatore salvarsi con piccol drappello di cristiani. L’esercito debellato si fermò in Dorilea, città tre giornate lontana dal campo di battaglia. Teofilo, facendo la rivista de’ suoi palpitanti squadroni, non ebbe che a scusare la propria fuga con quella dei sudditi. Dopo questa pubblicità della sua debolezza, invano ebbe speranza di preservare Amorio: rigettò con isdegno l’inesorabile Califfo le sue preghiere e promesse; ne ritenne anche presso di sè gli ambasciatori perchè fossero testimoni della sua vendetta, e poco mancò che non fossero spettatori della sua vergogna. Un governator fedele, una guarnigione composta di veterani e d’un popolo disperato, sostennero per cinquantacinque giorni i vigorosi assalti dei Musulmani, e sarebbero stati astretti i Saracini a levar l’assedio, se un traditore non avesse loro indicata la parte più debole dei muri, che facilmente potea conoscersi dalle figure d’un leone e d’un toro collocate in quel luogo. Motassém compiè in tutto il rigore il suo voto. Affaticato dalla strage senza esserne sazio, ritornò al palazzo di Samara, che egli avea fabbricato poco prima [p. 388 modifica]nei contorni di Bagdad, mentre lo sfortunato Teofilo96 implorava il tardo ed incerto soccorso del suo rivale, l’imperatore dei Franchi. Intanto all’assedio d’Amorio avean perduta la vita settantamila Musulmani, ed erano stati vendicati coll’eccidio di trentamila cristiani, e colle crudeltà praticate verso un egual numero di prigionieri, che furono trattati come i malfattori più atroci. Qualche volta la necessità obbligò le due fazioni ad acconsentire al cambio e al riscatto dei prigionieri97: ma in questa lotta nazionale e religiosa dei due imperi, era senza fiducia la pace e senza dar quartiere la guerra: di rado se lo accordava sul campo di battaglia, e quelli che scampavano dalla morte o erano riservati ad una schiavitù perpetua, ovvero ad orribili torture, ed un imperatore [p. 389 modifica]cattolico racconta giovialmente il supplicio dei Saracini di Creta, che furono scorticati vivi o tuffati in caldaie d’olio bollente98. Avea Motassem per un puntiglio d’onore sagrificata una florida città, dugentomila uomini, e molti milioni. Lo stesso Califfo smontò da cavallo, e imbrattò la veste per dar soccorso a un vecchio decrepito, che era caduto coll’asino in una fossa limacciosa. A quale di queste due azioni avrà egli con più piacere pensato quando fu chiamato dall’angelo della morte99?

[A. D. 841-870] Con Motassem, l’ottavo degli Abbassidi, scomparve la gloria della sua famiglia e della nazione. Quando i vincitori arabi furono dispersi per l’oriente, quando si furono mischiati colle milizie servili della Persia, della Sorìa e dell’Egitto, vennero perdendo l’energia e le bellicose virtù del deserto. Il coraggio dei paesi meridionali è una produzione artificiale della disciplina e del pregiudizio. Era scemata l’attività del fanatismo, e le soldatesche del Califfo, divenute mercenarie, si reclutarono nel settentrione, ove si trova il valor naturale, produzion vigorosa e spontanea di quei climi. Si prendeano in guerra, o si compravano i Turchi100 viventi al di là dell’Oxo e dell’Iaxarte, [p. 390 modifica]gioventù robusta, che si educava nell’arte della guerra e nella fede musulmana. Questi Turchi, divenuti le guardie del Califfo, circondavano il trono del loro benefattore, e non andò guari che i loro Capi usurparono l’impero del palazzo e delle province. Fu Motassem il primo che desse questo esempio pericoloso chiamando più di cinquantamila Turchi nella capitale, i quali colla eccessiva licenza suscitarono, e si tirarono addosso l’odio pubblico; e dalle contese dei soldati e del popolo fu obbligato il Califfo a lasciare Bagdad, e a trasportare la sua residenza ed il campo de’ suoi barbari favoriti a Sumara, sul Tigri, circa dodici leghe superiormente alla città di Pace101. Motawakkel, suo figlio, fu sospettoso e crudele tiranno. Detestato dai sudditi ricorse alla fedeltà delle guardie turche; questi stranieri ambiziosi, sbigottiti dal vedersi odiati, si lasciarono agevolmente sedurre dai vantaggi che lor promettea una rivoluzione. Per le istigazioni di suo figlio, o per la lor brama di dare a lui la corona, si gettarono all’ora della cena nell’appartamento del Califfo, e lo tagliarono in sette pezzi con quelle spade che aveano da lui ricevuto per difendergli la vita ed il trono. [p. 391 modifica]Moatanser, su quel trono ancora rosseggiante del sangue paterno, fu portato in trionfo; ma nei sei mesi di regno, non provò che le angosce d’una coscienza colpevole. Se, come si dice, egli pianse alla vista di una vecchia tappezzeria che raffigurava il delitto e il castigo del figlio di Cosroe; se il pentimento, e il rimorso gli abbreviaron di fatto la vita, ci sarà lecito sentire un po’ di compassione per un parricida, che nel punto della morte esclamava d’aver perduto la felicità di questo Mondo e dell’altro. Dopo quest’atto di tradimento, i mercenari stranieri diedero a lor grado e ritolsero l’abito e il bastone di Maometto, che tuttavia erano gli emblemi del reame; e in quattr’anni crearono, deposero e assassinarono tre Califfi. Ogni volta che eran dominati da timore, da rabbia, da cupidigia, i Turchi afferravano il Califfo pei piedi, e dopo averlo strascinato fuor del palagio lo esponevano nudo al sole ardente, lo battevano con mazze di ferro, e lo forzavano a comprare colla abdicazione qualche momento di ritardo per un destino inevitabile102. Infine si calmò questa tempesta, o veramente prese un altro corso: torna[p. 392 modifica]rono gli Abbassidi a Bagdad che offeriva loro un soggiorno meno procelloso: da una mano più ferma e più abile fu repressa l’insolenza del Turchi, e queste milizie tremende colle guerre estere furon divise o distrutte. Ma le nazioni dell’oriente s’erano avvezzate a mettersi sotto i piedi i successori del Profeta, e solo col menomarne la forza, e rallentandone la disciplina, poterono i Califfi ottenere nell’interno dei loro Stati la pace. Son tanto uniformi i funesti effetti del dispotismo popolare, che mi par di ripetere qui la storia delle guardie pretoriane103.

[A. D. 890-951] Mentre gli affari, i piaceri e le cognizioni in quel tempo spegneano il fanatismo, serbavasi tutto intero il suo fuoco in un piccol numero d’eletti che voleano regnare in questo Mondo o nell’altro. Invano l’appostolo della Mecca avea ripetuto mille e mille volte che egli l’ultimo sarebbe dei Profeti. L’ambizione, o, se è lecito profanare questa parola, la ragione del fanatismo potea sperare che dopo le missioni successive d’Adamo, di Noè, d’Abramo, di Mosè, di Gesù, e di Maometto avrebbe lo stesso Dio nella pienezza dei tempi rivelata una legge sempre più perfetta e più durevole. L’anno 277 dell’Egira, un predicatore Arabo, per nome Carmath, prese nei dintorni di Cufa i titoli pomposi ed inintelligibili di Guida, di Direttore, di Dimostrazione, di Verbo, di Spirito Santo, di Cammello, di Araldo del Messia che avea conversato con lui, come egli [p. 393 modifica]dicea, sotto la forma umana, e finalmente di Rappresentante di Maometto, figlio di Alì, di Rappresentante di S. Gio. Battista, e dell’Angelo Gabriele. Pubblicò un volume mistico, in cui diede ai precetti del Corano un senso men materiale. Rilassò le leggi sulle abluzioni, sul digiuno, e sul pellegrinaggio; permise l’uso del vino e dei cibi vietati, e per mantenere il fervore ne’ suoi discepoli, impose ad essi l’obbligo di orare cinquanta volte al giorno. L’ozio e l’effervescenza della ciurmaglia rustica, che si fece ligia al nuovo Profeta, chiamarono l’attenzione dei magistrati di Cufa: ma con una timida persecuzione accrebbero i progressi della Setta, e il nome poi di Carmath fu anche più venerato quando ebbe lasciato il Mondo. I suoi dodici appostoli si dispersero fra i Beduini, „razza d’uomini, dice Abulfeda, spoglia di ragione come di religione„; e la loro fama già minacciava all’Arabia una rivoluzione novella. Erano i Carmatii ben disposti a ribellarsi, poichè non riconoscevano i titoli della casa d’Abbas, e avevano in abbominazione la pompa mondana dei Califfi di Bagdad. Erano suscettivi di disciplina, avendo giurato una cieca ed assoluta sommessione al loro Iman, che dalla voce di Dio e da quella del popolo era chiamato al ministero profetico. Invece delle decime statuite dalla legge, chiese ad essi il quinto delle proprietà e del bottino: le azioni più criminose non erano che il tipo della disobbedienza, e il giuramento del segreto univa i ribelli e li toglieva alle ricerche. [A. D. 900 ec.] Dopo una sanguinosa battaglia, si insignorirono della provincia di Bahrein lungo il golfo Persico; le tribù d’una vasta estension del deserto furono sottomesse allo scettro, o piuttosto [p. 394 modifica]alla spada di Abu-Said; e di Abu-Taher suo figlio; e questi Imani ribelli poterono mettere in campo cento settemila fanatici. Furono sbigottiti i mercenari del Califfo alla giunta d’un nemico che non chiedeva, e non dava quartiere; la diversità di forza e di pazienza, che si osservava nei due eserciti, prova il cangiamento portato nel carattere degli Arabi da tre secoli di prosperità. Tai soldatesche erano in tutti i combattimenti sconfitte; le città di Racca e di Baalbek, di Cufa e di Bassora furono prese e poste a sacco; regnava la costernazione in Bagdad, e il Califfo stava tremante dietro le cortine della sua reggia. Abu-Taher fece una scorreria al di là del Tigri, e arrivò sino alle porte della capitale con soli cinquecento cavalli. Avea Moctader ordinato che si spezzassero i ponti, e il Califfo aspettava ad ogni istante la persona o la testa del ribelle. Il suo Luogo-tenente, fosse timore o compassione, informò Abu-Taher del pericolo, e gli raccomandò di fuggire frettolosamente: „Il vostro padrone, disse al messaggiero l’intrepido Carmatio, ha trentamila soldati: ma nel suo esercito non conta tre uomini come questi„. Poi rivolto a tre de’ suoi compagni, comandò al primo che si immergesse un pugnale nel seno, al secondo che si gettasse nel Tigri, e al terzo che si lanciasse in un precipizio. Essi ubbidirono senza dolersi: „Narrate quel che avete veduto, soggiunse l’Imano; prima della notte il vostro generale sarà incatenato in mezzo ai miei cani„. Avanti la notte appunto fu sorpreso il campo ed eseguita la minaccia. Le rapine dei Carmatii erano santificate dalla avversione che avevano al culto della Mecca; spogliarono una carovana di pellegrini, e ventimila Musulmani devoti furono lasciati perire di fame e di sete tra le sabbie ardenti del [p. 395 modifica]deserto. [A. D. 929] Un altr’anno, permisero che i pellegrini continuassero il lor viaggio senza interruzione; ma in tempo delle solennità che celebrava la pietà dei fedeli, Abu-Taher prese d’assalto la città santa, e, calpestò le cose più rispettabili della fede de’ Musulmani. I suoi soldati passarono a fil di spada cinquantamila cittadini e forestieri, profanarono il recinto del tempio, seppellindo colà tremila cadaveri; il pozzo di Zemzem fu empiuto di sangue; fu levata la grondaia d’oro; si divisero gli empi Settari il velo della Caaba, e portarono in trionfo alla lor capitale la pietra nera, primo monumento della nazione. Dopo tanti sacrilegii e tante atrocità, continuarono ad infestare le frontiere dell’Irak, della Soria, e dell’Egitto; ma il principio vitale del fanatismo s’era inaridito alla radice. Per iscrupolo o per cupidigia, riapersero la strada della Mecca ai pellegrini, restituirono la pietra nera della Caaba; nè giova indicare quali fazioni li divisero o quall’armi li distrussero. La setta dei Carmatii può considerarsi come la seconda delle cagioni visibili che contribuirono alla decadenza e alla caduta dell’impero de’ Califfi104.

[A. D. 800-936] Il peso e l’ambizione dell’impero medesimo furon la terza cagione della sua rovina, e quella che si comprende alla prima occhiata. Si vantava il Califfo Almamor di reggere con più facilità l’oriente [p. 396 modifica]e l’occidente, che di ben condurre i pezzi d’uno scacchiere di due piedi quadrati105; ma mi do a credere che nell’uno e nell’altro di questi giuochi commettesse gravissimi falli, e osservo che nelle province lontane era già scaduta l’autorità del primo e del più potente degli Abbassidi. L’uniformità dei modi che impiega il dispotismo, veste di tutta la dignità del principe ogni rappresentante nel suo ufficio; la divisione e la bilancia dei poteri dovettero rammentare la consuetudine dell’ubbidienza, e dar ardimento ai sudditi, che sino a quel punto erano passivi nella sommessione, a ricercar l’origine e i doveri del governo civile. Rare volte chi è nato nella porpora è degno del trono: ma l’esaltazione d’un semplice cittadino, talora anche d’un paesano o di uno schiavo, ispira generalmente una grande opinione del suo coraggio e della sua abilità. Il vice-re d’una provincia lontana s’ingegna d’appropiarsi il deposito precario alla sua cura affidato, e di trasmetterlo ai suoi discendenti; amano i popoli di vedere in mezzo a loro il sovrano; e i tesori e gli eserciti, di cui egli dispone, divengono l’oggetto ad un tempo e l’istrumento delle sue mire ambiziose. Finchè i Luogo-tenenti del Califfo stettero contenti al titolo di vice-re, finchè credettero dover implorare per sè o pei figli la rinnovazion dei poteri che avean ricevuto dall’imperatore, finchè sulle monete e nelle preghiere pubbliche conservarono il nome e i titoli di comandanti dei fedeli, si conobbe appena aver l’autorità cangiato di mano. Ma nel lungo esercizio d’un [p. 397 modifica]potere ereditario, pigliarono il fasto e le attribuzioni di regnanti: la pace o la guerra, i premi o i castighi non dipendevano che dalla lor volontà, e non si impiegavano le rendite del governo fuorchè in servigio del paese, o a sostener la magnificenza del governatore; invece di contribuzioni effettive in uomini ed in danaro, i successori del Profeta ricevettero come un attestato di sommissione, buono solamente a lusingare il loro orgoglio, un elefante, uno stormo di falconi, una serie di tappezzerie di seta o poche libbre di muschio e d’ambra106.

Dopo che la Spagna si levò di dosso il giogo temporale e spirituale degli Abbassidi, si videro comparire nella provincia d’Affrica i primi sintomi della disobbedienza. Ibrahim, figlio di Aglab, Luogo-tenente del vigile e severo Haroun, legò il suo nome e il potere alla dinastia degli Aglabiti. O per indolenza o per politica dissimularono i Califfi l’oltraggio e il danno, e si contentarono ad usare il veleno contro il Capo della casa degli Edrisiti107, che fondò il regno e la città di Fez sulle rive del mare occidentale108. [p. 398 modifica]In oriente, la prima dinastia fu quella dei Thaeriti109 discendenti del prode Taher, che nelle guerre civili dei figli di Haroun avea con troppo zelo e fortuna servito la causa d’Almamon, di tutti il più giovine. Fu mandato in onorevole esiglio a comandare sulle rive dell’Oxo, e l’indipendenza de’ suoi successori, che governarono da padroni il Korasan sino alla quarta generazione, fu palliata dalla modestia delle loro azioni, dalla prosperità dei sudditi e dalla sicurezza in cui seppero mantener la frontiera. Rimasero soppiantati da un di quegli avventurieri tanto comuni negli annali dell’oriente, che aveva abbandonato la professione di calderaio, da cui viene il nome di Suffaridi, pel mestiere di ladro. [A. D. 872-902] Chiamavasi Giacobbe, ed era figlio di Leith; s’introdusse la notte nell’erario del principe di Sistan: ma avendo urtato in un pezzo di sale, che lo fece cadere, se lo accostò imprudentemente alla lingua per sapere che fosse. Il sale [p. 399 modifica]fra gli orientali è simbolo d’ospitalità, e quindi il pio ladro subitamente si ritirò senza prender nulla e senza far guasto. Scopertasi questa azione, tanto onorevole per Giacobbe, ne meritò egli il perdono e la fiducia del principe. Fu comandante da principio dell’esercito del suo benefattore, e combattè poscia per sè; soggiogò la Persia, e minacciò la sede degli Abbassidi. Marciava verso Bagdad quando fu arrestato dalla febbre. L’ambasciator del Califfo chiese udienza: Giacobbe lo chiamò al capezzale del letto; aveva vicino sopra una tavola una scimitarra nuda, una crosta di pane nero, ed un mazzo d’agli. „Se muoio, diss’egli, il vostro padrone non avrà più timore; se vivo, questo ferro deciderà la nostra lite; se son vinto, ripiglierò senza pena la vita frugale della mia gioventù„. Dall’altezza a cui s’era elevato non potea la caduta essere sì tranquilla; la sua morte, venuta a tempo, assicurò col suo riposo quello pur del Califfo, che con immense concessioni ottenne che suo fratello Amrou tornasse nei palagi di Shiraz e d’Ispahan. [A. D. 774-999] Eran troppo deboli gli Abbassidi per combattere, e troppo orgogliosi per perdonare; chiamarono in aiuto la potente dinastia de’ Samanidi, i quali passarono l’Oxo con diecimila cavalieri tanto poveri che avean le staffe di legno, e tanto prodi che sconfissero l’esercito dei Suffaridi, otto volte più numeroso del loro. Amrou, fatto prigioniero, fu mandato in catene alla Corte di Bagdad, donativo aggradevole; ed essendosi contentato il vincitore alla possessione ereditaria della Transoxiana e del Corasan, tornarono per qualche tempo i regni di Persia al dominio dei Califfi. Due volte le province della Sorìa e dell’Egitto furono smembrate per [p. 400 modifica]opera di schiavi turchi della razza di Toulun e di quella d’Ikside110. [A. D. 868-905] Questi Barbari, che abbracciata aveano la religione ed i costumi de’ Musulmani, si sollevarono dalle fazioni sanguinose del palagio al governo d’una provincia, poi ad una autorità independente. Rendettero celebri e formidabili tra i contemporanei i loro nomi; ma i fondatori di queste due potenti dinastie confessarono, sia coi detti, sia coi fatti, la vanità dell’umana ambizione. [A. D. 864-908] Nel punto di mandar l’ultimo sospiro, il primo implorò la misericordia di Dio verso un peccatore, che non avea conosciuto i limiti del proprio potere; il secondo, circondato da quattrocentomila soldati e da ottomila schiavi, celava agli occhi di tutti la camera ove procurava di dormire. Furono allevati i loro figli nei vizii dei re, e gli Abbassidi ricuperarono la Sorìa e l’Egitto che possedettero ancora trent’anni. Nel declinare del loro impero, i principi Arabi della tribù di Hamadan si insignorirono della Mesopotamia e delle rilevanti città di Mosul e d’Aleppo. Indarno i poeti della Corte degli Hamadaniti ripeteano, senza arrossire, aver la natura formato il loro viso sul modello della bellezza, la lingua per l’eloquenza e le mani per la liberalità e pel valore; nella storia del loro innalzamento e del lor regno, non troviamo che una serie di perfidie, di assassinii e di parricidii. In que’ medesimi giorni funesti agli Abbassidi surse la dinastia de’ Bowidi ad usurpare nuovamente il [p. 401 modifica]reame di Persia. [A. D. 933-1055] Tal rivoluzione fu fatta dalla spada dei tre fratelli, i quali sotto diversi nomi si intitolavano sostegni e colonne dello Stato, e che dal mar Caspio all’oceano non vollero altri tiranni fuor di sè stessi. Sotto il lor dominio ripresero vita la lingua e gli ingegni persiani, e trecentoquattro anni dopo la morte di Maometto perdettero gli Arabi lo scettro dell’oriente.

[A. D. 936] Rahdi, il ventesimo degli Abbassidi e il trentesimonono dei successori di Maometto, fu l’ultimo che meritò il titolo di comandante de’ fedeli111, l’ultimo (dice Abulfeda) che abbia parlato al popolo e conversato coi dotti, l’ultimo che nelle spese della casa spiegasse la ricchezza e la magnificenza degli antichi Califfi. Dopo lui, i padroni dell’oriente furono ridotti alla più abbietta miseria, ed esposti agli oltraggi ed ai colpi riservati agli schiavi. Per la sedizione delle province si ristrinse il loro dominio al recinto di Bagdad; ma questa capitale racchiudeva sempre una [p. 402 modifica]moltitudine innumerevole di sudditi superbi della passata fortuna, mal contenti dello stato in cui erano allora ed aggravati dalle esazioni d’un fisco, per l’innanzi arricchito delle spoglie o dei tributi della nazione. Nel loro ozio erano occupati dalle fazioni e dalla controversia. I rigidi Settari di Hanbal112, sotto la maschera della pietà, vollero privarli dei piaceri della vita domestica; penetrarono a forza nelle case dei plebei e dei principi, rovesciarono i vasi di vino che trovarono, batterono i musici e ne ruppero gli strumenti, e con infami sospetti disonorarono tutti coloro che vivevano con gioventù di bell’aspetto. Di due persone unite nella professione medesima, una, generalmente, era per Alì, l’altra contro; e finalmente furono scossi gli Abbassidi dalle grida dei Settari che ne contestavano i titoli e maledivano i fondatori di quella dinastia. Solo potea la forza militare reprimere una plebe turbolenta; ma chi poteva sbramare la cupidità dei mercenari, o mantenerli nella disciplina? Gli Affricani e i Turchi, commessi alla guardia del Califfo, vennero scambievolmente alle mani, e gli Emiri d’Omra113 imprigionarono o deposero il loro [p. 403 modifica]sovrano e profanarono la moschea e l’harem. Se i Califfi si riparavano nel campo, o alla Corte d’un principe vicino, non era che un cangiare di servitù; finalmente la disperazione li trasse a chiamare i Bowidi, soldani della Persia, le cui armi invincibili attutirono le fazioni di Bagdad. Moezaldowlat, secondo dei tre fratelli Bowidi, s’arrogò il poter civile e militare, e volle ben generosamente assegnare sessantamila lire sterline per le spese private del comandante dei fedeli. Ma quaranta giorni dopo la rivoluzione, in un’udienza data agli ambasciatori del Chorasan e sotto gli occhi d’una moltitudine sbigottita, i Dilemiti, per ordine del principe straniero, svelsero il Califfo dal trono, e lo strascinarono in un carcere. Gli saccheggiarono il palazzo, gli cavarono gli occhi, e tanta fu l’ambizion degli Abbassidi che non dubitarono d’aspirare ancora ad una corona sì pericolosa e avvilita. I voluttuosi Califfi ritrovarono nella scuola dell’avversità le virtù austere e frugali dei primi tempi della lor religione. Spogliati dell’armatura e del vestimento di seta digiunavano, pregavano, studiavano il Corano e la tradizion dei Sonniti, adempievano con zelo, e da uomini istruiti, gli uffici della lor dignità ecclesiastica. Sempre in essi erano rispettati dalle nazioni i successori dell’appostolo, gli oracoli della legge o della coscienza dei fedeli; qualche volta dalla debolezza e dalle discordie dei lor tiranni fu renduta a loro la sovranità di Bagdad, ma era cresciuta la lor disgrazia col trionfo dei Fattimiti, veri o falsi discendenti di Alì. Questi rivali fortunati, venuti dalla estremità dell’Affrica, aveano annientata in Egitto e in Sorìa l’autorità spirituale e temporale degli Abbassidi, ed il monarca del Nilo insultava l’umil pontefice delle rive del Tigri. [p. 404 modifica]

[A. D. 960] Mentre crollava l’impero dei Califfi, nel secolo che scorse dopo la guerra di Teofilo e di Motassem, le ostilità delle due nazioni si ridussero a qualche scorreria per terra e per mare, promosse dalla vicinanza e da un odio irreconciliabile; ma le convulsioni che agitarono l’Oriente destarono i Greci dal letargo offerendo speranze di vittoria e di vendetta. L’impero di Bisanzio, dopo l’esaltazione della razza di Basilio, era stato in pace senza perdere la sua dignità, mentre poteva colla totalità delle sue forze assalire alcuni piccoli Emir, i cui Stati erano ad un tempo investiti, o minacciati in un’altra parte da altri Musulmani. I sudditi di Niceforo Foca, principe tanto rinomato in guerra quanto abbominato dal popolo, gli diedero fra le acclamazioni i titoli enfatici di Stella del mattino, e di Morte de’ Saracini114. Nella sua carica di gran famigliare o di general dell’oriente, soggiogò l’isola di Creta, distrusse quella tana di pirati che da sì lungo tempo impunemente insultava la maestà dell’impero115, e ci mostra i suoi talenti in questa impresa che avea così sovente costato ai Greci danno e vergogna. Fece sbarcare le sue genti [p. 405 modifica]coll’aiuto di ponti solidi e uniti, che dalle sue navi gettava sulla costa. Questo sbarco disseminò lo spavento fra i Saracini. Sette mesi durò l’assedio di Candia: i Cretesi si difesero con un coraggio disperato, animati dai frequenti soccorsi che ricevevano dai lor fratelli d’Affrica e di Spagna; e quando ebbe l’esercito dei Greci superate le mura e la doppia fossa, si batterono ancora nelle strade e nelle case. Presa la capitale, fu soggiogata l’isola intera, ed i vinti, senza opporsi, ricevettero il battesimo offerto dal vincitore116. Si diede a Costantinopoli lo spettacolo d’un trionfo: applaudì la capitale a questa cerimonia da gran tempo dimenticata, e il diadema imperiale divenne l’unico guiderdone acconcio a pagare i servigi, o a satisfare l’ambizion di Niceforo.

[A. D. 963-975] Dopo la morte di Romano il giovane, quarto discendente di Basilio in linea retta, Teofania sua vedova sposò successivamente i due eroi del suo secolo, Niceforo Foca e Giovanni Zimiscè, assassino di quello. Regnarono come tutori e colleghi dei figli, che erano in minore età, e i dodici anni che comandarono l’esercito dei Greci son l’epoca più bella de[p. 406 modifica]gli annali di Bisanzio. I sudditi e gli alleati che menarono alla guerra, erano, almeno nell’opinion del nemico, dugentomila uomini, trentamila dei quali erano armati di corazze117; quattromila muli seguivano i lor passi, e un muro di picche di ferro difendeva il campo che poneano ogni notte. In una lunga serie di sanguinosi ma indecisivi combattimenti, non può scorgere lo storico che una anticipazione di quelle leggi distruttive, che avrebbe adempiute alcuni anni più tardi il corso ordinario della natura; seguirò dunque in poche parole le conquiste dei due imperatori, dai colli della Cappadocia sino al deserto di Bagdad. Gli assedi di Mopsoesto e di Tarso in Cilicia esercitarono sul principio l’abilità e la perseveranza dei lor soldati, a cui senza tema di errare darò qui il nome di Romani. Dugentomila Musulmani erano predestinati a trovar la morte o la schiavitù118 nella città di Mopsoesto, divisa in due parti dalla riviera di Saro. Pare sì numerosa questa popolazione, che dee supporsi comprendesse almeno quella dei distretti dependenti da Mopsoesto. Questa città [p. 407 modifica]fu presa d’assalto; ma Tarso fu lentamente vinta dalla fame. Come tosto i Saracini si furono arresi all’onorevole capitolazione offerta, ebbero il dolore di scorgere da lungi le navi dell’Egitto che venivano inutilmente a soccorrerli. Furono rimandati con un salvo condotto alle frontiere della Sorìa; aveano vissuto in pace gli antichi cristiani sotto il loro dominio, e il vuoto lasciato dalla lor partenza fu presto riempiuto da una nuova colonia: ma la moschea fu cangiata in una scuderia, fu data alle fiamme la cattedra dei dottori dell’Islamismo, e si riservò all’imperatore un gran numero di croci ricche d’oro e di gemme, spoglie delle chiese dell’Asia, da cui potè essere egualmente soddisfatta o la sua pietà o la sua avarizia; ed egli fece levare le porte di Mopsoesto e di Tarso acciocchè, incrostate nelle mura di Costantinopoli, servissero a perpetuo monumento della sua vittoria. Dopo essersi impadroniti e assicurati delle gole del monte Aman, si trasferirono più volte i due principi Romani nel centro della Sorìa: ma invece di investire Antiochia, parve che l’umanità o la superstizion di Niceforo rispettasse l’antica metropoli dell’oriente. Si contentò a tirare una linea di circonvallazione intorno alla Piazza, lasciò un esercito sotto le mura, e raccomandò al suo Luogo-tenente d’aspettare con tranquillità il ritorno della primavera; ma nel cuor dell’inverno, giovandosi d’una notte oscura e piovosa, un ufficial subalterno con trecento soldati s’accostò alle mura, vi adattò le scale, si impadronì di due torri, e tenne fermo contro la folla dei nemici, che lo stringean d’ogni parte, sino a tanto che il suo Capo si determinò suo malgrado di secondarlo. Fu messa subito a ruba e a sacco la città con [p. 408 modifica]molta strage; indi vi si rinnovò il regno di Cesare e di Gesù Cristo, e indarno centomila Saracini degli eserciti di Sorìa e dei navili d’Affrica vennero a logorarsi in vani sforzi sotto la Piazza. Obbediva la regia città d’Aleppo a Seifeddowlat, della dinastia di Hamadan, il quale oscurò la sua gloria abbandonando precipitosamente il regno e la capitale. Nel magnifico palazzo, che abitava fuor delle mura d’Aleppo, i Romani trovarono giubilanti un arsenale ben provveduto, una scuderia di mille e quattrocento muli e trecento sacchi d’oro e d’argento; ma le mura della Piazza non cedettero ai loro arieti, e dovettero gli assedianti accamparsi nella montagna di Iaushan, situata nelle vicinanze. Nella lor ritirata si inviperirono le dissensioni, che s’erano accese tra gli abitanti della città e i mercenari, i quali abbandonarono le porte e i baloardi, e mentre furiosamente si battevano nella piazza del mercato, furono sopprapresi ed oppressi dal nemico comune. Furon passati a fil di spada tutti gli uomini d’età matura, e condotti prigionieri diecimila giovani. Tanto considerevole fu il bottino, che non ebbero i vincitori bastanti bestie da soma per trasportarlo; si arse quel che ne restava, e dopo dieci giorni donati alla licenza e alla crapula, abbandonarono i Romani questa città deserta e inondata di sangue. Nelle loro incursioni in Sorìa, ordinarono agli agricoltori che seminassero le terre, acciocchè nella prossima stagione vi trovasse l’esercito sussistenza. Sottomisero più di cento città, e per espiare i sacrilegii commessi dai discepoli di Maometto, si diedero alle fiamme più di diciotto pulpiti delle primarie moschee. La lista dei loro conquisti ricorda per un istante i nomi classici di Ie[p. 409 modifica]ropoli, d’Apamea e di Emeso. L’imperator Zimiscè accampò nel paradiso di Damasco, ed accettò il riscatto d’un popolo sottomesso: questo torrente non fu arrestato che dalla inespugnabile Fortezza di Tripoli, sulla costa di Fenicia. Dopo il regno di Eraclio, appena i Greci aveano veduto l’Eufrate sotto al monte Tauro; Zimiscè passò senza ostacolo questo fiume, e dee lo storico imitare la prontezza con cui sottomise le già famose città di Samosata, d’Edessa, di Martiropoli, d’Amida119 e di Nisibi, antico limite dell’impero nei contorni del Tigri. Era fomentato il suo ardore sempre più dalla smania di insignorirsi dei tesori ancora intatti d’Ecbatana120, nome notissimo e sotto il quale uno storico di Bisanzio ha nascosta la capitale degli Abbassidi. La costernazione dei fuggiaschi avea di già sparso colà il terror del suo nome: ma l’avarizia e la prodigalità dei tiranni di Bagdad [p. 410 modifica]ne avea già dissipate le immaginarie ricchezze. Dalle preghiere del popolo, e dalle premure imperiose del Luogo-tenente dei Bowidi era sollecitato il Califfo a provedere alla difesa della città. Rispose lo sciagurato Mothi essere stato spogliato dell’armi, delle rendite e delle province, e d’essere preparato e presto ad abdicare una dignità che non potea sostenere. L’Emir fu inesorabile: si vendettero i mobili del palazzo, e la misera somma ricavatane di quarantamila pezze d’oro, fu immediatamente spesa in capricci di lusso; ma la ritirata dei Greci liberò Bagdad da ogni inquietudine; la sete e la fame stavano alla guardia del deserto della Mesopotamia, e quindi l’imperatore, sazio di gloria e carico delle spoglie dell’oriente, fece ritorno a Costantinopoli, ove nella cerimonia del suo trionfo mise in pompa gran quantità di stoffe di seta, di vasi d’aromi, e trecento miriadi d’oro e d’argento. Questa procella frattanto non aveva che umiliato la testa delle Potenze dell’oriente, senza distruggerle. Partiti i Greci, rivennero i principi fuggitivi alle lor capitali; i sudditi ritrattarono i giuramenti carpiti dalla forza, purificarono di bel nuovo i Musulmani i lor templi, e rovesciarono gli idoli dei santi e de’ martiri della religion cristiana; i Nestoriani e i Giacobiti vollero piuttosto ubbidire ai Saracini che a un principe ortodosso, nè i Melchiti erano abbastanza forti o coraggiosi per difender la chiesa e lo Stato. Di quei vasti conquisti, Antiochia, le città di Cilicia, e l’isola di Cipro furono le sole che restassero in modo utile e permanente all’impero Romano121. [p. 411 modifica]

Note

  1. Teofane ascrive i sette anni dell’assedio di Costantinopoli all’anno 673 dell’Era cristiana (primo settembre 665 dell’Era Alessandrina), e la pace dei Saracini quattro anni dopo; contraddizione manifesta che il Petavio, il Goar e il Pagi (Critica, t. IV, p. 63, 64) si sono ingegnati di togliere. Fra gli Arabi, Elmacin registra l’assedio di Costantinopoli all’anno 52 dell’Egira (A. D. 672, 8 gennaio), e Abulfeda, i calcoli del quale sono a mio giudizio più esatti e più credibile l’asserzione, nell’anno 48 (A. D. 668, 20 febbraio).
  2. V. sul primo assedio di Costantinopoli Niceforo (Breviar., p. 21, 22), Teofane (Chronograph., p. 294), Cedreno (Compend., p 437), Zonara (Hist., t. II, l. XII, p. 89), Elmacin (Hist. Saracen., pag. 56, 57), Abulfeda (Annal. Moslem., p. 107, 108, vers. Reiske), d’Herbelot (Biblioth. orient., Constantinah), Ockley (Hist. of the Saracens, v. II, p. 127, 128).
  3. Si troverà lo stato e la difesa dei Dardanelli nelle Memorie del Barone di Tott (tom. III, pag 39-97), che era stato inviato per fortificarli contro i Russi. Mi sarei aspettato da un attore de’ principali qualche più esatta particolarità: ma pare che egli scriva più per dilettare che per istruire i lettori. Forsechè quando s’accostarono gli Arabi, il ministro di Costantino, come quello di Mustafà, non fosse distratto a trovare due canarini che cantassero precisamente la stessa nota.
  4. Demetrio Cantemiro, Hist. de l’empire ottom., p. 105, 106; Ricaut, Etat de l’empire ottom., p. 10, 11; Voyages de Thevenot, part. I, p. 189. I cristiani supponendo che dai Musulmani si confonda frequentemente il martire Abu-Ayub col patriarca Giob, invece di provare l’ignoranza de’ Turchi danno a divedere la propria.
  5. Teofane, quantunque Greco, è degno di fede per questi tributi (Chronogr., p, 295, 296, 300, 301) che sono, con qualche divario, raffermati dall’istoria araba di Abulfaragio (Dynast., p. 128, ver. del Pocock).
  6. La critica di Teofane è giusta ed espressa energicamente, „την Ρωμαικην δυναστειαν ακρωτηριασας …. πανδεινα κακα πεπονθεν η Ρωμανια υπο των Αραβων μεχρι του νυν„ , „mutilando la dinastia ottomana .... la Romania ebbe a sostenere ogni sorta di mali sotto gli Arabi sino a questi giorni„ (Chronog. p. 302, 303). La serie di quegli avvenimenti si può raccogliere dagli annali di Teofane, e dal compendio del Patriarca Niceforo, p. 22, 24.
  7. Queste rivoluzioni sono scritte in uno stile chiaro e schietto nel secondo volume dell’istoria dei Saracini composta da Ockley (p. 233-370). Non solo dagli autori stampati, ma dai manoscritti arabi d’Oxford ha tratto molti materiali; avrebbe potuto cercare là entro molto di più se fosse stato rinchiuso nella biblioteca Bodleiana, invece d’essere nella prigion della città, destino troppo indegno d’un tal uomo e del suo paese.
  8. Elmacin, che pone il conio delle monete arabe (A. E. 76, A. D. 695) cinque o sei anni più tardi che gli storici greci, ha confrontato il peso del dinaro d’oro, del maggiore e del comune prezzo, colla dramma o dirhem d’Egitto (p. 77), equivalente a circa due pennies 48 grani del peso inglese (Hooper’ s Inquiry into ancient measures, p. 24-36), o a circa otto scellini. Si può conchiudere, attenendosi ad Elmacin e ai medici arabi, che v’erano dinari anche del valore di due dirhem, e altri che non valevano che un mezzo dirhem. La moneta d’argento era il dirhem in peso e in valore; ma una bellissima, ancorchè antica, coniata a Waset (A. E. 88), e conservata nella biblioteca Bodleiana, è di quattro grani inferiore al campione del Cairo (V. l’Histoire universelle moderne, t. I, p. 548 della traduzione francese.
  9. Και εκωλυσε γραφεσθαι ελληνισι τους δημοσιους των λογοθεσιων κωδικας, αλλ’Αραβιοις αυτα παρασεμαινεσθαι χωρις των ψηφων, επνδη αδυνατον τη εκεινων γλωσση μοναδα, η δυαδα, η τριαδα η οκτω ημισυ η τρια γραφεσθαι, e proibì di scrivere in greco i registri pubblici dei conti, ma d’indicarli in lettere arabe separatamente, poichè era impossibile scrivere l’unità, la dualità, il terno, l’otto e mezzo, o il tre in quella lingua. (Teofane, Chronograph., p. 314). Questo difetto, se v’era realmente, avrà stimolato gli Arabi ad inventare, o a pigliare in prestito un altro metodo.
  10. Secondo un nuovo sistema assai probabile, messo in campo dal signor di Villoison (Anecdota Graeca, t. II, p. 152-157), le nostre cifre non furono inventate nè dagli Indiani, nè dagli Arabi, ma erano usate dagli aritmetici greci e latini molto prima del secolo di Boezio. Quando sparvero le lettere dall’occidente, quelle cifre furono adoperate dagli Arabi che traduceano i manoscritti originali, e i Latini le usarono di nuovo verso l’undecimo secolo.
  11. Secondo la divisione dei Themi o province descritte da Costantino Porfirogenito (De thematibus; t. I, pag. 9, 10), l’Obsequium, denominazion latina dell’esercito o del palagio, era nell’ordine pubblico il quarto. La metropoli era Nicea che stendea la sua giurisdizione dall’Ellesponto ai paesi addiacienti della Bitinia e della Frigia. (V. le carte che dal Delisle son poste avanti l’Imperium orientale del Banduri).
  12. Il Califfo avea mangiato due pannieri d’ova e di fichi, cui divorava alternativamente, e avea finito il pasto con un composto di midolla, e di zuccaro. In una delle sue peregrinazioni alla Mecca mangiò Solimano in una volta diciassette melegranate, un capretto, sei polli, e gran quantità di uve di Tayef. Se la minuta del pranzo del sovrano dell’Asia è veramente esatta, bisogna ammirarne più l’appetito che il lusso (Abulfeda, Annal. moslem. p. 128).
  13. V. l’articolo di Omar Ben-Abdalaziz, nella Bibliothèque orientale (p. 689, 690); praeferens, dice Elmacin (p. 91), religionem suam rebus suis mundanis. Era tanto ansioso di andare al soggiorno della divinità che fu inteso una volta affermare, che non vorrebbe nemmeno incomodarsi a bagnar di olio l’orecchio per guarire dalla sua ultima malattia. Non avea che una camicia, e, in tempo che il lusso s’era introdotto fra gli Arabi, non ispendeva più di due dramme all’anno (Abulfaragio, p. 131); haud diu gavisus eo principe fuit orbis Moslemus (Abulf., p. 127).
  14. Niceforo e Teofane convengono in dire che fu levato l’assedio di Costantinopoli il 15 agosto (A. D. 718). Ma assicurando il primo, che è il più degno di fede, aver durato 13 mesi, si sarà ingannato il secondo asserendo, che cominciò nell’anno precedente nello stesso giorno. Non vedo che il Pagi abbia notata questa contraddizione.
  15. Sul secondo assedio di Costantinopoli ho seguito Niceforo (Brev. p. 33-36), Teofane (Chronogr. p. 324-334), Cedreno (Compend., p. 449-452), Zonara (t. II. p. 98-102) Elmacin (Hist. Sarac. p. 88), Abulfeda (Ann. moslem, p. 126), e Abulfaragio (Dynast. p. 130), autore arabo che appaga di più i lettori.
  16. Carlo Dufrène Ducange, guida sicura ed istancabile pel medio evo e per la storia di Bisanzio, ha trattato del fuoco greco in molti luoghi de’ suoi scritti, e non rimane speranza di spigolare molti fatti dopo di lui. V. in particolare Glossar. med. et infim. graecitat., page 1275, sub voce τνρ θαλασσιον υγρον fuoco marino liquido. Gloss. med. et infim. latin. ignis graecus; Observations sopra Villehardouin, p. 305, 307; Observations sopra Joinville, p. 71, 72.
  17. Teofane lo chiama αρχιτεχτων architetto (p. 295); Cedreno (p. 437) fa venire quell’artista da Eliopoli (dalle rovine d’Eliopoli) in Egitto; e diffatti la chimica si studiava particolarmente dagli Egiziani.
  18. Dietro una debole autorità, ma una verosimiglianza fortissima, si suppone che la nafta, l’oleum incendiarium della storia di Gerusalemme (Gest. Dei per francos, pag. 1167), la fonte orientale di Giovanni di Vitry (lib. III c. 84), entrasse nella composizione del fuoco greco. Cinnamo (l. VI, p. 165) chiama il fuoco greco πυρ Μηδικον fuoco Medo; e si sa esservi gran quantità di nafta tra il Tigri e il mar Caspio. Plinio (Hist. nat., II, 109) dice che la nafta servì alla vendetta di Medea, e secondo l’una o l’altra etimologia Ελαιον Μηδιας o Μηδειας olio di Media o di Medea (Procopio De bell. Gothic., l. IV, c. II) può significare questo bitume liquido.
  19. V. sulle varie specie d’olio e di bitumi i Saggi chimici (v. V, saggio I) del dottor Watson (ora vescovo di Landaff). Questo libro classico è di tutti quelli che conosco il più atto a diffondere il gusto e le cognizioni della chimica. Le idee men perfette che ne avevano gli antichi si trovano in Strabone (Geograf. l. XVI, p. 1078), e in Plinio (Hist. nat., II p. 108, 109); huic (Naphtae) magna cognatio est ignium, transiliuntque protinus in eam undecunque visam. Otter (t. I, pag. 153-158), è quello tra i nostri viaggiatori che in questa materia mi soddisfa di più.
  20. Anna Comnena ha squarciato in parte questo velo. Απο της πευκης, και αλλων τινων τοιουτων δενδρων αειθαλων συναγεται δακρυον ακαυστον. Τουτο μετα θειου τριβομενον εμβαλλετα, εις αυλισκους καλαμων και εμφυσαται παρα του παιξοντος λαβρω και συνεχει πνευματι. Dalla pece e da altri consimili alberi, sempre verdi, si raccoglie una stilla non ardente. Questa pestata col zolfo si lancia nei tubi delle canne, e si soffia colla bcca ed esce col fiato. (Alexiad. l. XIII, pag. 383). Altrove ella fa menzione della proprietà d’ardere κατα το πρανες και εφ’ εκατερα nel piano e dalle bande. Leone, al capo decimonono della sua Tattica (Opera Meursii, t. VI, p. 843, ediz. del Lami, Firenze 1745), parla della nuova invenzione del πυρ μετα βροντης και καπνου fuoco con fragore e con fumo. Queste sono testimonianze originali e di persone d’alto affare.
  21. Costantino Porfirogenito, De administratione imperii, c. 13, p. 64, 65.
  22. Histoire de saint Louis, p. 39, Parigi, 1688; p. 44, Parigi, dalla stamperia reale 1761. Per le osservazioni del Ducange è preziosa la prima di queste edizioni, e la seconda per la purezza del testo del Joinville. Il quale è l’unico autore che ne insegni come i Greci, coll’aiuto d’una macchina che operava come la fionda, lanciavano il fuoco greco dietro un dardo o una chiaverina.
  23. Sia vanità sia smania di contendere l’altrui fama la più fondata, si sono indotti alcuni moderni a fissare prima del quattordicesimo secolo la scoperta della polvere da schioppo (V. sir William Temple, Dutens ec.), e quella del fuoco greco prima del settimo secolo. (V. il Sallustio del presidente de Brosses t. II, p. 381); ma le testimonianze da essi citate, anteriori all’epoca a cui si assegnano queste scoperte, sono di rado chiare e satisfacenti, e si può dubitare di frode, e di credulità negli scrittori successivi. Gli antichi negli assedii facevano uso di combustibili che contenevano olio e zolfo, e il fuoco greco per la qualità, e per gli effetti ha qualche somiglianza colla polvere da schioppo. Intanto la prova più difficile da eludere sull’antichità della prima scoperta sta in un passo di Procopio (De bell. goth. l. IV, c. 11); e su quella della seconda in alcuni fatti della storia di Spagna al tempo degli Arabi (A. D. 1249, 1312, 1332, Bibl. arabico-hispana, t. II, p. 6, 7 e 8).
  24. Il monaco Bacone, quell’uomo straordinario, rivela due delle sostanze che entrano nella polvere da schioppo il salnitro e il zolfo; e nasconde la terza sotto una frase di gergo misterioso, quasi temesse la conseguenza della sua scoperta (Biographia britannica, vol. I, p. 430, quarta edizione).
  25. V. sull’invasion della Francia, e la sconfitta degli Arabi per opera di Carlo Martello, l’Historia Arabum (c. II, 12, 13, 14) di Rodrigo Ximenes, arcivescovo di Toledo, che avea sotto gli occhi la cronaca cristiana di Isidoro Pacense, e l’istoria dei Maomettani scritta dal Novairi. I Musulmani tacciono o in poche parole fan cenno della loro perdita: ma il signor Cardonne (t. I, pag. 129, 130, 131) ha fatto un racconto puro e genuino di quanto ha potuto attingere dalle opere di Ibn-Halikan, di Hidjazi, e d’un anonimo. I testi delle cronache di Francia e delle vite dei Santi stanno nella raccolta del Bouquet (t. III) e negli annali del Pagi (t. III), il quale ha riordinata la cronologia sulla quale gli annali del Baronio s’ingannano di sei anni. Si scorge più sagacità e spirito che verace erudizione negli articoli Abderamo e Manuza del dizionario del Bayle.
  26. Eginhart, De vita Caroli magni, c. 2, pag. 13-18, edizione di Schmink, Utrecht, 1711. Qualche critico moderno accusa il ministro di Carlo Magno d’aver esagerata la debolezza dei Merovingi; ma le sue osservazioni generali sono esatte, e i lettori francesi godran sempre di ripetere i bei versi del Leggio di Boileau.
  27. Mamaccae sulla Oisa, tra Compiègne e Noyon, chiamato da Eginhart perparvi redditus villam (vedi le Note della carta dell’antica Francia nella raccolta di Don Bouquet). Compendium, o Compiègne, era un palagio più maestoso (Adriano Valois, Notitia Galliarum, p. 159); e l’abate Galliani, quel sì gioviale filosofo, potè dire con verità (Dialogues sur le commerce des blés) che era la residenza dei re cristianissimi e capellutissimi.
  28. Anche prima che fosse fondata questa colonia, A. U. C. 630 (Velleio Patercolo, I, 15) ai tempi di Polibio (Hist. t. III, pag. 263, ediz. di Gronov.). Era Narbona una città celtica di primo ordine, ed uno dei luoghi più settentrionali del Mondo allora conosciuto (d’Anville, Notice de l’ancienne Gaule, p. 473).
  29. Non sempre i Santi fanno miracoli, e possono anche lasciare di farne in causa propria (Nota di N. N.).
  30. Rodrigo Ximenes rimprovera ai Saracini di avere violato il santuario di S. Martino di Tours. Turonis civitatem, ecclesiam et palatia vastatione et incendio simili diruit et consumpsit. Il continuator di Fredegario non rimprovera loro che l’intenzione: ad domum beatissimi Martini evertendam festinant; at Carolus, etc. L’annalista francese era più tenero dell’onore del Santo.
  31. Non sembra potersi negare, che, se gli Arabi avessero continuato ed assodato le loro conquiste fatte in Francia nel principio dell’ottavo secolo, non s’insegnerebbe in Francia, in Germania, in Italia, ed in Oxford la religione di Maometto, giacchè avevano annientato la religione cristiana nelle conquistate province affricane, e volti i popoli con varj mezzi e coll’educazione a professare la religione de’ vincitori, siccome han fatto i Cristiani conquistatori dell’Allemagna intorno al principio del secolo nono, e di molte province vaste d’America nel decimosesto; ma il buon credente deve pensare, che Gesù Cristo, che assiste sempre in un modo invisibile i suoi seguaci, avrebbe protetto la sua religione. I conquistatori nei tempi passati volevano, che i popoli vinti adottassero la lor religione, e la prosperità dell’armi seco traeva quella del culto dei vincitori; ma i progressi del sapere seco condusse la tolleranza reciproca delle opinioni religiose, ed un popolo vinto, o passato ad altro dominio, è sicuro di conservare il suo culto qualunque egli sia. Crediamo poi, che i mali della guerra recati all’Europa dagli Arabi sieno stati molto minori di quelli ch’ella ebbe a soffrire dopo quell’epoca fino alla fine del regno di Luigi XIV. D’altronde l’Europa ignorantissima ne’ tempi della grande prosperità e potenza degli Arabi, fu da essi istruita specialmente nelle matematiche, nell’astronomia, e nella medicina; beneficio che compensò di gran lunga i mali della guerra. (Nota di N. N.)
  32. Dubito per altro se le moschee d’Oxford avrebbero prodotto un’Opera tanto elegante e ingegnosa di controversia quanto lo sono le prediche ultimamente fatte (at Bampton’ s lectures) dal sig. White, professore di lingua araba. Le osservazioni che fa sull’indole e la religion di Maometto sono con bell’arte adattate al suo subbietto, e generalmente fondate sulla verità e sulla ragione. Egli fa la figura d’un avvocato pieno di spirito e d’eloquenza, ed ha talora i pregi d’uno storico e d’un filosofo.
  33. Gens Austriae membrorum preeminentia valida, et gens Germana corde et corpore praestantissima, quasi in ictu oculi manu ferrea et pectore arduo Arabes extinxerunt. (Rodrigo di Toledo, c. 14).
  34. Son questi i conti di Paolo Warnefrid, diacono d’Aquileia (De gestis Langobard., l. VI, p. 921, ediz. di Grozio) e d’Anastasio, bibliotecario della chiesa Romana (in vit. Gregorii II): parla quest’ultimo di tre spugne miracolose, che rendettero invulnerabili i soldati francesi che le aveano spartite fra loro. Sembrerebbe che nelle sue lettere al Papa si usurpasse Eude l’onore della vittoria; tale è il rimprovero che gli fanno gli annalisti francesi, i quali l’accusano falsamente ancor essi d’aver chiamato i Saracini.
  35. Pipino, figlio di Carlo Martello, ripigliò Narbona e il resto della Settimania A. D. 755 (Pagi Crit., t. III, p. 300). Trentasette anni dopo, fecero gli Arabi una scorreria in questa parte della Francia, e impiegarono i prigionieri alla costruzione della moschea di Cordova (De Guignes, Hist. des Huns, t. I, P. 354).
  36. Non è da meravigliarsi, che in quei tempi si scrivessero, e si spacciassero simili cose; la storia dei secoli di mezzo n’è piena; l’interesse od il fanatismo le dettava, e l’ignoranza e la stupidità le avvalorava, e le accettava. Ciò nulla ha a fare coll’intrinseco della religione cristiana tanto nella parte dogmatica, che nella parte morale. (Nota di N. N.).
  37. Questa lettera pastorale diretta a Luigi il Germanico, nipote di Carlo Magno, è probabilmente composta dall’astuto Hincmar, ha la data dell’anno 858, ed è segnata dai vescovi delle province di Reims e di Rouen (Baronio, Annal. eccles., A. D. 741; Fleury Hist. eccles., t. X, p. 514, 516). Baronio stesso, per altro, e i critici francesi rigettano con disprezzo questa favola inventata dai vescovi.
  38. I cavalli e le selle che avean portato le sue mogli furono uccisi ed arsi, per timore che non fossero montati poi da un uomo. Mille e dugento muli, o cammelli, erano destinati al servizio della cucina, ove si consumavano ogni giorno tremila pani, cento agnelli, senza parlare de’ buoi, del pollame ec. Abulfaragio (Hist. dynast. p. 140).
  39. Al-Hemar. Egli era stato governator della Mesopotamia, e in un proverbio arabo vien lodato il coraggio di quegli asini guerrieri, che mai non fuggono davanti al nemico. Questo soprannome di Merwan può giustificare la nota similitudine d’Omero (Iliade, A. 557, etc.), e il soprannome e la citazione Omerica devono impor silenzio ai moderni, che riguardan l’asino come una emblema di stupidità e di bassezza (d’Herbelot, Bibl. orient., p. 558).
  40. Quattro città d’Egitto portano il nome di Busir, o Busiride, sì famoso nelle favole greche. La prima, in cui fu morto Merwan, sta all’occidente del Nilo, nella provincia di Fium o d’Arsinoe, la seconda nel Delta, nel Nomo Sebennitico, la terza presso le Piramidi, e la quarta, che fu distrutta da Diocleziano (V. il Capitolo XIII di quest’opera), è nella Tebaide. Ecco una nota del dotto, ed ortodosso Michaelis: Videntur in pluribus Aegypti superioris urbibus Busiri Coptoque arma sumpsisse christiani, libertatemque de religione sentiendi defendisse, sed succubuisse, quo in bello Coptus et Busiris diruta, et circa Esnam magna strages edita. Bellum narrant, sed causam belli ignorant scriptores Byzantini, alioqui Coptum et Busirim non rebellasse dicturi, sed causam christianorum suscepturi (Nota 211 p. 100). V. sulla geografia delle quattro Busiridi, Abulfeda Descript. Aegypt., p. 9, vers. Michaelis, Gottingue, 1776, in-4), Michaelis (Not. 122-127, p. 58-63) e d’Anville (Mém. sur l’Egypte, p. 85-147-205).
  41. V. Abulfeda (Annal. moslem. p. 136-145), Eutichio (Annal., t. II, p. 392, vers. Pocock), Elmacin (Hist. Saracen., pag. 109-121), Abulfaragio (Hist. dynast. p. 134-140), Rodrigo di Toledo (Historia Arabum, c. 18 p. 33), Teofane (Chronographie, p. 356, 357, che parla degli Abbassidi sotto il nome di Χωρασανιται Corasaniti e di Μαυροφοροι Maurofori) e la Biblioth. d’Herbelot, articoli Ommiades, Abbassides, Maerwan, Ibrahim, Saffah, Abou-Moslem.
  42. Si consulti sulla rivoluzione di Spagna, Rodrigo di Toledo (c. 18, pag. 34, ec.), la Bibliotheca arabico-hispana (t. II, p. 30, 198) e Cardonne (Hist. de l’Afriq. et de l’Esp., (t. I, p. 180-197, 205, 272, 323, ec.).
  43. Io non confuterò gli errori bizzarri, nè le chimere di Sir William Temple (Oeuvres, v. III, p. 372-374, ediz. in 8), nè del Voltaire (Hist. générale, c. 28, tom. II, p. 124, 125, ediz. di Losanna) sulla division dell’impero de’ Saracini. Gli errori del Voltaire provengono da difetto di notizie e di riflessione: ma sir William fu tratto in inganno da un impostore Spagnuolo, che ha inventato una storia apocrifa del conquisto della Spagna fatto dagli Arabi.
  44. Il geografo d’Anville (l’Euphrate et le Tigre, p. 121-123) e il d’Herbelot (Biblioth. orient., p. 167, 168) bastano a dar a conoscere Bagdad. I nostri viaggiatori Pietro della Valle (t. I, p. 688-698), Tavernier (t. I, p. 230-238), Thevenot (part. II, p. 209-212), Otter (t. I, p. 162-168) e Niebuhr (Voyage en Arabie, t. II, p. 239-271) non la videro che decaduta; e per quanto io so, il geografo di Nubia (p. 204) e l’Ebreo Beniamino di Tudela (Itinerarium, p. 112-123, di Const. imperatore, apud Elzevir 1633), sono i soli scrittori che vedessero Bagdad sotto il regno degli Abbassidi.
  45. Si posero le fondamenta di Bagdad, A. E. 145 (A. D. 762). Mostasem, ultimo degli Abbassidi, venne in balìa dei Tartari che lo mandarono a morte, A. E. 656 (A. D. 1258, 20 febbraio).
  46. Medinat al Salem, Dar al Salam. Urbs pacis, o Ειρηνοπολις (Irenopoli), secondo la denominazione ancor più elegante che le han data i scrittori Bizantini. Non van d’accordo gli autori sull’etimologia di Bagdad; ma convengono che la prima sillaba in lingua persiana significa un giardino di Dad, eremita cristiano, la cella del quale era la sola abitazione che fosse nel sito ove si fabbricò la città.
  47. „Reliquit in aerario sexcenties millies mille stateres, et quater et vicies millies mille aureos aureos„. (Elmacin, Hist. Saracen. p. 126). Ho valutato le pezze d’oro per otto scellini, ed ho supposto che la proporzione dell’oro all’argento fosse di dodici a uno: ma non mi fo mallevadore delle quantità numeriche di Erpenio; i Latini non vagliono più dei Selvaggi nei calcoli aritmetici.
  48. D’Herbelot p. 638; Abulfeda (p. 154) „nivem Meccam apportavit, rem ibi aut nunquam aut rarissime visam„.
  49. Descrive Abulfeda, (pag. 184-189) la magnificenza e la liberalità d’Almamon. Il Milton fece allusione a quest’uso orientale: „Ovvero ai luoghi ove il pomposo oriente, colla opulenta sua mano, versa sopra i suoi re l’oro e le perle della Barbarìa„. Mi son valso dell’espression moderna di lotto per tradurre li missilia degli imperadori Romani, i quali davano un premio o un lotto a chi lo coglieva quando era gettato in mezzo alla folla.
  50. Quando Bell d’Antermony (Travels, vol. I; pag. 99) accompagnò l’ambasciador Russo all’udienza dello sventurato Shah Hussein di Persia, furon condotti nella sala dell’assemblea due leoni, per far mostra del potere che aveva il monarca sugli animali più feroci.
  51. Abulfeda, p. 237: d’Herbelot, p. 590. Quell’ambasciator Greco giunse a Bagdad A. D. 917. Nel passo d’Abulfeda mi son servito, con qualche cangiamento, della traduzione inglese del dotto ed amabile sig. Harris di Salisbury (Philological Enquiries, 364, 365).
  52. Cardonne, Hist. de l’Afr. et de l’Esp., t. I, p. 330-336. La descrizione e le incisioni dell’Alhambra, che si trovano nei Voyages de Swinburne (p. 171-188, in ingl.), danno una vera idea del gusto e dell’architettura degli Arabi.
  53. Cardonne, t. I, pag. 329, 330. I detrattori della vita umana citeranno in aria di trionfo questa confessione, i lamenti di Salomone sulle vanità del mondo (V. il poema verboso ma eloquente di Prior) e i dieci giorni felici dell’imperatore Seghed (Rambler, n. 204, 205); spesso sono smodati i loro disegni, e rare volte imparziale il lor modo di valutarli. Se mi è lecito parlar di me (il sol uomo di cui posso con certezza parlare), i miei giorni felici han superato di molto il piccol numero indicatoci dal Califfo di Spagna, e continuano tuttavia; nè temerò di aggiungere, che il piacere che io provo a comporre quest’Opera ha una gran parte nel conto de’ miei giorni beati.
  54. Il Gulistan (pag. 239) narra la conversazione di Maometto e d’un medico (Epistol. Renaudot, in Fabricio, Bibl. graec., t. I, p. 814). Il Profeta esso stesso era versato nell’arte della medicina, e il Gagnier (Vie de Mahomet, t. III, p. 394-405) ha fatto un estratto degli aforismi che sussistono sotto il suo nome.
  55. V. le particolarità di questa curiosa architettura delle api in Réaumur (Hist. des Insectes, t. V., Memoria 8). Questi esagoni son terminati da una piramide. Un matematico ha cercato quali angoli dei tre lati d’una tal piramide adempirebbero al dato fine colla minor quantità di materie possibili, ed ha determinato il più grande in 109°, 26’, e il più piccolo in 70°, 34’. La misura che seguono le api è di 109°, 28’, e di 70°, 32’. Questa perfetta concordanza non fa onore per altro al lavoro se non a danno dell’artista, poichè le api non conoscono la geometria trascendente.
  56. Saied-Ebn-Ahmed, Cadì di Toledo, che morì A. E. 462, A. D. 1069, ha somministrato ad Abulfaragio (Dynast. p. 160) questo passo singolare, come pure il testo dello Specimen Historiae Arabum del Pocock. Alcuni aneddoti letterari sui filosofi e i medici ec., vissuti sotto ogni Califfo, formano il primario pregio delle dinastie di Abulfaragio.
  57. Questi aneddoti letterari sono tratti dalla Bibliotheca arabico-hispana (t. II, p. 38, 71, 201, 202), da Leone Affricano (De Arab. medicis et philosophis, in Fabrizio, Bibl. graec., t. XIII, p. 259-298, ed in particolare p. 274), da Renaudot (Hist. patriar. Alex. p. 274, 275, 536, 537), e dai Remarques chronologiques d’Abulfaragio.
  58. Il Catalogo arabo dell’Escuriale darà un’idea giusta della proporzion delle classi. Nella biblioteca del Cairo, i manoscritti d’astronomia e di medicina eran da seimila e cinquecento, con due bei globi, uno di bronzo e l’altro d’argento (Bibl. arab.-hispana, t. I, p. 417).
  59. Vi si è trovato, per esempio, il quinto, sesto e settimo libro (manca sempre l’ottavo) delle Sezioni coniche d’Apollonio Pergeo, stampati poi, nel 1661, secondo il manoscritto di Firenze (Fabr. Bibl. graec. t. II, p. 559). I dotti per altro possedevano già il quinto libro indovinato e rinnovato dal Viviani (V. il suo elogio nel Fontenelle, t. V, p. 59 ec.).
  60. Il Renaudot (Fabricio, Bibl. graec. t. I, p. 812, 816) discute in un modo veramente filosofico il pregio di queste versioni arabe piamente difese dal Casiri (Bibliot. arab.-hisp. t. I, p. 238-240). La maggior parte delle traduzioni di Platone, d’Aristotile, d’Ippocrate, di Galeno ec., sono attribuite a Honain, medico settario di Nestorio, che viveva in Corte dei Califfi di Bagdad, e che morì A.D. 876. Era Capo d’una scuola o d’un’officina di traduttori, e van sotto il suo nome le Opere dei suoi discepoli. V. Abulfaragio (Dynast., p. 88, 113, 171-174, et apud Assemani, Bibl. orient., t. II, p. 438), d’Herbelot (Bibl. orient., p. 456), Assemani (Bibl. orient., t. III, pag. 164) e Casiri (Bibl. arabico-hispana t. I, p. 238 ec., 251, 286-290; 302-304, ec.).
  61. V. Il Moshemio, Instit. Hist. eccles., p. 181, 214, 236, 257, 315, 338, 396, 438 ec.
  62. Il Commentario più elegante su le categorie o su i predicamenti d’Aristotile è quello che si trova nei Philosophical arrangements del signor Giacomo Harris (Londra 1775 in 8), il quale si ingegna di ravvivare lo studio delle lettere e della filosofia dei Greci.
  63. Abulfaragio, Dynast., p. 81-222; Bibl. arab.-hispan., t. I, p. 370, 371. „In quem„ (dice il Primate de’ Giacobiti) „si immiserit se lector, oceanum hoc in genere (algebrae) inveniet„. Non si sa in qual tempo abbia vissuto Diofanto d’Alessandria. Ma sussistono ancora i suoi sei libri, e sono stati spiegati dal Greco Planude, e dal Francese Meziriac (Fabricio, Bibl. graec., t. IV, p. 12-15).
  64. Abulfeda (Annal. moslem., p. 210, 211, vers. Reiske) descrive questa operazione dietro la scorta di Ibn-Challecan e de’ migliori storici. Questo grado misurato esattamente era di dugentomila cubiti regi, ossia assemiti; misura che gli Arabi avean tolta dai libri divini, e dagli usi della Palestina e dell’Egitto; questo antico cubito si vede quattrocento volte sopra ogni lato della base della gran piramide, e indica, per quanto pare, le misure primitive e universali dell’oriente (V. la Metrologia del laborioso sig. Paucton, p. 101, 195).
  65. V. le Tavole astronomiche d’Ulugh-Begh, colla Prefazione del dottor Hyde, nel primo volume del suo Syntagma dissertationum, Oxford, 1767.
  66. Albumasar e i migliori astronomi arabi convenivano della verità dell’astrologia, e attigneano le loro predizioni più sicure, non già da Venere e Mercurio, ma da Giove e dal Sole. (Abulfaragio Dynast., p. 161-163). V. sullo stato e sui progressi dell’astronomia in Persia il Chardin (Voyages t. III, p. 162-283).
  67. Bibl. arabico-hispana, t. I, pag. 438. L’autore originale narra un’istoria faceta d’un pratico ignorante, ma senza malizia.
  68. Nel 956, Sancio il Grasso, re di Leone, fu guarito dai medici di Cordova. (Mariana, l. VIII, c. 7; t. I, p. 318).
  69. Muratori discute, da quell’uomo dotto e giudizioso che egli era, (Antiquit. Ital. med. aevi, t. III, p. 932-940) ciò che si riferisce alle scuole di Salerno, e alla introduzione della dottrina degli Arabi in Italia (V. pure Giannone, Istoria civile di Napoli t. II, p. 119-127).
  70. V. una bella descrizione dei progressi dell’anatomia, in Wotton, (Reflections on ancient and modern learning, p. 208-256). I begli ingegni hanno indegnamente assalita la sua riputazione nella controversia del Boyle e del Bentley.
  71. Bibliot. arab.-hispan. t. I, p. 275. Al-Beithar di Malaga, il più grande dei lor botanici, avea viaggiato in Affrica, nella Persi e nell’India.
  72. Il dottor Watson (Elements of chemistry, v. I, p. 17 ec.) consente che i progressi degli Arabi nella chimica erano veramente opera loro: egli cita non ostante la modesta confessione del celebre Geber, scrittore del nono secolo (d’Herbelot p. 387), il quale diceva d’aver ricavato dagli antichi Saggi la maggior parte delle sue cognizioni, forse sulla trasmutazione de’ metalli. Qual che fosse l’origine o la vastità del loro sapere, sembra che le arti della chimica e dell’alchimia fossero diffuse nell’Egitto tre secoli almeno prima di Maometto (Wotton’s Reflections, p. 121-133; Paw, Recherches sur les Egyptiens et sur les Chinois, t. I, p. 376-429).
  73. Abulfaragio (Dynast., p. 26-148) cita una version siriaca dei due poemi d’Omero, fatta da Teofilo, Maronita cristiano del monte Libano, il quale professava l’astronomia in Roha o Edessa sulla fine dell’ottavo secolo: la sua Opera sarebbe una curiosità letteraria. Ho letto in qualche luogo, ma senza crederlo, che Maometto II traducesse in lingua turca le Vite di Plutarco.
  74. Ho letto con gran piacere il commentario latino di Sir William Jones sulla poesia asiatica (Londra 1774 in 8), che quest’uomo maraviglioso, per la sua cognizione sulle lingue, pubblicò in gioventù. Oggi, che il suo gusto e il suo ingegno sono perfettamente maturi, scemerebbe per avventura un poco gli elogi così caldi ed anche esagerati, che egli dà alla letteratura degli orientali.
  75. È stato accusato Averroe, un de’ filosofi Arabi, d’avere sprezzate le religioni dei Giudei, dei Cristiani e dei Musulmani (V. il suo articolo nel Dizionario di Bayle): certamente ognuna di queste religioni direbbe che fu ragionevole il suo disprezzo, eccetto che nella parte che la concerne.
  76. D’Herbelot, Bibl. orient., p. 546.
  77. Θεοφιλος ατοπον κρινας ει την των οντων γνωσιν, δι ην το Ρωμαιων γενος θαυμαζεται εκδοτον ποιησει τοις εθνεσι, etc. Stimando Teofilo cosa inopportuna se comunicasse ai Gentili la cognizione degli Enti per cui sono ammirati i Romani, ec. Cedreno (p. 548) espone i vili motivi d’un imperatore, che nobilmente negò un matematico alle istanze ed alle offerte del Califfo Almamon. Questo sciocco scrupolo, quasi negli stessi termini, è riferito dal continuator di Teofane (Scriptores post Theophanem, p. 118).
  78. V. il regno e il carattere di Haroun-al-Rashid nella Bibliothèque orientale, p. 431-433, all’articolo di quel Califfo, e negli altri a cui ci rimanda il d’Herbelot: questo dotto compilatore ha trascelto con molto gusto nelle cronache d’oriente gli aneddoti istruttivi e dilettevoli.
  79. Quanto alla situazione di Racca, l’antico Niceforio, veggasi d’Anville (l’Euphrate et le Tigre, pag. 24-27). Nelle Notti Arabe si parla di Haroun-al-Rashid come se non uscisse mai di Bagdad. Egli rispettava la sede reale degli Abbassidi: ma i vizi degli abitanti l’aveano cacciato da quella città (Abulfeda, Annal. p. 167).
  80. Il signor di Tournefort nel suo dispendioso viaggio da Costantinopoli a Trebisonda, passò una notte in Eraclea, ossia Eregri. Esaminò la città nel suo stato d’allora, e ne raccolse le anticaglie. (Voyage du Levant, tom. III, lettera 16, p. 23-35). Abbiamo una storia particolare d’Eraclea nei frammenti di Mennone, conservati da Fozio.
  81. Teofane (p. 384, 385, 391, 396, 407, 408), Zonara (t. II, l. XV, p. 115-124) Cedreno, (p. 447, 478), Eutichio (Annal., t. II, p. 407 ), Elmacin Hist. Saracen., p. 136, 151-152), Abulfaragio (Dynast. p. 147, 151) ed Abulfeda (156, 166-168) parlano delle guerre di Haroun-al-Rashid contro l’impero Romano.
  82. Gli autori che mi hanno meglio istruito dello stato antico e moderno di Creta, sono Belon (Observ. ec. c. 3-20, Paris, 1555), Tournefort (Voyage du Levant, t. I, lettera II e III) e Meursio (Creta, nella raccolta delle sue Opere (t. III, p. 343-544). Benchè Creta sia chiamata da Omero Πιειρα opulenta, e da Dionigi λιπαρη τε και ευβοτος splendida ed ubertosa, non so credere che quell’isola montuosa superasse e nemmeno pareggiar potesse la fertilità della maggior parte dei paesi di Spagna.
  83. Le particolarità più autentiche e più minute si incontrano nei quattro libri della continuazion di Teofane, che Costantino Porfirogenito, fece da sè stesso, o che fu fatta per ordine suo, e pubblicata colla vita di suo padre Basilio il Macedone (Scriptores post Theophan., p. 1-162 da Francesco Combesis, Paris, 1685 ). Vi si narra la perdita di Creta e di Sicilia (l. II, p. 46-52 ). Vi si ponno aggiungere come testimonianze secondarie quelle di Giuseppe Genesio (l. II, pag. 21, Venezia, 1733), di Giorgio Cedrano (Compend., p. 506-508), e di Giovanni Scylitze Curopalata (apud Baronio, Annal. eccl., A. D. 827, n. 24 ec.). Ma i Greci moderni rubano sì palesemente, che fra loro si potrebbe citare una folla d’altri autori.
  84. Renaudot (Hist. patriar. Alex., p. 251-256, 268, 270) ha descritto i guasti commessi in Egitto dagli Arabi dell’Andalusia; ma si dimenticò di congiungerli al conquisto di Creta.
  85. Δηλοι (dice il continuator di Teofane, l. II, p. 51) δε ταυτα σαφεστατα και πλατικωτερον η τοτε γραφαισα Οεογνωστω και εις χειρας ελθουσα ημων, tai cose sono manifestissime e più divulgate di quelle scritte allora da Teognosto e venute nelle nostre mani. Questa storia della perdita della Sicilia non si ha più. Muratori (Ann. d’Ital. t. VII, p. 7-19-21 ec.) ha soggiunto alcune particolarità tratte dalle cronache d’Italia.
  86. La pomposa e interessante tragedia del Tancredi converrebbe piuttosto a quest’epoca, che all’anno 1005 scelto dal Voltaire. Io farò un lieve rimprovero all’autore per avere dato a Greci, schiavi dell’imperator di Bisanzio, il coraggio della cavalleria moderna e delle antiche repubbliche.
  87. Il Pagi ha riferito e rischiarato il racconto o le lamentazioni di Teodosio (Critica, t. III, p. 619 ec.). Costantino Porfirogenito (in vit. Basil., c. 69, 70, pag. 190-192) fa menzione della perdita di Siracusa e del trionfo dei demonii.
  88. Si trovano parecchi estratti d’autori Arabi sulla conquista della Sicilia in Abulfeda (Annal. moslem., p. 271-273), e nel primo volume degli Script. rerum italic. del Muratori. Il signor de Guignes (Hist. des Huns, t. I, p. 363, 364) aggiunge alcuni fatti rilevanti.
  89. Uno dei più eminenti personaggi di Roma (Graziano, magister militum et romani palatii superista) fu accusato per aver detto: Quia Franci nihil nobis boni faciunt, neque adjutorium praebent, sed magis quae nostra sunt violenter tollunt; quare non advocamus Graecos et cum eis faedus pacis componentes Francorum regem et gentem de nostro regno et dominatione expellimus? (Anastasio in Leone IV, p. 199).
  90. Il Voltaire (Hist. générale, t. II, c. 38, p. 124) pare molto colpito dal carattere di Leone IV. Ho usato le sue frasi generali, ma la veduta del Foro mi ha fornito un’immagine più esatta e più viva.
  91. De Guignes (Hist. génér. des Huns, t. I, pag. 363, 364), Cardonne (Hist. de l’Afrique et de l’Espagne, sotto il dominio degli Arabi, t. II, pag. 24, 25). Questi scrittori non van d’accordo intorno alla successione degli Aglabiti, nè a me basta l’animo di conciliarli.
  92. Beretti (Chronogr. Ital. med. aevi, p. 106-108) ci ha dato schiarimenti sulla città di Centumcellae, di Leopoli, della città Leonina e delle altre del ducato di Roma.
  93. Gli Arabi e i Greci tacciono egualmente in proposito dell’invasion di Roma, fatta dagli Affricani. Le cronache latine non ci istruiscono abbastanza (V. gli Annali del Baronio e del Pagi). Anastasio, bibliotecario della chiesa Romana, istorico contemporaneo, è la guida autentica che abbiam seguìta per la storia de’ Papi del nono secolo. La sua vita di Leon IV contiene ventiquattro pagine (p. 175-199 ediz. di Parigi): e se comprende in gran parte minuzie superstiziose, dobbiamo biasimare e lodare ad un tempo il suo eroe, perchè più spesso è stato in chiesa che al campo.
  94. Questo numero d’otto fu applicato a diverse circostanze della vita di Motassem. Era egli l’ottavo degli Abbassidi, e regnò otto anni, otto mesi, e otto giorni; lasciò morendo otto figli, otto figlie, otto mila schiavi, e otto milioni d’oro.
  95. Rare volte parlano i Geografi antichi di Amorio, e gli itinerari romani l’hanno dimenticato del tutto. Dopo il sesto secolo divenne sede episcopale, e poi metropoli della nuova Galazia (Carlo di Saint-Paul, Geograph. sacra, pag. 234). Questa città è risorta dalle sue rovine se si legge Amuria invece di Anguria, nel testo del geografo di Nubia (p. 236).
  96. Era chiamato in Oriente Δυστυχης sciagurato (Continuator Theoph. l. III, p. 84). Ma tanta era l’ignoranza dei popoli d’occidente, che non vergognarono i loro ambasciadori di parlare in un’arringa pubblica „de victoriis quas adversus exteras bellando gentes coelitus fuerat assecutus„ (Annal. Bertinian., apud Pagi, t. III, p. 720).
  97. Abulfaragio (Dynast., p. 167, 168) riferisce uno di quei cambi singolari che si fece sul ponte del Lamo in Cilicia, confine dei due imperi, lontano una giornata all’occidente di Tarso (d’Anville, Geogr. ancien., t. II, p. 91). Quattromila quattrocentosessanta Musulmani, ottocento donne e fanciulli, e cento alleati furono cambiati con egual numero di Greci. Passarono gli uni davanti agli altri a mezzo il ponte, e quando da ambe le parti furon giunti ai lor concittadini esclamarono Allah Acbar e Kyrie eleison! È probabile che allora si facesse il cambio del maggior numero de’ prigionieri di Amorio; ma lo stesso anno (A. E. 231) i più illustri di loro, indicati colle denominazioni di quarantadue martiri, furon decapitati per ordine del Califfo.
  98. Costantino Porfirogenita in vit. Basil. c. 61, pag. 186. È vero che que’ Saracini, come corsari e rinnegati, furono puniti con un rigor particolare.
  99. V. intorno a Teofilo, a Motassem, e alla guerra d’Amorio, il continuator di Teofane (l. III, p. 77-84), Genesio (l. III, pag. 24-34), Cedreno (pag. 528-532), Elmacin (Hist. Saracen., p. 180), Abulfaragio (Dyn., p. 165, 166), Abulfeda (Annal. mosl., p. 191), d’Herbelot (Bibl. orient., p. 639, 640).
  100. Il signor de Guignes, che talvolta trapassa la laguna che si trova tra l’istoria de’ Cinesi e quella de’ Musulmani, e che altrevolte vi cade entro, crede che quei Turchi siano gli Hoei-ke altramente detti i Kao-tche o i gran Carri; i quali erano disseminati dalla Cina e dalla Siberia sino ai dominii dei Califfi e dei Samanidi; e che formavano quindici orde o masnade ec. (Hist. des Huns, t. III, p. 1-33, 124-131).
  101. Egli cangiò l’antico nome di Sumera o Sumara in quello di Ser-men-rai, città che piace a prima vista (d’Herbelot, Bibl. orient., p. 808; d’Anville, l'Euphrate et le Tigre, p. 97, 98).
  102. Per darne un esempio, ecco i particolari della morte del Califfo Motaz: Correptum pedibus pertrahunt, et sudibus probe perculeant, et spoliatum laceris vestibus in sole collocant, prae cujus acerrimo aestu pedes alternos attollebat et demittebat. Adstantium aliquis misero colaphos continuo ingerebat, quos ille objectis manibus avertere studebat .... quo facto traditus tortori fuit, totoque triduo cibo potuque prohibitus .... suffocatus, etc. (Abulfeda, p. 206). egli dice parlando del Califfo Mohtadi: Cervices ipsi perpetuis ictibus contundebant, testiculosque pedibus conculcabant (p. 208).
  103. V. in quel che concerne ai regni di Motassem, Motewakkel, Mostanser, Mostain, Motaz, Mohtadi e Motamed, nella Biblioteca del d’Herbelot, e negli Annali di Elmacin, d’Abulfaragio, e di Abulfeda, che saran già divenuti famigliari al lettore.
  104. Si consulti sulla Setta dei Carmatii, Elmacin (Hist. Saracen., p. 219, 224, 229, 231, 238, 241, 243), Abulfaragio (Dynast., p. 179-182), Abulfeda (Annal. moslem., p. 218, 219, ec. 245, 265, 274), e d’Herbelot (Bibl. orient. p. 256-258, 635). Nelle materie teologiche e cronologiche io vi trovo molta contraddizione che sarebbe difficile e poco importante lo schiarire.
  105. Hyte, Syntagma Dissertat., t. II, p. 57, in Hist. Shahiludii.
  106. Si ponno esaminare le dinastie dell’impero Arabo, cercando negli annali d’Elmacin, di Abulfaragio e di Abulfeda le date che rispondono agli avvenimenti, e nel dizionario del d’Herbelot i nomi sotto i quali son distribuiti i vari articoli. Le Tavole del Signor De-Guignes (Hist. des Huns, t. I), presentano una cronologia generale dell’oriente, mista di alcuni aneddoti istorici; ma dal patriottismo fu tratto a confonder l’epoca e i luoghi.
  107. Gli Aglabiti e gli Edrisiti son l’argomento principale dell’opera del Signor di Cardonne (Hist. de l’Afrique et de l’Espagne sous la domination des Arabes, t. II, p. 1-63).
  108. Per non essere accusato d’errori, debbo notare le inesattezze del Signor de-Guignes (t. I, pag. 359) sugli Edrisiti. I. Non potea esser l’anno dell’Egira 173 quello in cui si fondarono la dinastia e la città di Fez, perchè l’una e l’altra furono stabilite da un figlio postumo d’un discendente d’Ali, che fuggì dalla Mecca l’anno 168; II. questo fondatore Edris, figlio di Edris, invece d’esser vissuto sino a cento vent’anni, e sino all’anno trecentotredici dell’Egira, come si afferma contra ogni verosimiglianza, morì (A. E. 214) nel fior dell’età; III. la dinastia finì l’anno dell’Egira 307, 23 anni più presto del tempo assegnato dall’istorico degli Uni. (V. gli esatti Annali d’Abulfeda, p. 158, 159, 185, 238).
  109. La storia originale e la version latina di Mirchond trattano della dinastia dei Thaeriti e dei Suffaridi, non che del principio di quella dei Samanidi; ma l’instancabile d’Herbelot ne avea già attinti i fatti più importanti.
  110. Il signor de-Guignes (Hist. des Huns, t. III, p. 124-154) ha esausto quanto si riferisce ai Tulonidi ed agli Iksiditi dell’Egitto, ed ha sparsa gran luce sulle notizie degli Hamadaniti e dei Carmatii.
  111. Hic est ultimus chalifah qui multum atque saepius pro concione perorarit .... fuit etiam ultimus qui otium cum eruditis et facetis hominibus fallere hilariterque agere soleret. Ultimus tandem chalifarum cui sumptus, stipendia, redditus, et thesauri, culinae, caeteraque omnis aulica pompa priorum chalifarum ad instar comparata fuerint. Videbimus enim paulo post quam indignis et servilibus ludibriis exagitati, quam ad humilem fortunam, ultimumque contemptum abjecti fuerint hi quondam potentissimi totius terrarum Orientalium orbis domini. (Abulfeda, Annal. moslem., p. 261.) Ho riferito questo passo per indicare la maniera e lo stile d’Abulfeda: ma le frasi latine son veramente del Reiske. Lo storico Arabo (p. 255, 257, 260, 261, 269. 283 ec.) mi ha somministrato i fatti più interessanti di questo paragrafo.
  112. In pari occasione, aveva mostrato il lor maestro più moderazione e tolleranza. Ahmed-Ebn-Hanbal, Capo d’una delle quattro Sette ortodosse, nacque a Bagdad A. E. 164, e vi morì A. E. 241. Contrastò ed ebbe a soffrire assai nella disputa concernente la creazione del Corano.
  113. All’impiego di Visir era stato sostituito quello di Emir-Al-Omra (imperator imperatorum), titolo dapprima istituito da Rhadi, che poi passò ai Bowidi ed ai Sel-jukidi, vectigalibus, et tributis et curiis per omnes regiones praefecit, jussitque in omnibus suggestis nominis ejus in concionibus mentionem fieri. (Abulfaragio Dynast., p. 199). Elmacin (p. 254, 255) ne fa pure menzione.
  114. Luitprando, il cui carattere irascibile era inasprito dalle disgrazie del suo stato, accenna soprannomi di rimprovero e di disprezzo che, più dei titoli vani immaginati dai Greci, convengono a Niceforo: Ecce venit stella matutina, surgit Eous, reverberat obtutu solis radios, pallida Saracenorum mors, Nicephorus μεδων regnante.
  115. Non ostante l’insinuazione di Zonara και ει μη se non ec. (t. II, l. XVI, p. 197), è cosa sicura che Niceforo Foca soggiogò totalmente e definitivamente Creta (Pagi Critica, t. III, p. 873-875; Meursio, Creta, l. III, c. 7; t. III, p. 464, 465).
  116. S’è scoperta nella Biblioteca degli Sforza una vita greca di S. Nicone Armeno, che il gesuita Sirmondo tradusse in latino per uso del cardinal Baronio. Questa leggenda contemporanea getta un po’ di chiarore sullo stato di Creta, e del Peloponneso nel decimo secolo. S. Nicone trovò l’isola nuovamente congiunta all’impero dei Greci: faedis detestandae Agarenorum superstitionis vestigiis adhuc plenam ac refertam .... Ma il missionario vittorioso, forse con qualche soccorso terrestre, ad baptismum omnes veraeque fidei disciplinam pepulit. Ecclesiis per totam insulam aedificatis, ec. (Annal. eccles., A. D. 961).
  117. Elmacin (Hist. Saracen., p. 278, 279). Luitprando era propenso a disprezzare la potenza de’ Greci, ma confessa che Niceforo marciò contro gli Assiri con un esercito d’ottantamila uomini.
  118. Ducenta fere millia hominum numerabat urbs (Abulfeda, Annal. moslem., p. 231) di Mopsuestia o Masifa, Mampsysta, Mansista, Mamista, come si chiama nella età di mezzo corrottamente, o forse più esattamente secondo Vesseling (Itiner. p. 580). Non posso credere a tanta popolazione di Mopsoesto pochi anni dopo la testimonianza dell’Imp. Leone ου γαρ πολυπληθια σρατου τοις Κιλιξι βαρβαροις εστιν poichè i Cilici barbari non hanno esercito numeroso (Tactica, c. 18, in Meursii Oper., t. VI, p. 817).
  119. I nomi corrotti di Emeta e di Myctarsin accennano nel testo di Leone Diacono le città di Amida e di Martiropoli (Miafarekin, V. Abulfeda, Géograph. p. 245, vers. Reiske). Leone parlando della prima dice, „urbs munita et illustris„, e della seconda, „clara atque conspicua opibusque et pecore, reliquis ejus, provinciis, urbibus, atque oppidis longe praestans„.
  120. „Ut et Ecbatana pergeret Agarenorumque regiam everteret.... aiunt enim urbium quae usquam sunt ac toto orba existunt felicissimam esse auroque ditissimam„. (Leone Diacono apud Pagi t. IV, p. 34). Questa magnifica descrizione non si confà che a Bagdad, e non è applicabile nè ad Hamadan (la vera Ecbatana, d’Anville, Géograph. ancienne, t. II, p. 237) nè a Tauris, che per lo più si confonde con questa città. Cicerone (pro lege Manilia, c. 4), dà il nome d’Ecbatana nello stesso senso indefinito alla residenza reale di Mitridate re di Ponto.
  121. V. gli Annali d’Elmacin, Abulfaragio, e Abulfeda dopo l’A. E. 351, sino all’A. E. 361, e i regni di Niceforo Foca e di Giovanni Zimiscè, nelle cronache di Zonara (t. II, l. XVI pag. 199; l. XVII, pag. 215) e Cedreno (Compend. p. 649-684). Le tante ommissioni che si trovano in questi autori sono supplite in parte dalla storia manoscritta di Leone Diacono, che il Pagi ottenne dai Benedettini, e che inserì quasi intieramente in una versione latina (Critica, t. III, p. 873, l. IV, p. 37).