Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano/51

CAPITOLO LI

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CAPITOLO LI.

Conquisto della Persia, della Siria, dell'Egitto, dell'Affrica e della Spagna, fatto dagli Arabi o Saraceni. Impero de' Califfi o successori di Maometto. Situazione de' Cristiani sotto quel governo.

[A. D. 632] La rivoluzione dell’Arabia non avea cangiata l’indole dagli Arabi; la morte di Maometto fu segnale d’independenza, e sin dalle fondamenta crollò l’edifizio ancora mal fermo del suo potere e della sua religione. Solo un drappello fedele e poco numeroso, formato da’ suoi primi discepoli, ne aveva intesa la voce eloquente, e divise con lui le angustie; con lui erano scampati dalla persecuzion della Mecca, o raccolti i fuggiaschi entro le mura di Medina. Que’ milioni di uomini, che poi salutarono Maometto per loro Profeta e re, erano stati domati dalle sue armi, o sedotti dai suoi trionfi. L’idea semplicissima d’un solo Dio inaccessibile a’ sensi, difficilmente entrava nel capo dei politeisti, e que’ Cristiani o Giudei che s’erano dati all’Islamismo sdegnavano il giogo d’un legislatore mortale già lor contemporaneo. Le abitudini di fede e di ubbidienza non erano ben radicate, e fra i nuovi convertiti buon numero si dolea d’aver posposta la veneranda antichità della legge di Mosè, i riti e misteri della Chiesa cattolica, o gl’idoli, i sagrifici e le feste piacevoli del paganesimo professato dagli antenati. Non ancora un sistema d’unione e di subordinazione aveva acquetato il tumulto degli interessi e le liti ereditarie delle tribù Arabe; i Barbari non pote[p. 153 modifica]vano sottomettersi alle leggi, anche più dolci e salutari, quando comprimevano le passioni loro o ne violavano i costumi. S’erano essi acconciati con repugnanza ai comandamenti religiosi del Corano, all’astinenza totale dal vino, al digiuno del Ramadan, e alle cinque orazioni quotidiane; e sotto altro nome non ravvisavano, nelle elemosine e nelle decime che si esigevano per l’erario di Medina, altro che un tributo perpetuo e ignominioso. L’esempio di Maometto avea destato uno spirito di fanatismo, e d’impostura, e lui vivente aveano molti de’ suoi rivali osato imitarne il costume e affrontarne l’autorità. Il primo Califfo, co’ suoi fuorusciti ed ausiliari, si vide ristretto alle città della Mecca, di Medina e di Tayef, e sembra che i Coreishiti avrebbero rimessi gl’idoli della Caaba, s’egli non ne avesse affrenata la leggerezza con questo rimbrotto: „Uomini della Mecca, diss’egli, sarete voi stati gli ultimi ad abbracciare l’Islamismo, e i primi ad abbandonarlo?„ Dopo aver esortati i Musulmani a confidare nell’aiuto di Dio e del suo appostolo, risolvette Abubeker di prevenire con un vigoroso assalto la congiunzion de’ ribelli. Ritirò le mogli e i figli nelle caverne e ne’ monti: sotto undici bandiere marciarono i suoi guerrieri, sparsero il terrore delle lor armi per ogni dove, e da questa comparsa di nerbo militare ravvivò e rassodò la fedeltà de’ credenti. Le tribù incostanti si sottomisero con umile pentimento all’orazione, al digiuno, all’elemosina, e dopo qualche buon esito, e qualche esempio di severità, i più arditi appostati si prostrarono davanti la spada del Signore e quella di Caled. Nella fertile provincia di Yemanah1, tra il mar Rosso e [p. 154 modifica]il golfo Persico, in una città inferiore a Medina, un Capo possente, di nome Moseilama, s’era vantato Profeta, e la tribù d’Hanifa aveva ascoltato le sue prediche. Queste attirarono presso lui una profetessa: non si degnarono que’ due favoriti del cielo d’osservare la decenza delle parole e delle azioni, e passarono più giorni in un commercio mistico ed amoroso2. Una sentenza oscura del Corano di Moseilama è giunta sino a noi3, e nell’orgoglio inspiratogli dalla sua missione, degnò proporre a Maometto la divisione della Terra. Questi gli rispose con dispregio; ma i rapidi avanzamenti di Moseilama diedero grande apprensione al successor dell’appostolo. Quarantamila Musulmani raccolti sotto il vessillo di Caled esposero la loro religione alla sorte d’una battaglia decisiva. In un primo fatto d’armi furono respinti colla perdita di mille e dugento uomini; ma mercè dell’abilità e perseveranza del lor generale finirono col vincere, vendicarono la prima sconfitta col sangue di diecimila infedeli, e uno schiavo Etiope [p. 155 modifica]trafisse Moseilama colla chiaverina che ferì mortalmente lo zio di Maometto. Non andò guari che il vigore e la disciplina della monarchia nascente conculcarono i ribelli dell’Arabia, privi di Capi, o d’una causa comune che raccozzar li potesse, e così tutta la nazione s’attaccò di bel nuovo, e più saldamente che mai, alla religione del Corano. Prestamente dall’ambizione de’ Califfi fu aperto il campo da esercitare il turbolento valore de’ Saraceni; tutto il grosso delle milizie maomettane si raunò in una guerra santa, i cui successi ed ostacoli ne crebbero del pari l’entusiasmo e il coraggio.

Vedendo i rapidi conquisti de’ Saraceni, s’inclina a credere che i primi Califfi comandarono personalmente gli eserciti de’ fedeli, e cercarono nelle prime file la corona del martirio. Abubeker4, Omar5 e Othmano6 dimostrato avevano in fatti un gran coraggio nel tempo della persecuzione e delle guerre del Profeta, e dalla sicurezza che avevano essi d’ottenere il paradiso avranno imparato a non curare i piaceri, e i pericoli di questo Mondo. Ma erano vecchi, o avanzati in età, quando ascesero il trono, e s’avvisarono che le cure interne della religione e della giustizia fossero i primi doveri d’un sovrano. Trat[p. 156 modifica]tone l’assedio di Gerusalemme, fatto in persona da Omar, i lor più lunghi viaggi furono le frequenti peregrinazioni che facevano da Medina alla Mecca. Le notizie di vittoria li trovavano a pregare, o a predicare tranquillamente dinanzi alla tomba del Profeta. L’austerità e frugalità della vita erano effetto sia di virtù, sia d’abitudine, e la lor orgogliosa semplicità insultava la vana magnificenza de’ re della Terra. Quando Abubeker cominciò ad esercitare la carica di Califfo, ingiunse ad Ayesha sua figlia di fare un inventario esatto del suo patrimonio, acciocchè si vedesse se diverrebbe ricco o povero al servigio dello Stato. Credè di poter chiedere per suo stipendio tre pezze d’oro, e il conveniente mantenimento d’un cammello e d’uno schiavo nero. Nel venerdì d’ogni settimana soleva distribuire quanto gli rimaneva d’averi propri, e del danaro pubblico, primamente a’ Musulmani più virtuosi, poscia a’ più indigenti. Alla sua morte, un vestito grossolano e cinque pezze d’oro componevano tutta la sua ricchezza: furono rimesse al suo successore che fu tanto modesto da dire sospirando, lui disperare di assomigliarsi mai ad un modello sì mirabile. Nondimeno non furono minori delle virtù d’Abubeker l’astinenza e l’umiltà d’Omar: cibavasi di pane d’orzo e di datteri, non beveva che acqua, predicava vestito d’un abito forato in dodici luoghi; e un satrapo di Persia, che venne a fare omaggio al vincitore, lo trovò addormentato fra i mendichi su i gradini della moschea di Medina. L’economia è la fonte della liberalità, e l’aumento delle rendite permise ad Omar di fondare premii durevoli [p. 157 modifica]per li servigi passati e presenti. Senza curarsi del suo personale mantenimento, assegnò ad Abbas, zio del Profeta, un’entrata di venticinquemila dramme o pezze d’argento; fu la maggiore di tutte; se ne promisero cinquemila ogni anno a ciascheduno de’ vecchi guerrieri ch’erano stati alla battaglia di Beder, e l’ultimo compagno di Maometto fu ricompensato con un trattamento annuo di tremila dramme. Mille ne decretò a’ veterani che aveano combattuto contro i Greci e i Persiani nella prima battaglia, e regolò gli altri soldi in ragion decrescente sino a cinquanta pezze, secondo il merito e l’anzianità dei soldati. Sotto il regno di lui e del suo predecessore, i vincitori dell’oriente si manifestarono zelanti servi di Dio e della nazione: erano consacrati i danari pubblici alle spese della pace e della guerra. Saggiamente accoppiate, la giustizia e la generosità serbarono la disciplina de’ Saraceni, e, per una sorte assai rara, collegarono la speditezza e l’energia alle massime d’eguaglianza e di frugalità d’un governo repubblicano. Il coraggio eroico d’Alì7, la saviezza specchiata di Moawiyah8, accesero l’emulazione ne’ sudditi, e i saggi, che s’erano istruiti nelle discordie civili, furono più profittevolmente impiegati a propagare la fede e l’impero del Profeta. Ma ben tosto datisi all’inerzia e alle vanità della reggia di Damasco, i [p. 158 modifica]principi della casa d’Ommiyah parvero ad un tempo scemi de’ talenti politici, e delle virtù esemplari9. Nondimeno si recavano di continuo al piè del loro trono le spoglie di nazioni ad essi sconosciute, e debbe attribuirsi l’incremento costante della potenza degli Arabi piuttosto al coraggio della nazione, che al merito de’ suoi Capi. Certamente convien valutare per molto ne’ trionfi loro la debolezza de’ nemici. Era nato per avventura Maometto ne’ giorni in cui estremo era il digradamento e la confusione fra i Persiani, i Romani, e i Barbari dell’Europa. L’impero di Traiano, o quello pure di Costantino o di Carlomagno, avrebbe respinto que’ Saraceni seminudi, e il torrente del fanatismo si sarebbe disperso e dileguato nelle arene deserte dell’Arabia.

Al tempo delle vittorie della repubblica Romana, avea sempre avuto cura il senato di unire in una sola guerra tutte le sue forze e i suoi artificii politici, e di abbattere totalmente il primo nemico prima di provocare un secondo. Fosse magnanimità o entusiasmo, sdegnarono i Califfi arabi queste massime timorose: con ugual vigore, e con pari fortuna invasero i demani de’ successori d’Augusto, non che quelli de’ successori d’Artaserse, e le due monarchie rivali divennero in un punto stesso la preda d’un nemico, che da tanto tempo solevano dispregiare. In tutti i dieci anni del regno d’Omar sottomisero i [p. 159 modifica]Saraceni trentaseimila città o castella: demolirono quattromila chiese o templi di miscredenti, ed alzarono mille e quattrocento moschee per l’esercizio del culto di Maometto. Un secolo dopo la sua fuga dalla Mecca, i suoi successori davano la legge dalle frontiere dell’India all’oceano Atlantico; 1. alla Persia, 2. alla Sorìa, 3. all’Egitto, 4. all’Affrica, 5. alla Spagna. Io m’atterrò a questa partizion generale nel racconto di tanti memorandi conquisti: narrerò brevemente quelli che si riferiscono alle contrade più remote, e meno ragguardevoli dell’oriente: sarò più prolisso per quelle che erano porzioni dell’impero Romano. Ma per ottenere qualche scusa all’imperfezione di questa parte della mia Opera, deggio a buon dritto lagnarmi della cecità, e della insufficienza delle guide, a cui sono stato ridotto. I Greci, tanto verbosi nella controversia, pochissima cura posero nel celebrare i trionfi de’ lor nemici10. Il primo secolo dell’Islamismo fu epoca d’ignoranza, e allora quando sulla fine di quel secolo furono scritti i primi annali de’ Musulmani, non si fece in gran [p. 160 modifica]parte che seguire la tradizione11. Fra le tante opere della letteratura Araba e della Persiana12, i nostri interpreti scelsero gli abbozzi imperfetti che riguardavano un periodo più moderno13. Gli Asiatici sono [p. 161 modifica]ignari dell’arte e dello spirito della Storia14; ignorano le leggi della critica: quelle tra le lor opere che ebbero maggior fama, manchevoli d’ogni filosofia e del menomo sentimento di libertà, ponno compararsi alle cronache pubblicate a que’ giorni da’ Monaci. La Biblioteca Orientale, di cui andiam debitori ad un Francese15, istruirebbe il più dotto Muftì dell’oriente, e forse gli Arabi non [p. 162 modifica]bero in un solo de’ loro storici un racconto delle glorie patrie più chiaro ed esteso di quello, che siamo per esporre.

[A. D. 632] I. Nell’anno primo del regno del primo Califfo, Caled, suo Luogotenente, Spada di Dio, e flagello degl’infedeli, s’inoltrò sino alle sponde dell’Eufrate, e sommise le città d’Anbar e di Hira. Una tribù d’Arabi sedentari s’era collocata su la frontiera del deserto, all’occidente delle ruine di Babilonia, e in Hira risedeva una stirpe di re che abbracciato avevano il cristianesimo, e che da più di sei secoli regnavano all’ombra del trono della Persia16. Da Caled fu sconfitto e morto l’ultimo de’ principi Mondari; il suo figlio prigioniero fu mandato a Medina; i suoi Nobili piegarono le ginocchia davanti al successor di Maometto: fu sedotto il popolo dall’esempio e dalle vittorie de’ suoi concittadini, e per primo frutto di sue conquiste ricevette il Califfo un annuo tributo di settantamila monete di oro. Sbalorditi rimasero i vincitori, e i loro storici ancora, da questo primo lampo di futura grandezza. „Nell’anno stesso, scrive Elmacin, diede Caled molte grandi battaglie: fece immensa strage d’infedeli, e un’innumerevole quantità di spoglie preziosissime cadde in balìa de’ vittoriosi Musulmani„17. Ma all’invitto [p. 163 modifica]Caled sorvenne ben presto l’impegno della guerra di Sorìa: capitani meno operosi e meno avveduti diressero l’invasione della frontiera di Persia. Respinti furono con gran perdita i Saraceni al passo dell’Eufrate: è bensì vero che punirono l’insolenza de’ Magi, ma fu poi ridotto il rimanente del loro esercito a vagare qua e là nel deserto di Babilonia.

[A. D. 636] Per lo sdegno e pel timore rimasero alquanto tempo sopite le intestine turbolenze de’ Persiani. Fu deposta Arzema loro regina per l’unanime voto dei sacerdoti e de’ nobili: era essa il sesto degli usurpatori surti e scomparsi nello spazio di tre o quattro anni, dopo la morte di Cosroe e la ritratta di Eraclio. Ne fu data la corona a Yezdegerd, nipote di Cosroe, e per la coincidenza d’un periodo astronomico18 è segnata in una guisa memorabile [p. 164 modifica]l'epoca della caduta totale della dinastia de’ Sassanii, e della religione di Zoroastro19. Non contava il nuovo re che quindici anni, e dalla gioventù ed inesperienza sua fu persuaso a sottrarsi dal rischio d’una battaglia. Lo stendardo regio fu consegnato nelle mani di Rustam, generale del suo esercito, il quale da trentamila soldati che lo formavano, s’aumentò, dicesi, a centomila, sudditi, o alleati della Persia. I Musulmani, che dapprima eran dodicimila, pe’ rinforzi ricevuti presentavano un corpo di trentamila combattenti; accampavano nelle pianure di Cadesia20, e quantunque avessero meno teste, aveano più soldati che l’esercito irregolare degl’infedeli. Farò qui una osservazione cui mi verrà il taglio di rinnovare frequentemente: l’assalto degli Arabi non era, come quello de’ Greci e de’ Romani, l’urto d’una linea ben compatta e stretta di fanteria: cavalieri e arcieri erano il maggior nerbo delle loro forze, e non raro addiveniva che una battaglia, spesso interrotta e spesso rinnovata con zuffe corpo a corpo, e con iscaramuccie di fuggiaschi, potevasi [p. 165 modifica]prolungare per più giorni senza che vi fosse alcuna decisione di vittoria: con ispeciali denominazioni si distinguono i vari periodi della battaglia di Cadesia. Il primo s’appella la giornata del soccorso, a cagione di mille Siri che giunsero in tempo a soccorrere gli Arabi: la giornata della scossa indica senza altro il trambusto d’uno degli eserciti, e forse di entrambi: il terzo, nel quale seguirono gli assalti di notte, ha ricevuto il bizzarro titolo di notte del ruggito, a motivo delle grida discordi de’ guerrieri, paragonate a’ suoni inarticolati de’ più feroci animali. La mattina susseguente decise la sorte della Persia, e una bufèra, sopraggiunta opportunamente, cacciò nembi di polvere negli occhi de’ miscredenti. Il fragore dell’armi pervenne sino alla tenda di Rustam, il quale, ben diverso da un antico eroe così denominato, stavasi coricato mollemente ad un’ombra tranquilla, fra le salmerie del suo campo, e il numeroso seguito di muli carichi d’oro e d’argento. Al rumor del pericolo, si slanciò precipitosamente il generale fuori di quel luogo di riposo, ma, fermatolo nel fuggire ed afferratolo per un piede, un Arabo gli troncò la testa, e la portò in cima alla sua lancia nel campo di battaglia, ove disseminò la strage e il terrore nelle file più folte dell’esercito persiano. Confessano i Saraceni la perdita di settemila e cinquecento guerrieri; e descrivono con ragione la battaglia di Cadesia come ostinata ed atroce: tali sono le loro frasi21. Nel conflitto fu dagli Arabi portato via lo sten[p. 166 modifica]dardo della monarchia, fatto del grembiale di cuoio d’un fabbro ferraio che s’era già sollevato al grado di liberatore della Persia; ma da una profusione di gemme era coperta e nascosta quasi del tutto questa insegna d’una eroica povertà22. Dopo questa vittoria la ricca provincia d’Irak, o dell’Assiria, si sottomise al Califfo, e per la fondazione di Bassora23, piazza che domina sempre il commercio e la navigazion de’ Persiani, furono prontamente assicurati i conquisti. Lungi ottanta miglia dal golfo, l’Eufrate e il Tigri si congiungono a formare una sola corrente ampia e retta, oggi chiamata giustamente la riviera degli Arabi. Bassora fu piantata su la sponda occidentale, a mezza strada fra la congiunzione e la foce de’ due celebri fiumi. Ottocento Musulmani formarono la prima colonia; ma per la felice sua situazione divenne ben presto una florida e popolosa capitale. L’aria, comecchè sia eccessivamente calda, n’è pura e salubre; di palme e di truppe di bestiami sono coperti i prati all’intorno, e una delle valli del circondario è noverata fra i quattro paradisi, o giardini dell’Asia. Sotto i primi Califfi, stendeasi la giurisdizione di questa colonia Araba sino alle pro[p. 167 modifica]vince meridionali della Persia; è stata consacrata la città dai sepolcri di parecchi compagni di Maometto, martiri dell’Islamismo; e non cessano i navili europei di frequentare il porto di Bassora, che apre una comoda stazione, e un passaggio al commercio dell’India.

Non ostante la battaglia perduta a Cadesia, poteva un paese, tagliato da fiumi e da canali, essere uno schermo insuperabile per la cavalleria de’ vincitori, e le mura di Ctesifone e di Modano, che avevano ributtato le macchine romane, non potevano essere abbattute da’ dardi Musulmani; se non che fu determinata la rovina de’ Persi dall’opinione che giunto fosse l’ultimo giorno per la religione e l’impero loro: i posti più forti furono, dalla vigliaccheria o dal tradimento di chi li guardava, abbandonati: e il re, seguitato da una porzione della famiglia e da’ suoi tesori, ricoverossi in Holwan, alle falde de’ colli della Media. Nel terzo mese dopo la battaglia, Said, luogotenente d’Omar, varcò senza ostacolo il Tigri: la capitale della Persia fu presa d’assalto, nè valse la disordinata resistenza popolare che a crescer l’impeto de’ colpi de’ Musulmani, che con religioso trasporto esclamavano: „Ecco il palazzo bianco di Cosroe; ecco adempiuta la promessa dell’appostolo di Dio„. Improvvisamente la miseria de’ masnadieri del deserto cangiossi in una ricchezza, che sorpassava ogni loro speranza, ogni idea. Ciascheduna camera di quel palazzo mostrava un nuovo tesoro, o celato con arte, o esposto alla vista con grande sfarzo: l’oro, l’argento, i mobili, le vestimenta preziose vinsero di gran lunga, a detta d’Abulfeda, tutti i calcoli dell’immaginazione, o la estensione de’ numeri; ed un [p. 168 modifica]altro storico porta la somma inaudita, e quasi infinita di quelle favolose ricchezze, a tremila migliaia di milioni di pezze d’oro24. Qualche piccolo fatto, ma che alletta la curiosità, dimostra chiaramente il contrapposto della ricchezza coll’ignoranza. Racchiudea la città gran provvigione di canfora25 venuta dalle lontane isole dell’oceano Indiano, la quale doveva essere mescolata alla cera che serve a illuminare i palazzi d’oriente. Non conoscendo nè la proprietà, nè il nome di quella gomma odorosa, i Saraceni la credettero sale, ne misero nel pane, e stupirono a sentirne l’amarezza. Un tappeto di seta, lungo sessanta cubiti e largo altrettanto, ornava un appartamento del palazzo, e rappresentava un paradiso, o giardino, con fiori, frutta, arboscelli ricamati in oro, o raffigurati con pietre preziose, e il tutto circondato da un contorno verde variato da più colori. Il generale Arabo, persuaso con ragione che il Califfo potrebbe mirar con piacere questo bel lavoro della na[p. 169 modifica]tura e dell’arte, indusse i soldati a rinunciare questa parte di bottino. Il rigido Omar, senza por mente a’ pregi dell’arte e della regia magnificenza che sfoggiavano in quella composizione, ne distribuì i frammenti a’ suoi fratelli di Medina. Il disegno fu distrutto; ma tanto era il valore della materia, che la sola porzione d’Alì fu venduta ventimila dramme. Fu arrestato un mulo che trasportava la tiara e la corazza, la cintura e i braccialetti di Cosroe, e questo bel trofeo venne offerto al comandante de’ fedeli: i più gravi de’ suoi compagni non contennero le risa guardando la barba bianca, lo braccia pelose e la goffa figura di quel vecchio soldato adorno delle spoglie del gran re26.

Dopo il saccheggio di Ctesifone, questa città ben presto abbandonata andò a poco a poco in rovina. Non piaceva a’ Saraceni nè l’aria, nè la situazione, e ad Omar fu consigliato da un suo generale di portar la sede del governo su la riva occidentale dell’Eufrate. Furono in ogni tempo e facili e pronte la fondazione e la rovina delle città d’Assiria. Manca il paese di legname da costruzione e di pietre: i più solidi edificii27 son di mattoni cotti al sole, e uniti con un cemento di bitume che si trova nel paese. Il nome di Cufa28 non può dare altra idea che d’una [p. 170 modifica]abitazione fabbricata di canne e di terra; ma una ricca, numerosa e brava colonia di veterani popolava allora quella nuova capitale, e la facea ragguardevole: i Califfi più saggi, per tema di provocare a sedizione centomila guerrieri, ne tolleravano le licenziose abitudini. „Abitanti di Cufa, diceva Alì nel domandarne il soccorso, vi siete sempre segnalati in valore. Avete vinto il re di Persia, e teneste sperperate le sue forze sino al giorno in cui vi insignoriste del suo retaggio„. Le battaglie di Jalula e di Nehavend poser termine a sì gran conquisto. Perduta la prima, Yezdegerd non si credette più sicuro in Holvan; andò a celare la sua vergogna e la disperazione nelle montagne del Farsistan, da cui Ciro era disceso co’ suoi prodi campioni, allora suoi eguali. Al coraggio del monarca sopravvisse quello della nazione; in mezzo alle colline meridionali di Ecbatana, ossia Hamadan, cento cinquantamila Persiani tentarono un terzo ed ultimo sforzo per difendere la religione e il paese nativo, e gli Arabi alla battaglia decisiva, accaduta in Nehavend, posero il nome di vittoria delle vittorie. Se è vero che il general Persiano fosse preso in mezzo ad una truppa di muli e di cammelli carichi di mele che lo avea fermato nella sua fuga, questo accidente, per quanto possa comparirci leggiero o singolare, giova ad indicarci quali inciampi29 dovesse soffrire nel suo cammino un esercito d’oriente dal lusso che l’accompagnava.

[A. D. 637-651] E Greci, e Latini parlarono molto imperfettamente [p. 171 modifica]della geografia della Persia; ma pare che le sue città più celebri sieno anteriori all’invasione degli Arabi. La conquista di Hamadan e di Ispahan, di Casvino, di Tauride e di Rei, venne avvicinando a poco a poco questi vincitori alle rive del mar Caspio, e gli oratori della Mecca ebbero campo di celebrare i trionfi e il valor de’ fedeli, i quali avean già perduta di vista l’Orsa settentrionale, e trapassato quasi i limiti del Mondo abitato30. Volgendosi di poi alla parte dell’occidente dell’impero Romano, varcarono di nuovo il Tigri sul ponte di Mosul, e in mezzo alle province prigioniere dell’Armenia e della Mesopotamia abbracciarono i loro concittadini dell’esercito di Sorìa, i quali avevan pure ottenuto grandi vittorie. Dal palagio di Modano si incamminarono di bel nuovo verso oriente, e non furono nè meno rapidi, nè meno estesi i loro progressi. Si inoltrarono lungo il Tigri, e il golfo di Persia, e, valicate le gole delle montagne, sboccarono nella vallata di Estachar, ossia Persepoli, e profanarono l’ultimo santuario dell’impero dei Magi. Credè il nipote di Cosroe d’essere sorpreso fra le colonne che crollavano e fra le statue muti[p. 172 modifica]late, miseri emblemi della passata e della presente fortuna persiana31; attraversò fuggendo colla massima celerità il deserto di Kirman; implorò l’aiuto dei bravi Segestani, e andò in traccia d’un oscuro ricovero sulla frontiera dell’impero dei Turchi e di quel dei Cinesi: ma un esercito vittorioso non teme fatica: divisero gli Arabi le forze loro per inseguir da ogni lato il timoroso nemico, e dal Califfo Othmano fu promesso il governo di Korasan al primo generale, che penetrato avrebbe in quella contrada vasta e popolosa, già regno un tempo della Battriana. Fu accettata la condizione, e meritato il premio: fu piantato lo stendardo di Maometto sulle mura di Herat, Merou, e Balch, e il general vincitore non si riposò se non dopo che i suoi cavalli, fumanti di sudore, si furono dissetati nelle correnti dell’Oxo. Nella generale anarchia i governatori delle città e delle castella, divenuti independenti, ottennero capitolazioni speciali; dalla stima, dalla prudenza o dalla pietà dei vincitori ne furon dettati gli articoli, e secondo la rispettiva professione di fede, il vinto rimase loro concittadino o loro schiavo. Harmozan, principe di Ahvah e di Susa, dopo un’ardita difesa fu astretto a cedere la sua persona e i suoi Stati in balìa del Califfo. Il loro abboccamento darà a conoscere i costumi degli Arabi. Quando questo voluttuoso Barbaro fu d’avanti ad Omar, ordinò il Califfo che [p. 173 modifica]fosse spogliato delle sue vesti di seta ricamate in oro, e della tiara tempestata di rubini e di smeraldi: „Adesso, disse il vincitore al suo prigioniero, riconoscete voi il decreto di Dio, e il diverso trattamento che si compete alla sommessione ed alla infedeltà?„ Oimè! rispose Harmozan, non me ne accorgo che troppo. Nei giorni della nostra comune ignoranza noi combattevamo con armi terrene, e la mia nazione ebbe vittoria. Allora Iddio stava neutrale; dopo che ha sposata la vostra causa, egli ha rovesciato il regno, e la religione nostra„. Stanco di questo noioso dialogo si lagnò il Persiano d’una gran sete che soffriva; ma diede a divedere il timore d’essere ucciso nell’atto di bere. „Non abbiate timore, gli disse il Califfo, la vostra vita è sicura sinchè abbiate bevuto di quell’acqua„. L’astuto Satrapo gli rendè grazie per quella promessa, e nel punto stesso gettò a terra il vaso dell’acqua. Voleva Omar castigare la sua superchieria, ma gli ricordarono i Musulmani la santità del giuramento, e quindi, con la sua pronta conversione alla religione di Maometto, acquistò Harmozan non solamente un diritto al perdono, ma ben anche un assegno di duemila pezze d’oro. Per regolare la buona amministrazione della Persia si fece un’enumerazione del popolo, del bestiame e dei frutti della terra32. Se questo monumento, che ci prova la vi[p. 174 modifica]gilanza dei Califfi, fosse giunto a noi sarebbe utile ai filosofi di tutti i secoli33.

[A. D. 651] Yezdegerd s’era trasferito fuggendo oltre l’Oxo, e sino a Jaxarte, due fiumi34 notissimi agli antichi e ai moderni, e che scendono dalle montagne dell’India alla volta del mar Caspio; egli fu con molta ospitalità accolto da Tarkhan, principe della Fargana35, provincia fertile alle sponde dell’Jaxarte. Tanto il re di Samarcanda che le geldre turche della Sogdiana e della Scizia furono commosse dalle querele e dalle promesse del monarca deposto; e lo sventurato principe implorò l’amicizia assai più ferma e potente dell’imperator della Cina36. Il virtuoso Tait[p. 175 modifica]song37, primo re della dinastia dei Tang, può giustamente essere paragonato agli Antonini; viveva il suo popolo nella pace e nella prosperità, e quarantaquattro tribù di Tartari obbedivano alle sue leggi. Cashgar e Khoten, guarnigioni delle sue frontiere, mantenevano comunicazioni frequenti con le popolazioni che abitavano le sponde dell’Jaxarte e dell’Oxo. Da una colonia di Persiani, stanziatasi recentemente nella Cina, era stata colà introdotta la astronomia dei Magi, e potè Taitsong essere sbigottito dai rapidi progressi, e dalla pericolosa vicinanza degli Arabi. L’autorevole credito, e forse i soccorsi del governo Cinese ravvivarono lo speranze di Yezdegerd, non che lo zelo degli adoratori del fuoco, ed egli s’avanzò con un esercito di Turchi a riconquistare il reame de’ suoi padri. Senza sguainare la spada godettero i fortunati Musulmani lo spettacolo della sua sconfitta e morte. Il nipote di Cosroe fu tradito da un servo, insultato dai ribelli abitanti di Merou, e assalito, disfatto, inseguito dai Tartari che egli avea presi per alleati. Giunto alla sponda d’un fiume pregò un mugnaio perchè lo portasse nel suo battello all’altra riva, e gli offerse le anella e i braccialetti che aveva: inetto a comprendere, o a sentir le disgrazie d’un re, quel rozzo uomo gli rispose, che il suo mulino gli fruttava al giorno quattro dramme d’argento, e che non abbandonerebbe il suo guadagno se non nel caso di [p. 176 modifica]un sufficiente compenso. Questo momento di esitazione e di ritardo diede agio alla cavalleria turca per arrivare e trucidare l’ultimo re di Sassania38, che allora contava il decimonono anno dell’infelice suo regno. Firuz, suo figlio, umile cortigiano dell’imperator della Cina, accettò l’impiego di capitano delle sue guardie, e da una colonia di Persiani che si collocò nella provincia di Bucaria, vi fu conservata per lungo tempo la religione dei Magi. Suo nipote ereditò il titolo di re; ma dopo un debole, ed infruttuoso tentativo se ne ritornò nella Cina, e finì la vita nel palazzo di Sigan. Così s’estinse la linea mascolina de’ Sassanidi; ma le prigioniere del sangue reale di Persia furono date ai vincitori per ischiave, o spose, e da queste illustri madri fu nobilitato il sangue dei Califfi, e degli Imani39.

Distrutto il reame di Persia l’impero dei Saraceni non si disgiunse più da quello dei Turchi che per la riviera dell’Oxo. Non andò guari, che questo stretto confine fu tolto dal valore degli Arabi: a poco a poco i governatori del Korasan estesero le scorrerie, ed una vittoria valse loro la conquista di un coturno che [p. 177 modifica]una regina de’ Turchi lasciò cadere mentre precipitosamente fuggiva al di là delle colline di Bochara40; ma la conquista definitiva della Transoxiana41, come quella della Spagna, era serbata al regno glorioso dell’inerte Valid; ed il nome di Catibah, che significa un condottier di cammelli, indica la condizione e il merito d’un generale che soggiogò queste due regioni. Nel mentre che uno de’ suoi colleghi per la prima volta inalberava lo stendardo de’ Musulmani sulle rive dell’Indo, sottomettea Catibah alla religione del Profeta, e all’impero del Califfo le vaste contrade chiuse fra l’Oxo, l’Jaxarte, e il mar Caspio42. Gli infedeli furono obbligati ad un tributo di due mi[p. 178 modifica]lioni di pezze d’oro; furono arsi o messi in pezzi i lor idoli; il capitan Musulmano pronunciò un discorso nella nuova moschea di Carizma; dopo molti combattimenti le masnade turche furono respinte fino al deserto, e dagli imperatori della Cina si chiese l’amicizia degli Arabi vincitori. Debbesi attribuire in gran parte all’industria loro la fertilità di quella provincia, che era la Sogdiana degli antichi: ma dopo il regno dei re Macedoni si conosceano i vantaggi del suo territorio e del clima, e se ne traeva profitto. Prima dell’invasione dei Saraceni, Carizma, Bochara e Samarcanda erano città ricche e popolose, soggette ai pastori del settentrione. Le contornava un doppio muro, e un muro esterno chiudeva i campi e i giardini che al distretto appartenevano delle città. Dai negozianti della Sogdiana si fornivano tutte le merci che l’India e l’Europa abbisognavano, e dalle fabbriche di Samarcanda si è diffusa in occidente quell’arte inestimabile che trasforma i cenci di lino in carta43.

[A. D. 632] II. Abubeker dopo avere rimessa l’unità della fede e del governo, scrisse a tutte le tribù Arabe questa lettera: „Nel nome del Dio misericordioso, salute e prosperità al resto de’ veri credenti, e le benedizioni del cielo siano con voi. Io lodo il Dio onnipotente, [p. 179 modifica]e prego pel suo profeta Maometto. – Vi do avviso che io intendo di mandare i veri credenti nella Sorìa44 per toglierli dalle mani degli infedeli, ed ho voluto ammonirvi, che il combattere per la religione è un atto d’ubbidienza al volere di Dio.„ Ritornarono i suoi inviati annunciando il pio e guerriero ardore onde avevano infiammate tutte le province, e si videro giugnere successivamente al campo di Medina le intrepide turbe dei Saraceni, gloriosi di marciare alla guerra, che si lagnavano del calor della stagione, e della penuria di vittovaglie, e che con impazienti mormorazioni accusavano la lentezza e gli indugi del Califfo. Come tosto fu compiuto l’armamento, salì Abubeker sopra una collina, fece la rassegna degli uomini, dei cavalli, e delle armi, ed orò fervorosamente al cielo pel buon esito dell’impresa. Coll’esercito e a piedi camminò tutto il primo giorno; e quando i capitani per riverenza [p. 180 modifica]vollero smontar da cavallo egli ne dissipò gli scrupoli dicendo, avere ugual merito chi marciava a cavallo e chi a piedi in servigio della religione. Le sue istruzioni45 ai generali dell’armata di Sorìa furono dettate da quel fanatismo guerriero che corre a conquistare oggetti di mondana ambizione, affettando di non curarli. „Sovvengavi, disse loro il successor del Profeta, che siete sempre alla presenza di Dio, e alla vigilia della morte; pensando alla certezza del giudizio, e sperando il paradiso, guardatevi dalla ingiustizia e dall’oppressione. Deliberate co’ vostri fratelli, e ingegnatevi di mantenervi l’amore e la fiducia dei vostri soldati. Quando combatterete per la gloria di Dio operate da uomini, senza volger le spalle; ma la vostra vittoria non si lordi del sangue delle donne, nè dei fanciulli. Non distruggerete le palme, non arderete i campi di biada: non abbatterete mai gli alberi fruttiferi, nè farete danno ai bestiami, trattine quelli che ucciderete per cibarvi. Quando accorderete un trattato, o una capitolazione, siate solleciti d’adempierne gli articoli, e sinceri come la vostra parola. Nel procedere avanti incontrerete persone religiose che vivono in monasteri, e si elessero questa maniera di servire Iddio. Lasciatele in pace, non le uccidete, nè distruggete i loro monasteri46: troverete un altra classe d’uomini che ap[p. 181 modifica]partengono alla sinagoga di Satanasso, ed hanno la testa rasa in cerchio47: non mancate di fendere a questi il cranio e di negar loro quartiere, sempre che non vogliano divenir Maomettani o pagare il tributo„. I trattenimenti profani o frivoli, e quanto potesse ricordare antiche dispute, erano fra gli Arabi severamente vietati: sin nei tumulti de’ campi attendevano assiduamente agli esercizi di religione, consacrando gli intervalli di riposo alla preghiera, alla meditazione, e allo studio del Corano. L’abuso, od anche l’uso del vino era punito con ottanta bastonate sulla pianta de’ piedi, e nel fervore dei primi tempi si videro peccatori ignoti che rivelavano i propri falli, e ne chiedevano la punizione. Dopo qualche incertezza, il comando dell’esercito di Sorìa fu conferito ad Abu-Obeidah uno de’ fuggiaschi della Mecca, e de’ compagni di Maometto. Dalla somma dolcezza e bontà della sua indole veniva raddolcito il suo zelo e la sua divozione, senza che si indebolissero per questo; ma tosto che la guerra si faceva terribile, i soldati invocavano il genio superiore di Caled; e, comunque fosse la scelta del principe, era sempre nel fatto e nella opinione la Spada di Dio il primo generale dei [p. 182 modifica]Saraceni. Questo Caled sì rinomato ubbidiva per altro senza ripugnanza, ed era consultato senza gelosia; tale era la sommessione di questo guerriero, o piuttosto la consuetudine del suo tempo, che si dichiarava pronto a servire sotto la bandiera della fede, quand’anche fosse fra le mani d’un fanciullo, o di un nemico. Certo è che al Musulmano vittorioso erano promesse gloria e dovizie; ma si aveva avuto premura di ripetergli, che se cercava nei beni di questo Mondo i soli moventi delle sue azioni, quei soli ne sarebbero il guiderdone.

La vanità romana aveva onorato del nome di Arabia48, tra le quindici province della Sorìa, quella che racchiudeva i terreni coltivati all’oriente del Giordano, e parve che da una specie di diritto nazionale rimanessero giustificate le prime invasioni dei Saraceni. Si arricchiva questo Cantone coi frutti d’un traffico variato: era stata cura degli imperatori di coprirlo con una serie di Fortezze, ed era almeno sicuro da una sorpresa per la solidità delle mura di Gerasa, Filadelfia e Bosra49. Quest’ultima era la [p. 183 modifica]decima ottava stazione dopo Medina: ne conoscevan benissimo il cammino le carovane di Hejaz e dell’Irak, le quali ogni anno concorrevano a quel mercato, abbondantemente provveduto delle produzioni della provincia e del deserto. I timori perpetui che dava la vicinanza degli Arabi aveano avvezzato gli abitanti all’uso dell’armi, e dodicimila cavalieri potevano uscire delle porte di Bosra, nome che, nell’idioma siriaco, significava una torre munita. Quattromila Musulmani, incoraggiati dai primi trionfi contro le borgate aperte e le fanterie leggiere dei confini, osarono assaltare la Fortezza di Bosra dopo averle intimata la resa; ma furono oppressi dalla moltitudine dei Siri e sarebbero periti tutti se Caled non giungeva in aiuto con mille e cinquecento cavalli. Il quale biasimò quella impresa, rimise l’eguaglianza nel conflitto, liberò il suo amico, il venerando Serjabil, che indarno invocava l’unità di Dio e le promesse dell’appostolo. Dopo un breve riposo fecero i Musulmani le loro abluzioni con una sabbia la quale supplì alle veci dell’acqua50, e Caled recitò l’orazione della mattina prima che montassero a cavallo. Il popolo di Bosra, confidando nelle proprie forze, aperse le porte, ordinò l’esercito nella pianura, e giurò di morire per la difesa della religione. Ma una religion di pace non potea resistere a quel grido forsennato: „alla battaglia! alla bat[p. 184 modifica]taglia! Il paradiso! Il paradiso!„ che da ogni parte risonava fra le schiere de’ Saraceni: il trambusto della città, il suono delle campane51, le esclamazioni dei preti e dei monaci raddoppiavano lo spavento e la confusione dei Cristiani. Non perdettero gli Arabi che dugentotrenta uomini, e rimasero padroni del campo di battaglia: sia per invitare l’aiuto del cielo, o quel della terra, furon coperte le mura di Bosra con croci benedette, e con bandiere consacrate. Romano, governatore di questa città, aveva sin dai primi momenti condotto a sommessione gli abitanti; deposto dal popolo, che lo spregiava, ardeva di voglia di vendicarsi, e ne avea per disgrazia i modi. In un abboccamento notturno che egli ebbe cogli emissari di Caled gli avvisò d’un passaggio fatto sotto la sua casa, il quale si prolungava fuori della Piazza; il figlio del Califfo e cento volontari si fidarono della parola di Romano, e con una fortunata intrepidezza apersero una strada facile al rimanente de’ Saraceni. Poichè Caled ebbe determinato la servitù ed il tributo cui doveano soggiacer gli abitanti, Romano, apostata o convertito, si diè vanto nell’assemblea popolare di quel tradimento così meritorio agli occhi della nuova sua religione. „Io rinuncio, soggiunse egli, alla vostra società in que[p. 185 modifica]Mondo e nell’altro: rinnego colui che fu crocifisso e i suoi adoratori; eleggo Iddio per mio padrone, l’Islamismo per mia religione, la Mecca per mio tempio, i Musulmani per miei fratelli, e riconosco per mio profeta Maometto mandato sulla terra per guidarci alla via della salute, e per glorificare la vera religione a dispetto degli uomini che danno colleghi a Dio„.

[A. D. 633] Non era Bosra lontana da Damasco52 se non quattro giornate, e la brama di conquistarla animò gli Arabi ad assediare l’antica capitale della Sorìa53. Posero campo a qualche distanza dalle mura fra i boschetti e le fontane di quel dilettevole luogo54; [p. 186 modifica]e proposero a’ cittadini pieni di coraggio, e già rinforzati da cinquemila Greci, la solita alternativa di sommettersi al Maomettismo, al tributo, o alla guerra. Nella decadenza del pari che nell’infanzia dell’arte militare, anche i generali stessi hanno soventi volte offerto ed accettato disfide55. Più d’una lancia si ruppe nella pianura di Damasco, e alla prima sortita degli assediati segnalossi Caled col suo valor personale. Aveva già dopo una zuffa ostinata abbattuto e fatto prigioniero un dei campioni cristiani, che per la statura e l’intrepidezza era un avversario degno di lui; nel tempo stesso prese un cavallo fresco datogli dal governatore di Palmira, e corse frettoloso alla prima linea del suo esercito: „Riposatevi un poco, gli disse Derar suo amico, e permettetemi di fare le vostre veci: troppo vi siete stancato nella lotta contro quel cane di cristiano. — Oh Derar, risposegli l’istancabile Caled, ci riposeremo poi nel Mondo avvenire: chi fatica oggi si [p. 187 modifica]poserà domani„. Collo stesso ardore rispose alla disfida d’un altro campione; lo battè e lo rovesciò pure sulla polvere, e indispettito pel rifiuto che fecero questi due prigionieri d’abbandonare la propria religione ne fece gettar le teste nella città. Dal cattivo esito di molti fatti generali e particolari, furono obbligati gli abitanti di Damasco di tenersi coperti dietro le mura. Un messaggiero calato giù dai bastioni rientrò nella città colla promessa d’un potente rinforzo che sarebbe giunto fra poco. Ne furon ben presto avvisati gli Arabi dal tumulto di gioia suscitato da questa nuova. Dopo vari dibattimenti risolvettero i generali di levare, o piuttosto sospendere, l’assedio, sinchè non avessero data battaglia alle forze dell’imperatore. Volea Caled nella ritratta collocarsi al retroguardo, cioè nel sito più pericoloso; pur lo cedette modestamente ai desiderii d’Abu-Obeidah: ma nel punto del maggior rischio volò in aiuto del suo compagno fortemente stretto da seimila cavalieri, e da diecimila fanti sortiti dalla città, dei quali non rimase che un ben piccolo drappello che andasse a raccontare a Damasco le circostanze della loro sconfitta. Questa guerra diveniva assai rilevante per non esigere la riunione dei Saraceni dispersi sulle frontiere della Sorìa, e della Palestina: riferirò qui una delle lettere circolari inviate per questo oggetto ai vari governatori, ed era diretta ad Amrou, quegli che soggiogò di poi L’Egitto. „Nel nome di Dio misericordioso, Caled ad Amrou, salute e felicità. Sappi che i Musulmani tuoi fratelli han fatto disegno di trasferirsi in Aiznadin, ove sta un esercito di settantamila Greci, i quali intendono di marciar contro di noi per estinguere colla lor bocca la luce di [p. 188 modifica]Dio: ma Dio conserva la sua luce a dispetto degli infedeli56. Tosto che questa lettera sarà consegnata alle tue mani vieni seguitato da coloro che sono con te ad Aiznadin, ove, se così piace al massimo Iddio, ci troverai„. Furono con gioia eseguiti gli ordini di Caled, e i quarantacinquemila Musulmani, che arrivarono nello stesso giorno e nello stesso luogo, attribuirono al favor della Providenza gli effetti del loro zelo, e della loro prontezza.

Quattro anni dopo i trionfi della guerra persiana fu turbata la quiete d’Eraclio e dell’impero da un nuovo nemico, e da una religione della quale sentivano troppo i Cristiani d’oriente le conseguenze senza comprenderne chiaramente i dogmi. L’invasion della Sorìa, la perdita di Bosra, e l’assedio di Damasco risvegliarono l’imperatore nella sua reggia di Costantinopoli o di Antiochia. Settantamila soldati, tanto veterani che di nuova leva, si raccolsero in Hems, o Emesa, sotto gli ordini di Werdan57 suo generale, [p. 189 modifica]e queste squadre, quasi tutte composte di cavalleria, potevano egualmente denominarsi Sire, Greche o Romane; Sire a cagion del luogo d’onde eran tratte, o del teatro della guerra: Greche per la religione, o la lingua del sovrano: Romane per la nobile denominazione profanata mai sempre dai successori di Costantino. Werdan, montato sopra una mula bianca ornata di catene d’oro, e circondato da bandiere e stendardi, attraversava la pianura di Aiznadin, quando gli venne veduto un guerriero feroce e seminudo, che andava a scoprire il nemico, ed era Derar guidato dal fanatismo del secolo e della nazione, la quale ha forse troppo esagerato questo atto di valore. Odio del cristianesimo, avidità di saccheggio, non curanza di pericolo eran queste le passioni dominanti dell’ardito Saraceno; la vista della morte non indeboliva mai la sua fiducia religiosa, mai non ne turbava la tranquilla intrepidezza, e non potea nemmeno impedire le naturali e facete arguzie della sua giovialità marziale; col coraggio e colla prudenza riuscivano a bene le sue imprese più disperate. Dopo aver corsi innumerevoli rischi, dopo essere stato tre volte in balìa degli infedeli, superò tutti i pericoli, ed ebbe la sua parte nei guiderdoni della conquista di Sorìa. Nella qual occasione resistè, ritirandosi, all’assalto di trenta Romani che Werdan mandò contro lui, e dopo averne uccisi o scavalcati diecissette tornò sano e salvo al campo dei Musulmani, che ne applaudivano la prodezza. Avendolo il suo generale gentilmente rimproverato della temerità che aveva dimostrata, egli se ne scusò colla semplicità di un soldato. „Non io cominciai quell’assalto, egli disse; vennero essi per prendermi, ed io avea timore che [p. 190 modifica]mi vedesse Iddio volger le spalle agli infedeli. Ma daddovero io mi battea di buona voglia, e sicuramente Iddio è venuto in mio soccorso. Senza la tema di mancare ai vostri ordini non sarei tornato sì presto, e veggo di qua che coloro cadranno fra le nostre mani„. Un Greco, venerando per la canizie, si fece avanti in mezzo ai due eserciti, e offerse una pace che sarebbe liberalmente pagata: dichiarò che se i Saraceni si ritiravano avrebbe ogni soldato in dono un turbante, una veste, e una moneta d’oro, il generale dieci vesti e cento monete d’oro, e cento vesti e mille monete d’oro il Califfo. Un sogghigno disdegnoso fu la risposta di Caled. „Cani di cristiani sapete già quale alternativa vi si concede; sottomettetevi al Corano, pagate un tributo, o venite a combattere. Noi ci dilettiamo della guerra, e la preferiamo alla pace; abbiamo a schifo le vostre misere limosine, poichè presto saremo padroni delle vostre ricchezze, delle famiglie, e delle persone vostre„. Con tutte queste sembianze di dispregio, sentiva forte il pericolo in cui si trovavano i Musulmani. Quei sudditi del Califfo che erano stati in Persia, e veduto avevano gli eserciti di Cosroe, confessavano che mai non s’era presentato ai loro sguardi un esercito più formidabile. L’astuto Saraceno trasse dalla superiorità del nemico l’argomento da riscaldare di più il valor dei soldati. „Voi vedete a fronte, egli disse, tutte congiunte le forze de’ Romani. Non vi rimane speranza di camparne; ma potete in un sol giorno conquistare la Sorìa; l’evento dipende dalla disciplina e dalla pazienza vostra. Riservate il vostro valore a questa sera. Le vittorie del Profeta succedeano di sera„. Il nemico attaccò successivamente per due [p. 191 modifica]volte, e sostenne Caled con calma e fermezza i dardi romani, e le mormorazioni del suo esercito. Finalmente quando s’avvide essere omai esinanite le forze e i turcassi de’ nemici, diede il segnale della carica, e della vittoria. Gli avanzi dell’esercito imperiale fuggirono in Antiochia, in Cesarea, in Damasco, e si consolarono i Musulmani della perdita di quattrocentosettanta uomini, ripensando d’aver mandato all’inferno più di cinquantamila infedeli. Difficil cosa sarebbe valutare il bottino di quella giornata: si impadronirono i Saraceni di gran quantità di bandiere, di croci, di catene d’oro e d’argento, di pietre preziose e d’una immensa farragine di armature e di vestimenta di gran valore. Si differì la generale distribuzion della preda sino al tempo che sarebbe presa Damasco; ma di grande utilità furono le armi che divennero nuovi istrumenti di vittoria. Si spedirono al Califfo queste gloriose notizie, e le tribù Arabe, che apparivano le più insensibili o le più avverse alla mission di Maometto, domandarono con grande ardore la grazia di partecipare alle spoglie della Sorìa.

Il dolore, e la costernazione portarono tostamente a Damasco quei tristi ragguagli, e dall’alto delle mura miravano gli abitanti il ritorno degli eroi di Aiznadin. Amrou capitanando diecimila cavalieri formava la vanguardia. Le schiere dei Saraceni venivano l’una dopo l’altra con un apparato spaventevole, e nel retroguardo stava Caled preceduto dallo stendardo dell’Aquila Nera. Il quale aveva all’attività di Derar affidato l’impegno di fare la ronda intorno la città con duemila cavalieri, di sgombrar la pianura e di intercettare i soccorsi, o le lettere che si voles[p. 192 modifica]sero mandare alla Piazza. Gli altri capitani Arabi furono postati davanti le sette porte, e con nuovo vigore e nuova fiducia l’assedio ricominciò. Nelle fortunate ma semplici fazioni de’ Saraceni, raro è che si scontri l’arte, la fatica e le macchine di guerra de’ Greci e de’ Romani; colla persona de’ guerrieri anzichè colle trinciere investivano una città; si contentavano a respingere le sortite degli assediati, avventuravano una sorpresa o un assalto, ovvero aspettavano che la penuria, o qualche sedizione mettesse in lor balìa una Fortezza. Volea Damasco sottomettersi dopo la battaglia d’Aiznadin, considerandola come una sentenza definitiva pronunciata contro l’imperatore in vantaggio del Califfo; ma l’esempio e l’autorità di Tommaso, nobile greco, che in una condizione privata divenne illustre per la sua alleanza con Eraclio58, le rendettero il coraggio. Dal tumulto e dalla illuminazione notturna ebbero ad avvedersi gli assedianti che la città preparava una sortita per la punta del giorno, e benchè l’eroe cristiano fingesse di spregiare il fanatismo degli Arabi, ricorse anch’esso agli spedienti d’una superstizione consimile. Fece innalzare un gran Crocifisso davanti la porta principale alla vista de’ due eserciti, vennero in processione il Vescovo ed il Clero, e deposero il Nuovo Testamento ai piedi dell’immagine di Gesù Cristo; e le due parti furono secondo la rispettiva credenza edi[p. 193 modifica]ficate, o scandolezzate da una orazione diretta al figlio di Dio, perchè difendesse i suoi servi e la verità della sua legge. Furiosi furono i combattimenti, e la destrezza di Tommaso59, il più bravo degli arcieri, avea costata la vita ai Saraceni più prodi, quando una eroina valse finalmente a vendicarne la morte. La moglie di Aban, che in quella guerra santa accompagnava il marito, se lo strinse fra le braccia nel punto che spirava per le sue ferite, dicendogli: „Beato te, beato te caro amico, tu vai a raggiugnere il tuo padrone che ci aveva uniti, ed ora ci separa. Io vendicherò la tua morte, e farò quanto dipenderà da me per venire al luogo ove tu vai. D’ora innanzi nessun uomo più mi toccherà, perchè mi sono consacrata al servigio di Dio„. Senza mandar un gemito, senza versare una lagrima lavò il cadavere dello sposo, e colle usate cerimonie lo seppellì. Adempiuto che ella ebbe il tristo ufficio, vestì le armi del marito, a maneggiar le quali s’era nel suo paese avvezzata, e il suo intrepido braccio corse a cercare l’uccisore di Aban, che stava combattendo nel più forte della mischia. Col primo strale ferì la mano dell’alfiere di Tommaso, col secondo trapassò l’occhio al capitano, e i Cristiani sbigottiti non videro più nè il loro stendardo, nè il generale. Nulla di meno non volle il generoso difensor di Damasco ritrarsi al suo palazzo; gli fu curata la piaga sulle mura, continuò la zuffa fino a sera, e i Siri [p. 194 modifica]stettero sotto le armi sino a giorno. Nel più fitto della notte un colpo della campana grande diede il segnale; si spalancarono le porte, ognuna delle quali vomitò uno sciame di guerrieri che impetuosamente si scagliarono sul campo dei Saraceni addormentati. Caled fu il primo a pigliar l’armi, e corse con quattrocento cavalli al luogo del pericolo; a quest’uomo insensibile corsero le lagrime sul viso quando esclamò: „oh Dio, che non dormi mai, getta un’occhiata su tuoi servi, e non abbandonali in mano dei lor nemici„. La presenza della Spada di Dio arrestò il valore e il trionfo di Tommaso; non così tosto ebbero conosciuto i Musulmani il pericolo, che tornarono alle loro file, e caricarono ai fianchi ed a tergo gli assalitori. Dopo aver perduto soldati a migliaia, il general cristiano si ritirò con un sospiro di disperazione, e le macchine di guerra piantate sulle mura contennero i Saraceni dall’inseguire.

[A. D. 634] Dopo un assedio di settanta giorni60 erano già esauste le munizioni probabilmente come il coraggio [p. 195 modifica]degli abitanti di Damasco: sì che i più valorosi dei lor capitani piegarono alla legge della necessità. Nelle diverse occasioni di pace e di guerra, aveano imparato a temere la ferocia di Caled, e a rispettare l’affabilità e le virtù di Abu-Obeidah. Cento deputati del clero e del popolo a mezza notte giunsero nella tenda di quel rispettabile capitano, che urbanamente gli accolse, e li congedò; riportarono in città una convenzione scritta in cui, sulla fede del compagno del Profeta, erasi stipulato che cesserebbero le ostilità, che sarebbe libero agli abitanti di Damasco il ritirarsi con quanto potessero portare con sè delle loro robe; che i sudditi tributari del Califfo continuerebbero a possedere le terre, e le case loro, e che conserverebbero sette chiese. A queste condizioni vennero consegnati ad Abu-Obeidah gli ostaggi più ragguardevoli, non che la porta più vicina al suo campo; i suoi soldati ne imitarono la moderazione, ed egli godè l’umile gratitudine del popolo da lui sottrato alla distruzione. Ma il buon esito de’ negoziati scemata avea la vigilanza della città, e nel punto stesso era stato preso d’assalto il quartiere opposto a quello per cui entrava Obeidah. Da una fazione di cento Arabi era stata consegnata la porta orientale a un nemico più inflessibile: „non si dà quartiere, esclamò l’avido e sanguinario Caled, non si dà quartiere ai nemici del Signore„. Le sue trombe squillarono, e il sangue cristiano inondò le vie di Damasco. Quando arrivò alla chiesa di S. Maria, stupì di vedervi i suoi compagni, e fu sdegnato dei loro atteggiamenti pacifici; pendean le loro spade dal fianco, ed erano circondati da una folla di sacerdoti e di monaci. Abu-Obeidah salutò il generale: „Iddio, gli disse, ha con[p. 196 modifica]segnata la città in mia mano per capitolazione, ed ha risparmiato ai fedeli la fatica di combattere. — Ed io, rispose irritato Caled, non sono io forse il luogotenente del comandante de’ fedeli? non ho io presa d’assalto la città? Gli infedeli periranno di spada; piombate su loro„. Correvano gli Arabi inumani, ed assetati di sangue, ad eseguire sì bramato comando, ed era rovinata Damasco se la bontà del cuore di Obeidah non era sostenuta dalla autorità del grado, e dalla nobile di lui fermezza. Si cacciò fra i cittadini atterriti, e fra i più impazienti de’ Barbari; e ingiunse loro, pel santo nome di Dio, di rispettare la sua promessa, di frenare la furia, ed aspettare la decisione del Consiglio. Si ritirarono i Capi nella chiesa di S. Maria, e dopo un dibattito assai veemente si sottomise Caled, in qualche parte, alla ragione e alla autorità d’un suo collega, il quale dimostrò dover esser sacra la capitolazione, utile ed onorevole ai Musulmani il mantenere esattamente la parola, e che portando la diffidenza e la disperazione alle altre città della Sorìa, queste si difenderebbero con una ostinazione che difficilmente si potrebbe superare. Fu convenuto adunque di rimettere la spada nel fodero; che la parte di Damasco che si era arresa ad Obeidah, da quel punto, godrebbe i vantaggi della capitolazione61; e che finalmente alla prudenza e alla giustizia del Califfo si rimetterebbe la decision dell’af[p. 197 modifica]fare. La maggior parte degli abitanti accettò la promessa data loro di tollerare la loro religione, e si sottomise a un tributo. Erano in Damasco ventimila cristiani; ma il prode Tommaso e i valorosi patriotti, che aveano combattuto sotto il suo vessillo, preferirono la povertà, e l’esiglio. Sacerdoti e laici, soldati e cittadini, donne e fanciulli formarono un numeroso campo in un prato vicino alla città; frettolosi e sbigottiti portarono colà le loro cose di maggior pregio, e con dolorosi lamenti, o col silenzio della disperazione, abbandonarono la terra natale, e le amene rive del Farfar. Non valse lo spettacolo della loro miseria a commovere l’animo inesorabile di Caled; contese egli agli abitanti di Damasco la proprietà d’un magazzino di biada; si ingegnò di privar la guarnigione dei beneficii del trattato: con ripugnanza permise ai fuggiaschi d’armarsi d’una spada, d’una lancia o d’un arco, e dichiarò aspramente che dopo tre giorni potrebbono i suoi soldati inseguirli, e trattarli da nemici de’ Musulmani. La passione d’un giovane Siro fu il compimento della rovina degli esuli Damasceni. Un nobile cittadino di quella città, nomato Giona62, s’era im[p. 198 modifica]palmato ad una giovanetta d’opulenta famiglia, appellata Eudossia; avendo i parenti di questa differite le nozze, si indusse ella a fuggire collo sposo prescelto. I due amanti subornarono con denaro i soldati che nella notte guardavano la porta di Keisan. Giona, che passava il primo, fu circondato da una truppa d’Arabi; esclamò in lingua greca: „L’uccello è preso„, e così diede avviso alla sua Bella di ritornarsene a Damasco. Lo sciagurato Giona, tratto avanti a Caled, e minacciato di morte, dichiarò che credeva in Dio solo, e in Maometto suo appostolo, e fino al giorno del suo martirio adempiè i doveri di un bravo e leale Musulmano. Presa la città, andò al monastero ove erasi ricoverata Eudossia: ma costei avea dimenticato l’amante, non vedendo più in lui che un appostata cui ricevette con sommo dispregio. Preferì essa la sua religione alla terra nativa, e Caled, sordo alla compassione, ma guidato in questo caso dalla giustizia, ricusò di ritenere per forza un uomo, o una donna di Damasco: per un articolo del Trattato, e per le provvidenze che esigeva questo nuovo conquisto, dimorò Caled in Damasco per quattro giorni. Conteggiando il tempo e la distanza avrebbe egli in tal occasione perduto la smania delle stragi e delle rapine; ma s’arrese alle importune istanze di Giona, che lo assicurava potersi ancora arrivare i fuggitivi spossati di fatica. Gli inseguì di fatto Caled con quattromila cavalieri travestiti da cristiani Arabi. Non si fermava che pel momento dell’orazione, e ben conoscevano le sue guide il paese. Per lungo spazio di [p. 199 modifica]strada furon visibili le vestigia degli abitanti di Damasco; ma ad un tratto disparvero; tuttavolta furono rincorati i Saraceni nelle lor mosse dalla sicurezza avuta, che i fuggiaschi s’erano sperperati nelle montagne, e che potrebbero raggiugnerli presto. Durarono stenti eccessivi nel valicare le giogaie del Libano; ma l’indomabile ardor d’un amante sostenne e confortò il coraggio di que’ vecchi fanatici. Un paesano di quel Cantone gli avvisò, che l’imperatore avea mandato ai fuorusciti un ordine di radere la costa del mare senza indugio, sulla strada che conduceva a Costantinopoli, temendo per avventura che lo spettacolo e il racconto dei loro patimenti avessero a scoraggiare i soldati, e il popolo di Antiochia. Furon guidati i Saraceni attraverso del territorio di Gabala63 e di Laodicea scansando sempre le città. Continua era la pioggia, oscurissima la notte; solo una montagna gli separava dai fuggitivi, e Caled, sempre inquieto per la sicurezza dei suoi guerrieri, confidava al compagno i tristi presagi avuti in sogno; ma dai primi raggi del giorno furono dissipati tutti i suoi timori. Scorse davanti a sè in una bella vallata le tende dei Cristiani scampati da Damasco. Dopo aver consacrati alcuni istanti al riposo e all’orazione, [p. 200 modifica]divise in quattro corpi la cavalleria; affidò il primo al suo caro Derar, e riservò l’ultimo per sè; piombarono questi quattro corpi un dopo l’altro sopra una moltitudine scompigliata, mal fornita d’arme, e già debellata dal dolore, e dalla fatica. Trattone un prigioniero che ottenne perdono, e fu rimandato, ebbero i Musulmani la soddisfazione di credere che nemmeno un cristiano, dell’uno o dell’altro sesso, era campato dai colpi della loro scimitarra. Sparso era nel campo l’oro e l’argento di Damasco: vi trovarono i vincitori più di trecento some d’abiti di seta, bastanti a vestire un esercito di Barbari. Cercò Giona, e scoperse in mezzo alla strage, l’oggetto della sua costante ricerca; ma l’ultimo atto della sua perfidia avea messo il colmo al risentimento d’Eudossia, la quale facendo ogni suo potere per liberarsi dall’odiose carezze di costui, si immerse un pugnale nel seno. Un’altra donna, la vedova di Tommaso, creduta, non so se a torto o a ragione, la figlia di Eraclio, fu pure salvata e rimandata senza riscatto; ma solamente per disprezzo mostrossi tanto generoso Caled, ed un insolente messaggio portò sino al trono de’ Cesari le disfide dell’orgoglioso Saraceno. Dopo aver fatto più di centocinquanta miglia nella provincia Romana, colla stessa rapidità e segretezza, se ne tornò a Damasco. Omar salendo al trono gli tolse il comando: ma se il Califfo biasimò la temerità della impresa, lodò il vigore e la prudenza di lui nell’eseguirla.

In un’altra occasione dimostrarono egualmente i vincitori di Damasco come amassero, e come dispregiassero le ricchezze di questo Mondo. Seppero che nella fiera di Abyla64, la quale si faceva lungi trenta [p. 201 modifica]miglia incirca della città, concorrevano ogni anno le produzioni naturali e quelle della industria di tutta la Sorìa, che una folla di pellegrini andava, in que’ giorni, a visitare la cella d’un santo eremita, e che le nozze della figlia del governator di Tripoli doveano rallegrare la festa del commercio e della superstizione. Abdallah, figlio di Jaafar, santo e glorioso martire, prese l’incarico, guidando cinquecento cavalieri, dell’utile e religiosa missione di spogliare gl’infedeli. Nell’avvicinarsi alla fiera d’Abyla venne a sapere, non senza inquietudine, che i Giudei e i Cristiani, i Greci e gli Armeni, gli originali della Sorìa e gli abitanti dell’Egitto formavano una truppa di diecimila uomini, e che la sposa era scortata da cinquemila cavallieri. I Saraceni si fermarono: „Per me, disse Abdallah, non so dare addietro; numerosi sono i nostri nemici, grandi i pericoli che corriamo; ma luminoso e certo è il guiderdon che otterremo o in questo, o nell’altro Mondo: ciascuno, a suo grado, vada avanti o si ritragga„. Nemmeno un Musulmano si ritirò. „Menateci, disse Abdallah al Cristiano che gli serviva di guida, e vedrete che possono fare i compagni del Profeta„. I suoi soldati caricarono in cinque distaccamenti; ma dopo i primi istanti di vantaggio che ebbero in questo impreveduto assalto, furono circondati e quasi oppressi dal numero superior de’ nemici; e la loro brava gente fu paragonata al punto bianco che si vede sulla pelle d’un cammello [p. 202 modifica]nero65. Sul tramontar del sole cadevano le armi dalle lor mani per la fatica, ed eran sul punto d’essere precipitati nella eternità, quando scorsero venir loro in faccia un nembo di polvere: colpì le loro orecchie il grato suono del tecbir66, e ben presto videro lo stendardo di Caled, che con tutta la velocità dei cavalli della sua soldatesca giungeva in aiuto. Il quale sbaragliò i battaglioni cristiani, e senza cessar la strage li perseguitò sino al fiume di Tripoli. Rimasero abbandonate le ricchezze poste in mostra alla fiera, il danaro portato per le provviste, la brillante pompa delle nozze, la figlia del governatore, e quaranta donne del seguito. Frutta, vittoaglie, mobili, argento, vasellame, gioielli, tutto fu tostamente ammucchiato sulla schiena de’ cavalli, degli asini e dei muli, e tornarono i pii masnadieri in trionfo a Damasco. L’eremita dopo breve e violenta discussione con Caled sulle rispettive religioni ricusò la corona del martirio, e fu lasciato in vita soletto su quella scena di eccidio e di desolazione.

[A. D. 635] È la Sorìa67 un dei paesi più anticamente col[p. 203 modifica]merita essa questa preferenza68. La vicinanza del mare e delle montagne, l’abbondanza delle legne e dell’acqua, temperano l’ardor del clima, e dalla fertilità del suolo deriva sì gran quantità di sussistenze, che n’è mirabilmente giovata la propagazione degli uomini e degli animali. Dal secolo di Davide a quello d’Eraclio si coperse il paese di fiorenti città: ricchi e numerosi ne eran gli abitanti, e quantunque lentamente devastata dal dispotismo e dalla superstizione, dopo le recenti calamità della guerra persiana, poteva ancora la Sorìa essere un [p. 204 modifica]incentivo alla rapacità delle ingorde tribù del deserto. Una pianura di dieci giornate, che da Damasco si stende ad Aleppo e ad Antiochia, è innaffiata alla parte di ponente dal tortuoso Oronte. Le vette del Libano, e dell’anti-Libano le sovrastano da settentrione a mezzogiorno fra l’Oronte e il mediterraneo, e in addietro si diede l’epiteto di concava (Coelesyria) ad una lunga e fertilissima valle cinta nella medesima direzione da due catene di montagne coperte sempre di neve69. Tra le città indicate nella geografia e nella storia della conquista di Sorìa, coi loro nomi greci e coi nomi orientali, si nota Emesa o Hems, Eliopoli o Baalbek: la prima, metropoli della pianura, la seconda, capitale della vallata. Sotto l’ultimo Cesare erano ben munite e piene d’abitanti: ne risplendeano da lontano le torri: edifici pubblici e privati occupavano un vasto terreno, e gran fama avevano i cittadini pel coraggio od almen per l’orgoglio, per le ricchezze o almeno per lusso. Al tempo del Paganesimo, Emesa ed Eliopoli adoravano Baal ovvero il Sole; ma caduta la superstizione e la grandezza loro, ebbero a provare una sorte molto diversa. Niun vestigio rimane del tempio d’Emesa il quale, se si presta fede ai poeti, eguagliava in altezza la cima del monte Libano70, mentre le rovine di Baalbek, [p. 205 modifica]ignote agli scrittori antichi, solleticano la curiosità e ottengono la ammirazione de’ viaggiatori Europei71. Il tempio è lungo dugento piedi, largo cento: un doppio portico d’otto colonne adorna la facciata: se ne contano quattordici da ogni lato, ed ogni colonna, formata di tre pezzi di pietra o di marmo, ha quaranta piedi d’altezza. L’ordine corintio che si osserva nelle proporzioni e negli ornamenti annunzia l’architettura greca: ma poichè Baalbek non fu mai residenza d’un monarca, si stenta a capire come la liberalità dei cittadini, o del Corpo municipale abbian potuto sopperire alla spesa di costruzioni tanto magnifiche72. Dopo la conquista di Damasco [p. 206 modifica]marciarono i Saraceni alla volta di Eliopoli e di Emesa, ma non rivangherò particolarità di sortite, e di combattimenti, dopo averle già rappresentate in prospetto sopra una scena più vasta. Nella continuazion di questa guerra, ottennero trionfi non solo colle armi ma anche colla politica; seppero dividere i nemici con tregue particolari e di poca durata; avvezzarono i popoli della Sorìa a paragonare i vantaggi della loro alleanza e i pericoli dell’averli nemici; si addomesticarono colla lingua, colla religione e colle costumanze loro, e vennero con segrete compre vuotando i magazzini e gli arsenali delle città cui voleano assediare. Vollero un riscatto più costoso dai più ricchi e dai più ostinati; alla sola Calcide fu imposta la tassa di cinquemila oncie d’oro, d’altrettanto d’argento, di duemila vesti di seta e della quantità di fichi e di ulive che potesse essere portata da cinquemila asini. Osservarono per altro scrupolosamente gli articoli delle tregue e delle capitolazioni, ed il luogotenente del Califfo avendo promesso di non entrare nelle mura di Baalbek, tenuta come prigioniera dalle sue armi, si rimase tranquillo nella sua tenda sino a tanto che le fazioni che laceravano la città richiesero che un padrone straniero andasse a sedarle. In meno di due anni si terminò la conquista della pianura e della valle di Sorìa. Nulla di meno ebbe a lagnarsi di lentezza il Califfo, e i Saraceni espiando i lor falli con lagrime di pentimento e di rabbia, domandarono ad alta voce d’esser condotti [p. 207 modifica]alle battaglie del Signore. In un fatto accaduto poco tempo prima sotto le mura di Emesa, s’udì esclamare un giovane Arabo, cugino di Caled: „Credo vedere le houris dagli occhi neri che mi guardano; se una sola comparisce sulla terra tutti gli uomini morirebbero d’amore. Ne scorgo una che ha un fazzoletto di seta verde, e un cappello di pietre preziose; mi fa segno e mi chiama: vieni subito mi dice, perchè sono innamorata di te„. Così dicendo, si scagliò furiosamente sui Cristiani, e spargeva per ogni parte la strage, quando il governatore di Hems, che l’osservò, lo trafisse con una chiaverina.

[A. D. 636] Era d’uopo ai Saraceni di tutto il valore ed entusiasmo loro per far fronte alle forze dell’imperatore, il quale dalle tante perdite sofferte aveva argomentato abbastanza che voleano i pirati del deserto conquistare regolarmente, e conservare a sè la Sorìa, e che in poco tempo verrebbero a capo del lor disegno. Ottantamila soldati delle province europee ed asiatiche furono mandati per mare e per terra ad Antiochia e a Cesarea: sessantamila Arabi cristiani, della tribù di Gassan, erano le soldatesche leggiere di quell’esercito, e lo precedevano sotto la bandiera di Iabalah, l’ultimo de’ loro principi: avevano i Greci per massima: che col diamante si tagliava meglio che in altra guisa il diamante. Non si espose Eraclio in persona ai rischi di quella guerra: ma presuntuoso siccome egli era, o forse per mancanza di coraggio, diede comando espresso di decidere in una sola giornata il destino della provincia e di quella guerra. Gli abitanti della Sorìa difendeano la causa di Roma e di Cristo; Nobili, cittadini, paesani furono del pari irritati dalla ingiustizia, e dalla barbarie di [p. 208 modifica]un esercito licenzioso che come sudditi li opprimeva, e li spregiava come stranieri73. Aveano i Saraceni posto campo sotto le mura d’Emesa, quando ebbero sentore di que’ grandi apparecchi, e benchè i capitani fossero ben risoluti al combattere, raunarono consiglio di guerra: voleva il pio Abu-Obeidah ricevere la corona del martirio in quel luogo medesimo: ma fu saggio avviso di Caled il fare una ritratta onorevole sulla frontiera della Palestina e dell’Arabia, ove potrebbe l’esercito attendere il soccorso degli amici, e l’assalto degli infedeli. Un corriere spedito a Medina ritornò prestamente colle benedizioni di Omar e di Alì, colle preghiere delle vedove del Profeta, e con un rinforzo di ottomila Musulmani. Questo piccolo drappello battè per via un distaccamento dei Greci, e arrivando a Yermuk, ove erano accampati i Saraceni, s’ebbero la lieta novella, che Caled avea già sbaragliato e disperso gli Arabi cristiani della tribù di Gassan. Nei dintorni di Bosra cadono a torrenti della montagna di Hermon le acque sulla pianura di Decapoli, ossia delle dieci città, e d’Hieromax, di cui si alterò il nome cangiandolo in quello di Yermuk dopo un breve corso si perde nel lago di Tiberiade74. Le sue sponde mal conosciute [p. 209 modifica]furono allora illustrate da lunga e sanguinosa battaglia. In quella gran circostanza dalla voce pubblica, e dalla modestia di Abu-Obeidah fu renduto il comando al Musulmano più degno. Caled si collocò sulla fronte dell’esercito; alle spalle pose il suo collega, acciocchè i Musulmani, se mai fossero tentati a fuggire, fossero arrestati dal suo aspetto venerando e dalla vista della bandiera gialla, che Maometto avea spiegata avanti le mura di Chaibar. Stava nell’ultima linea la sorella di Derar e le donne arabe che s’erano coscritte per quella santa guerra, che sapeano trattare l’arco e la lancia, e che in un momento di cattività aveano difesa contro gli incirconcisi la verecondia loro e la religione75. L’arringa dei generali fu breve, ma energica. „Avete in faccia il paradiso, alle spalle il diavolo e il fuoco dell’inferno„. Nondimeno fu tanto impetuosa la carica della cavalleria romana che ne fu rotta l’ala destra degli Arabi, e separata dal centro. La quale per tre volte s’indietreggiò alla rinfusa, e tre volte fu riordinata dai rimproveri e dai colpi delle donne. Negli intervalli dell’azione, Abu-Obeidah visitava le tende dei confratelli, ne prolungava il riposo recitando in una volta due delle cinque orazioni quotidiane, ne curava le ferite di propria mano, e li confortava colla rifles- [p. 210 modifica]sione, che gli infedeli che partecipavano ai loro mali non participerebbero alla loro ricompensa. Quattro mila e trenta Musulmani furono seppelliti sul campo di battaglia, e la destrezza degli arcieri Armeni procacciò a settecento Arabi la gloria di perdere un occhio nell’esercizio di quel religioso dovere. Confessarono i veterani della guerra di Sorìa non aver mai veduto azione così terribile, ed il cui esito fosse sì lungo tempo incerto; ma non ve n’ebbe altresì veruna più decisiva di quella; Greci e Siri a migliaia caddero sotto la spada degli Arabi; gran numero di fuggitivi fu dopo la vittoria trucidato pei boschi, e nelle montagne. Parecchi altri, che perdettero il guado, annegarono nell’acqua dell’Yermuk, e, qualunque sia l’esagerazione dei Musulmani76, dagli autori cristiani si confessa che il cielo li punì in maniera ben sanguinosa dei loro peccati77. Manuele che coman[p. 211 modifica]dava i Romani fu ucciso a Damasco, dove si ricoverò nel monastero del monte Sinai. Jabalah, esigliato dalla Corte di Bisanzio, pianse colà i costumi dell’Arabia da lui abbandonati, e la sciagura d’aver preferito la causa de’ Cristiani78. Altra volta era stato propenso all’Islamismo; ma in un pellegrinaggio alla Mecca, essendosi trasportato a percuotere un suo concittadino, avea presa la fuga per salvarsi dall’imparziale e severa giustizia del Califfo. I Saraceni vittoriosi passarono un mese a Damasco nella quiete e nei sollazzi: la division del bottino fu rimessa alla prudenza di Abu-Obeidah. Ogni soldato ebbe una parte per sè, ed una pel suo cavallo, ed ai nobili corsieri di razza araba fu riservata doppia porzione.

[A. D. 637] Dopo la battaglia di Yermuk non si vide più comparire l’esercito romano, e furono arbitri i Saraceni di scegliere quella delle città munite della Sorìa volessero prima attaccare. Chiesero al Califfo se marciar dovessero verso Cesarea o Gerusalemme, ed a seconda della risposta di Alì fu messo subitamente l’assedio a quest’ultima città. Agli occhi di un profano era Gerusalemme la prima o la seconda capitale della [p. 212 modifica]Palestina: ma considerata come il tempio della Terra Santa, consacrata dalle rivelazioni di Mosè, di Gesù, e dello stesso Maometto, era, dopo la Mecca e Medina, l’oggetto di venerazione e delle peregrinazioni dei Musulmani devoti79. Il figlio di Abu-Sophian fu spedito con cinquemila Arabi a tentare da prima di insignorirsi della Piazza per sorpresa o con un trattato; ma nell’undecimo giorno fu investita da tutto l’esercito di Abu-Obeidah; il quale fece al comandante e al popolo di Elia80 la solita intimazione: „Salute e felicità„, diss’egli, „a coloro che seguono la via retta. Noi ve lo comandiamo: dichiarate che non vi ha che un Dio, e che Maometto è il suo appostolo. Se non lo fate, consentite a pagare un tributo e ad essere nostri sudditi; altrimenti io condurrò contro di voi una gente che apprezza più la morte, che voi il vino e la carne di porco; e non vi lascerò, se piace a Dio, che dopo avere sterminato quanti combatteranno con voi, e ridotti a schiavitù i vostri figli„. [p. 213 modifica]La città per ogni parte era difesa da valli profonde e da rupi scoscese: dopo l’invasion della Sorìa erano state accuratamente restaurate le mura e le torri; essendosi fermati in quella Piazza, che non era molto lontana, i più prodi dei guerrieri campati dall’eccidio d’Yermuk, questi, non men che la difesa del santo sepolcro81, doveano accendere nell’anima di tutti quelli che riempieano la città qualche scintilla dell’entusiasmo, onde era infiammato lo spirito de’ Saraceni. Quattro mesi durò l’assedio di Gerusalemme; ogni giorno fu segnato da qualche sortita o da qualche assalto: le macchine degli assediati molestarono costantemente i nemici dall’alto delle mura, e fu ancora agli Arabi più funesto il rigore del verno. Cedettero finalmente i Cristiani alla perseveranza dei Musulmani. Il Patriarca Sofronio si affacciò sulle mura, e, servendosi dell’organo di un interprete, domandò un abboccamento. Dopo avere indarno tentato di distogliere il luogotenente del Califfo dal suo empio disegno, chiese in nome del popolo una capitolazione vantaggiosa, e ne propose gli articoli con questa clausola insolita, che l’autorità e la presenza di Omar sarebbero mallevadori della esecuzione. Fu discussa la cosa nel consiglio di Medina: la santità del sito, e l’opinione di Alì determinarono il Califfo ad appagare in questo proposito i voti dei soldati propri e de’ nemici, e la semplicità che dimostrò in questo viaggio è notabile più che mai lo fosse tutta la pompa dell’orgoglio e della tirannide. Il vincitor [p. 214 modifica]della Persia e della Sorìa sedeva sopra un cammello di pelo rosso, il quale era altresì caricato d’un sacco di biada, d’un altro sacco di datteri, d’un piatto di legno, e d’un otricello di cuoio pieno di acqua. Quando si fermava, erano invitati tutti quelli che lo accompagnavano, senza far distinzione alcuna, a partecipare del suo pasto frugale che egli consacrava con orazioni e con un’esortazione82. Nel tempo stesso durante questa spedizione, o pellegrinaggio, esercitava i suoi poteri amministrando la giustizia: frenava la licenziosa poligamia degli Arabi; reprimeva le estorsioni e le crudeltà che usavansi verso i tributari; e per punire i Saraceni del troppo lusso, levava loro di dosso le ricche vesti di seta, e stropicciava loro la faccia nel fango. Come scorse da lungi Gerusalemme esclamò ad alta voce: „Dio è vittorioso. Signore agevolateci questa conquista„; e dopo avere alzata la sua tenda, fatta di rozza stoffa, placidamente s’assise per terra. Segnata che ebbe egli la capitolazione, entrò in città senza cautele e senza timori, e conversò urbanamente col Patriarca intorno le antichità religiose della sua chiesa83. Sofronio si prostrò davanti al nuovo padrone dicendo in suo segreto, colle parole di Daniele: „L’abbomina[p. 215 modifica]zione della desolazione sta nel Luogo Santo„84. Si scontrarono insieme nella chiesa della Risurrezione all’ora della preghiera: ma non volle il Califfo far quivi le sue divozioni, e si contentò di orare sui gradini della chiesa di Costantino. Ragguagliò il Patriarca del prudente motivo che lo aveva determinato: „Se mi fossi arreso alle istanze vostre, gli disse, sarebbe avvenuto che col pretesto di imitare il mio esempio avrebbero un giorno i Musulmani rotto gli articoli del trattato„; ordinò che si edificasse una Moschea85 sul terreno per l’addietro occupato dal tempio di Salomone; e nei dieci giorni che passò a Gerusalemme, pose ordine anche per l’avvenire a ciò che per l’amministrazione della Sorìa si conveniva. Potea Medina temere non fosse il Califfo trattenuto dalla santità di Gerusalemme, o dalla vaghezza di [p. 216 modifica]Damasco; ma tosto egli sbandì ogni inquietudine ritornando spontaneamente al sepolcro dell’appostolo86.

[A. D. 638] Formò il Califfo due corpi d’esercito per condurre a termine la conquista del rimanente della Sorìa; un distaccamento scelto fu lasciato nel campo della Palestina sotto gli ordini d’Amrou e d’Yezid, mentre Abu-Obeidah e Caled, capitanando lo stuolo più considerevole, marciavano di bel nuovo alla volta del settentrione per impadronirsi d’Antiochia e di Aleppo; quest’ultima città, la Berea de’ Greci, non aveva ancora la celebrità d’una capitale, e colla volontaria loro sommissione, non che per la miseria, ebbero gli abitanti la sorte di riscattare, a condizioni moderate, colla vita la libertà della loro religione. Il castello d’Aleppo87, separato dalla Piazza, si ergeva sopra un’alta collina formata dalla mano degli uomini; i fianchi di quella altura, quasi perpendicolare, erano guerniti di pietre da taglio, e si poteva empiere totalmente la fossa coll’acqua delle [p. 217 modifica]vicine sorgenti. La guarnigione dopo aver perduto tremila uomini, avea tuttavolta modo di difendersi, e il Capo ereditario, il prode Youkinna, aveva ammazzato suo fratello, un santo monaco, perchè avea pronunziata la parola di pace. Rimase morto o ferito gran numero di Saraceni durante quell’assedio che durò quattro o cinque mesi, e che fu il più penoso di tutti gli assedi della guerra siriaca; gli altri si ritrassero in distanza d’un miglio dalla Piazza, ma senza poter deludere la vigilanza di Youkinna; nè venne pure fatto ai medesimi di sbigottire i Cristiani colla morte di trecento prigionieri cui decapitarono sotto le mura del castello. Primamente dal silenzio, poi dalle lettere d’Abu-Obeidah comprese il Califfo essere ormai sfinita la pazienza delle sue soldatesche, ed aver esse omai perduta ogni speranza di prendere quella Fortezza. „Io partecipo co’ miei affetti, gli rispose Omar, a tutte le vicende vostre, ma non posso assolutamente permettervi di levar l’assedio del castello. La ritirata vostra scemarebbe la fama delle nostre armi, e darebbe coraggio agli infedeli di piombare sopra di voi da ogni lato: rimanete davanti Aleppo, fino a tanto che Iddio decida dell’evento, e la vostra cavalleria vada foraggiando nel circondario„. Alcuni volontari di tutte le tribù dell’Arabia, giunti al campo sopra cavalli o cammelli, crebbero forza alle esortazioni. Era con essi certo Damete, guerriero di servile estrazione, ma di figura gigantesca e d’animo intrepido. Nel giorno quarantesimosettimo di servigio chiese trenta uomini con cui sorprendere il castello. Caled, che lo conosceva, commendò il suo disegno, ed Abu-Obeidah avvertì i suoi fratelli di non avere dispregio per la nascita di [p. 218 modifica]Damete, e protestò che se potesse abbandonare gli affari pubblici, di buon grado avrebbe militato sotto gli ordini dello schiavo. Per mascherare l’impresa ideata, finsero i Saraceni di ritirarsi trasportando il campo lungi una lega incirca da Aleppo. I trenta avventurieri stavano in imboscata a piè del colle, e Damete finalmente si procacciò le notizie che bramava, ma non senza andare nelle furie contro l’ignoranza de’ suoi prigionieri greci. „Maladetti da Dio questi cani! esclamava l’ignorante Arabo: che strano e barbaro linguaggio è quello che parlano!„ Nel più fitto della notte scalò l’altura che egli aveva attentamente visitata dal lato più accessibile, sia che in quella parte fossero più degradate le pietre, sia che il pendìo fosse più declive, o men vigilante la guardia. Sette de’ suoi compagni più robusti salirono sulle spalle gli uni degli altri, e lo schiavo gigantesco sosteneva sopra il suo largo e nervoso dosso il peso di tutta la colonna. I più elevati potevano aggrapparsi alla parte inferiore dei muri. Vi si arrampicarono finalmente, pugnalarono alla sordina le sentinelle e le gettarono abbasso dalla Fortezza; ed i trenta guerrieri ripetendo questa pia giaculatoria, „Appostolo di Dio aiutateci e salvateci„, furon successivamente tirati sul muro, mercè delle lunghe tele de’ lor turbanti. Damete andò cautamente a spiare il palazzo del governatore, che con romorose allegrie festeggiava la ritirata del nemico: e ritornato ai suoi compagni assalì dalla parte interna l’ingresso del castello. La sua piccola squadra abbattè la guardia, sgombrò la porta, calò abbasso il ponte levatoio, e difese questo angusto passaggio sino all’arrivo di Caled, che, sul far del giorno, venne a trarlo di pericolo, e ad assicurare la [p. 219 modifica]sua conquista. Il bravo Joukinna, che s’era dato a conoscere per un nemico sì formidabile, divenne un utile e zelante proselita; e il general dei Saraceni dimostrò i riguardi che avea pel merito, in qualunque condizione lo trovasse, rimanendo coll’esercito in Aleppo, sin che non fu guarito Damete delle sue onorate ferite. Era tuttavia coperta la capitale della Sorìa dal castello di Aazaz, e dal ponte di ferro dell’Oronte. Ma perduti quei posti di gran momento, e sconfitto l’ultimo esercito Romano, Antiochia88, ammollita dal lusso, tremò e si sottomise con un riscatto di trecentomila pezze d’oro, e fu salva dalla distruzione; ma quella città, soggiorno un tempo dei successori d’Alessandro, sede del governo romano in Oriente, decorata da Cesare coi titoli di città libera, santa e vergine, altro non fu poi sotto il giogo dei Califfi che città di provincia e di secondo ordine89. [p. 220 modifica]

[A. D. 638] Nella vita d’Eraclio si vede che dall’obbrobrio, e dalla debolezza dei primi e degli ultimi anni della sua amministrazione fu oscurata la gloria del trionfo della guerra persiana. Allorchè i successori di Maometto si armarono contro di lui per l’onore della propria religione, egli si sentì gelare alla prospettiva degli stenti e dei pericoli innumerabili in cui si sarebbe ingolfato: per natura indolente, non trovava più in una inferma vecchiaia il modo di sollevarsi ad un secondo sforzo. Per un sentimento di vergogna, e per la sollecitazione dei Siri fu impedito dall’allontanarsi, sin nel primo momento, dal teatro della guerra; ma più non vivea l’eroe, e puossi in qualche modo attribuire all’assenza o al cattivo procedere del sovrano la perdita di Damasco e di Gerusalemme, non che le sanguinose giornate di Aiznadin, e d’Yermuk. In vece di difendere il sepolcro di Cristo, impelagò la Chiesa e lo Stato in una controversia metafisica90 sopra l’unità della volontà; [p. 221 modifica]e mentre dava la corona al figlio, avuto della seconda moglie, si lasciava tranquillamente spogliare della [p. 222 modifica]porzion più preziosa del retaggio, che egli assegnava ai suoi figli. Prostrato a terra nella cattedrale [p. 223 modifica]di Antiochia, al cospetto dei vescovi ed ai piedi del Crocifisso, pianse i suoi peccati e quelli del popolo suo, ed insegnò al Mondo essere inutile e forse empia cosa l’opporsi al decreto di Dio. Erano [p. 224 modifica]di fatto i Saraceni come invincibili, poichè considerati erano per tali; e poteva la disfatta di Youkinna, il suo falso pentimento, e le tante sue perfidie giustificare i sospetti dell’imperatore, il quale si credeva accerchiato da traditori ed appostati pronti a consegnar la sua persona e l’impero in mano dei nemici di Cristo. Offuscato in mente dall’avversità e dalla superstizione, si abbandonò al terrore di sogni e di presagi nei quali parvegli vedere enunciata la caduta della sua corona; e dato alla Sorìa un eterno addio, salpò con un seguito poco numeroso sciogliendo i sudditi dal giuramento di fedeltà91. Costantino, suo figlio primogenito, comandava quarantamila uomini in Cesarea, sede dell’amministrazion civile delle tre province della Palestina. Ma i suoi particolari interessi lo chiamavano alla Corte di Bisanzio; e dopo la fuga del padre s’avvide che mal potea resistere alle forze congiunte del Califfo. La sua vanguardia fu intrepidamente assalita da trecento Arabi, e da mille Schiavi negri, i quali nel cuor del verno aveano superate le nevi del Libano, e furon ben tosto seguiti dagli squadroni di Caled. I Saraceni che stavano in Antiochia e in Gerusalemme arrivarono dal settentrione e dal mezzogiorno lungo la costa marittima, e si ricongiunsero sotto le mura delle città della [p. 225 modifica]Fenicia. Tripoli e Tiro furono consegnate per tradimento, e da un navile di cinquanta bastimenti da trasporto, che senza diffidare entravano nei porti allora dal nemico occupati, ebbero i Musulmani un utile rinforzo d’armi e di munizioni: ben presto ebber fine le loro fatiche per l’inaspettata resa di Cesarea. Il figlio d’Eraclio s’era imbarcato nella notte92, e, vedendosi abbandonati, comperarono i cittadini il perdono al prezzo di dugentomila pezze d’oro. Le altre città della provincia Ramlah, Tolomeide o Acri, Sichem o Neapoli, Gaza, Ascalona, Berita, Sidone, Gabala, Laodicea, Apamea e Jerapoli, non osarono lungamente resistere ai voleri del conquistatore; e la Sorìa piegò il collo sotto lo scettro dei Califfi, sette secoli dopo il tempo in cui Pompeo ne privò l’ultimo dei re Macedoni93.

[A. D. 633-639] Gli assedi, e le fazioni di sei campagne avean costata la vita a migliaia di Musulmani. Morivan come martiri ebbri di gloria e di allegrezza, e da queste pa[p. 226 modifica]role d’un giovanetto Arabo, che per l’ultima volta abbracciava la madre e la sorella, si può conoscere la semplicità della lor fede. „Non già, disse loro, le squisitezze della Sorìa, e le gioie passeggere di questo Mondo m’hanno indotto a consacrare la vita per la causa della religione; voglio impetrare il favor di Dio, e del suo appostolo: ho udito dire da un compagno del Profeta, che le anime dei martiri saranno alloggiate nel gozzo degli uccelli verdi che mangiano le frutta del paradiso, e che bevono l’acqua delle sue correnti. Addio: ci rivedremo fra i boschetti, e presso le fontane che Dio riserva a’ suoi eletti„. Quei fedeli che cadeano in balìa del nemico aveano occasione di esercitare la costanza men forte, ma più difficile, e fu applaudito il cugino di Maometto, il quale, dopo tre giorni d’astinenza, ricusò il vino e il maiale offertogli dalla malizia degli infedeli per unico nudrimento. La debolezza di parecchi Musulmani, meno coraggiosi, diveniva soggetto di disperazione per quegli implacabili fanatici, e il padre di Amer deplorò in tuono patetico l’apostasia e la dannazione del figlio, che avea rinunciato alle promesse di Dio e alla intercessione del Profeta, per occupare un giorno fra i sacerdoti e i diaconi i più profondi abissi dell’inferno. I più fortunati degli Arabi che sopravvissero alla guerra, perseverando nella fede, furono preservati mercè dell’accortezza de’ loro capitani dal pericolo di far abuso della loro prosperità. Abu-Obeidah non lasciò alle sue truppe che tre giorni di riposo, e, allontanandoli dal contagio de’ costumi di Antiochia assicurò il Califfo, che solo poteano i rigori della povertà e della fatica mantenerli nella religione e nella virtù. Ma la virtù d’Omar sì austera [p. 227 modifica]per lui, era indulgente e dolce pe’ suoi fratelli. Dopo aver pagato al suo luogotenente un giusto tributo d’elogi e di azioni di grazia, concedette una lagrima alla compassione, e sedutosi in terra scrisse una lettera ad Obeidah, rinfacciandogli amorevolmente la troppa severità. „Iddio, dissegli il successor del Profeta, non ha interdetto l’uso delle buone cose di questo Mondo ai fedeli, ed a coloro che han fatte opere buone; però avreste dovuto concedere più riposo alle vostre soldatesche, e lasciare che godessero i sollievi che offre il paese in cui siete. I Saraceni, che non han famiglia in Arabia, possono maritarsi in Sorìa, e ognun d’essi è padrone di comperarsi le schiave di cui abbisogna„. Eran già disposti i vincitori a usare ed abusare di queste permissioni aggradevoli: ma l’anno del loro trionfo fu guasto da una mortalità d’uomini o di animali, per cui perirono in Sorìa venticinquemila Saraceni. Ebbero i Cristiani a piangere Obeidah: ma i suoi fratelli rammentarono esser lui uno dei dieci eletti che il Profeta avea nominati eredi del suo paradiso94. Caled visse ancora tre anni, e si mostra nei contorni di Emesa la tomba della Spada di Dio. Il suo valore, da cui i Califfi riconoscono il loro impero nella Sorìa e nell’Arabia, si rafforzava coll’opinione che aveva, che la Providenza avesse una cura particolare di lui; e sinchè portò una cappa benedetta da Maometto si credette invulnerabile in mezzo ai dardi degli infedeli. [p. 228 modifica]

[A. D. 639-655] Ai Musulmani, che morirono in Sorìa dopo la conquista, succedettero i loro figli o concittadini; quel paese divenne la residenza e il sostegno della casa d’Ommiyah; e le entrate, le soldatesche e le navi di un regno sì potente furono impiegate ad allargare per ogni lato l’impero de’ Califfi. Sprezzavasi dai Saraceni ciò che è superfluo nella gloria, e rade volte degnano i loro storici indicare le minori conquiste che si perdono nella luce e nella rapidità della lor vittoriosa carriera. Al nort della Sorìa passarono il monte Tauro, soggiogarono la provincia di Cilicia e Tarso la capitale, antico monumento dei re d’Assiria. Giunti al di là d’una seconda giogaia di quelle montagne, diffusero il fuoco della guerra, anzi che la face della religione, sino alle coste dell’Eussino, e ai dintorni di Costantinopoli. Dalla parte d’oriente s’innoltrarono fino alle sorgenti dell’Eufrate e del Tigri95. I limiti sì lungo tempo contestati di Roma e della Persia sparirono per sempre; Edessa, Amida, Dara e Nisibi, videro rase quelle mura che aveano durato contro l’armi e le macchine di Sapore e di Nushirvan, e nulla valsero la lettera di Gesù Cristo96, nè l’impronta della sua figura nella santa città [p. 229 modifica]d’Abgara in faccia ad un conquistatore infedele. Dal mare è confinata la Sorìa all’occidente, e la rovina di Aredo, isoletta o penisola sulla costa, non avvenne che dieci anni dopo. Ma i colli del Libano erano adombrati d’alberi atti a costruzione; il commercio della Fenicia dava una moltitudine di marinai, e gli Arabi poterono allestire ed armare un naviglio di mille e settecento barche, le quali fecero fuggire i navigli dell’impero dagli scogli della Panfilia sino all’Ellesponto. L’imperatore, nipote di Eraclio, prima del combattimento era stato vinto da un sogno e da un giuoco di parole97. Rimasero i Saraceni signori del Mediterraneo, e vennero saccheggiando successivamente le isole di Cipro, di Rodi, e delle Cicladi. Tre secoli avanti l’Era cristiana, il memorando ed inutile assedio di Rodi98, fatto da Demetrio, aveva dato a quella repubblica soggetto e materia d’un trofeo: erasi da lei in un ingresso del porto collocata una statua colossale d’Apollo, ossia del Sole, [p. 230 modifica]nobile monumento della libertà e dell’arti della Grecia alto settanta cubiti. Il colosso di Rodi sussisteva da cinquantasei anni, quando fu atterrato da un tremuoto; l’enorme suo tronco e i vasti suoi brani restarono sparsi per otto secoli sul terreno, e furono sovente descritti come una delle maraviglie del Mondo antico. I Saraceni ne raccolsero i frantumi e gli vendettero a un mercadante Ebreo di Edessa; il quale, è fama, vi trovò tanto rame per caricar novecento cammelli; peso che par ben considerabile anche quando vi fossero comprese le cento figure colossali99 e le tremila statue, che decoravano la città del Sole nei suoi giorni di prosperità.

III. Fa mestieri, per ispiegare la storia del conquisto d’Egitto, ragionare alquanto sul carattere del vincitore. Amrou, uno dei primari Saraceni nel tempo in cui l’ardire e l’entusiasmo esaltavano sopra sè stesso l’ultimo dei Musulmani, avea sortito natali abbietti ad un tempo ed illustri. Era nato da una celebre prostituta la quale, dei cinque Koreishiti che accoglieva in casa, non seppe dire qual fosse il padre di questo fanciullo; ma per la rassomiglianza delle fattezze lo attribuì ad Aasi il men giovine de’ suoi amanti100. Amrou dal suo brio giovanile si lasciò dare in preda alle passioni e ai pregiudizi della famiglia: esercitò il suo ingegno poetico in versi satirici contro [p. 231 modifica]la persona e la dottrina di Maometto; la fazione allor dominante impiegò la sua accortezza contro gli esuli, per motivo di religione, rifuggiti alla Corte del re di Etiopia101. Ma egli ritornò dalla sua ambasciata addetto secretamente all’Islamismo; la ragione ovver l’interesse lo determinarono ad abbandonare il culto degli idoli: scampò dalla Mecca col suo amico Caled, e il Profeta di Medina ebbe il piacere d’abbracciare nel punto medesimo i due campioni più intrepidi della sua causa. Amrou, che mostrava gran desiderio di comandare gli eserciti de’ fedeli, fu rimbrottato da Omar che lo consigliò a non cercare autorità e dominio, poichè l’uomo che oggi è suddito può domani essere principe. Per altro non trascurarono il suo merito i due primi successori dell’appostolo, e alla sua prodezza furon debitori dei conquisti della Palestina: egli in tutte le battaglie, e negli assedi della Sorìa diede a divedere congiunta la calma di un generale al valore di un ardente soldato. In uno de’ suoi viaggi a Medina se gli mostrò voglioso il Califfo di veder la spada che aveva mietuto tante teste cristiane. Il figlio di Aasi gli presenta una scimitarra cortissima che nulla avea di singolare, e accortosi della sorpresa di Omar. „Oimè, gli disse il modesto Saraceno, anche la spada senza il braccio del suo padrone sovrano non è più tagliente, nè più pesante della spada del poeta Pharezdak„102. Dopo il [p. 232 modifica]conquisto dell’Egitto la gelosia indusse il califfo Othmano a richiamare Amrou; ma nelle turbolenze sopravvenute potè il suo ardore nel dimostrarsi capitano, uom d’alto affare, e oratore trarlo ben presto dalla classe de’ privati. Al potente suo aiuto, sia nei consigli, sia nell’esercito andarono debitori gli Ommiadi della assodata loro grandezza. Moawiyah, per gratitudine, restituì il governo e l’amministrazione delle rendite pubbliche dell’Egitto a un amico fedele, che da sè stesso erasi sollevato dalla condizione di semplice suddito, e Amrou terminò i suoi giorni nel palazzo e nella città che avea fondato sulle sponde del Nilo. Gli Arabi citano come un modello d’eloquenza e di sapienza il discorso che fece ai figli nel letto di morte; deplorò i trascorsi della sua gioventù: ma per poco che gli rimanesse della vanità di poeta103, potè esagerare volontieri il veleno e il pericolo delle sue vecchie satire contro l’Islamismo.

[A. D. 638] Accampato era Amrou nella Palestina, quando avendo carpita per sorpresa la permission del Califfo, o forse anche senza aspettarla, s’incamminò a conquistare l’Egitto104. Il magnanimo Omar confidava [p. 233 modifica]in Dio e nelle sue armi che crollato avevano i troni di Cosroe e di Cesare: ma ponendo a confronto il debole esercito Musulmano colla grandezza della impresa, si pentì dell’imprudenza sua, e diede ascolto ai timidi compagni. L’orgoglio e la potenza degli antichi Faraoni erano idee familiari ai lettori del Corano, e appena avean bastato prodigi dieci volte rinnovati a condurre ad effetto, non la vittoria, ma la fuga di seicentomila figli di Israele. Aveva l’Egitto gran numero di città popolatissime e forti: il Nilo solo coi tanti suoi rami formava una barriera insuperabile, e doveano i Romani ostinatamente difendere il granaio della capitale dell’impero. In questa angustia si rimise il Califfo alla decision della sorte, o, secondo il suo avviso, a quella della providenza. Era partito da Gaza l’intrepido Amrou e marciava verso l’Egitto con quattromila Arabi solamente, quando fu raggiunto dal messo di Omar. „Se siete ancora in Sorìa, diceva la lettera equivoca del Califfo, ritiratevi tostamente, ma se all’arrivo del corriere toccate già la frontiera d’Egitto, inoltrate pure francamente, e fidatevi nell’aiuto di Dio e de’ vostri fratelli„. Dalla esperienza, o piuttosto da’ segreti avvisi, imparato aveva Amrou a diffidare della stabilità delle risoluzioni delle Corti, e continuò la sua strada fino a tanto che si trovò sul territorio d’Egitto. Raunò allora i suoi ufficiali, ruppe il suggello, lesse il foglio, e dopo avere con gravità domandato che nome avesse e qual fosse il luogo dov’era, protestò piena sommessione agli ordini del Califfo. Dopo un assedio di trenta giorni si insignorì di Farmah, ossia Pelusio, e l’acquisto di questa città, nomata con ragione la chiave dell’Egitto, gli aperse l’ingresso del paese sino alle [p. 234 modifica]rovine d’Eliopoli in vicinanza dell’odierna città del Cairo.

Sulla sponda occidentale del Nilo, poco lungi dalla parte orientale delle piramidi ed al mezzogiorno del Delta, la città di Menfi, che avea di circonferenza centocinquanta stadi, mostrava la magnificenza degli antichi re dell’Egitto. Sotto il regno dei Tolomei e dei Cesari era stata trasferita alla riva del mare la residenza del governo; ben presto le arti e le ricchezze d’Alessandria offuscarono l’antica capitale: divenuti deserti i palagi e i templi di Menfi andarono in rovina; ma nel secolo di Augusto, ed anche al tempo di Costantino, era annoverata fra le città più vaste e più popolose105. Le due sponde del Nilo, largo in quel sito tremila piedi, erano collegate da due ponti, l’un di sessanta battelli e l’altro di trenta, appoggiati nel mezzo della corrente all’isolotto di Ruda adorno di giardini e di case106. Nell’estremità orientale del ponte si vedeva la città di Babilonia, e il campo di una legione romana che guardava il passo del fiume [p. 235 modifica]e la seconda capitale dell’Egitto. Investì Amrou quella gran Fortezza, che potea considerarsi come una parte di Menfi o Misrah; non andò guari che giunse al campo un rinforzo di quattromila Saraceni, e convien daddovero far onore all’industria e alla fatica dei Siri suoi alleati per la costruzion delle macchine che si adoperarono a battere le mura. L’assedio intanto durò sette mesi, e i temerari assalitori si videro accerchiati dall’inondazion del Nilo che minacciò di inghiottirli107. Finalmente trionfarono per la temerità dell’ultimo assalto; passarono la fossa guernita da punte di ferro; piantarono le scale e penetrarono nella Fortezza gridando: „Dio è vittorioso„: indi respinsero il resto dei Greci sino ai lor battelli e sino all’isola di Ruda. Presentando questo luogo una comunicazione agevole col golfo e con la penisola di Arabia, Amrou lo preferì a Menfi, che fu abbandonata. Le tende degli Arabi divennero abitazioni stabili, e la prima moschea quivi eretta fu santificata dalla presenza di ottanta compagni di Maometto108. Il campo sulla riva orientale del Nilo si trasformò in una nuova [p. 236 modifica]città; e nello stato ruinoso in cui son oggi i quartieri di Babilonia e di Fostati, si confondono sotto la denominazione di vecchio Misrah o vecchio Cairo, del quale fecero un ampio sobborgo; ma il nome di Cairo, che significa la città della vittoria, appartiene veramente all’odierna capitale dai Califfi fatimiti fondata nel decimo secolo109. Essa s’è a poco a poco discostata dal Nilo; ma può un osservatore attento tener dietro alla continuità delle fabbriche, cominciando dai monumenti di Sesostri fino a quelli di Saladino110.

[A. D. 638] Dopo un trionfo sì glorioso, avrebbero tuttavolta dovuto gli Arabi rifuggir nel deserto, se non trovavano nel centro dell’Egitto un poderoso alleato. Dalla superstizione e dalla rivolta degli oriundi del paese furon già facilitati i conquisti d’Alessandro: abborrivano coloro quei Persiani, loro tiranni, discepoli dei Magi, che avevano arso i templi dell’Egitto, e sbramata [p. 237 modifica]la lor fame sacrilega colla carne del dio Apinota. Un motivo simile originò dieci secoli dopo una rivoluzione somigliante, e i cristiani Cofti si diedero a conoscere del pari ardenti a sostenere un dogma incomprensibilenota. Ho già spiegata l’origine e i pro111112 [p. 238 modifica]della controversia de’ Monofisiti, come pure la persecuzion degli imperatori che cangiò una Setta in una nazione, e indispettì l’Egitto contro la religione e il governo loro. Furono accolti i Saraceni come liberatori della chiesa Giacobita, e si intavola- [p. 239 modifica]rono, durante l’assedio di Menfi, i negoziati d’un Trattato fra un esercito vittorioso e un popolo di schiavi. Fuvvi un Egiziano nobile e ricco, di nome Mokawkas, il quale aveva dissimulata la sua credenza per ottenere l’amministrazione della sua provincia. Giovandosi della confusione, che fu conseguenza della guerra de’ Persiani, aspirò egli alla independenza, e una ambasciata di Maometto lo innalzò al grado dei principi; ma con ricchi donativi, e con equivoci complimenti eluse la proposta fattagli d’abbracciare una nuova religione113. Per aver abusato dell’autorità commessagli, fu esposto al risentimento d’Eraclio; l’arroganza e il timore gli impedivano di sottomettersi, e tutto l’induceva a gettarsi nelle braccia della nazione, ed a procacciarsi l’assistenza dei Saraceni. Nelle sue prime conferenze con Amrou intese senza sdegnarsi l’intimazione della solita alternativa: il Corano, il tributo o combattere: „I Greci, diss’egli, sono presti e parati a rimettersi alla sorte dell’armi; ma io non voglio aver che fare coi Greci nè in questo Mondo, nè nell’altro; rinnego per sempre il tiranno che dà legge a Bisanzio, il suo Concilio di Calcedonia ed i Melchiti suoi schiavi. I miei fratelli ed io abbiam risoluto di vivere e di morire nella profession dell’evangelo e nell’unità di Cristo. Noi non possiamo abbracciar la religione del vostro Profeta, [p. 240 modifica]ma bramiamo la pace, e consentiam di buon cuore a prestare tributo ed obbedienza ai suoi successori temporali„. Il tributo fu fissato in due pezze di oro per ogni cristiano: i vecchi, i monaci, le donne, e i fanciulli dei due sessi, sino all’età di sedici anni, furono esentati da questa tassa personale: i Cofti, domiciliati al di sopra e al di sotto di Menfi, diedero il giuramento di fedeltà al Califfo, e promisero ospitalità per tre giorni a qualunque Musulmano viaggiasse nel lor Cantone. Questa carta di sicurezza annichilì la tirannide ecclesiastica e civile de’ Melchiti114: gli anatemi di S. Cirillo risonarono in tutti i pulpiti, e furono restituite le chiese col lor patrimonio alla comunion de’ Giacobiti, i quali godettero smodatamente di quel momento di trionfo e di vendetta. Beniamino, lor Patriarca, uscì del suo deserto mosso dai pressanti inviti di Amrou, il quale dopo un colloquio con esso degnò dichiarare graziosamente sè non aver giammai scontrato alcun sacerdote cristiano che fosse di più puri costumi, e di più venerandi sentimenti115. Il Luogo-tenente di Omar passò da [p. 241 modifica]Menfi in Alessandria, e in questo viaggio confidò tanto nell’affetto e nella gratitudine degli Egiziani, che non pigliò veruna precauzione per la propria sicurezza: al suo avvicinarsi si restauravano le strade ed i ponti, e per tutta la via fu generale la premura di fornirgli i viveri, e di informarlo di quanto accadea. Universale fu la diserzione, e i Greci d’Egitto, che appena ugualiavan la decima parte degli abitanti nativi, non furono in caso d’opporre la menoma resistenza: erano stati sempre odiati, e non erano più temuti: più non osava il magistrato comparire in tribunale, nè il vescovo mostrarsi all’altare: le guarnigioni lontane furono sopraprese, o affamate dai paesani. Se non avesse il Nilo offerta un’agevole e pronta comunicazione col mare, non sarebbesi salvato alcuno di coloro che per nascita, lingua, impiego e religione erano collegati coi Greci.

La ritirata loro nell’alto Egitto avea riunito gran soldatesca nell’isola di Delta; dai canali del Nilo, naturali e artificiali, era formata una serie di posti vantaggiosi, e agevoli alla difesa: e per giungere in Alessandria i Saraceni vittoriosi spesero ventidue giorni, ne’ quali diedero molte battaglie generali e particolari. Negli annali dei loro conquisti, non s’incontra per avventura un’impresa più rilevante e difficile dell’assedio d’Alessandria116. Questa città, primo [p. 242 modifica]emporio del traffico dell’intero Mondo, era abbondevolmente ricca d’ogni sorta di munizioni, e di presidii per la difesa. I suoi numerosi abitanti combattevano pei dritti che sono i più cari al cuor dell’uomo, religione e proprietà; e pareva che dall’odio dei nativi del paese non potessero sperare giammai nè pace, nè tolleranza. Era sempre libero il mare, e se l’angustia in cui era l’Egitto fosse stata bastante a scuotere l’indolente Eraclio, avrebbe costui agevolmente potuto versare nella seconda capital dell’impero nuovi eserciti di Romani e di Barbari. Aveva Alessandria dieci miglia di circuito, e tanta estensione avrebbe di leggieri portato l’inconveniente di dividere le forze dei Greci, e di favorire gli stratagemmi di un vigilante nemico: ma edificata in un rettangolo assai lungo, coperto ai due lati dal mare e dal lago Mareotide, presentava ad ogni estremità una fronte non maggiore di dieci stadi. Adeguavano gli Arabi le loro forze alla difficoltà dell’assedio, e alla fortezza della Piazza. Dall’alto del suo trono in Medina, teneva Omar gli occhi fissi sul campo e sulla città: la sua voce suscitava a combattere e le tribù Arabe, e i veterani della Sorìa, e dalla fama e fertilità dell’Egitto era possentemente avvivato e sostenuto lo zelo di questa santa guerra. Agitati gli Egiziani dalla brama di distruggere, o di cacciare i lor tiranni, secondavano colle loro braccia gli sforzi di Amrou; e forse l’esempio dei loro alleati valse a riaccendere loro in petto qualche scintilla di fuoco marziale, mentre Mokawkas nudriva l’ambiziosa speranza d’avere la [p. 243 modifica]tomba nella chiesa di S. Giovanni d’Alessandria. Osserva il patriarca Eutichio che i Saraceni combatterono con un coraggio da leone; ributtarono le frequenti e quasi giornaliere sortite degli assediati, e non tardarono ad attaccare le mura e le torri della città. In ogni assalto la spada e il vessillo di Amrou splendevano eminenti nella vanguardia. Un giorno fu trasportato dal suo valor temerario: i guerrieri del suo seguito, dopo aver penetrato nella cittadella n’erano stati scacciati, e il generale rimase in balìa de’ Cristiani con un amico e uno schiavo. Condotto davanti al Prefetto Amrou si ricordò del suo grado, e non pensò al suo stato presente. Un contegno fastoso, e un linguaggio altero già svelavano il Luogo-tenente del Califfo, e la scure d’un soldato era alzata sul suo capo pronta a punire l’insolente cattivo. Ebbe salva la vita mercè della prontezza ingegnosa del suo schiavo, il quale, battendo il viso del suo padrone, gli comandò in aria fiera di starsene zitto davanti ai superiori. Il credulo Greco fu ingannato, prestò l’orecchia alla proposta d’una negoziazione, e rimandò i prigionieri sperando che giugnerebbe in loro vece una deputazione più ragguardevole; ma ben presto le acclamazioni del campo annunciarono il ritorno del generale, e beffarono la semplicità degli infedeli. Finalmente, dopo un assedio di quattordici mesi117 e la perdita di ventitremila uomini, i Sa[p. 244 modifica]raceni la vinsero. Non rimaneva più nella Piazza che un piccolo drappello di Greci abbattuti e avviliti, che salparono alla volta di Costantinopoli, e la bandiera di Maometto sventolò sulle mura della capitale dell’Egitto. „Ho presa la gran città dell’occidente, scriveva Amrou al Califfo, e non è possibile far l’enumerazione delle ricchezze e delle rarità che contiene. Mi ristringerò ad osservare che vanta quattromila palagi, quattromila bagni, quattrocento teatri, o luoghi da spettacoli, dodicimila botteghe di commestibili, e quarantamila Ebrei tributari. La città è stata vinta dalla forza dell’armi, senza trattato o capitolazione, e sono ansiosi i Musulmani di godere i frutti della lor vittoria118.„ Il Califfo ributtò con fermezza ogni pensier di saccheggio, e ordinò al suo Luogo-tenente che riserbate fossero le ricchezze e le rendite di Alessandria al servigio pubblico, e alla propagazion della fede; furono numerati gli abitanti, e assoggettati a un tributo; fu domato il fanatismo, e il mal talento dei Giacobiti; ed avendo i Melchiti piegato il collo al giogo degli Arabi, ottennero la grazia di esercitare occultamente sì, ma tranquillamente il proprio culto. Giunse la nuova di questo vergognoso e funesto avvenimento ad accrescere i mali dell’imperatore, la salute del quale andava ogni dì declinando: egli si morì d’idropisia sette settimane circa dopo la perdita di [p. 245 modifica]Alessandria119. Sotto la minorità di suo nipote, i clamori d’un popolo privato dei grani, che gli erano stati sin allora dispensati giornalmente, decisero il Consiglio di Bisanzio a fare un tentativo per ricuperare la capitale dell’Egitto. Una squadra e un esercito romano due volte, in quattro anni, occuparono il porto e le fortificazioni d’Alessandria. Due volte ne furono discacciati dal valore d’Amrou, che dalle minacce di interne sedizioni nella provincia di Tripoli e della Nubia, ove avea portata la guerra, fu indotto a rivolgersi colà. Ma vedendo quanto quest’impresa fosse facile, Amrou, dopo il secondo assalto ove aveva durato fatica a respingere i Greci, giurò che se fosse una terza volta obbligato di gettare gli infedeli in mare, farebbe sì che Alessandria fosse da ogni parte accessibile al pari della casa d’una prostituta. Tenne parola di fatto, perchè smantellò in molti luoghi le mura e le torri: ma castigando la città risparmiò il popolo, ed eresse la moschea della Clemenza nel sito dove, nella sua vittoria, aveva raffrenato il furore de’ suoi soldati. Deluderei l’aspettazione del lettore, se qui non favellassi del caso che distrusse la biblioteca d’Alessandria, riferitoci dal dotto Abulfaragio. Era dotato Amrou d’un ingegno più avido di sapere, e di idee più liberali che non il resto de’ suoi concittadini, e [p. 246 modifica]nelle ore di riposo amava di conversar con Giovanni discepolo d’Amonio, che, per lo studio assiduo che faceva della grammatica e della filosofia, era soprannomato Filopono120. Animato da questa famigliarità osò Filopono domandare un dono per lui inestimabile, spregevole pei Barbari: chiese la biblioteca reale, quella sola delle spoglie d’Alessandria in cui non erasi apposto il suggello del vincitore. Era propenso Amrou a compiacere il grammatico, ma alla sua scrupolosa integrità non si addiceva alienare il menomo che senza la permissione del Califfo. La famosa risposta d’Omar, dipinge benissimo tutta l’ignoranza del fanatismo: „Se gli scritti dei Greci son concordi al Corano, sono inutili e non si denno conservare: se discordi da quello, son pericolosi e si denno abbrucciare„. Questa sentenza fu ciecamente eseguita; i volumi in carta o in pergamena furono distribuiti ai quattromila bagni della città, e tanto era l’incredibile numero di quelli, che appena bastaron sei mesi per consumarli tutti. Dopo che s’è pubblicata una version latina delle dinastie di Abulfaragio121, questa novella fu ripetuta diecimila [p. 247 modifica]volte, e non vi ha un erudito che con un santo sdegno non abbia deplorato questo irreparabile annientamento del sapere, delle arti e del senno dell’antichità. Per me sono assai tentato a negare il fatto e le conseguenze. Quanto al fatto, non v’ha dubbio, è sorprendente. „Udite e stupite„, dice lo storico anch’esso, e l’asserzione isolata d’un forestiere, che sei secoli dopo scorreva sui confini della Media, è bilanciata dal silenzio di due Annalisti d’un tempo anteriore, entrambi originari di Egitto, il più antico de’ quali, cioè il patriarca Eutichio, ha molto minutamente narrata la conquista d’Alessandria122. Il rigido decreto d’Omar ripugna ai precetti più fermi, e più ortodossi de’ casisti Musulmani123, i quali dichiarano formalmente che non è lecito giammai dare alle fiamme i libri religiosi de’ Giudei e dei Cristiani, ancor che si acquistino per dritto di guerra, e che si possono legittimamente impiegare ad [p. 248 modifica]uso de’ fedeli le composizioni profane degli storici o de’ poeti, dei medici o dei filosofi124. Convien forse supporre nei primi successori di Maometto un fanatismo più distruttore: ma in questo caso avrebbe dovuto finir presto l’incendio per mancanza di materiali. Non rianderò qui tutti gli accidenti sofferti dalla biblioteca d’Alessandria, non l’incendio involontariamente cagionatovi da Cesare nel difendersi125, non il pernicioso fanatismo de’ Cristiani che badavano di distruggere i monumenti dell’idolatria126. Ma se discendiamo poi dal secolo degli Antonini a quello di Teodosio, una serie di testimonianze contemporanee ci avviserà, che il palagio del re e il tempio di Serapide non conteneano più li quattro o settecentomila volumi raccoltivi dal buon gusto e dalla magnificenza de’ Tolomei127. Forse la metropoli o la residenza dei Patriarchi [p. 249 modifica]vantava una biblioteca: ma se le voluminose opere dei controversisti, Ariani o Monofisiti, andarono daddovero a riscaldare i bagni pubblici128, confesserà sorridendo il filosofo che finalmente avranno giovato qualche cosa al genere umano. Io piango sinceramente altre biblioteche più preziose, che furono avvolte nella rovina dell’impero Romano. Ma quando mi metto seriamente a calcolare la lontananza dei tempi, i guasti fatti dalla ignoranza, e infine le calamità della guerra, ho più maraviglia dei tesori rimasti che dei perduti. Gran numero di fatti curiosi e rilevanti son caduti nell’oblivione; non ci pervennero che mutilate le opere dei tre grandi storici di Roma, e manchiamo d’una quantità di bei passi della poesia lirica, giambica e drammatica dei Greci; ma conviene che ci rallegriamo al vedere che gli eventi e le devastazioni fatte dal tempo abbiano rispettato i libri classici, a cui dal suffragio dell’antichità129 fu decretato il primo posto dell’ingegno e della gloria. I nostri maestri, per l’intelligenza dell’antichità, avean letto e confrontato le opere dei loro predecessori130, nè abbiam motivo di cre[p. 250 modifica]dere d’aver perduta qualche verità importante, o qualche utile scoperta.

Amrou, nell’amministrazion dell’Egitto131, ebbe pure riguardo alle massime dell’equità e della politica, agli interessi del popolo credente difeso da Dio medesimo, e a quelli del popolo dell’Affrica protetto dal diritto delle genti. Nel disordine della conquista e d’un primo istante di libertà, avvenne che la tranquillità della provincia fosse turbata specialmente dalla lingua dei Cofti e dalla spada degli Arabi. Dichiarò Amrou ai Cofti che punirebbe doppiamente la fazione e la perfidia colla pena dei delatori, che riguarderebbe come suoi nemici personali, e coll’innalzamento dei cittadini innocenti cui si fosse tentato di perdere o soppiantare. Rammentò agli Arabi tutti i motivi di religione e d’onore che doveano impegnarli a sostenere la dignità del proprio carattere, a piacere a Dio ed al Califfo colla schiettezza e la moderazione, a risparmiare, a difendere un popolo che s’era fidato alla lor parola, ed a tenersi contenti alle luminose ricompense che aveano legittimamente ricevute in guiderdone della lor [p. 251 modifica]vittoria. Quanto alla maniera con cui regolò le rendite del paese; si scorge che disapprovò il testatico, imposizione semplicissima, ma sommamente oppressiva, e che preferì giustamente altri tributi calcolati sulla rendita netta dei vari rami dell’agricoltura e del commercio. Fu assegnato il terzo della contribuzione a mantenere gli argini e i canali cotanto alla pubblica prosperità necessari. Sotto il suo governo supplì la fertilità dell’Egitto alle carestie dell’Arabia, e una schiera di cammelli, carichi di biada ed altre derrate, copriva quasi senza lasciar intervallo la lunga strada da Menfi a Medina132. Il senno d’Amrou rinnovò ben tosto la comunicazion col mare, già intrapresa o eseguita dai Faraoni, dai Tolomei, e dai Cesari, e fu aperto dal Nilo al mar Rosso un canale lungo per lo meno ottanta miglia. Questa navigazione interna, che avrebbe congiunto il Mediterranneo coll’oceano dell’Indie, fu ben presto abbandonata come inutile e pericolosa; la sede del governo era passata da Medina a Damasco, e s’ebbe timore non i navili Greci penetrassero per avventura fino alle sante città dell’Arabia133.

Solo per la fama e per le leggende del Corano, [p. 252 modifica]Omar aveva cognizion dell’Egitto a lui testè sottomesso: volle perciò che il suo Luogo-tenente gli descrivesse il reame di Faraone e degli Amaleciti, e la risposta d’Amrou presenta una dipintura brillante e molto esatta di quel singolar paese134. „O comandante dei credenti, egli disse, l’Egitto è un composto di terra nera, e di piante verdi collocate fra una montagna polverizzata, e una sabbia rossa. Un uomo a cavallo che parta da Siene giugne in un mese alla sponda del mare. Scorre nella valle un fiume su cui riposa mattina e sera la benedizione dell’Altissimo, e che s’alza e s’abbassa a seconda dei rivolgimenti del sole e della luna. Quando l’annuale bontà della providenza dischiude le sorgenti e le fontane che alimentano il suolo, le acque del Nilo straripano con fracasso in tutta la contrada, e per questo salutare allagamento spariscono le campagne, e i villaggi non comunicano più insieme se non mercè d’una moltitudine di barche dipinte. Ritirandosi le acque, depongono un limo fertile atto a ricevere le varie semenze. I nugoli di coltivatori che oscurano la terra ponno paragonarsi a un formicaio industrioso; la naturale loro indolenza è stimolata dalla sferza del padrone, e dalla speranza dei fiori e delle frutta cui le loro braccia debbono moltiplicare. Rare [p. 253 modifica]volte è illusa questa speranza: ma la ricchezza che proccacciano il frumento, l’orzo, il riso, i legumi, gli alberi fruttiferi, e le gregge vien divisa inegualmente fra i lavoratori, e i proprietari. A seconda delle vicende delle stagioni, la superficie del paese è adorna di acque argentine, di verdi smeraldi e del giallo cupo delle ricolte dorate135„.

Nondimeno, quest’ordine benefico resta qualche volta interrotto, e la tardanza dell’inondazione come pure il subitaneo straripamento del fiume, che sopravennero nel primo anno della conquista, poterono originare l’edificante favoletta che si spacciò in questo proposito. Si pretese che avendo la pietà d’Omar vietato il sagrifizio d’una vergine, che si immolava ogni anno al Nilo136, sdegnato il fiume si stette queto nel [p. 254 modifica]suo letto: ma che quando vi fu gettato l’ordine del Califfo, le onde ubbidienti si sollevarono all’altezza di sedici cubiti in una notte. L’ammirazione che avevano gli Arabi pel paese allora conquistato, suscitava l’estro sregolato del loro spirito romanzesco. Asseriscono autori gravi che in Egitto si contavano allora ventimila città o villaggi137; che senza parlar dei Greci e degli Arabi, risultarono da una numerazione sei milioni di Cofti tributari138, e venti milioni di Cofti d’ogni età e d’ogni sesso; che lo erario del Califfo riscoteva annualmente da quel paese trecento milioni d’oro o d’argento139. La nostra [p. 255 modifica]ragione è ferita della stravaganza di queste asserzioni; ma si risentirà di più se ha la pazienza di prendere il compasso, e di misurare l’estension delle terre da lavoro; una valle che si prolunga dal tropico sino a Menfi, e che rare volte ha più di dodici miglia di larghezza, ed il triangolo del Delta, pianura di duemila cento leghe quadrate, non son che la decima parte dell’ampiezza della Francia140. Da più esatte indagini si potrà ricavare una stima più ragionevole. I trecento milioni creati da un error di copista sono ridotti alla somma, per altro considerabile, di quattro milioni e trecentomila pezze d’oro, novecentomila delle quali erano assorbite dallo stipendio de’ soldati141. Due tabelle autentiche, una del duodecimo secolo, l’altra del secolo presente, restringono a duemila e settecento le città e i villaggi, numero che può parere tuttavia rilevante142. Un Console fran[p. 256 modifica]cese, dopo lungo soggiorno al Cairo, ha calcolata la popolazione odierna dell’Egitto in quattro milioni circa di Musulmani, di Cristiani e d’Ebrei, calcolo assai forte, ma non incredibile143.

IV. Furon gli eserciti del califfo Othmano i primi che fecero il conquisto della parte dell’Affrica, che del Nilo corre sino all’oceano Atlantico144. I [p. 257 modifica]compagni di Maometto e i Capi delle tribù approvarono questo pio disegno; e si partirono da Medina ventimila Arabi carichi dei doni e delle benedizioni del comandante dei fedeli. Si riunirono a ventimila dei lor concittadini accampati nei contorni di Menfi; fu eletto a condur questa guerra Abdallah145, figlio di Said, e fratello di latte del Califfo, uno che avea soppiantato poco innanzi il vincitore e il Luogo-tenente dell’Egitto. Nè il suo merito, nè il favor del principe bastavano a fare che dimenticata fosse la sua apostasia. Aveva Abdallah abbracciata per tempo la religione di Maometto, e perchè scriveva benissimo gli era stato commesso il rilevante ufficio di copiare i fogli del Corano; mancò egli di fedeltà nell’eseguire questa gran commissione; guastò il testo, volse in derisione alcuni errori che erano suoi, e rifuggì alla Mecca per salvarsi dal castigo, e per dimostrare l’ignoranza dell’appostolo. Dopo la conquista della Mecca venne a gettarsi ai piedi del Profeta: le sue lagrime e le preghiere di Othmano carpirono a Maometto un perdono che egli concedette a mal in cuore, dichiarando aver esitato sì lungo tempo solamente perchè sperava, che un discepolo zelante vendicherebbe nel sangue del perfido l’oltraggio fatto alla religione. A questa, poichè non aveva più interesse nell’abbandonarla, servì in processo di tempo assai bene, e con un’apparenza di fedeltà. La sua nascita, i suoi talenti lo collocarono in un grado onorevole fra i Coreisbiti: e da un popolo, che quasi sempre era a cavallo, fu citato come [p. 258 modifica]il più destro e il più ardito cavaliere. Partì d’Egitto capitanando quarantamila Musulmani, e si internò nelle regioni sconosciute dell’occidente. Le arene di Barca poterono arrestare una Legion romana: ma gli Arabi, seguiti dai lor fidi cammelli, videro senza spavento un suolo ed un clima che ai deserti del lor paese rassomigliavano. Dopo un penoso cammino posero campo in faccia alle mura di Tripoli146, città marittima, ove erano concorsi a poco a poco gli abitanti e le ricchezze della provincia di cui serbava ella sola il nome, e che oggi è la capitale della terza Potenza barbaresca. Un rinforzo di Greci fu sorpreso e tagliato a pezzi sulla costa del mare: ma le fortificazioni di Tripoli resistettero ai primi assalti, e alla giunta del prefetto Gregorio147 dovettero i Saraceni abbandonare i lavori dell’assedio per dare una battaglia decisiva. Se è vero che Gregorio comandasse, siccome è fama, un esercito di centoventimila uo[p. 259 modifica]mini, le milizie regolari dell’impero si saranno appena vedute in quella moltitudine formata da una geldra di Mori, e di Affricani nudi e non disciplinati, i quali n’erano la forza o piuttosto la massa. Ributtò egli con isdegno la proposta d’abbracciar la religione del Corano, o di pagare un tributo; e per molti giorni combatterono i due eserciti con grande accanimento dalla punta del giorno sino al mezzodì, nella qual ora la fatica e l’eccesso del caldo gli obbligavano a cercare nei campi rispettivi un po’ di riposo. Fu detto che la figlia di Gregorio, giovanetta di rara bellezza e di gran coraggio, combattesse a fianco del padre. Sin da fanciulla era stata ammaestrata a maneggiare un cavallo, a lanciar dardi, a trattar la scimitarra, ed era segnalata nelle prime file dalla ricchezza delle armi e delle vestimenta. Fu promessa la sua mano, con centomila pezze d’oro, a chi recherebbe la testa del generale Arabo, e da una sì bella ricompensa erano allettati i giovani guerrieri dell’Affrica. Abdallah fortemente pregato dai suoi compagni s’allontanò dalla battaglia: ma la sua ritirata e la continuazione di tanti assalti, o indecisi nell’esito o avversi, posero l’avvilimento fra i Saraceni.

Un Arabo, nomato Zobeir148, di nobile famiglia, che poi divenne l’avversario d’Alì e padre d’un Califfo, si era segnalato pel suo valore in Egitto: ed era quegli che avea piantato il primo una scala alle mu[p. 260 modifica]ra di Babilonia. Nella guerra d’Affrica era stato distaccato dall’esercito di Abdallah. Alle prime nuove del conflitto fu visto con dodici guerrieri farsi strada in mezzo al campo dei Greci, e senza pigliar cibo o riposo correre a partecipare ai pericoli dei Musulmani. Volgendo gli occhi al campo di battaglia: „Dov’è, diss’egli, il nostro generale? — Nella sua tenda — Il general dei Musulmani dee stare nella tenda quando si combatte?„ replicò Zobeir. Abdallah gli rispose arrossendo quanto preziosa era la vita di un generale, e gli spiegò a quai pericoli lo esponesse il premio promesso dal prefetto Romano. „Rivolgete contro gli infedeli stessi questo artificio poco generoso, gli rispose Zobeir; fate gridare fra le schiere, che chiunque recherà la testa di Gregorio avrà in dono la figlia del Prefetto e centomila pezze d’oro„. Al coraggio e alla prudenza di Zobeir affidò il Luogo-tenente del Califfo l’esecuzione d’uno stratagemma da lui proposto: espediente che fissò in fine della parte dei Saraceni la vittoria per tanto tempo indecisa. Supplendo i Musulmani con l’attività e l’artifizio al difetto del numero, parte dell’armata si tenne nascosta nelle tende, intanto che l’altra tenne a bada il nemico con irregolari scaramuccie, sino al momento che il sole salì al punto più alto del cielo. I guerrieri delle due parti s’erano ritirati oppressi dalla fatica, aveano levate le briglie ai cavalli, e svestiti gli arnesi, e pareva che i due eserciti non pensassero più che a godere del fresco della sera, e aspettassero la domane per tornare alla zuffa. Improvvisamente Zobeir fa dare il segno della carica; il campo degli Arabi riversa un torrente d’armati intrepidi, ed ecco che la lunga linea dei Greci e degli Affricani è colta alla impensata, assalita e sconfitta da [p. 261 modifica]nuovi squadroni di fedeli, i quali agli occhi del fanatismo comparvero sicuramente quasi un esercito di angeli discesi dal cielo. Cadde il Prefetto per la mano di Zobeir: sua figlia, che anelava alla vendetta e alla morte, venne in potere del nemico: i Greci, fuggendo, involsero nel lor disastro la città di Sufetula, ove cercarono un asilo dalle sciabole e dalle lance degli Arabi. Sufetula giaceva lungi da Cartagine centocinquanta miglia al mezzogiorno, sopra una costa alquanto pendente, innaffiata da un ruscello, e ombreggiata da un boschetto di ginepri; le rovine d’un arco trionfale, d’un portico, e di tre templi d’Ordine corintio offrono tuttavia ai viaggiatori gli avanzi della romana magnificenza149. Occupata quella città dai Musulmani, vennero da ogni parte gli abitatori della provincia ed i Barbari ad implorare clemenza dal vincitore: esibizioni di tributo, professioni di fede concorsero a solleticare la pietà, o l’orgoglio degli Arabi: ma per le perdite, le fatiche, o i mali sofferti da una malattia epidemica, non poterono formare stanza durevole in quel paese, e dopo una campagna di quindici mesi, si ritrassero ai confini dell’Egitto coi prigionieri e col bottino. Il Califfo cedette il suo quinto ad un suo favorito in pagamento d’un preteso prestito di cinquecentomila pezze d’oro150: ma se è vero che la distribuzione reale della [p. 262 modifica]preda abbia dato ad ogni fante mille pezze d’oro, e ad ogni cavaliere tremila, lo Stato in questo affare ebbe doppia lesione di interesse per fraudolose disposizioni. Ognuno aspettava di vedere che l’autore della morte di Gregorio si presentasse ad esigere il guiderdone più prezioso per quella vittoria: nessuno compariva, e si credette che fosse stato ucciso nella mischia; ma le lagrime e le dogliose grida della figlia del Prefetto, quando ebbe scorto Zobeir, rivelarono la prodezza e la modestia di quel bravo soldato. Fu offerta la sventurata prigioniera all’uccisor di suo padre, che appena degnò riceverla nel numero delle sue schiave, freddamente dichiarando aver consacrata la sua spada al servigio della religione, e che militava per ottenere un premio ben superiore alle bellezze d’una mortale, e alla ricchezza d’una vita passeggera. Gli fu assegnata per altro una ricompensa, adeguata al suo carattere, con dargli l’onorevole commissione di recare al califfo Othmano la novella del trionfo dei Musulmani. Si raunarono i compagni di Maometto, i Capi ed il popolo nella moschea di Medina ad ascoltare la narrazione di Zobeir; e non avendo dimenticato l’oratore cosa alcuna, tranne il merito dei propri consigli e delle proprie imprese, accoppiarono gli Arabi il nome di Abdallah ai nomi eroici di Caled ed Amrou151. [p. 263 modifica]

[A. D. 689] L’invasione cominciata dai Saraceni verso l’occidente fu sospesa per lo spazio di circa vent’anni, sino al tempo che la casa d’Ommiyah, fattosi forte colà, terminò la discordia civile: allora dai gridi degli Affricani stessi fu invitato il califfo Moawiyah. Aveano i successori d’Eraclio ricevuta la nuova del tributo dalla forza imposto ai sudditi della provincia romana in Affrica; ma invece d’aver compassion di quel popolo e di alleviarne la miseria, il gravarono d’un secondo tributo della stessa somma, a titolo di compenso e di ammenda. Invano allegarono gli Affricani la povertà e la totale loro rovina; il ministero di Costantinopoli fu inesorabile; il perchè, disperati, preferirono il dominio d’un sol padrone, e dalle angherie del Patriarca di Cartagine, investito del potere civile e militare, furono indotti i Settari, ed anche i Cattolici, ad abbiurare la religione come pure l’autorità de’ lor tiranni. Il primo Luogo-tenente di Moawiyah si procacciò molta gloria: soggiogò una città ragguardevole, battè un esercito di trentamila Greci, fece ottantamila prigionieri, e colle loro spoglie arricchì gli avventurieri della Sorìa, e dell’Egitto152. Ma il soprannome di vincitor dell’Affrica appartiene più giustamente al suo successore Akbah. Partì egli di Damasco con diecimila Arabi dei più prodi, che [p. 264 modifica]furono di poi assistiti dal soccorso incerto di molte migliaia di Barbari, affezionati ad essi per una conversione del pari dubbiosa. Difficil cosa sarebbe, e poco sembra necessaria, indicare precisamente la strada delle armi di Akbah. Gli Orientali hanno empiuto l’interno dell’Affrica e di eserciti e di cittadelle immaginarie. La provincia bellicosa di Zab, o di Numidia, poteva armare quarantamila uomini, ma se le attribuirono trecentosessanta città, numero incompatibile collo stato miserabile in cui, o per l’ignoranza o per la trascuraggine degli abitanti, giaceva allora l’agricoltura153; e le rovine d’Erba, o Lambesa, antica metropoli dell’interno di quel paese, non presentano una circonferenza di tre leghe quale le fu supposta. Accostandosi alla costa del mare si trovano le notissime città di Bugia154 e di Tanger155, che furono, per quanto sembra, il limite delle vittorie dei Saraceni. La comodità del porto conserva a Bugia un resto di traffico: dicesi che in tempi più prosperi quella città racchiudesse ottantamila case; il ferro che si ricava, abbondantissimo, dai monti vicini avrebbe potuto ad un popolo più valoroso somministrare gli strumenti necessari alla sua difesa. Si compiacquero i Greci e gli Arabi d’abbellire delle lor favole la situazione lontana, e l’antica origine di Tingi, o Tanger. Ma quando gli ultimi ci parlano delle sue mura di rame, [p. 265 modifica]dell’oro e dell’argento che coprivano le cime de’ suoi edifici, non si dee in questo linguaggio figurato vedere che emblemi di forza e di ricchezza. Solamente in un modo imperfetto aveano i Romani osservata e descritta la provincia della Mauritania Tingitana156, così chiamata pel nome della capitale: vi aveano stanziate cinque colonie, le quali per altro non occupavano che piccola parte del paese, e se si eccettuino gli agenti del lusso i quali correvano le foreste, per cercarvi l’avorio e il legname di cederno157, e le [p. 266 modifica]coste dell’oceano, per trovar le conchiglie della porpora, poco s’innoltravano i Romani nelle parti meridionali. L’intrepido Akbah penetrò nell’interno delle terre, attraversò il deserto, ove i suoi successori innalzarono le belle capitali di Fez e di Marocco158, e finalmente giunse alla riva del mar Atlantico e alla frontiera del gran deserto. Il fiume di Sus discende dalla parte occidentale del monte Atlante come il Nilo, e fecondando il suolo dei contorni, si scarica in mare poco lontano dalle isole Canarie, o Fortunate. Abitavano le sue rive i Mori più grossolani, selvaggi senza leggi, senza disciplina, senza religione, i quali rimasero sbigottiti dall’invincibile forza degli Arabi; e poichè non possedevan nè oro, nè argento, la parte più preziosa del bottino, che fecero colà i Musulmani, si ridusse a un certo numero di belle schiave, alcune delle quali si vendettero sino per mille pezze d’oro. Sebbene la vista dell’oceano non raffreddasse lo zelo di Akbah, pure lo forzò ad arrestare i passi. Spinse egli il cavallo in mezzo all’onde del mare, e alzati gli occhi al cielo esclamò con tuono fanatico. „Gran Dio, se non fossi arrestato da questo mare, andrei sino ai regni ignoti dell’occidente predicando per via l’unità del tuo santo nome, e passando a fil di spada le nazioni ribelli che adorano altri Dei fuori [p. 267 modifica]di te„159. Intanto questo nuovo Alessandro, che aspirava a nuovi Mondi, non potè conservare le regioni che aveva occupate. La diserzion generale dei Greci e degli Affricani lo richiamò dalle sponde dell’Atlantico, ed egli, accerchiato in ogni parte da una moltitudine furibonda, non ebbe altro scampo che quello di morir gloriosamente. L’ultima scena della sua vita fu un bell’esempio di quella generosità che fra gli Arabi è sì comune. Era tratto prigioniero al campo di Akbah un capitano ambizioso, che conteso aveagli il comando, e che era stato sfortunato nell’impresa; gli insorgenti, sperando nel suo odio e desiderio di vendetta, pensavano a farlo entrare nei loro disegni: ma sdegnò egli quelle proferte, e rivelò la cospirazione: quando Akbah si vide accerchiato da ogni parte, spezzò i ferri del prigioniero e lo consigliò a ritirarsi: ma quegli protestò voler piuttosto morire sotto la bandiera del suo rivale. Allora tenendosi tutti due abbracciati, come amici e martiri, sguainarono la scimitarra, ne ruppero il fodero, e combatterono sino a tanto che finalmente caddero l’uno presso l’altro, dopo aver veduti trucidati sino all’ultimo i loro concittadini. Zobeir, che fu il terzo generale o terzo governatore dell’Affrica, fece vendetta della morte del suo predecessore, ed ebbe il destino medesimo. Riportò molte vittorie sugli originari del paese: ma fu oppresso da un grande esercito spedito in aiuto di Cartagine da Costantinopoli. [p. 268 modifica]

[A. D. 670-675] Addiveniva sovente che le tribù dei Mori si congiungevano alle squadre degli Arabi, partecipavano della preda, e si sottomettevano alla lor religione: ma tosto che si ritiravano, o provavano qualche disastro, faceano ritorno alla selvaggia loro independenza ed all’idolatria. Prudentemente avea divisato Akbah di porre una colonia d’Arabi nel centro dell’Affrica, e pensava che una città fortificata avrebbe tenuta a freno la leggerezza dei Barbari, e sarebbe un luogo sicuro ove, in tempo di guerra, potrebbero i Saraceni preservare le famiglie e le ricchezze. Nel cinquantesim’anno dell’Egira vi pose di fatto una colonia col modesto titolo di stazione d’una carovana. Nello stato di decadimento a cui oggi è ridotta Cairoan, quella colonia160 è tuttavia la seconda città del regno di Tunisi, lontana dalla capitale cinquanta miglia incirca verso il settentrione161: come ella è distante dodici miglia dalla costa del mare, verso occidente, non è stata esposta agli insulti delle navi greche e siciliane. Sgombrato che fu il terreno dalle bestie selvatiche e dai serpenti, quando fu schiarata la foresta, o piuttosto il deserto, si videro in mezzo ad una [p. 269 modifica]pianura di sabbia le vestigia di una città romana. I legumi che consuma Cairoan vengono da lungi, e mancando le sorgenti nel circondario sono astretti gli abitanti a raccogliere in cisterne e serbatoi l’acqua piovana. Ma l’industria d’Akbah vinse ogni ostacolo; segnò un recinto di tremila e seicento passi di contorno, e lo circondò d’un muro di mattoni, e in men di cinque anni si vide sorgere intorno al palagio del governatore un numero sufficiente di case private. Fu fabbricata una spaziosa moschea sostenuta da cinquecento colonne di granito, di porfido e di marmo di Numidia, e divenne Cairoan la sede del sapere come del governo. Ma non pervenne a questo grado di gloria che nei tempi posteriori. Le sconfitte d’Akbah e di Zobeir diedero un gran crollo alla nuova colonia, e per le dissensioni civili della monarchia degli Arabi furono interrotte le imprese verso occidente. Il figlio del prode Zobeir ebbe a sostenere contro la casa degli Ommiadi una guerra di dodici anni e un assedio di sette mesi. Vuolsi che Abdallah accoppiasse in sè la ferocia del leone e l’astuzia della volpe; ma se fu erede del coraggio paterno, nol fu punto della generosità162.

[A. D. 692-698] Il ritorno della pace nell’interno dell’impero concedette al califfo Abdalmalek agio a terminare la con[p. 270 modifica]quista dell’Affrica. Hassan, governator dell’Egitto, ebbe il comando delle soldatesche, e fu assegnato a questa impresa la rendita dell’Egitto, e quarantamila uomini. Aveano i Saraceni, nelle vicende della guerra, ora soggiogate or perdute le province interiori: ma la costa del mare era sempre occupata dai Greci: dai predecessori di Hassan era stato rispettato il nome e le fortificazioni di Cartagine, ed il numero dei suoi difensori s’era aumentato dagli abitanti di Cabes e di Tripoli che colà si erano ricoverati. Hassan fu più ardimentoso e più fortunato; ridusse a soggezione, e saccheggiò la metropoli dell’Affrica servendosi di scale per prenderla, come dicono gli storici, il che dà a credere che per un assalto egli risparmiò le noiose operazioni d’un assedio regolare. Ma non andò guari che la gioia dei vincitori fu turbata dalla giunta d’un rinforzo di Cristiani. Giovanni, prefetto e patrizio, abile e rinomato generale, imbarcò a Costantinopoli le forze dell’impero d’oriente163; fu raggiunto ben presto dalle navi e dai [p. 271 modifica]soldati della Sicilia, e ottenne dalla paura e dalla religione del monarca Spagnuolo una numerosa schiera di Goti164. I suoi navigli fransero la catena che chiudeva l’ingresso del porto, e gli Arabi si ritrassero a Cairoan o a Tripoli. Sbarcarono i Cristiani: i cittadini salutarono il vessillo della Croce, e fu speso inutilmente il verno a pascersi di vane chimere di trionfo o di liberazione; ma l’Affrica era perduta per sempre. Animato dallo zelo e dal risentimento, il Commendatore dei fedeli165 mise in punto tanto in mare che in terra, per la campagna seguente, un armamento più grosso del primo, e fu costretto Giovanni ad abbandonare il posto e le fortificazioni di Cartagine. Vi fu una seconda battaglia nei contorni di Utica, ove Greci e Goti furon di bel nuovo sconfitti, ed altro scampo non ebbero che un pronto imbarco per sottrarsi alla spada di Hassan, che aveva investito la debole palizzata del campo loro. Quanto rimaneva di Cartagine fu dato alle fiamme, e la colonia di Di[p. 272 modifica]done166 e di Cesare, fu lasciata in abbandono per più di due secoli sino all’epoca in cui il primo del Califfi fatimiti ne ripopolò un quartiere, che non era forse la ventesima parte dello spazio per lo innanzi occupato. Al principio del sedicesimo secolo era rappresentata la seconda capitale dell’occidente da una moschea, da un collegio senza scolari, da venticinque o trenta botteghe, e dalle capanne di cinquecento paesani, che immersi nella più cenciosa povertà pur conservavano tutta l’arroganza dei senatori Cartaginesi: ma fu ancora distrutto questo miserabil villaggio dagli Spagnuoli, che Carlo V posti avea nella Fortezza della Goletta. Disparvero le rovine di Cartagine, nè si saprebbe ove si fossero un giorno, se gli archi spezzati d’un acquidoccio non guidassero i passi del viaggiatore che le ricerca167.

[A. D. 692-698] Erano già stati espulsi i Greci, ma non ancora erano padroni gli Arabi del paese. I Mori, o Barbari168, sì deboli sotto i primi Cesari, e di poi sì formida[p. 273 modifica]bili ai principi di Bisanzio, contrapponevano nelle province interne una disordinata resistenza alla religione e al potere de’ successori di Maometto. Sotto i vessilli della lor regina Cahina vennero le tribù independenti ad accordarsi in certo modo ed a pigliare disciplina; e come i Mori attribuivano alle lor mogli il dono di profezia, attaccarono i Musulmani del paese con un fanatismo simile al loro. Mal poteano bastare le vecchie soldatesche di Hassan alla difesa dell’Affrica: le conquiste d’una generazione furono perdute in un giorno: il generale Arabo, trascinato dalla corrente, si ritrasse alle frontiere d’Egitto, e cinque anni attese i soccorsi che gli andava promettendo il Califfo. Dopo la ritirata de’ Saracini, la profetessa vittoriosa raunò intorno a sè i Capi dei Mori, e diede loro uno stravagante consiglio [p. 274 modifica]degnissimo della politica dei Selvaggi. „Le nostre città, diss’ella, e l’oro e l’argento che contengono allettano continuamente gli Arabi ad insignorirsene; questi vili metalli non sono l’oggetto dell’ambizione nostra: ci bastano le semplici produzioni della terra. Distruggiamo queste città, seppelliamo sotto le rovine que’ funesti tesori, e quando non offriremo più esca alla cupidigia de’ nostri nemici, forse cesseranno di turbare la tranquillità d’un popolo che sa far la guerra„. Da unanimi applausi fu accolta la proposta: cominciando da Tanger fino a Tripoli furon demoliti gli edifizii, o per lo meno le fortificazioni, tagliati gli alberi fruttiferi, annientati i mezzi di sussistenza: Cantoni fertili e popolosi divennero deserti, e sovente gli storici dei tempi posteriori accennavano i vestigi della prosperità e della devastazione dei loro antenati. Ecco che ne dicono gli Arabi moderni. Ma quanto a me, son molto inclinato a credere che solo per l’ignoranza dell’antichità, per voglia del maraviglioso, e per quell’abitudine, divenuta quasi una moda, d’esagerare la filosofia de’ Barbari, abbiano rappresentato come un atto volontario le calamità e i guasti di tre secoli, contando dai primi furori dei Donatisti e dei Vandali. Nel corso della rivoluzione è probabile che per la sua parte Cahina contribuisse ai disastri; e forse il timore della propria rovina spaventò o indispettì le città, che lor malgrado al giogo d’una donna s’erano sottomesse. Non isperavano più i coloni, e forse non bramavano più, il ritorno del sovrano che regnava in Bisanzio. Non era mitigata la loro servitù dai beneficii del buon ordine e della giustizia, e doveano i più zelanti cattolici preferire di buon grado le imperfette verità del [p. 275 modifica]Corano alla cieca e goffa idolatria dei Mori. Fu adunque il general dei Saracini per la seconda volta accolto come il salvator della provincia: gli amici del viver civile cospirarono contro i Selvaggi di quella parte di Mondo; Cahina fu uccisa nella prima battaglia, e cadde con lei il mal fermo edificio del suo impero e della superstizione che lo fiancheggiava. Lo stesso spirito di sedizione si riaccese sotto il successore di Hassan: ma infine fu soffocato dall’attività di Musa e de’ suoi due figli; e si può giudicare qual fosse il numero dei ribelli da quello di trecentomila di loro che furono ridotti a cattività. Sessantamila di quelli schiavi, assegnati pel quinto dovuto al Califfo, furono venduti a pro dell’erario: trentamila giovani furono arrolati nelle milizie, e per le pie sollecitudini di Musa, che non cessò di porre ogni opera ad inculcare ai vinti le dottrine e le pratiche del Corano, s’abituarono gli Affricani ad obbedire l’appostolo di Dio e il comandante dei fedeli. Pel clima che abitavano e pel loro governo, non che pel modo di vivere e per le qualità delle abitazioni, i Mori vagabondi rassomigliavano ai Bedoini del deserto, che abbracciando la religione di Maometto ebbero l’orgoglio di appropiarsi la lingua, il nome e l’origine degli Arabi. Così a poco a poco si mischiò il sangue degli stranieri con quello dei nativi del paese, e parve allora che la medesima nazione si fosse diffusa dall’Eufrate all’Atlantico, sulle arenose pianure dell’Asia e dell’Affrica. Concedo per altro che cinquantamila tende di Arabi puri abbian potuto passare il Nilo, e disperdersi nel deserto della Libia, e so che cinque tribù di Mori conservan tuttavia il [p. 276 modifica]loro idioma barbaresco, e portano il nome e il carattere d’Affricani bianchi169.

[A. D. 709] V. Continuando i Goti la lor conquista dal settentrione al mezzodì, e i Saracini dal mezzodì al settentrione vennero a scontrarsi sui confini dell’Europa e dell’Affrica. Credean gli ultimi d’aver ragione di detestare ed assalire un popolo che non avea la lor religione170. Sin dal tempo che regnava Othmano171, aveano i lor pirati devastata la costa di Andalusia172, e sempre si risovvenivano dei Goti che avean soccorsa Cartagine. I re di Spagna allora, [p. 277 modifica]come adesso, possedean la Fortezza di Ceuta, una delle colonne d’Ercole, separata da uno stretto angusto dall’altra colonna che è la punta d’Europa. Rimaneva ancora agli Arabi da conquistare il piccolo Cantone della Mauritania, ma Musa, che altero della vittoria avea investito Ceuta, fu respinto dalla vigilanza e dal coraggio del conte Giuliano generale dei Goti. Si riebbe ben presto da questa disgrazia, e fu tratto d’impaccio da un messaggio inaspettato del duce cristiano, che offeriva ai successori di Maometto la sua persona, la sua spada, e la piazza che comandava, chiedendo il vergognoso onore di introdurre gli Arabi nel cuor della Spagna173. Se si cerca il motivo del tradimento, gli storici Spagnuoli ripetono, giusta una novella popolare, che [p. 278 modifica]la sua figlia Cava174 era stata sedotta o violata dal suo sovrano, e che quel padre sacrificò alla vendetta la sua religione e la patria. Soventi volte apparvero sregolate e funeste le passioni dei principi; ma questa sì nota favoletta, romanzesca per sè medesima, non s’appoggia che a deboli prove, e può bene l’istoria di Spagna offrire motivi d’interesse e di prudenza più atti a far impressione sullo spirito d’un politico veterano175. Dopo la morte o la deposizione di Witiza, i suoi due figli erano stati soppiantati dall’ambizione di Rodrigo signore Goto di nobile lignaggio, il cui padre, duca o governatore d’una provincia, era stato la vittima della tirannia del regno precedente. La monarchia era sempre elettiva: ma i figli di Witiza educati sui gradini del trono, non poteano tollerare la condizion di privati a cui erano ridotti. Il loro risentimento palliato dalla dissimulazione delle Corti diveniva più pericoloso. Erano stimolati i lor partigiani dalla ricordanza dei favori un tempo ricevuti, e dalla speranza che potevano avere in una rivoluzione; ed il loro zio Oppas, arcivescovo di Toledo e di Siviglia, era il primo per[p. 279 modifica]sonaggio della chiesa, e il secondo dello Stato. È verosimile che Giuliano fosse avvolto nella disgrazia di questa sventurata fazione; che avesse molto a temere e poco a sperare dal nuovo regno, e che l’imprudente Rodrigo non potesse in trono dimenticare, nè perdonare gli oltraggi dalla sua famiglia sostenuti. Il merito e l’autorità di Giuliano lo rendeano un soggetto utile, ma formidabile; avea grandi poderi, partigiani arditi e numerosi, e per mala sorte ha dato a divedere anche troppo che, padrone dell’Andalusia e della Mauritania, teneva in mano le chiavi della monarchia di Spagna. Troppo debole siccome egli era a romper guerra contro il sovrano, cercò l’aiuto di estera Potenza, e invitando stoltamente i Mori e gli Arabi originò le calamità d’otto secoli: gli ragguagliò per lettere o in un abboccamento della ricchezza, non che della poca forza del suo paese, della debolezza d’un principe poco amato dal popolo, e dello stato di degradamento in cui era caduta quella effeminata nazione. Non erano più i Goti quei Barbari vittoriosi che aveano umiliata la superbia di Roma, spogliata la regina delle nazioni, e trionfato dal Danubio al mare Atlantico: segregati pei Pirenei dal rimanente del Mondo, s’erano addormentati i successori d’Alarico nella quiete d’una lunga pace. Le mura delle città cadevano in brani, i giovani cittadini aveano lasciato l’esercizio delle armi, e sempre alteri dell’antica fama doveano nella loro presunzione essere colla prima guerra perduti. L’ambizioso Saracino fu spronato a quel conquisto dalla facilità e dall’importanza che vedea di farlo; ma non vi si accinse che dopo aver consultato il Califfo. Un corriere da lui spedito a Walid ne recò una [p. 280 modifica]lettera che permetteva di aggregare i reami ignoti dell’occidente alla religione, ed al trono dei Califfi. Musa intanto manteneva segretamente e cautamente in Tanger il suo carteggio con Giuliano, e sollecitava gli apparecchi; ma per liberare i congiurati da ogni rimorso gli andava assicurando, che si terrebbe contento alla gloria o al bottino di quella impresa, nè mai avvisarebbe di stanziare gli Arabi al di là del mare che separa l’Affrica dall’Europa176.

[A. D. 710] Prima di affidare un esercito di fedeli ai traditori e agli infedeli d’una terra estrania, volle Musa fare della lor forza e veracità una prova di poco rischio. Cento Arabi, e quattrocento Affricani tragittarono su quattro navi da Tanger a Ceuta; il nome di Tarik, lor Capo, indica tuttavia il sito ove sbarcarono, e la data di questo memorando avvenimento177 è [p. 281 modifica]fissata nel mese di ramadan del novantunesimo anno dell’Egira, ossia nel mese di luglio, 748, se si conteggia come gli Spagnuoli dall’Era di Cesare178 in poi, o finalmente settecento dieci anni dopo la nascita di Cristo. Partendo da questo primo porto fecero diciotto miglia, sopra un terreno sparso di colline, prima di giugnere al castello e alla città di Giuliano179, a cui l’aspetto verdeggiante d’un promontorio che s’avanza in mare diede il nome di isola Verde, ed è anche conosciuta sotto nome di Algeziras. La grande ospitalità con che furono [p. 282 modifica]accolti, il numero de’ cristiani che ad essi si congiunse, le scorrerie che fecero in una provincia ubertosa e mal custodita, la ricchezza del bottino e la sicurezza loro nel ritorno, furono considerati dai loro concittadini come i più favorevoli presagi di sicura vittoria. Sin dai primi giorni della primavera vegnente s’imbarcarono cinquemila veterani e volontari sotto gli ordini di Tarik, bravo ed intrepido guerriero che superò le speranze del suo capitano. Il troppo fedele Giuliano avea fornito navi di trasporto. Approdarono i Saracini alla punta di Europa180. Nel nome corrotto di Gibraltar, ovvero di Gibilterra, si scontra tuttavia la prima denominazione di Gebel al Tarik, montagna di Tarik, e le trincere del campo degli Arabi sono state il primo sbozzo di quelle fortificazioni che, difese dagli Inglesi, hanno ultimamente resistito all’arte e alla potenza della Casa di Borbone. Dai governatori dei Cantoni vicini fu ragguagliata la Corte di Toledo dello sbarco e dell’avvicinamento degli Arabi; e la disfatta di Edeco un dei generali di Rodrigo, che aveva avuto ordine di prendere e d’incatenare que’ presuntuosi forestieri, avvertì questo principe del gran pericolo che correva. Per suo comando furono raunati i duchi e i conti, i vescovi e i nobili del reame tutti seguìti dai loro vassalli, e colla uniformità di linguaggio, di religione e di costumi, allora dominante fra le varie nazioni soggette alla monarchia Spagnuola, si può spiegare [p. 283 modifica]quel titolo di re dei Romani dato da un istorico Arabo a Rodrigo. Le forze di questo re ascendevano a novanta o a centomila uomini, esercito ben formidabile pel numero, se del pari lo fosse stato per la fedeltà e la disciplina. Quello di Tarik, cresciuto di nuovi rinforzi, era composto di dodicimila Saracini; ma il credito di Giuliano vi trasse da ogni parte i cristiani malcontenti, e gran numero d’Affricani fu sollecito di partecipare ai piaceri temporali che loro offriva il Corano. La battaglia che decise la sorte di questo regno fu data nei contorni di Cadice, presso la città di Xeres, fatta celebre da questo avvenimento181; la piccola riviera di Guadaleta che va a cadere nella baia, separava i due campi, e a conquistare o a perdere il possesso delle due rive di questa si limitarono i vantaggi e i disastri di tre giornate consecutive spese in sanguinose scaramucce; ma nel quarto giorno vennero i duo eserciti a una battaglia fiera o decisiva. Avrebbe Alarico avuto vergogna, mirando il suo indegno successore ornato il capo di un diadema di perle, avvolto in una lunga veste ricamata d’oro e di seta, coricato mollemente sopra una lettiga o sopra un cocchio d’avorio tirato da due muli bianchi. Malgrado del loro valore furono oppressi i Saracini dal numero, e sedicimila di loro copersero dei propri cadaveri il terreno. „Fratelli miei, disse Tarik alle schiere che gli rima[p. 284 modifica]nevano, il nemico ci sta a fronte, di dietro il mare. Dove potreste voi ritirarvi? Seguite il vostro generale: ho giurato di morire o di calcare sotto i miei piedi il re de’ Romani„. Egli aveva pure altri soccorsi oltre l’intrepidezza del suo disperato coraggio; assai sperava nel carteggio segreto e nei notturni abboccamenti che aveva il Conte Giuliano co’ figli e col fratello di Witiza. I due principi e l’arcivescovo di Toledo stavano nel posto più importante: seppero essi scegliere a tempo il momento di disertare; si trovarono sbaragliate le file dei cristiani; lo spavento e il sospetto s’erano impadroniti di tutti gli animi, e ciascheduno più non pensò che alla personal sicurezza; gli avanzi dell’esercito dei Goti, perseguitati dai vincitori per tre giorni, furono totalmente distrutti o dispersi. In mezzo alla confusion generale si slanciò Rodrigo dal cocchio, e saltò sul suo cavallo Orelia, il più veloce dei suoi corridori; ma non campò da quella morte che più conviene a un soldato, se non per perire meno gloriosamente nelle acque del Beti, o del Guadalquivir. Fu trovato sulla riva il suo diadema, la sua veste e il cavallo; ma poichè era scomparso il suo corpo nelle onde, probabilmente la testa che il Califfo ricevè per la sua, e che fece esporre con grande fasto davanti il palagio di Damasco, era quella di qualche vittima più oscura. „Tale è, dice un valente storico degli Arabi, la sorte dei re che stanno lontani del campo di battaglia182.„ [p. 285 modifica]

[A. D. 711] Erasi tanto ingolfato il conte Giuliano nei delitti e nell’infamia, che più non ponea speranza in altro che nella total ruina della patria. Dopo la battaglia di Xeres, consigliò al general Saracino le operazioni che terminar dovevano nel più sicuro modo il conquisto. „Il re dei Goti è perito, gli disse, i principi sono in fuga, l’esercito sconfitto, sbigottita la nazione: spedite distaccamenti ad assicurarsi delle città della Betica; ma quanto a voi, marciate in persona e senza indugio alla città reale di Toledo, e non lasciate ai cristiani già scompigliati il tempo o la quiete necessaria ad eleggere un nuovo monarca.„ Tarik seguì questo parere. Un prigioniero Romano che abbracciato avea l’Islamismo, e che era stato liberato dal Califfo medesimo, andò ad assalire Cordova con settecento cavalieri, guadò il fiume a nuoto e sorprese la città; i cristiani rifuggiti entro una chiesa si difesero più di tre mesi. Da un altro distaccamento fu sottomessa la costa meridionale della Betica, la quale, negli ultimi giorni della potenza dei Mori, formava il piccolo ma popoloso reame di Granata. Tarik dal Beti si trasferì verso il Tago183; attraversando la Sierra Morena, che [p. 286 modifica]separa l’Andalusia dalla Castiglia, comparve rapidamente sotto le mura di Toledo184. I più zelanti cattolici se n’erano fuggiti con le reliquie dei Santi, e se furon chiuse le porte lo furono solamente sino a tanto che non ebbe il vincitore sottoscritta una capitolazione onesta e ragionevole. Concedette egli agli abitanti libertà di andarsene colle robe loro; permise ai cristiani sette chiese; lasciò che l’arcivescovo e il clero esercitassero le loro funzioni religiose, e che i monaci seguitassero o infrangessero la loro Regola, e in tutti gli affari civili e criminali rimasero sommessi i Goti e i Romani alle leggi e ai magistrati propri. Ma se i cristiani furono protetti dalla giustizia di Tarik, fu egli indotto dalla gratitudine e dalla politica a premiare i Giudei, i quali e in segreto e pubblicamente aveano giovato i suoi più rilevanti trionfi. Questa nazione perseguitata dai re e dai Concilii di Spagna, che le avevano fatta più volte l’alternativa dell’esiglio o del battesimo, ributtata dal grembo della società, avea colto allora il destro opportuno per vendicarsi. La memoria dell’anterior sua condizione paragonata alla presente era un pegno sicuro della sua fedeltà; e di fatto si mantenne l’alleanza de’ discepoli di Mosè e di quelli di Maometto sin al tempo che gli uni e gli altri furono dalla Spagna cacciati. Da Toledo avanzò il Capo [p. 287 modifica]degli Arabi le sue conquiste verso il nort, e assoggettò i distretti che di poi hanno costituito i regni di Castiglia e di Leone. Ma vano sarebbe annoverare ad una ad una le città che si arresero quando loro si avvicinò, o descrivere di nuovo quella tavola di smeraldo185 che portarono i Romani dall’oriente in Italia, e che fra le spoglie di Roma passò nelle mani dei Goti, e fu da Tarik spedita al piè del trono di Damasco. La città marittima di Gijon fu, al di là dei monti delle Asturie, il termine delle imprese del luogotenente di Musa186, il quale con la celerità di un viaggiatore avea corso le settecento miglia che separano la roccia di Gibilterra dalla baia di Biscaglia. La barriera dell’oceano l’obbligò a ritornarsene addietro, e ben presto fu richiamato a Toledo per giustificarsi della presunzione che egli aveva avuta di soggiogare un regno, mentre il suo generale era [p. 288 modifica]assente. La Spagna allora più selvaggia, e che meno regolarmente difesa avea per due secoli resistito alle armi Romane, fu vinta in pochi mesi dai Saracini, e tanta era la premura dei popoli di sottomettersi e di trattar col nemico, che si cita il governatore di Cordova come l’unico capitano, che senza venire a patti sia divenuto suo prigioniero. Dalla battaglia di Xeres fu irrevocabilmente decisa la sorte dei Goti, e nel generale spavento ogni parte della monarchia credette necessario evitare una lotta, ove aveano dovuto soccombere le forze di tutta la nazione congiunte insieme187. Vennero poi la carestia e la peste, una dopo l’altra, a terminare la desolazione di quel paese, ed i governatori ansiosi di arrendersi, poterono per avventura esagerare le difficoltà che incontravano a radunare le provvisioni necessarie per sostenere un assedio. Contribuirono pure i terrori della superstizione a disarmare i cristiani: l’astuto Arabo seppe accreditare voci di sogni, di presagi, di profezie in favore della sua causa, come quella d’avere scoperto in un appartamento del palagio i ritratti dei guerrieri destinati a conquistare la Spagna. Pure viveva ancora una scintilla che doveva rianimare la monarchia Spagnuola; una folla di invitti fuggiaschi preferì una vita miserabile, ma libera, nelle vallate dell’Asturia, e i robusti montanari respinsero gli schiavi del Califfo, e quindi la [p. 289 modifica]spada di Pelagio si trasformò nello scettro dei re cattolici188.

[A. D. 712-713] Alla notizia di questi rapidi trionfi la soddisfazione di Musa degenerò in invidia temendo, senza palesarlo, che Tarik non gli lasciasse più luogo a conquisti. Partissi dalla Mauritania con diecimila Arabi e ottomila Affricani per andare in Ispagna, e sotto le sue bandiere militavano i più nobili dei Coreishiti. Al suo figlio maggiore lasciò il governo dell’Affrica, e condusse con sè i tre più giovani i quali, per l’età ed il valore, si mostravano atti a secondare le imprese più coraggiose del padre. Approdò egli ad Algeziraz, dove fu rispettosamente accolto dal conte Giuliano, il quale soffocando i rimorsi della coscienza testificò, in parole ed in fatti, che la vittoria degli Arabi non avea punto nè poco scemata l’affezione sua per la lor causa. Nondimeno rimanevano a Musa alcuni nemici da sottomettere. I Goti, nel tardo lor pentimento, paragonavano il loro numero a quel dei vincitori: le città trascurate da Tarik si credevano imprendibili, e da intrepidi patriotti erano difese le fortificazioni di Siviglia e di Merida. Dal Beti marciò Musa all’Anas, ossia dal Guadalquivir alla Guadiana, ne assediò le città, e le sottomise successivamente. Quando scorse le opere della romana magnificenza, il ponte, gli acquidotti, gli archi trionfali e il teatro dell’antica metropoli della Lusitania, disse egli a quattro uffiziali del suo seguito: „Si direbbe che la razza umana abbia unito tutta l’arte e tutte le forze che aveva per fondare questa città: [p. 290 modifica]fortunato colui che potrà divenirne padrone!„ A tanta ventura egli aspirava in fatti; ma gli abitanti di Merida sostennero in questa occasione l’onore che avevano di discendere dai bravi legionari d’Augusto189. Sdegnando di confinarsi entro le mura, uscirono ad assalire gli Arabi nel piano; ma furono puniti di tanta imprudenza da un distaccamento nemico che postosi in agguato, nel fondo d’una cava o in mezzo a muricci, precluse loro la ritirata. Allora Musa fece condurre all’assalto le torri di legno che usavansi negli assedi: la difesa della piazza fu lunga ed ostinata, ed il Castello dei Martiri sarà per le generazioni future una perpetua testimonianza della rotta dei Musulmani. Finalmente la costanza degli assediati fu vinta alla lunga dalla fame e dalla disperazione, e il vincitore prudente attribuì nella capitolazione alla stima e alla clemenza ciò che fu ridotto a concedere per l’ansietà di godere della vittoria. Fu lasciata agli abitanti la scelta fra l’esiglio o il tributo: le due religioni si divisero fra loro le chiese, e furono confiscati a profitto dei Musulmani gli averi di coloro che perirono nell’assedio, o che ripararono nella Galizia. Venne Tarik su Merida e Toledo a salutare Musa, e lo condusse al palazzo dei re Goti. Il loro primo abboccamento fu freddo e cerimonioso: volle il Luogo-tenente del Califfo un [p. 291 modifica]conto esatto dei tesori della Spagna, ed ebbe Tarik occasione di vedere che esposta era la sua riputazione ai sospetti ed all’infamia. Quest’eroe fu imprigionato, insultato e ignominiosamente frustato per mano, o almeno, per ordine di Musa. I primi Musulmani per altro osservavano una sì stretta disciplina, ed avevano uno zelo sì puro e uno spirito sì docile, che dopo questo pubblico oltraggio non vi fu difficoltà di commettere a Tarik l’onorevole impresa di ridurre a sommessione la provincia di Tarragona. Dalla liberalità dei Coreishiti fu eretta in Saragossa una moschea; il porto di Barcellona riaperto ai vascelli della Sorìa; e gli Arabi perseguitarono i Goti al di là dei Pirenei nella provincia di Settimania (la Linguadoca) di cui erano quelli in possesso190. Trovò Musa in Carcassona sette statue equestri di argento massiccio, che stavano nella Chiesa di Santa Maria, e non è credibile che ve le abbia lasciate. Da Narbona, ove pose un termine ossia una colonna, se ne tornò sulle coste della Galizia e della Lusitania. In sua assenza, Abdelaziz, uno dei suoi figli, ebbe a punire gli insorgenti di Siviglia, e da Malaga sino a Valenza soggiogò le sponde del Mediterraneo. Il trat[p. 292 modifica]tato ch’egli fece col saggio e prode Teodemiro, e che ci è rimasto in originale191, darà a conoscere i costumi e la politica di quel tempo. „Articoli di pace convenuti e giurati tra Abdelaziz, figlio di Musa, figlio di Nassir, e Teodemiro, principe dei Goti. Nel nome del misericordioso Iddio, Abdelaziz concede la pace alle seguenti condizioni: non sarà turbato Teodomiro nel suo principato; non si recherà ingiuria alla vita, nè alle proprietà, nè alle donne, nè ai fanciulli, nè alla religione, nè ai templi dei cristiani; Teodemiro consegnerà spontaneamente le sue sette città di Orihuela, Valentola, Alicante, Mola Vacasora, Bigerra (oggi Bejar), Ora (ossia Opta) e Lorca; non soccorrerà, nè riceverà i nemici del Califfo, ma comunicherà fedelmente quanto egli per avventura scoprisse dei loro disegni ostili; pagherà annualmente, come pure ogni Goto di famiglia nobile, una pezza d’oro, quattro misure di biada, altrettanto d’orzo, e una certa quantità di mele, d’olio e d’aceto: l’imposizione di ciascuno dei loro vassalli sarà la metà di questa tassa. Segnato il quattro di Regeb, l’anno dell’Egira 94, [p. 293 modifica]e sottoscritto da quattro testimoni Musulmani192„. Tanto Teodemiro che i suoi sudditi furono trattati con singolare dolcezza; ma pare che la rata del tributo variasse dal decimo al quinto, a seconda della docilità od ostinazione dei cristiani193. In questa rivoluzione ebbero essi molto a soffrire dalle passioni naturali e religiose degli Arabi, i quali profanarono varie chiese, e qualche volta presero per idoli le reliquie e le immagini. Alcuni ribelli furono passati a filo di spada, ed una città situata fra Cordova e Siviglia, della quale non conosciamo il nome, fu rasa sino alle fondamenta. Se per altro si paragonano queste violenze con quelle commesse dai Goti, quando invasero la Spagna, o alle altre che accadero quando i re di Castiglia e d’Aragona la ripigliarono, con[p. 294 modifica]verrà far elogio alla moderazione ed alla disciplina degli Arabi.

[A. D. 714] Era Musa assai attempato, quantunque, per nascondere la sua vecchiezza, coprisse sotto una polve rossa la canizie della barba; ma il suo cuore riscaldato dall’amore di gloria sentiva tuttavia il fervore della gioventù. Non vedendo nel possesso della Spagna che il primo passo alla conquista d’Europa, dopo avere in terra ed in mare apparecchiato un poderoso armamento, si metteva in punto per varcare di nuovo i Pirenei, per battere nella Gallia e nell’Italia i regni de’ Franchi e de’ Lombardi, allora pendenti verso l’ultima rovina, e per predicare l’unità di Dio sull’altare del Vaticano. Di là, soggiogando i Barbari della Germania, voleva seguire il corso del Danubio, dalla sua sorgente sino al Ponto-Eusino, rovesciare l’impero di Costantinopoli, e, ripassando d’Europa in Asia, riunire le contrade, che avrebbe vinte, al governo di Antiochia ed alle province della Sorìa194; ma questo vasto disegno, che non era poi forse tanto difficile ad eseguirsi, doveva agli occhi delle anime volgari sembrare stravagante, e quasi una visione da conquistatore. Non andò guari che Musa fu obbligato a risovvenirsi della propria dependenza e servitù. Gli amici di Tarik avevano esposto con buon successo i suoi servigi e l’ingiuria che aveva sofferta: la Corte [p. 295 modifica]di Damasco biasimò il procedere di Musa, entrò in sospetto delle sue intenzioni, e la tardanza sua ad obbedire al primo ordine, che lo richiamava, ne fece venire un secondo più severo e perentorio. Fu spedito dal Califfo un intrepido messaggero al campo di Musa, a Lugo in Galizia, e quivi alla presenza dei Musulmani e dei cristiani afferrò la briglia del suo cavallo. Fosse la fedeltà di Musa, o quella delle sue milizie, non seppe egli pensare a disobbedire; ma fu mitigata la sua disgrazia dal richiamo del suo rivale, e dalla licenza ch’egli ebbe di dare i due governi che aveva a due suoi figli Abdallah e Abdelaziz. Nel suo viaggio trionfale da Ceuta a Damasco, fece pompa delle spoglie dell’Affrica e dei tesori della Spagna, ed aveva al suo seguito quattrocento Goti nobili che portavano corone e cinture d’oro. Si valutava a diciotto ed anche a trentamila il numero dei prigionieri maschi e femmine trascelto, secondo la nascita e bellezza loro, a decorare il trionfo. Giunto a Tiberiade in Palestina seppe da un corriere di Solimano, fratello di Valid ed erede presuntivo del trono, essere il Califfo infermo di pericolosa malattia, e che Solimano desiderava che Musa riservasse all’epoca del suo regno lo spettacolo dei trofei della sua vittoria. Se fosse guarito Valid, sarebbe stata colpevole la dilazione di Musa; quindi egli proseguì il suo cammino e ritrovò già sul trono un nemico. Fu esaminata la sua condotta da un giudice parziale: il suo avversario era caro al popolo, e quindi fu quegli dichiarato reo di vanità e di mala fede, e l’ammenda, a cui fu condannato, di dugentomila pezze d’oro, se non lo ridusse alla miseria divenne una prova delle suo rapine; l’indegno trattamento che aveva usato [p. 296 modifica]a Tarik fu punito con una ignominia somigliante, e il vecchio generale, dopo essere stato pubblicamente flagellato, stette un giorno intiero sotto la sferza del Sole davanti la porta del suo palazzo, e finì coll’ottenere un onesto esiglio col pio nome di pellegrinaggio alla Mecca. La caduta di Musa avrebbe dovuto saziare l’odio del Califfo; ma egli temeva una famiglia potente ed oltraggiata, e il suo spavento ne domandava l’estirpazione. Fu segretamente, e con prontezza, spedita la sentenza di morte in Affrica ed in Ispagna a’ fedeli servi del trono, e se fu giusta, certamente furono nell’eseguirla violate le forme dell’equità. Abdelaziz morì nella moschea, o nel palazzo di Cordova sotto il ferro de’ cospiratori, ed i suoi assassini gli rinfacciarono d’avere avuto pretensione agli onori di re, come pure lo scandolo del suo matrimonio con Egilona, vedova di Rodrigo, che offendeva i pregiudizi dei Cristiani non che dei Musulmani. Con un raffinamento di crudeltà fu presentata la sua testa al padre domandandogli, se conosceva le fattezze di quel ribelle: „Sì, esclamò con indignazione, conosco quel volto; sostengo che fu innocente, e invoco sul capo dei suoi assassini un egual destino, ma più giusto„. Ben presto la disperazione e la vecchiaia liberarono Musa dal timore dei re; egli si morì di affanno dopo che fu giunto alla Mecca. Fu trattato meglio il suo rivale Tarik al quale furon perdonati i suoi servigi, e permesso d’entrare nel novero degli schiavi195. Non so se il conte Giuliano rice[p. 297 modifica]vesse per guiderdone la morte che aveva meritata, ma non l’ebbe per mano dei Saracini, avvegnachè sia smentito dalle testimonianze più irrefragabili ciò che si disse dell’ingratitudine loro verso i figli di Witiza. Ai due principi si restituirono i privati demanii del padre; ma alla morte del primogenito, chiamato Eba, sua figlia dallo zio Sigebut fu ingiustamente spogliata del paterno retaggio. Andò la figlia dal principe Goto a perorare la sua causa davanti al Califfo Hashem, ed ottenne la restituzione delle sue proprietà; fu data in matrimonio ad un nobile Arabo, e i suoi due figli, Isacco ed Ibrahim, furono in Ispagna accolti con quei riguardi che alla nascita e alla ricchezza loro si convenivano.

Una provincia conquistata prende facilmente le abitudini del vincitore, sia per l’introduzione degli stranieri, sia per lo spirito di imitazione che s’insinua ne’ nazionali: così la Spagna, che avea veduto alternativamente mischiarsi al proprio sangue quello dei Cartaginesi, dei Romani, dei Goti, in poche generazioni venne pigliando il nome ed i costumi degli Arabi. Dietro ai primi generali ed ai venti Luogo-tenenti del Califfo, che si succedettero in quel paese, giunse pure un seguito numeroso d’ufficiali civili e militari, i quali amavan meglio menare una vita agiata in paese lontano, che vivere stentatamente in [p. 298 modifica]patria. Queste colonie di Musulmani portavano vantaggio all’interesse del pubblico e dei privati, e le città della Spagna rammemoravano con fasto la tribù, o il cantone dell’oriente donde traevano origine. Le vittoriose brigate di Tarik e di Musa, quantunque miste di molte nazioni, eran distinte col nome di Spagnuole il quale formava in certo modo il lor diritto di conquista; permisero nondimeno ai Musulmani dell’Egitto di stanziarsi nella Murcia e in Lisbona. La legione regia di Damasco si domiciliò in Cordova, quella di Emesa in Siviglia, quella di Kinnisrin ossia Calcide in Jaen, quella di Palestina in Algeziras e in Medina Sidonia. i guerrieri venuti dall’Yemen e dalla Persia si sperperarono intorno a Toledo e nell’interno del paese, e le fertili possessioni di Granata furono date a decimila cavalieri196 della Sorìa e dell’Irak, i quali erano la razza più pura e più nobile che fosse in Arabia. Queste fazioni ereditarie mantenevano uno spirito di emulazione talora utile, ma il più delle volte pericoloso. Dieci anni dopo la conquista, fu presentata al Califfo una carta della Spagnia ove erano segnati i mari, i fiumi, i porti, le città, il numero degli abitanti, [p. 299 modifica]il clima, il suolo e le produzioni minerali197. Nello spazio di due secoli, l’agricoltura198, le manifatture e il commercio d’un popolo illustre crebbero vie meglio le beneficenze della natura, e gli effetti della operosità degli Arabi furono anche abbelliti dalla oziosa loro fantasia. Il primo degli Ommiadi che regnò in Ispagna chiese in sussidio i cristiani; e col suo editto di pace e di protezione si tenne contento ad un modico tributo di diecimila oncie d’oro, di diecimila libbre d’argento, di diecimila cavalli, di altrettanti muli, di mille corazze e d’un ugual numero di elmetti e di lancie199. Il più possente dei suoi successori ricavò dallo stesso [p. 300 modifica]regno una rendita annuale di dodici milioni e quarantacinquemila denari ossia pezze d’oro, che formano circa sei milioni sterlini200, somma che nel decimo secolo probabilmente superava la totalità delle rendite di tutti i monarchi cristiani. Risedeva il Califfo in Cordova, città che vantava seicento moschee, novecento bagni e dugentomila case; dava leggi a ottanta città di prim’ordine, a trecento del secondo e del terzo, e dodicimila villaggi ornavano le fertili sponde del Guadalquivir. Queste sicuramente sono esagerazioni degli Arabi, ma è vero però che non mai fu più ricca la Spagna, nè meglio coltivata e popolosa, come sotto il loro governo201.

Aveva il Profeta santificate le guerre de’ Musulmani; ma tra i vari precetti, e gli esempi da lui dati in vita, prescelsero i Califfi le lezioni di tolle[p. 301 modifica]ranza più acconce a disarmare la resistenza degl’increduli. Era sempre l’Arabia il santuario ed il retaggio del Dio di Maometto, il quale poi guardava con occhio men amorevole e men geloso le altre nazioni della terra. Quindi gli adoratori del suo Dio credevano potere a buon dritto estirpare i politeisti e gl’idolatri che ignoravano il suo nome202; ma non andò guari tempo che vennero sagge considerazioni politiche in supplimento delle massime di giustizia, e, dopo qualche misfatto d’uno zelo intollerante, seppero i Musulmani, insignoritisi dell’India, rispettare le pagodi di quel popolo numeroso e devoto. A’ discepoli di Abramo, di Mosè e di Gesù203 fu mandato solenne invito, perchè abbracciassero il culto del Profeta, come il più perfetto, ma però, quando avessero voluto pagare piuttosto una tassa moderata, si concedea loro libertà di coscienza, e facoltà di adorare Iddio alla lor maniera204. Col professare [p. 302 modifica]l’Islamismo poteano i prigionieri, fatti sul campo di battaglia, redimersi dalla morte; le donne peraltro doveano adattarsi alla religione de’ padroni, e così, per l’educazione che davasi a’ figli de’ prigionieri, andava a poco a poco crescendo il numero de’ proseliti sinceri. Ma dalla seduzione per avventura più che dalla forza furono vinti que’ milioni di neofiti dell’Affrica, i quali si dichiararono pronti a seguire la novella religione. Con un atto di poco momento, con una semplice profession di fede, in un istante il suddito o lo schiavo, il prigioniero o il delinquente diveniva uom libero, eguale e compagno de’ Musulmani vittoriosi. Espiati erano tutti i suoi peccati, infranti tutti i suoi impegni anteriori: a’ voti di castità sostituivansi le inclinazioni della natura; la tromba de’ Saracini svegliava gli spiriti ardenti sopiti nel chiostro, e in quella generale convulsione ogni Membro d’una nuova società si collocava in quella situazione, che a’ suoi talenti e al suo coraggio si conformava. Non era minore l’impressione che faceva su la moltitudine la felicità promessa da Maometto nell’altra vita, di quel che i piaceri in questa permessi; e vuol carità che si pensi, che da buon numero de’ suoi proseliti si credesse lealmente alla verità e santità della sua rivelazione, la quale di fatto, ad un politeista ragionatore, potea parere degna della natura divina, non che dell’umana. Più pura del sistema di Zoroastro, [p. 303 modifica]più generosa della legge di Mosè205, sembrava la religion di Maometto meno contraria alla ragione di quello che i tanti misteri e le superstizioni che, nel settimo secolo, la semplicità digradavano dell’Evangelo.

Nelle vaste regioni della Persia e dell’Affrica avea l’Islamismo sradicata la religion nazionale. Tra le Sette dell’oriente, la teologia equivoca de’ Magi era la sola che tuttavia sussistesse, ma si potea di leggieri, sotto il venerando nome d’Abramo, destramente collegare alla catena della rivelazione divina gli scritti profani di Zoroastro206. Potevasi raffigurare il suo cattivo principio, il genio Ahriman, come il rivale o la crea[p. 304 modifica]di Lucifero. Non v’era un’immagine che ornasse i templi della Persia, ma si poteva rappresentare come una goffa e cerimoniosa idolatria il culto che al Sole ed al fuoco era diretto207. Dalla prudenza de’ Califfi, [p. 305 modifica]per l’esempio dato da Maometto208, fu rivolta l’opinione all’avviso più moderato, e tanto i Magi che i Guebri furono posti co’ Giudei e co’ Cristiani nel novero de’ popoli della legge scritta209; di modo che nel terzo secolo dell’Egira, la città di Herat offerse un singolare conflitto di fanatismo privato e di pubblica tolleranza210. Per la legge musulmana era assicurata la libertà civile e religiosa dei Guebri di Herat con patto che pagassero un tributo; ma l’umile moschea, di recente innalzata dai Musulmani, era oscurata dall’antico splendore di un tempio del Fuoco unito all’edifizio musulmano. Predicando si lagnò un fanatico Imano di questa scandalosa vicinanza, ed accagionò di debolezza o d’indifferenza i fedeli. Attizzato dalla sua voce si raunò il popolo tumultuariamente, furon date alle fiamme le moschee ed il tempio, ma sul loro suolo si cominciò subito una nuova moschea. Ricorsero i Magi al sovrano del Corasan per ottenere riparazione all’ingiuria sofferta, ed egli avea promesso giustizia e soddisfazione, quando (ciò che si stenterà a credere) quattromila cittadini [p. 306 modifica]di Herat, di carattere austero e d’età matura, giuravano con voce unanime che mai non aveva esistito il tempio del Fuoco. Allora non vi fu più modo per continuare l’inquisizione del fatto, e la coscienza de’ Musulmani, scrive lo storico Mirchond211, non ebbe rimorso di questo suo pio e meritorio spergiuro212. Il più gran numero per altro dei templi della Persia andò in rovina per la diserzione accaduta a poco a poco, ma generale, di quelli che li frequentavano. Fu la diserzione fatta a poco a poco, poichè non se ne sa nè il tempo nè il luogo, e non pare che fosse [p. 307 modifica]accompagnata da persecuzioni e da resistenza. Fu generale, poichè fu l’Islamismo abbracciato da tutto il regno, cominciando da Shiraz sino a Samarcanda, mentre la lingua del paese, conservata dai Musulmani di quella regione, prova la loro origine persiana213. Da parecchi miscredenti, dispersi nelle montagne e nei deserti, fu ostinatamente difesa la superstizione dei loro antenati, e rimane una debole tradizione della teologia dei Magi nella provincia di Kirman, sulle sponde dell’Indo, fra i persiani che stanno a Surate e nella colonia fondata presso Ispahan da Shah Abbas. Il gran pontefice si è ritirato nel monte Elbourz, diciotto leghe distante dalla città di Yezd. Il fuoco perpetuo, se continua ad ardere, è inaccessibile ai profani, ma i Guebri, che nelle fattezze uniformi e molto grossolane attestano la purezza del sangue loro, vanno in peregrinazione a visitare il domicilio di quel pontefice che è lor maestro ed oracolo. Colà ottantamila famiglie conducono una vita tranquilla e innocente sotto la giurisdizione de’ vecchi, e con alcuni lavori industriosi e con le arti meccaniche provvedono alla sussistenza, non trascurando di coltivare la terra con quello zelo che, come dovere, è loro inspirato e prescritto dalla religione. Il volere dispotico di Shah Abbas, il quale pretendea con minacce e torture forzarli a consegnargli i libri di Zoroastro, fu [p. 308 modifica]vano contro la loro ignoranza; ed ora, sia moderazione o disprezzo, i sovrani attuali non danno più inquietudine agli oscuri Magi superstiti214.

La costa settentrionale dell’Affrica è quel solo paese, ove dopo essersi ampiamente diffusa e aver dominato per lungo tempo, sia poi la luce dell’Evangelo totalmente scomparsa. Una nebbia d’ignoranza avea pure avvolto nelle tenebre stesse le scienze e le arti, colà venute da Roma e da Cartagine, nè più era oggetto di studio la dottrina di San Cipriano e di Sant’Agostino. Sotto il furore de’ Donatisti, de’ Vandali e de’ Mori erano cadute cinquecento chiese vescovili; scemato il numero de’ sacerdoti, docilmente si sottomise il popolo, privo di regola, di lumi e di speranze, al giogo del Profeta d’Arabia.  [A. D. 749] Dopo un mezzo secolo dall’espulsione de’ Greci in poi, un Luogo-tenente dell’Affrica avvisò il Califfo che per la conversione degl’infedeli215 era cessato il tributo che pagavano; e questo pretesto, da lui preso per celare la sua frode e ribellione, di[p. 309 modifica]veniva in qualche guisa specioso pei rapidi progressi che l’Islamismo avea fatti. Nel secolo susseguente, cinque vescovi, spediti dal patriarca Giacobita, si rendettero da Alessandria a Cairoan con una missione straordinaria per quivi raunare e rianimare i moribondi avanzi del cristianesimo216; ma basta l’intervento d’un prelato estero, separato dalla chiesa latina e nemico de’ cattolici, per indicare il deperimento e la dissoluzione della gerarchia affricana. Non erano più que’ tempi che i successori di San Cipriano, presedendo un Sinodo numeroso, potevano a forze eguali contendere contro l’ambizione del pontefice Romano.  [A. D. 1053-1076] Nell’undecimo secolo dovette lo sventurato prete, che sedea su le rovine di Cartagine, implorare limosina e protezione dal Vaticano, e amaramente si dolse d’essere stato non solo ignominiosamente spogliato e battuto colle verghe da’ Saracini, ma di vedere contestata la sua autorità dai quattro suffraganei ch’erano le deboli colonne della sua sede episcopale. Abbiamo due lettere di Gregorio VII217, nelle quali si studia questo Papa d’alleviare i mali de’ Cattolici, e d’ammansare l’orgoglio d’un principe Moro. Assicura egli il soldano che il Dio da lui adorato è lo stesso che il suo, e soggiugne che ha speranza di trovarlo un giorno nel [p. 310 modifica]seno d’Abramo; ma dalle sue doglianze di non avere colà tre vescovi che potessero consacrarne un quarto, s’argomentava la pronta ed inevitabile caduta dell’Ordine episcopale.  [A. D. 1149 ec.] Da lungo tempo i cristiani d’Affrica e di Spagna s’erano sottomessi alla circoncisione; da lungo tempo s’astenevano dal vino e dal maiale, ed erano denominati Mosarabi218, o Arabi adottivi, perchè negli usi loro civili e religiosi s’accostavano a quelli de’ Musulmani219. Verso la metà del duodecimo secolo, il culto di Cristo, e i pastori di quella comunione cessarono totalmente sulla costa di Barbaria, e ne’ reami di Cordova e di Siviglia, di Valenza e di Granata220. Il trono [p. 311 modifica]degli Almohadi o Unitari posava sul più cieco fanatismo, e dalle recenti vittorie e dallo zelo intollerante de’ principi di Sicilia, di Castiglia, d’Aragona e di Portogallo fu suscitato, o forse giustificato, l’insolito rigore del lor governo.  [A. D. 1535] Alcuni missionari inviati dal Papa ravvivarono a quando a quando la fede de’ Mozarabi, e allorchè Carlo V approdò alle coste dell’Affrica, presero coraggio varie famiglie cristiane di Tunisi e d’Algeri, e mostrarono la fronte; ma ben presto fu totalmente soffocata la semente dell’Evangelo, e da Tripoli sino al mare Atlantico fu posta del tutto in dimenticanza la lingua e la religione di Roma221.

Volgono omai undici secoli dacchè cominciò il regno di Maometto, e tuttavia Giudei e Cristiani nell’impero Turco godono della libertà di coscienza ad essi dai Califfi arabi consentita. Ne’ primi tempi della conquista, ebbero sospetto i Califfi sulla fedeltà dei cattolici, ai quali il nome di Melchiti dava l’impronta d’una segreta inclinazione per l’imperatore Greco, mentre i Nestoriani e i Giacobiti, suoi vecchi nemici, palesavano pei Musulmani una devozione [p. 312 modifica]sincera ed affettuosa222. Ma il tempo e la sommessione dissiparono queste particolari inquietudini; quindi e Cattolici e Maomettani si divisero le chiese dell’Egitto223, e tutte le Sette dell’oriente rimasero comprese in una tolleranza generale. Il magistrato civile proteggeva la dignità, le immunità e le autorità de’ patriarchi, dei vescovi e del clero: poteano i particolari colla dottrina innalzarsi agl’impieghi di segretari e di medici, arricchirsi nelle commissioni lucrose di esattori delle tasse, e salire col merito al comando di città e di province. Fu inteso un Califfo della casa di Abbas dichiarare i cristiani essere quelli che più di ogni altro erano degni di fiducia per l’amministrazion della Persia. „I Musulmani, diss’egli, abuseranno della loro presente fortuna; i Magi piangono la perduta grandezza, e i Giudei sperano vicina la lor liberazione„224. Ma gli schiavi del dispotismo son sempre esposti [p. 313 modifica]alle vicende del favore e della disgrazia. In ogni secolo furono oppresse le chiese dell’oriente dalla cupidigia, o dal fanatismo de’ lor padroni, e poterono le vessazioni portate dall’uso o dalla legge irritare l’orgoglio e lo zelo de’ cristiani225. Circa due secoli dopo Maometto, furono distinti dagli altri sudditi dell’impero Ottomano per l’obbligo di portare un turbante, o una cintura d’un colore meno onorevole; fu loro interdetto l’uso de’ cavalli e delle mule, e vennero condannati a cavalcare gli asini nella foggia delle donne. Fu limitata l’estensione pei loro edificii pubblici e privati: nelle strade o nei bagni debbono ritrarsi o inchinarsi davanti l’infimo della plebe, e si ricusa la lor testimonianza qualora possa pregiudicare un vero fedele. È ad essi vietata la pompa delle processioni, il suono delle campane, e la salmodia; nelle prediche e nei discorsi debbono rispettare la credenza nazionale, e quel sacrilego che tenti d’entrare in una moschea, o sedurre un Musulmano, non potrebbe sfuggire al castigo. Ora, trattine i tempi di turbolenza e d’ingiustizia, mai non furono sforzati i cristiani ad abbandonar l’Evangelo, o a preferire il Corano; ma si è inflitta la pena di morte agli apostati che han professata e poi rigettata la legge di Maometto, e i martiri della città di Cordova [p. 314 modifica]provocarono la sentenza del Cadi226 solamente perchè dichiararono in pubblico la loro apostasia, e proruppero in violente invettive contra la persona e la religion del Profeta.

Sulla fine del primo secolo dell’Egira, erano i Califfi i più possenti e più assoluti monarchi del Mondo; non era limitata, di diritto o di fatto, l’autorità loro nè dal potere dei Nobili, nè dalla libertà dei comuni, nè dai privilegi della chiesa, nè dalla giurisdizion del senato, nè infine dalla memoria di una costituzione libera. L’autorità de’ compagni di Maometto era spirata con essi, e i Capi, o Emiri, delle tribù Arabe lasciando il deserto, abbandonavano dietro di sè le loro massime d’eguaglianza e di independenza. Al carattere regio accoppiavano i successori del Profeta il carattere sacerdotale, e se il Corano era la norma delle loro azioni, erano essi i giudici e gli interpreti di quel libro divino. Per dritto di conquista regnavano sulle nazioni dell’oriente che ignorano persino il nome di libertà, e sogliono nei loro tiranni lodare gli atti di violenza e di severità da cui sono oppressi. Sotto l’ultimo degli Ommiadi stendeasi l’impero degli Arabi da oriente a occidente, per lo spazio di duecento giornate, comin[p. 315 modifica]ciando ai confini della Tartaria indiana sino ai lidi del mare Atlantico; e se leviamo dal conto la Manica del vestito, per usare la frase dei loro scrittori, cioè la lunga ma stretta provincia dell’Affrica, doveva una carovana impiegare quattro o cinque mesi ad attraversare da qualunque banda, cioè da Fargana sino ad Aden e da Tarso sino a Surate, quella region dell’impero che formava per così dire un solo pezzo non interrotto227. Invano si sarebbe cercata colà quella unione indissolubile, e quella agevole sommessione che s’incontrava sotto l’impero d’Augusto e degli Antonini; ma la religion musulmana dava a sì vaste contrade una generale rassomiglianza di costumi e di opinioni. In Samarcanda, in Siviglia, con pari ardore, si studiavano la lingua e le leggi del Corano; e Mori e Indiani si scontravano in pellegrinaggio alla Mecca, s’abbracciavano, come concittadini e fratelli, e l’idioma degli Arabi era il dialetto popolare di tutte le province giacenti all’occidente del Tigri228.

Note

  1. V. la descrizione della città e del distretto d’Al- Yemanah in Abulfeda (Descript. Arabiae, p. 60, 61). Nel tredicesimo secolo v’erano tuttavia alcune ruine e poche palme. Oggi quel Cantone medesimo è soggetto alle visioni e alle armi d’un profeta moderno, di cui si conosce la dottrina imperfettamente. (Niebuhr, Description de l’Arabie, p. 296-302).
  2. Questa profetessa, che si nomava Segjah, ritornò all’idolatria dopo la caduta dell’amante; ma sotto il regno di Moawiyah abbracciò la religione musulmana, e morì a Bassora (Abulfeda, Annal. vers. Reiske, p. 63).
  3. V. il testo, che dimostra l’esistenza d’un Dio per l’opera della generazione, in Abulfaragio (Specimen Hist. Arabum pag. 13 e Dynast., pag. 103) e in Abulfeda, (Annal., pag. 63).
  4. V. il suo regno in Eutichio (t. II, p. 251), Elmacin (p. 18), Abulfaragio (p. 108), Abulfeda (p. 60 ), d’Herbelot (p. 58).
  5. V. sul suo regno Eutichio (p. 264), Elmacin (p. 24), Abulfaragio (pag. 110), Abulfeda (pag. 66), d’Herbelot (p. 686).
  6. V. sul suo regno Eutichio (p. 323), Elmacin (p. 36), Abulfaragio (pag. 115), Abulfeda (pag. 75), d’Herbelot (p. 695).
  7. V. intorno al suo regno Eutichio (p. 343), Elmacin (p. 51), Abulfaragio (p. 117), Abulfeda (p. 83), d’Herbelot (p. 89).
  8. V. sul suo regno Eutichio (p. 344), Elmacin (p. 54), Abulfaragio (pag. 123), Abulfeda (pag. 101), d’Herbelot (p. 586).
  9. V. i regni loro in Eutichio (t. II, p. 360-395), Elmacin (p. 59-108), Abulfaragio (Dynast. IX, p. 124-139), Abulfeda (p. 111-141), d’Herbelot (Bibl. orient., p. 691), e gli articoli particolari di quest’Opera che si riferiscono agli Ommiadi.
  10. Appena troviamo negli storici Bizantini qualche monumento originale sul 7.° e 8.° secolo, trattane la Cronica di Teofane (Theopanis confessoris chronolog., gr. et lat., cum notis Jacobi Goar. Parigi 1655 in fol.) e il compendio di Niceforo (Nicephori patriarchae C. P. Breviarium historicum, graec. et lat. Parigi 1648 in fol.): vissero questi due scrittori nel principio del nono secolo (V. Hancke, I, p. 200-246). Fozio, lor contemporaneo, non ci dà maggiori notizie. Dopo aver lodato lo stile di Niceforo, soggiunge: Και ολως πολλους εσι τον προ αυτου αποκρυπτομενος τηδε της ισοριας τη συγγραφη, e assolutamente oscura in quel ristretto d’istoria molti che lo precedettero; solamente si lagna della sua troppa brevità (Phot. Bibl. Cod. 66, p. 100). Si ponno raccogliere alcune giunte nelle storie di Cedreno e di Zonara, che son del duodecimo secolo.
  11. Tabari, o Al-Tabari, nativo del Taborestan, famoso Imano di Bagdad, e il Tito Livio degli Arabi, terminò la sua storia generale l’anno 302 dell’Egira (A. D. 914). Sollecitato da’ suoi amici, ridusse la sua Opera di trentamila fogli a più discreta misura; ma non si conosce l’originale Arabo che per le versioni fattene in lingua Persiana e Turca. Dicesi che la storia de’ Saraceni, di Ebu-Amir o Elmacin, sia un ristretto della grande storia di Tabari. (Ockley, Hist. of the Saracens, vol. II, Prefazione, pag. 39, e Lista degli autori, di d’Herbelot, p. 866, 870, 1014).
  12. Oltre la lista degli autori Arabi data da Prideaux (Vita di Maometto, pag. 179, 189), Ockley (sul fine del secondo volume) e Petis de la Croix (Hist. de Gengis-Kan, p. 525-550), s’incontra nella Biblioteca orientale, articolo Tarikh, un catalogo di due o trecento storie o croniche dell’Oriente, delle quali solo tre o quattro sono anteriori a Tabari. Reiske (ne’ suoi Prodidagmata ad Hagji chalifae librum memorialem ad calcem Abulfedae Tabulae Syriae, Leipzig, 1766) fa una viva dipintura della letteratura orientale, ma non ebbe effetto il suo disegno, nè la version francese annunciata da Petis de la Croix (Hist. de Timur-Bec, tom. I, Prefazione, pag. 45).
  13. Indicherò opportunamente gli storici e i geografi speciali: ma nella narrazione generale ebbi per guida le seguenti opere: 1. Annales Eutychii, patriarchae Alexandrini, ab Edwardo Pocockio, Oxford, 1656, 2 vol. in 4. È questa una pomposa edizione d’un autore assai tristo. Pocock lo tradusse per appagare i pregiudizi presbiteriani di Selden, amico suo. 2. Historia Saracenica Georgii Elmacin, opera et studio Thomae Erpenii, in 4., Lugd. Batav., 1625. Vuolsi che Erpenio traducesse frettolosamente un manoscritto guasto, e la sua versione in fatti è piena zeppa di spropositi e di difetti di stile. 3. Historia compendiosa Dynastiarum a Gregorio Abulpharagio, interprete Edwardo Pocockio, in 4., Oxford, 1663. Essa è più utile alla storia letteraria che alla civile dell’oriente. 4. Abulfedae Annales Moslemici ad ann. hegyrae 406, a Jo. Jac. Reiske, in 4., Leipzig, 1754. La migliore è questa delle nostre cronache e per l’originale e per la versione, ma è molto inferiore alla fama d’Abulfeda. Sappiamo ch’egli scrisse a Hamah nel secolo quattordicesimo. I tre primi autori erano cristiani, e fiorirono nel decimo, duodecimo, e tredicesimo secolo. Nacquero i due primi in Egitto; l’un d’essi era patriarca de’ Melchiti, e l’altro uno scrittore Giacobita.
  14. Il Sig. di Guignes (Storia degli Unni, t. I, Prefaz. p. 19, 20) ha con esattezza e cognizion di causa fatto il carattere di due spezie di storici Arabi, del freddo analizzatore, e dell’oratore pomposo e tumido nello stile.
  15. Biblioteca orientale, del Sig. d’Herbelot, in folio, Parigi, 1697. Si consulti sul merito di questo pregevole autore il suo amico Thevenot (Viaggi in Levante, part. 1, c. 1). La sua opera è un tessuto di varietà che debbono andare a genio di tutti i gusti; ma non ho mai saputo tollerare l’ordine alfabetico da lui seguìto; e lo trovo poi più gradevole nella storia della Persia che in quella degli Arabi. Il supplimento aggiuntovi, da poco tempo in qua, coll’aiuto degli scritti de’ Sig. Visdelou e Galland (in folio, Aia, 1775) val meno d’assai. È un ammasso di novelle, di proverbi, di particolarità su le antichità cinesi.
  16. Pocock spiega la cronologia della dinastia degli Almondari (Specimen, Hist. Arabum, p. 66-74), e d’Anville dà le notizie relative alla situazion geografica de’ loro Stati (l’Eufrate e il Tigri, p. 125). Il dotto Inglese sapea l’arabo più del Muftì d’Aleppo (Ockley, vol. II, p. 34). A qualunque secolo, a qualsiasi paese del Mondo si trasporti il geografo Francese, egli si trova per tutto nella sua giurisdizione.
  17. Fecit e Chaled plurima in hoc anno praelia, in quibus vicerunt Muslimi et INFIDELIUM immensa multitudine occisa spolia infinita et innumera sunt nacti (Hist. Saracen., p. 20). L’annalista cristiano si fa lecita bene spesso la parola infedeli, nazionale pe’ Musulmani, la quale risparmia lunghe numerazioni; mi do a credere che non sarò di scandolo a veruno se frequentemente l’imito.
  18. Un ciclo di centovent’anni, nella fine del quale un mese intercalare di trenta giorni equivaleva al nostro anno bisestile, e rintegrava l’anno solare. Nel volgere di millequattrocento quaranta anni, questa intercalazione applicavasi successivamente dal primo al duodecimo mese; ma Hyde e Freret discutono la gran quistione, se dodici, o solamente otto cicli, si compierono prima dell’Era di Yezdegerd, da tutti assegnata al 16 Giugno A. D. 632. Quanto è mai l’ardore degli Europei nel disaminare i punti più rimoti ed oscuri d’antichità! (Hyde, De religione Persarum, c. 14-18, p. 181-211; Freret, Mém. de l’Académie des inscriptions, t. XVI, p. 233-267).
  19. L’Era di Yezdegerd del 16 Giugno 632, cade nel quinto giorno dopo la morte di Maometto, avvenuta il 7 Giugno A. D. 632; e il suo esaltamento al trono non può porsi più in là della fine dell’anno primo. Non potevano adunque i suoi predecessori aver avuto incontri di resistere all’armi del Califfo Omar; e queste date incontestabili rovesciano la cronologia sconsiderata d’Abulfaragio. V. Ockley, Hist. of the Saracens, vol. I, pag. 130.
  20. Cadesia, dice il Geografo di Nubia (p. 121), è posta in margine solitudinis, sessantuna leghe distante da Bagdad, e due stazioni da Cufa. Otter (V. t. I, pag. 163) numera quindici leghe, e osserva che vi si trovano datteri e acqua.
  21. Atrox, contumax, plus semel renovatum; son queste le espressioni ben appropriate del traduttore d’Abulfeda (Reiske, p. 69).
  22. D’Herbelot, Bibl. orient. p. 297-348.
  23. Potrà cogliere il Lettore notizie soddisfacenti intorno a Bassora nella Geogr. di Nubia, p. 121; in d’Herbelot (Bibl. orient. p. 192); in d’Anville (l’Eufrate e il Tigri, p. 130, 133-145); in Raynal (Hist. philosoph. des Deux-Indes, t. II, pag. 92-100); ne’ viaggi di Pietro della Valle (t. IV, p. 370-391); in Tavernier (t. I, p. 240-247); in Thevenot (t. II, p. 545-584), in Otter (t. II, p. 45-78); in Niebuhr (t. II; p. 172-199).
  24. Mente vix potest numerove comprehendi quanta spolia ..... nostris casserint (Abulfeda, p. 69). Presumo peraltro che il conto stravagante d’Elmacin sia un errore della traduzione, e non del testo. Ho veduto che i traduttori d’opere antiche, di libri greci, per esempio, sono cattivi computisti.
  25. L’albero della canfora cresce nella Cina e nel Giappone, ma si danno parecchi quintali di questa canfora, di qualità inferiore, per una libbra di gomma di Borneo, e di Sumatra, assai più preziosa (Raynal, Hist. philosoph., t. I, pag. 362-365; Dictionnaire d’Hist. naturelle, par Bomare; Millar, Gardener’ s Dictionary). Forse da Borneo e da Sumatra portarono di poi gli Arabi la loro canfora (Géograph. nubien., p. 34, 35, d’Herbelot, p. 232).
  26. V. Gagnier, Vie de Mahomet, t. I, p. 376, 377. Posso bensì credere il fatto ma non la profezia.
  27. La torre di Belo a Babilonia, ed il vestibolo di Cosroe a Ctesifone son le rovine più considerevoli della Assiria. Furono visitate da Pietro della Valle, viaggiatore curioso e vanaglorioso. (t. I, p. 713-718; 731-735).
  28. Si consulti l’articolo Coufah della Biblioteca di d’Herbelot (p. 277, 278), e il secondo volume dell’istoria d’Ockley, particolarmente le pagine 40 e 153.
  29. V. l’articolo Nehavend di d’Herbelot (pag. 667-668), ed i Voyages en Turquie et en Perse, di Otter, tom. I, pag. 191.
  30. Con questa ignoranza e questo tuono d’ammirazione descriveva l’oratore Ateniese i conquisti fatti verso il settentrione da Alessandro, il quale per altro non oltrepassò mai le rive del mar Caspio „Αλεξανδροσε εξω της αρκτου και της οικουμενης, ολιγου δειν, πασης μεθησηκει„ „Alessandro trapassò l’Orsa, e quasi scorse tutta la Terra„ (Eschine, contro Tesifonte t. III, pag. 534, ediz. greca degli orat., Reiske). Questa causa memorabile fu perorata in Atene (Olimp. CXII, 3) l’anno 330 avanti G. C., in autunno (Taylor, Prefaz., p. 370, etc.), un anno in circa dopo la battaglia di Arbella. Alessandro allora inseguiva Dario, e marciava verso l’Ircania e la Battriana.
  31. Abbiam questo fatto curioso nelle Dinastie di Abulfaragio, p. 116. È inutile provare l’identità di Estachar e di Persepoli (d’Herbelot, p. 327), e lo sarebbe di più copiare i disegni e le descrizioni che ne son date dal Chardin e da Corneille-le-Bruyn.
  32. Dopo il racconto della conquista di Persia, aggiugne Teofane: αυτω δε τω χρονω εκελευσεν Ουμαρος αναγραφηνωι πασαν την υπ’ αυτον οικουμενην, εγενοτο δε η αναγραφη και ανθρωπων και κτηνων και φυτων e nel tempo stesso ordinò Omar l’enumerazione di quanto era nel paese a lui soggetto, e questa descrizione comprese gli uomini, le bestie, e le piante (Cronograph., p. 283).
  33. Nella quasi totale mancanza di monumenti per questa parte di Storia, duolmi che il d’Herbelot non abbia trovato ed adoperato la traduzione in lingua persiana dell’Opera di Tabari, corredata, per quanto egli dice, di parecchi estratti degli annali scritti dai Ghebri o Magi (Bibl. orient., p. 1014).
  34. Quanto sappiamo di più autentico de’ fiumi di Sihon (Jaxarte) e del Gihon (Oxo), si trova nell’opera del Sceriffo Al-Edrisi (Geogr. nubien., p. 138), in Abulfeda (Descript. Korasan in Hudson, t. III, p. 23), nello scritto di Abulghazi-Khan, che regnava sulle rive di que’ due fiumi (Hist. généalog. des Tatars, p. 32, 57, 766), e nel geografo turco, manoscritto che sta nella Biblioteca del re di Francia (Examen critique des historiens d’Alexandre, p. 194-360).
  35. Abulfeda (pag. 76, 77) descrive il territorio della Fargana.
  36. Eo redegit angustiarum eumdem regem exulem, ut Turcici regis et Sogdiani, et Sinensis auxilia missis litteris imploraret (Abulfeda, Annal., p. 74). Il Freret (Mémoires de l’Acad. des inscript., t. XVI, p. 245-255) e il de Guignes (Hist. des Huns, t. I, p. 54-59) hanno sparsa molta luce sull’istoria di Persia, e quella della Cina. Il Signor de Guignes presenta molte particolarità geografiche sulle frontiere de’ due paesi (t. I, p. 1-43).
  37. Hist. Sinica, p. 41-46, nella terza parte delle Relazioni curiose del Thevenot.
  38. Mi sono ingegnato di porre d’accordo i racconti di Elmacin (Hist. Saracen., pag. 37), d’Abulfaragio (Dynast., p. 116), d’Abulfeda (Annal., pag. 74-79) e del d’Herbelot (p. 485). La fine di Yezdegerd non solo fu lagrimevole ma oscura.
  39. Yezdegerd lasciò due figlie: l’una sposò Hassan figlio di Alì, l’altra Mohammed figlio di Abubeker; ebbe Hassan una posterità numerosa. La figlia di Firuz si maritò al Califfo Valid: Yezid loro figlio vantava un’origine, o vera o favolosa, dai Cosroe della Persia, dai Cesari di Roma, e dai Chagan dei Turchi o degli Avari (d’Herbelot, Bibl. orient., p. 96-487).
  40. Questo coturno, valutato duemila pezze d’oro, fu raccolto da Obeidollah figlio di Ziyad, che divenne poi nome abbominevole per l’assassinio che commise di Hosein. (Ockley, History of the Saracens, vol. II, p. 142, 143). Salem suo fratello avea seco la sua sposa, ed è questa la prima moglie araba che passasse l’Oxo (A. D. 680), la quale prese in prestito, od anzi rubò la corona e le gemme della regina dei Sogdiani. (p. 231-232).
  41. Il signor Greaves ha tradotto parte della geografia d’Abulfeda, e l’ha inserita nella raccolta dei Geographi minores di Hudson (t. III), col titolo di Descriptio Chorasmiae et Mawaralnahrae, id est, regionum extra fluvium Oxum, p. 80. Petis de la Croix (Hist. de Gengis-kan, etc.) e alcuni autori moderni, di quelli che scrissero sulle contrade dell’oriente, impiegano a ragione la parola Transoxiana più grata all’orecchio, e che significa lo stesso; ma s’ingannano quando l’attribuiscono agli Scrittori della antichità.
  42. Elmacino (Hist. Saracen., p. 84), d’Herbelot (Bibl. orient., Catibah, Samarcanda, Valid) e il de Guignes (Hist. des Huns, t. I, p. 58-59) accennano succintamente le conquiste di Catibah.
  43. Si è inserita nella Bibliotheca arabico-hispana, una curiosa descrizione di Samarcanda (t. I, p. 208 ec.). Il bibliotecario Casiri, seguendo un testimonio degno di fede, (t. II, 9) narra che la carta fu portata per la prima volta dalla Cina a Samarcanda (A. E. 30), e che fu inventata o piuttosto introdotta alla Mecca (A. E. 88). La Biblioteca dell’Escuriale possede un manoscritto in carta che appartiene al quarto o quinto secolo dell’Egira.
  44. Al-Wakidi, Cadì di Bagdad, che nacque A. D. 748, che morì A. D. 822, ha composto una storia particolare del conquisto della Sorìa; ha pure scritta la storia del conquisto dell’Egitto, del Diarbekir ec. Al-Wakidi, migliore dei Cronichisti sterili e recenti degli Arabi, ha il doppio merito d’essere antico, e molto minuto nel raccontare; le novelle, e le tradizioni che riferisce dipingono senza arte la natura umana e il suo secolo: per altro la sua narrazione è troppo spesso difettosa, piena di particolarità meschine e inverosimili. Sinchè non si scoprano opere migliori sarà preziosa la versione datane dal dotto e franco Ockley, e questo autore non merita le critiche virulente che Reiske si permise (Prodidagmata ad Hadji califae Tabulas, p. 236). Mi duole il cuore a pensare che Ockley terminò il suo lavoro in prigione (V. la Prefazione del primo volume, A. D. 1708, e la Prefazione del secondo, 1718, colla lista degli autori che sta in fine).
  45. Al-Wakidi ed Ockley (t. I; p. 22-27 ec.) riferiscono le istruzioni ec., sulla guerra di Sorìa. È d’uopo restringere in poco le notizie che danno, ed è inutile citarle di continuo; mi credo obbligato a indicare gli altri Scrittori.
  46. Non ostante questo precetto, il Signor de Paw (Recherches sur les Egyptiens, t. II, p. 192 ediz. di Losanna) rappresenta i Bedoini come nemici implacabili dei monaci cristiani. Per me credo che si possa spiegare questa contraddizione da una parte colla avidità degli Arabi, dall’altra coi pregiudizi del filosofo Tedesco.
  47. Anche nel settimo secolo i monaci in generale erano laici con capellatura lunga e sparsa, che poi tagliavano quando erano ammessi al sacerdozio. La tonsura circolare era emblematica, e mistica; figurava la Corona di Spine che fu messa in capo a Gesù Cristo; ma indicava altresì il diadema reale, ed ogni sacerdote era un re ec. (Thomassin, Discipline de l’Eglise t. I, p. 721-758, e specialmente, p. 737-738).
  48. Hinc Arabia est conserta, ex alio latere Nabathaeis contigua; opima varietate commerciorum, castrisque oppleta validis et castellis, quae ad repellendos gentium vicinarum excursus, sollicitudo perviget veterum per opportunos saltus erexit et cautos. (Amm. Marcell., XIV, 8; Reland, Palest., t. I, p. 85, 86).
  49. Ammiano loda le fortificazioni di Gerasa, di Filadelfia, e di Bosra, firmitate cautissimas. Meritavano gli stessi elogi al tempo di Abulfeda (Tab. Syr. p. 99), il quale descrive questa città, metropoli di Hawran (Auranitis), lontana quattro giornate da Damasco. Il Reland ne spiega la etimologia ebraica (Palest. t. II, p. 666).
  50. Maometto che predicava la sua religione in un deserto, ed a guerrieri, dovè permettere che in mancanza di acqua si facessero le abluzioni colla sabbia (Koran. c. 3, p. 66: c. 5, p. 83); ma i casisti Arabi e Persiani hanno imbrogliato questa permission pura e semplice in un ammasso di delicatezze, e di distinzioni (Reland, De relig. Moham. l. I, p. 82, 83; Chardin, Voyages en Perse, t. IV).
  51. Sonarono le campane (Ockley t. I, p. 38). Ma dubito forte che il testo di Al-Wakidi, o l’uso del tempo, non possano giustificare questa espressione. Ad Graecos, dice il dotto Ducange (Gloss. med. et infim. Graecit., t. I, p. 774) campanarum usus, serius transit et etiamnum rarissimus est. L’epoca più antica in cui dagli scrittori di Bisanzio si faccia menzione delle campane è riportata all’anno 1040. Ma pretendono i Veneziani d’avere introdotte le campane a Costantinopoli sin dal nono secolo.
  52. Si trova una minuta descrizion di Damasco presso il Sceriffo Al-Edrisi (Geogr. nubien, pag. 116, 117) e Sionita suo traduttore (Appendix, c. 4) Abulfeda (Tabul. Siriae, p. 100), Schultens (Index Geogr. ad vit. Saladin), d’Herbelot (Bibl. orient. pag. 291), Thevenot (Voyages du Levant, part. I, pag. 688-698), Maundrell (Voyage d’Alep à Jerusalem, p. 122-130) e Pocock (Descript. de l’Orient, vol. II, p. 117-127).
  53. Nobilissima civitas, dice Giustino. Secondo le tradizioni orientali era anteriore ad Abramo o a Semiramide. (Giuseppe, Antiq. jud. l. I, c. 6, 7, p. 24-29 edit. Havercamp. Justin. XXXVI, 2).
  54. Εδει γαρ οιμαι την Διος πολιν αληθως και κης Εωας απασης οφθαλμον, την ιεραν και μεγισην Δαμασκον λεγω, τοις τε αλλοις συμπασιν, οιον ιερων καλλει, και νεων μηγεθει. Και ωρων ευκαιρια και πηγων αγλαια και ωοταμων πληθει, και γης ευφορια νικωσαν, etc. Imperocchè io reputo doversi veramente considerarla per città di Giove, e per occhio di tutto l’Oriente, Damasco io dico, quella santa città è la maggiore fra tutte l’altre anche per la sola magnificenza dai luoghi sacri, e per la grandezza dei templi. Superiore a tutt’altra e per la temperie delle stagioni, e per la vaghezza delle fontane, e per la fertilità del terreno ec. Giuliano epist. 24, p. 392). Questi begli epiteti son dati all’occasione dei fichi di Damasco di cui ne manda l’autore un centinaio al suo amico Serapione; e Petavio, Spanheim ec. (p. 390-396) inseriscono questo tema d’un retore fra le epistole autentiche di Giuliano. Come mai non s’avvidero che l’autore di questa lettera (il quale ripete tre volte che questo fico particolare non cresce che „παρα ημιν„ „nel nostro paese„) era un abitante di Damasco, città ove Giuliano non entrò mai, nè mai vi si accostò?
  55. Voltaire che dà un’occhiata vivace e penetrante alla superficie dell’istoria, è stato sorpreso dalla somiglianza che trovasi fra i primi Musulmani e gli eroi dell’Iliade, tra l’assedio di Troia e quello di Damasco (Hist. générale, t. I, pag. 348).
  56. È un passo del Corano, c. IX, 32: LVI, 8. I Musulmani, come i fanatici Inglesi dell’ultimo secolo, citavano ad ogni occasione le loro scritture sia nelle conversazioni familiari, sia nei casi di qualche momento; per altro queste citazioni non erano tanto bizzarre quanto le frasi ebraiche trapiantate nel clima e nel dialetto della Gran Brettagna.
  57. Il nome di Werdan non era noto a Teofane, e comunque abbia potuto appartenere a un capitano Armeno, nella terminazione e nella pronunzia non manifesta origine greca. Se gli storici Bizantini sfigurano i nomi orientali, gli Arabi rendettero ad essi una pariglia, come prova questo caso speciale; trasponendo le lettere greche da destra a sinistra si scontra nel nome assai comune di Andrew l’anagramma di Werdan, e in questa guisa è accaduto forse lo sbaglio di nome.
  58. La vanità persuase agli Arabi che Tommaso fosse genero di Eraclio. Si sanno i figliuoli che ebbe Eraclio da due mogli, e sicuramente la sua augusta figlia non s’era maritata per vivere in esiglio a Damasco. (V. Ducange Fam. byzant. p. 118-119). Se Eraclio fosse stato men pio, crederei quasi che si trattasse d’una figlia naturale.
  59. Al-Wakidi (Ockley p. 101) scrive che Tommaso scagliava dardi avvelenati; ma questa invenzione dei Selvaggi è tanto contraria all’uso dei Greci e de’ Romani, ch’io diffido molto in questo caso della credulità malevola de’ Saraceni.
  60. Abulfeda non conta che settanta giorni spesi nell’assedio di Damasco (Annal. Moslem. p. 67, vers. Reiske); ma Elmacin, che riferisce questa opinione, prolunga a sei mesi la durata dell’assedio, e dice che i Saraceni fecero uso di baliste (Hist. Saracen. p. 25-32). Nemmeno quest’ultimo conto basta a riempiere lo spazio che si trova fra la battaglia di Aiznadin (luglio A. D. 633) e l’esaltamento di Omar (24 luglio A. D. 634), sotto il regno del quale tutti gli autori d’accordo pongono la presa di Damasco (Al-Wakidi presso Ockley vol. I, p. 115, Abulfaragio, Dynast. pag. 112, vers. Pocock). Forse, come alla guerra di Troia, furono interrotte le operazioni dell’assedio da scorrerie sino agli ultimi settanta giorni dell’assedio.
  61. Secondo Abulfeda (p. 125) ed Elmacin (p. 32) pare, che i sovrani Maomettani lungo tempo distinguessero queste due parti della città di Damasco, quantunque non rispettassero sempre la capitolazione (V. pure Eutichio Annal., t. II, p. 379, 380-383).
  62. La sorte di questi due amanti ha somministrato al signor Hughes, che li chiama Focio ed Eudossia, l’argomento di una delle tragedie inglesi, la più applaudita generalmente, la quale ha il raro pregio di rappresentare i sentimenti della natura ed i fatti storici, i costumi di quel secolo e i moti del cuore umano. Dalla sciocca delicatezza degli attori fu l’autore obbligato a mitigare il delitto dell’eroe, e la disperazione dell’eroina. Focio non è un vile rinnegato, ma serve gli Arabi per dovere d’alleanza: in vece di spignere Caled a inseguire i cristiani, corre in aiuto dei suoi concittadini; dopo aver ucciso Caled e Derar è ferito mortalmente, e spira agli occhi d’ Eudossia, che dichiara l’intenzione di prendere il velo monastico a Costantinopoli. Scioglimento totalmente inetto.
  63. Le città di Gabala e di Laodicea, trascorse dagli Arabi, si vedono tuttavia, ma mezzo rovinate (Maundrell p. 11, 12; Pocock, vol. II, p. 13). Se Caled non gli raggiungeva, i Cristiani avrebbero attraversato l’Oronte sopra un ponte, che avrebbero sicuramente trovato nello spazio delle sedici miglia fra Antiochia e il mare, e potuto avrebbero in Alessandria trovare di nuovo la strada maestra di Costantinopoli. Gli itinerari accennano la direzione della strada, e le distanze (p. 146-148, 581-582 ediz. di Wesseling).
  64. Dair Abil Kodos. Togliendo l’ultima parola che è un epiteto, e significa santo, rinvengo l’Abila di Lisania posta fra Damasco ed Eliopoli. Questo nome (Abil vuol dire una vigna) concorre, colla situazione, a giustificar la mia congettura (Reland, Palest., t. I, p. 317; t. II, p. 525-527).
  65. Io sono più ardito d’Ockley (vol. I, p. 164) che non osa inserire nel testo questa comparazione, sebbene in una nota osservò che l’utile cammello entra sovente nelle similitudini degli Arabi. È da credersi che non sia men celebre il renne nelle poesie de’ Lapponi.
  66. „Udimmo il tecbir, così chiamano gli Arabi il grido di guerra, quando, nel punto di combattere, con forte voce si appellano al cielo, e sembra che pretendano la vittoria„. Questo vocabolo, sì terribile nelle lor guerre sacre, è un verbo attivo (dice Ockley nel suo indice) della seconda conjugazione, da kabbara, che significa lo stesso che Alla acbar, Dio è onnipotente.
  67. La descrizion della Sorìa è la parte più bella, e più autentica della geografia d’Abulfeda, Siro di nascita. È stata pubblicata in arabo e in latino (Lipsia, 1766 in 4), con note erudite del Kochler e del Reiske, e con parecchi estratti di geografia, e di storia naturale cavati da Ibn-l-Wardii. Fra tutti i viaggi moderni quello di Pocock intitolato, Descrizione dell’oriente (della Sorìa, e della Mesopotamia vol. II, p. 88-209), presenta più notizie, e pregi maggiori; ma troppo spesso l’autore confonde le cose che ha vedute con quelle che ha lette.
  68. L’elogio della Sorìa fatto da Dionigi, è giusto e vivace Και την μεν (la Sorìa) πολλοι του και ολβιοι ανδρες εχουσιν πολυπτολιν αιαν, ed è abitata da molta e felice popolazione (in Perieges., v. 902, in t. IV, Geograph. minor. Hudson). In un altro passo chiama questo paese πολυπτολιν αιαν terra popolata di città (v. 898); poi continua:

    Πασα δε τοι λιπαρη και ευβοτος επλετο χωρη
    Μηλα τε φερβεμεναι ααι δενδρεσι ταρπον αεξειν.

     v. 921, 922.

    Tutta la provincia è amena e fertile per pascer gregge, e per arricchire di frutta le piante. (v. 921, 922).
     Questo poeta geografo visse nel secol d’Augusto, e la sua descrizione del Mondo è stata illustrata dal commentario greco di Eustazio, che mostrò ugual rispetto per Omero, e per Dionigi (Fabricio, Biblioth. graec. l. IV, c. 2, t. III p. 21 ec.)

  69. Il dotto e giudizioso Reland (Palest., t. I, p. 311-326) ha descritto eccellentemente la topografia del Libano, e dell’anti-Libano.
  70. — Emesae fastigia celsa renident
         Nam diffusa solo latus explicat: ac subit auras
         Turribus in coelum nitentibus: incola claris,
         Cor studiis acuit......

    Denique flammicomo devoti pectora soli
         Vitam agitant. Libanus frondosa cacumina turget,
         Et tamen his certant celsi fastigia templi..

    Questi versi della traduzion latina di Rufo Avieno non si incontrano nell’original greco di Dionigi: e poichè Eustazio non ne parla, debbo con Fabricio (Bibl. latin., t. III, p. 153, ediz. d’Ernesti), e contro l’avviso del Salmasio (ad Vopiscum, p. 366, 367, in Hist. August.), attribuirli alla fantasia d’Avieno piuttosto che al manoscritto da cui attinse.

  71. Son molto più contento del piccolo viaggio in 8. del Maundrell (Journey pag. 134-139) che del pomposo in folio del dottor Pocock (Description de l’orient, vol. II; p. 106-113); ma la magnifica descrizione e le belle incisioni dei sig. Dawkins, et Wood, che trasportarono in Inghilterra le rovine di Palmira e di Baalbek, fanno sparire tutte le descrizioni anteriori.
  72. Dagli Orientali si spiega questo fatto miracoloso con un espediente di cui non mancano mai; dicono che gli edifici di Baalbek furono opere delle fate o dei genii (Hist. de Timur-Bec, t. III, l. V, c. 23, p. 311, 312; Voyage d’Otter, t. I, p. 83). Abulfeda e Ibn-Chaukel aderiscono ad una opinione che non è meno assurda, e che suppone la stessa ignoranza attribuendoli ai Sabei o Aaditi. Non sunt in omni Syria aedificia magnificentiora his (Tabula Syriae, p. 103).
  73. Ho letto in Tacito, o veramente in Grozio, questo passo: „Subjectos habent tanquam suos, viles tanquam alienos„. Alcuni ufficiali Greci rapirono la moglie e trucidarono il figlio di un Siro che li alloggiava; e allorchè questi osò farne doglianza, altro non fece Manuele che sorridere.
  74. V. Reland (Palestine, t. I, p. 272-283; t. II, p. 773-775). Questo dotto professore avea bene il modo di descriver la Terra Santa, poichè era conoscitore ad un tempo della letteratura greca e latina, dell’ebraica ed araba. Il Cellario Geogr. antiq., t. II, p. 392) e il d'Anville (Geogr. anc. t. II, p. 185) parlano dell' Yermuk o del Hieromax. Pare che gli Arabi, e Abulfeda stesso non ravvisino il teatro della loro vittoria.
  75. Queste donne erano della tribù degli Hamyariti, discendenti degli Amalaciti antichi. Le loro spose erano abituate a cavalcare e a combattere come le Amazzoni dell’antichità (Ockley, vol. I, p. 67).
  76. Noi ne abbiamo ucciso centocinquantamila e fatto prigionieri quarantamila, diceva Abu-Obeidah al Califfo (Ockley, vol. 1, p. 241). Non potendo dubitare della sua veracità, nè prestar fede al suo computo, mi do a credere che gli storici Arabi abbiano composto le arringhe e le lettere, che prestano ai loro eroi, come usavano tanti altri storici.
  77. Teofane, dopo avere deplorato i peccati de’ Cristiani, soggiunge: (Cronogr. pag. 276): ανεση ο ερημικος Αμαληκ τυπτωκ ημας τον λαον του Χριςου, και γινεται πρωτη φοραπτωσις του Ρωμαικου σρατου η κατα το Ταβιθαν λεγω. Και Ιερμουκαν και την αθεσμον αιματοχυσιαν venne a zuffa Amalek del deserto battendo noi che siamo il popolo di Cristo, e questa prima battaglia fu la rotta dell’esercito romano seguìta presso Tabita (vuol forse parlare di Aiznadin?), e l’altra presso Yermuk con enorme strage. – La sua narrazione è breve ed oscura; ma attribuisse la vittoria dei Musulmani alla superiorità del numero, al vento contrario, e ai nembi di polvere: μη δυνηθεντς αντηπροσωπησαι εχθροις δια τον κονιορτον ηττωνται και εαυτους βαλλοντες εις τας στενοδους Ιερμσχθου ποταμου εκει απωλοντο αρδην, e non potendo (i Romani) star a fronte de’ nemici a cagion della polvere, erano debellati, e cacciando sè stessi nei guadi angusti del fiume dell’Yermuk, quivi annegati perivano.
  78. V. Abulfeda (Annal. Moslem., p. 70, 71) il quale riferisce le lamentazioni poetiche di Jabalah medesimo, e gli elogi d’un poeta Arabo, a cui, per mezzo d’un ambasciatore d’Omar, furon mandate dal Capo della tribù di Gassan cinquecento pezze d’oro.
  79. La Terra Santa, ovvero la Palestina, devesi considerare consacrata per le rivelazioni di Mosè, e perchè vi condusse la vita Gesù Cristo, e perchè in essa s’operò il mistero della Redenzione de’ fedeli, ma non già per alcuna relazione a Maometto; nè Gesù Cristo ha bisogno di quella riverente stima, che Maometto gli professò, e molto meno importa a’ fedeli Cristiani, che i Musulmani avessero divozione per Gerusalemme. (Nota di N. N.)
  80. L’uso de’ profani avea prevalso nel nome della città: era conosciuta dai devoti cristiani per quello di Gerusalemme (Euseb. De martyr. Palest., c. II); ma la denominazione legale e popolare di Aelia (la colonia d’Elio Adriano) era dai Romani passata agli Arabi (Reland Palest., t. I, p. 209, t. II, p. 835; d’Herbelot Bibl. orient., articolo Cods, p. 269; Ilia, p. 420). L’epiteto Al-Cods, la santa, è il nome che gli Arabi propriamente danno a Gerusalemme.
  81. Non devesi nè paragonare, nè confondere il fanatismo de’ Musulmani, che li rese vittoriosi e propagatori della lor religione, collo zelo di cui erano animati i Cristiani per difendere il Santo Sepolcro. (Nota di N. N.)
  82. Ockley (vol. I, p. 250) e Murtadi (Merveilles de l’Egypte, p. 200-202) ci descrivono questo viaggio singolare, e il treno di Omar.
  83. Citano gli Arabi con fasto un’antica profezia conservata a Gerusalemme, la quale indicava Omar per nome, per la religione e colla descrizione della persona, come eletto a conquistare quella città. È fama che usassero i Giudei un pari artificio per solleticare l’orgoglio di Ciro e di Alessandro che andavano a soggiogarli. (Giuseppe, Antiq. jud., l. XI, c. 1-8, p. 547, 579-582).
  84. Το βδελυγμα την ερημοσεως το ρηθεν δια Δανιηλ του προφωητου, εστως εν τοπω αγιω il lezzo della desolazione, indicato da Daniele profeta, entrato nel Luogo Santo. (Theoph. Chronogr., p. 281). Sofronio, un de’ teologi che comparvero più profondi nella controversia de’ Monoteliti, fece servire alla circostanza presente questa predizione che ad Antioco ed ai Romani era già stata applicata.
  85. Stando ai calcoli esatti del d’Anville (Dissert. sur l’ancienne Jérusalem, pag. 42-54), la moschea d’Omar, che fu ampliata ed abbellita dai Califfi suoi successori, ingombrava, sul terreno dell’antico tempio di Salomone ( παλαιον του μεγαλου ναου δαπεδον l’antico pavimento del gran tempio, dice Foca) uno spazio lungo duecento quindici, e largo centosettantadue tese. Il geografo di Nubia asserisce che questo magnifico edifizio per estensione e bellezza non era vinto che dalla gran moschea di Cordova (p. 113), dal signor Swinburne rappresentata con tanta eleganza qual è presentemente (Travels into Spain, p. 296-302).
  86. Ockley ha trovato nei manoscritti di Pocock, che si conservano in Oxford (vol. I, pag. 257), una delle tante tarikhs arabe o cronache di Gerusalemme (d’Herbelot, p. 867), delle quali ha fatto uso per supplire al difettoso racconto di Al-Wakidi.
  87. La storia persiana di Timur (tom. III, l. V, cap. 21, p. 300) descrive il castello d’Aleppo come un Forte costrutto sopra una roccia alta cento cubiti, prova, dice il traduttor francese, che non era stata veduto dall’autore. Oggi è in mezzo alla città; non è munito, non ha che una porta, la sua circonferenza è di cinque o seicento passi, e la fossa è piena per metà d’acque stagnanti (Voyages de Tavernier, t. I, p. 149; Pocock, vol. II, part. I, p. 150). Le Fortezze dell’oriente son pur poca cosa per un Europeo.
  88. È assai importante la data della conquista d’Antiochia sotto gli Arabi; confrontando le epoche della Cronologia di Teofane cogli anni dell’Egira, portati dalla storia d’Elmacin, apparirà che quella piazza fu presa tra il ventitre gennaio, e il primo settembre 638 dell’Era cristiana (Pagi, Critica, in Baron., Annal., t. II, pag. 812, 813). Al-Wakidi (Ockley, v. I, p. 314) pone questo fatto nel martedì 21 agosto, data impossibile, poichè essendo in quell’anno caduta la Pasqua nel cinque aprile, deve il 21 agosto essere stato un venerdì. (V. le Tavole dell’arte di verificare le date).
  89. L’editto favorevole di Cesare, per cui la città riconoscente contava la sua epoca dalla vittoria di Farsaglia, fu segnato εν Αντιοχεια τη μητροπολει, ιερακαι ασυλω, και αυτονομω και αρχουση και προκαθημενη της ανατολης in Antiochia capitale santa ed inviolata, e libera, e dominante, e preside dell’Oriente. (Giovanni Malala in Chron., p. 91, ediz. di Venezia). Convien distinguere ne’ suoi scritti i fatti relativi al suo paese da lui ben conosciuto, da quelli dell’istoria generale dei quali è un solenne ignorante.
  90. Qui l’Autore intende parlare del Monotelismo, ossia di quell’eresia, od opinione erronea, che sosteneva esservi in Gesù Cristo una sola volontà. Ecco lo stato della controversia, e come fu decisa dal Concilio ecumenico, ossia generale VI, l’anno 680.
     Nestorio, Patriarca di Costantinopoli, per non confondere in Gesù Cristo la natura divina e l’umana, aveva, duecento e cinquanta anni prima, sostenuto che fossero totalmente distinte, e che formassero due persone. Al contrario Eutiche, Abate di un monastero, affine di difendere l’unità della persona in Gesù Cristo contro Nestorio, aveva talmente unito la natura divina e l’umana, che le aveva confuse. Il Concilio ecumenico III d’Efeso, l’anno 431, aveva decretato contro Nestorio esservi una sola persona in Gesù Cristo, e quello pure ecumenico IV di Calcedonia, l’anno 451, aveva decretato contro Eutiche, che vi sono due nature in Gesù Cristo. Tuttavia gli Eutichiani pretendevano, che non si potesse condannare Eutiche senza rinnovare il Nestorianismo, ed ammettere due persone in Gesù Cristo, ed i Nestoriani, dalla lor parte, sostenevano non potersi condannare Nestorio senza confondere, come Eutiche, la natura divina a l’umana, e senza farne una sola, e quindi senza cadere nel Sabellianismo, altra eresia ch’era stata prima già condannata.
     Si cercarono mezzi per ispiegare come le due nature componessero una sola persona, quantunque sieno distintissime. Si credette risolvere questa difficoltà col supporre, che la natura umana sia realmente distinta dalla divina, ma che vi sia talmente unita, che non abbia azione propria; e che il Verbo sia il solo principio attivo in Gesù Cristo: questo è il Monotelismo, ed i vescovi e preti, che n’erano persuasi, lo sostenevano con questo discorso metafisico.
      Non vi può essere in una sola persona che un solo principio, che vuole e si determina, poichè la persona è un individuo ch’esiste per sè stesso, che contiene un principio d’azione, che ha una volontà ed una intelligenza distinta dalla volontà, e dalla intelligenza di qualunque altro principio; dunque non si possono ammettere molte intelligenze, e volontà distinte senza supporre più persone: ora la Chiesa ha definito nel Concilio d’Efeso, l’anno 431, contro Nestorio, che non vi fu in Gesù Cristo che una sola persona, dunque non vi è in Gesù Cristo che un solo principio d’azione, una sola volontà, ed una sola intelligenza; dunque la natura divina, e la natura umana sono talmente unite in Gesù Cristo, che non vi possono essere due azioni, due volontà, poichè in tal caso vi sarebbero due principj agenti, e due persone. (Vedi le lettere de’ vescovi Monoteliti Ciro, Sergio, ec. negli atti del VI Concilio generale, Azione 12 e 13). I Cattolici risposero ai Monoteliti, che queste cose sostenevano:
     I. Che v’erano in Dio tre persone, ed una sola volontà, perchè non ha che una sola natura, e per conseguenza dall’unità della natura doversi dedurre l’unità della volontà, e non dell’unità della persona. Che se l’unità della persona traesse seco la conseguenza dell’unità della volontà, la moltiplicità delle persone trarrebbe seco la conseguenza della moltiplicità delle volontà, e si dovrebbe riconoscere in Dio tre volontà, il che è falso.
     II. Egli è essenziale alla natura umana l’essere capace di volere, di sentire, di agire, di conoscere, di aver sentimento della sua esistenza; se non vi fosse in Gesù Cristo che un solo principio, che sentisse, che conoscesse, che volesse, e che avesse sentimento della sua esistenza, e delle sue azioni, l’anima umana sarebbe in lui annichilata, e confusa colla natura divina, con cui non farebbe che una sostanza, o converrebbe che la natura umana fosse sola, e per conseguenza che il Verbo non si fosse incarnato. Il Monotelismo che suppone una sola volontà in Gesù Cristo, o ricade nell’Eutichianismo, o nega l’Incarnazione (Atti del Concilio VI). Per lo che quantunque non vi sia in Gesù Cristo, che una sola persona che agisce, vi sono tuttavia più operazioni, e le due nature, che compongono la sua persona, e concorrono ad una azione, hanno le loro operazioni proprie di ciascheduna, e perciò si dicono Teandriche, ossia divinamente umane. Le azioni Teandriche non racchiudono dunque una sola operazione, ma due, una divina, e l’altra umana, le quali concorrono ad un medesimo effetto, e perciò quando Gesù Cristo faceva miracoli col suo tatto, l’umanità toccava i corpi, e la divinità li guariva. Se l’umanità di Gesù Cristo voleva qualche cosa, il Verbo voleva che volesse, e la spingeva a volere, secondo il decreto della sua sapienza.
      I Monoteliti difesero la loro erronea opinione fortemente, e furono vivamente confutati. Macario, Vescovo d’Antiochia, difese il Monotelismo con tutto lo sforzo dello spirito, e dell’erudizione; protestò, che si lascierebbe piuttosto fare a pezzi, che riconoscere due volontà, e due operazioni in Gesù Cristo: sostenne la sua opinione con moltissimi passi d’antichi scrittori ecclesiastici, ma erano troncati, ed alterati. Finalmente il Concilio, che fu il VI generale, esaminati gli argomenti del questionatori, definì che riconosceva, e confermava le decisioni dei cinque anteriori Concilj generali, e dichiarò inoltre, che vi sono in Gesù Cristo due volontà, e due operazioni, e che queste due volontà si trovano in una sola persona senza divisione, senza mescolamento, e senza mutazione, e che queste due volontà non sono in verun modo contrarie, ma che la volontà umana segue la divina, e le è interamente soggetta; vietò d’insegnare il contrario sotto pena di deposizione per i Vescovi e per i chierici, e di scomunica per i laici. Furono condannati i vescovi Pirro, Sergio, Paolo, ed il Papa Onorio, come Monoteliti. Intorno alla condanna di quest’ultimo furono fatte moltissime discussioni, specialmente da’ difensori dell’infallibilità de’ Papi: Vedi Natale Alessandro. Dissert. II in saec. 7, Combesis, Hist. Monot. Du Pin, Bibl. T. 5, l. 1, c. 19. Petavio, Dogm. Teol., T. 5, l. 1. I protestanti hanno scritto pure intorno a ciò: vedi lo Spanhein, introd. ad Hist. Sacram. T. 2. Basnage, Histoire de l’Eglise. Martino Cheldenio, De Monotelismo Honorii Papae etc. Appena terminato il Concilio l’Imperatore di Costantinopoli, Costantino Pogonato, fulminò con un decreto i Monoteliti. (Nota di N. N.).
  91. V. Ockley (vol. I, p. 308-312), che pone in ridicolo la credulità del suo autore. Quando Eraclio fece questo addio alla Soria, Vale, Syria, et ultimum vale, profetizzò che i Romani non rimetterebbero il piede in quella provincia che dopo la nascita di un funesto rampollo, che sarebbe il flagello dell’Impero (Abulfeda, p. 68). Io non conosco nè poco nè punto il senso mistico di questa predizione, che forse non ne aveva di sorta alcuna.
  92. Nel buio dell’oscura ed inesatta cronologia di questi tempi ho per guida un monumento autentico (che sta nel libro delle cerimonie di Costantino Porfirogenito) il quale attesta, che il 4 giugno, A. D. 638, l’imperatore coronò nel palagio di Costantinopoli Eraclio suo figlio cadetto alla presenza di Costantino suo figlio primogenito, e che il 1 gennaio, A. D. 639, i tre principi andarono alla gran chiesa, e il 4 all’Ippodromo.
  93. Sessantacinque anni prima di Cristo, „SYRIA Pontusque monumenta sunt Cn. Pompeii virtutis„ (Vell. Paterculus, II, 38), o piuttosto della sua fortuna e potenza: dichiarò provincia romana la Sorìa: e gli ultimi dei principi Seleucidi furono inetti ad armare un sol braccio in difesa del lor patrimonio (V. i testi originali raccolti dall’Usserio. Annal., p. 420).
  94. Abulfeda, Annal. Moslem. p. 73. Poteva Maometto aver la scaltrezza di variare gli elogi pe’ suoi discepoli. Era solito dire d’Omar, che se potesse esservi dopo lui un Profeta Omar lo sarebbe, e che sarebbe risparmiato dalla giustizia divina in una disgrazia generale (Ockl. vol. I, p. 221).
  95. Al-Wakidi pure avea scritto l’istoria della conquista del Diarbekir ossia della Mesopotamia (Ockley, sul fine del secondo volume) non veduta, per quanto pare, dai nostri interpreti. La cronaca di Dionigi di Telmar, patriarca giacobita, racconta la presa di Edessa, A. D. 637, e di Dara, A. D. 641 (Assemani Bibl. orient. t. II, pag. 103); e i lettori attenti ponno attignere alcuni particolari incerti dalla Cronografia di Teofane (p. 280-287). La maggior parte delle città della Mesopotamia si arresero spontanee (Abulfaragio, p. 112).
  96. Sanno i dotti che cotale lettera è apocrifa. (Nota di N. N.)
  97. Sognò di essere in Tessalonica, sogno del tutto innocente e insignificante; ma il suo indovino, o la sua vigliaccheria gli fecero un presagio certo di sconfitta racchiuso in quella funesta parola βες αλλω νικην, dà la vittoria a un altro (Teoph. p. 286: Zonara t. II, l. XIV, p. 88).
  98. Tutti i passi e tutti i fatti relativi all’isola, alla città e al colosso di Rodi furon raccolti nel laborioso Trattato di Meursio, che fece le stesse ricerche sulle isole di Creta e di Cipro (V. nel terzo volume delle sue opere il Trattato denominato Rhodus l. I, c. 15; p. 715-719). L’ignoranza di Teofane e di Costantino, scrittori dell’istoria Bizantina, fa ascendere a mille trecento sessant’anni lo spazio di tempo trascorso fra la caduta del colosso di Rodi e la vendita de’ suoi frantumi fatta da’ Saraceni, e scioccamente assicurano che quei rottami fecero il carico di trentamila cammelli.
  99. „Centum colossi alium nobilitaturi locum„, scrive Plinio col suo spirito solito (Hist. natur., XXXIV, 18).
  100. Sappiam questo fatto dall’ardire d’una vecchia che gliene fece rimbrotto in faccia al Califfo, e ad un suo amico. La quale fu mossa a ciò dal silenzio d’Amrou e dalle liberalità di Moawiyah (Abulfeda, Annal. Moslem., p. 111).
  101. Gagnier (Vie de Mahomet, t. II, pag. 46 ec.) cita l’istoria o il romanzo abissinio di Abdel-Balcides. Questi ragguagli per altro sulla ambasceria e sull’ambasciatore non sono inverisimili.
  102. Questa risposta ci fu conservata dal Pocock (Not. ad Carmen Tograi, p. 284), e il signor Harris (Philosophical Arrangements, p. 350) giustamente la loda.
  103. V., sulla vita e il carattere d’Amrou, Ockley (Hist. of the Saracens, vol. I, p. 28, 63, 94, 328, 342, 344, e alla fin del volume; vol. II, p. 51, 55, 57, 74, 110, 112, 162) e Otter (Mém. de l’Acad. des inscr. t. XXI, p. 131-132). I lettori di Tacito raffronteranno sicuramente Vespasiano e Muziano con Moawiyah e Amrou. L’analogia per altro sta più nella situazione che nel carattere di questi personaggi.
  104. Anche Al-Wakidi ha composto un’istoria particolare della conquista d’Egitto, ma Ockley non potè procacciarsela; e le indagini di quest’ultimo (vol. I, p. 344-362) pochissimo aggiunsero al testo originale d’Eutichio (Annal. t. II, p. 296-323, vers. Pocock), Patriarca melchita d’Alessandria che visse tre secoli dopo quella rivoluzione.
  105. Strabone, testimonio esatto ed osservatore, parlando d’Eliopoli, nota che νυνι μεν ουν εκι πανερημος η πολις ora è quella città al tutto deserta (Geographia l. XVII, p. 1158); ma parlando di Menfi dice, πολις δ’εσι μεγαλη τε κα: ευανδρος δευτερα μετ’ Αλεξανδρειαν città grande e popolosa, seconda dopo Alessandria (p. 1161). Accenna tuttavia la mescolanza d’abitatori, e la rovina dei palazzi. Ammiano ragionando dell’Egitto, propriamente detto, pone Menfi fra le quattro città, maximis urbibus quibus provincia nitet,(XXII 16), e il nome di Menfi appare illustre nell’itinerario romano, e nella lista dei vescovadi.
  106. Non si trovano che in Niebuhr, e nel geografo di Nubia (p. 98) questi ragguagli curiosi su la larghezza (duemila novecento quarantasei piedi) e sui ponti del Nilo.
  107. Comincia il Nilo ad ingrossare a poco a poco dopo il mese di Aprile: l’elevazione si fa più sensibile nel tempo della luna che viene dopo il solstizio d’estate (Plinio, Hist. nat., v. 10), e si pubblica per lo più al Cairo nel giorno di S. Pietro (29 giugno). Da un registro di trent’anni viene indicata la maggior altezza delle acque fra il 25 luglio e il 18 agosto (Maillet, Descript. de l’Egypte lettera XI, p. 67, ec. Pocock, Description de l’Orient, vol. I, p. 200; Shaw’s Travels, p. 383).
  108. Murtadi, Merveilles de l’Egypte, p. 243-259. Si dilunga egli su questo argomento con lo zelo, e collo spirito minuzioso d’un cittadino e d’un devoto, e le sue tradizioni locali hanno gran sembianza di verità ed esattezza.
  109. D’Herbelot, Bibl. orient. p. 233.
  110. È benissimo conosciuta e fu descritta la situazione del vecchio e nuovo Cairo. Due scrittori, che aveano perfetta cognizione dell’antico e del moderno Egitto, fissarono dopo dotte indagini il sito di Menfi a Gizeh rimpetto al vecchio Cairo (Sicard, Nouveaux Mémoires des Missions du Levant, t. VI, p. 5, 6; Observat. et Voyages de Shaw, p. 296-304). Dobbiam per altro rispettare non poco l’autorità e gli argomenti del Pocock (vol. I, p. 25-41), del Niebuhr (Voyage, t. I, p. 77-106), e particolarmente del d’Anville (Description de l’Egypte, p. 111, 112, 130-149), i quali collocan Menfi appresso il villaggio di Mohannah alcune miglia più abbasso verso mezzogiorno. Questi scrittori, nel fervor della disputa, dimenticarono che il vasto terreno d’una metropoli cuopre, ed annulla la più gran parte dello spazio che forma il subbietto di questa discussione.
  111. V. Erodoto, l. III, c. 27, 28, 29: Eliano, Hist. Var. l. IV, c. 8: Suida in Ωχος, t. II, p. 794; Diodoro di Sicilia t. II, lib. XVII p. 197, ediz. di Wesseling. Των Περσων ησεβηκοτων εις τα ιερα, dei Persiani violatori dei templi, dice l’ultimo di questi Storici.
  112. Quei cristiani Egiziani, che non vollero ricevere la decisione del Concilio ecumenico di Calcedonia, che aveva decretato contro Eutiche, Abate di un monastero, esservi in Gesù Cristo due nature, sono nominati Cofti, o Copti, o Giacobiti, ed a cagione della loro erronea opinione, d’esservi in Gesù Cristo una sola natura, sono detti con greco vocabolo Monofisiti. Al tempo del Concilio di Calcedonia ed anche poco dopo erano intorno a seicentomila; oggidì sono ridotti a circa quindicimila per le persecuzioni, e gli atroci massacri che ne fecero i Cattolici sostenitori del Concilio di Calcedonia. Il Capo della Chiesa Copta fu ed è il Patriarca d’Alessandria, successore di S. Marco evangelista.
     Il Concilio di Calcedonia colla sua decisione, e colla deposizione di Dioscoro, Patriarca d’Alessandria, aveva irritato tutti gli spiriti de’ Cristiani d’Egitto, ed accesosi contro un grande fanatismo in quella vasta provincia. La severità delle leggi degli imperatori di Costantinopoli a sostenimento de’ decreti del Concilio, ed i mezzi adoperati dal partito perseguitato, posero a grandi turbolenze l’Egitto. La forza imperiale fece prevalere ed eseguire le decisioni del Concilio, ed i cristiani Cofti d’Egitto dai Cattolici vincitori furono esclusi da tutte le dignità civili, militari, ed ecclesiastiche, e furono da Costantinopoli spediti nuovi governatori, nuovi magistrati, nuovi vescovi. Malgrado la persecuzione, ed il massacro di centomila Cofti in diverse occasioni, essi non furono estinti dai sostenitori del Concilio di Calcedonia: una parte di loro, abbandonata la patria ed usciti dal dominio imperiale, trovarono pace presso gli Arabi, che tolleravano tutte le religioni, ed in alcune altre province dell’Affrica; quelli che rimasero in Egitto ebbero sempre a soffrire, finchè vi durò il dominio degli imperatori Greci, ogni specie di persecuzioni, e d’oltraggi. I governatori Greci facevano sostenere la tavola (Hist. Patriar. Alexand. pag. 164) del loro pranzo da alcuni Cofti, e si nettavano le mani nelle loro barbe, affronto il più grande che loro far si potesse, e che, unito a tutti gli altri mali che soffrivano, pose negli animi loro un odio implacabile contro gli imperatori Greci di Costantinopoli, e contro i decreti del Concilio di Calcedonia, ed un desiderio di vendetta cui soddisfecero, allorchè, passati i sentimenti di generazione in generazione, il generale Arabo, il maomettano Amrou, s’avvicinò all’Egitto duecento anni dopo. I pochi superstiti Cofti hanno anche oggidì presente alla memoria l’orribile massacro di centomila de’ loro antenati, affinchè accettassero i decreti del Concilio di Calcedonia. I Cofti rigettando quel Concilio, e la lettera del Papa Leone I, nè volendo convenire, siccome fu loro inculcato dai loro Vescovi, che vi sieno due nature in Gesù Cristo, dicono poi coi Cattolici, che la divinità, e l’umanità di lui non sono in verun modo confuse nella sua persona; e quando si eccettui il loro monofisismo, che consiste appunto nel negare le due nature, non hanno alcun’altra torta credenza particolare. La Chiesa Cofta dall’epoca del Concilio di Calcedonia è stata sempre separata dalla Chiesa Cattolica romana. (Nota di N. N.).
  113. Mokawkas mandò al Profeta due vergini Cofte colle loro fantesche, ed un eunuco; un vaso d’alabastro, una verga d’oro puro, dell’olio, del mele, e le più belle tele dell’Egitto; un cavallo, un mulo, e un asino, tutti e tre insigni per qualità particolari. L’ambasceria di Maometto partì da Medina il settimo anno dell’Egira (A. D. 628) V. Gagnier (Vie de Mahomet, t. II, p. 255, 256, 303) che copia Al-Jannabi.
  114. Eraclio aveva commessa al patriarca Ciro la prefettura dell’Egitto, e la direzione della guerra (Theoph. p. 280, 281). „Non consultate voi in Ispagna i vostri preti? diceva Giacomo II. — Sì, gli rispose l’ambasciator del re Cattolico, e i nostri affari van di conseguenza„. Non oso davvero riferire i disegni di Ciro, che volea pagare il tributo ai Musulmani senza scemar le rendite dell’imperatore, e convertire Omar dandogli in isposa la figlia d’Eraclio. (Nicephor., Breviar. p. 17, 18).
  115. V. la vita di Beniamino in Renaudot (Hist. patr. Alexand., pag. 155-172) il quale ha corredata l’istoria del conquisto dell’Egitto con alcuni fatti tolti dal testo arabo di Severo, isterico Giacobita.
  116. Il primario tra i Geografi, il d’Anville (Mémoires sur l’Egypte, p. 52, 63), ci ha data la descrizion locale d’Alessandria; ma ne dobbiam cercar alcune particolarità ulteriori ne’ viaggiatori moderni: non citerò che Thevenot (Voyage au Levant, part. I, p. 381-395); Pocock (vol. I, p. 2-13); Niebuhr (Voyage en Arabie, t. I, p. 34-43); due viaggi più recenti ed emuli, quelli del Savary e del Volney, potranno il primo dilettare, l’altro istruire.
  117. Eutichio (Annal. t. II, p. 319), ed Elmacin (Hist. Saracen., p. 28) son d’accordo nel fissar la presa d’Alessandria nel venerdì della nuova luna di Moharram, nel ventesimo anno dell’Egira (22 dicembre A. D. 640). Contando i quattordici mesi passati davanti ad Alessandria, i sette mesi davanti Babilonia ec., parrebbe che Amrou cominciasse l’ invasion dell’Egitto sulla fine dell’anno 638; ma si sa per cosa certa che entrò in quel paese il dodici di bayni (sei giugno). (Murtadi, Merveilles de L’Egypte, p. 164; Severo, apud Renaudot p. 162). Il general Saraceno, e poi Luigi IX re di Francia si fermarono a Pelusio, o Damiata, durante l’inondazion del Nilo.
  118. Eutichio, Annal., t. II, p. 316-319.
  119. Non ostante qualche contraddizione fra Teofane e Cedreno, l’esatto Pagi (Critica, t. II, pag. 824) ha ricavata da Niceforo e dalla cronaca orientale la vera data della morte d’Eraclio. Finì egli i suoi giorni l’11 febbraio, A. D. 641, 60 giorni dopo perduta Alessandria. Una lettera in dodici giorni arrivava da Alessandria a Costantinopoli.
  120. Ci restano molti Trattati di questo amante della fatica (φιλοπονος): ma si leggono quelli che sono stampati come quelli che non furono pubblicati mai; Mosè ed Aristotele sono i subbietti principali di que’ verbosi commentari, uno de’ quali porta la data del 10 maggio, A. D. 617 (Fabricio, Bibl. graec. t. IX, p. 458-468). Un moderno (Giovanni-le-Clerc), che qualche volta s’appropiava quel nome, era tanto laborioso quanto il Filopono d’Amrou, ma superiore a lui in buon senso, e in vero sapere.
  121. Abulfaragio, Dynast., p. 114. vers. Pocock. Audi quid factum sit et mirare. Non la finirei mai se volessi dare il catalogo dei moderni che credettero e stupirono: ma debbo citare con elogio lo scetticismo ragionevole di Renaudot (Hist. Alex. patriar., p. 170; Historia..... habet aliquid απιστον (incredibile) ut Arabibus familiare est).
  122. Indarno si cercherà questo aneddoto curioso negli annali d’Eutichio e nella storia de’ Saraceni d’Elmacin. Il silenzio d’Abulfeda, di Matardi, e d’una folla di Musulmani dee produrre minor effetto, perchè non conoscevano la letteratura de’ Cristiani.
  123. È vero che ortodosso, in sostanza, non vuol dir altro che uomo di retta opinione; è vero che gli Arabi maomettani credevano che la loro opinione religiosa fosse tale, a quindi era ortodossa rispetto a loro; ma, secondo la teologia nostra, il vocabolo ortodosso può soltanto adoperarsi parlando de’ Cattolici, ed è assai male applicato ai Maomettani. (Nota di N. N.)
  124. V. Reland, De Jure militari Mohammedanorum nel terzo volume delle Dissertazioni p. 37. Non si vuole che siano arsi i libri de’ Giudei e de’ Cristiani pel rispetto che si debbe al nome di Dio.
  125. Si consultino le Raccolte del Freinsheim (Supplément de Tite-Live, c. 12-43) e dell’Usserio (Annal. pag. 469). Scrive Tito Livio parlando della biblioteca d’Alessandria: Elegantiae regum curaeque egregium opus, elogio dettato da un animo nobile, e vivamente criticato dal rigido stoicismo di Seneca (De tranquillitate Animi, c. 9) il sapere del quale degenera spesso sino a sragionare.
  126. V. il capitolo XXVIII di quest’opera.
  127. Aulo Gelio (Nuits attiques VI, 17), Ammiano Marcellino (XXII, 16) e Orosio (l. VI, c. 15); parlan tutti in tempo passato, e le parole d’Ammiano son da notarsi: fuerunt Bibliothecae innumerabiles: et loquitur monumentorum veterum concinens fides, etc.
  128. Afferma Renaudot che furono arse varie versioni della Bibbia, degli Esapli, delle Catenae patrum, de’ commentari ec. (p. 170). Il nostro manoscritto d’Alessandria, se è venuto dall’Egitto, e non da Costantinopoli o dal Monte Atos ( Westein, Prolegomen., ad N. T., p. 8, ec.), avrebbe potuto andare colle Opere consacrate alle fiamme.
  129. Ho letto sovente, e sempre con piacere, un capitolo di Quintiliano (Instit. Orat. X, 1), dove questo giudizioso critico enumera ed apprezza, con giusta bilancia, i vari autori classici, Greci e Latini.
  130. Citerò solamente Galeno, Plinio, ed Aristotele. Il Wotton (Reflexions on ancient and modern learning, p. 85-95) oppone su questa materia fortissime ragioni alle pungenti ed immaginarie asserzioni di Sir Will. Temple. I Greci aveano in tanto disprezzo la scienza dei Barbari, che probabilmente avran collocato nella Biblioteca Alessandrina pochi libri indiani o etiopici, e non è provato che questa esclusione sia stata una gran perdita per la filosofia.
  131. Il signor Ockley e i compilatori della storia universale moderna, tanto contenti della lor fatica, non hanno scoperto queste particolarità curiose ed autentiche riferite dal Murtadi (p. 284-289).
  132. Eutichio, Annal. tom. II, p. 320; Elmacin, Hist. Saracen., p. 35.
  133. È molto oscuro ciò che si riferisce a quei canali. Tocca al lettore di fissar la sua opinione colla lettura di d’Anville (Mém. sur L’Egypte, p. 108-110-124, 132), e di una dotta tesi sostenuta e stampata a Strasburgo nel 1770 (Jungendorum marium fluviorumque molimina, pag. 39-47, 68-70). I Turchi stessi, comecchè negligentissimi, hanno discusso l’antico disegno di congiungere i due mari (Mémoires du baron de Tott, t. IV).
  134. Pietro Vatier diede alla luce nel 1666, in Parigi, un volumetto delle Meraviglie dell’Egitto composto nel tredicesimo secolo da Murtadi, abitante del Cairo, e tradotto sopra un manoscritto arabo che fu del cardinal Mazarino. Ciò che dice l’autore delle Antichità Egiziane è assurdo e stravagante: ma i suoi racconti minuti sulla conquista e sulla geografia della sua patria son degni di fiducia e di stima (V. la Corrispondenza d’Amrou e d’Omar p. 279-289).
  135. Maillet, che fu vent’anni Console al Cairo, aveva avuto mille occasioni diverse d’esaminare questo variato spettacolo. Parla del Nilo (Lettera II, e in particolare p. 70-75) e della fertilità del suolo (Lettera IX). Gray, che viveva in un collegio di Cambridge, ha dato su quella contrada un’occhiata più acuta: „In quei climi ardenti ove il Nilo, elevandosi sopra le sponde del suo letto d’estate, versa dal suo largo seno la vita alla verdura, e copre l’Egitto colle umide sue ali, qual meraviglioso spettacolo si presenta allo sguardo, quando si vede condotto da un remo ardito, o da una leggera vela, quel popolo polveroso che naviga a seconda di zefiro, o che su fragili battelli passa dall’una all’altra di quelle città ravvicinate che sorgono e splendono di sopra dei flutti che le circondano!„ (Works and Memoirs of Gray edizione di Mason p. 199, 200).
  136. Murtadi, p. 164-167. Non crederà di leggieri il lettore ai sagrifizi umani sotto imperatori cristiani, nè ad un miracolo fatto dai successori di Maometto.
  137. Maillet, Description de l’Egypte, p. 22. Segna egli questo numero come opinione comune, e soggiunge che generalmente quei villaggi contengono due o tremila persone, e che in parecchi vive più gente che nelle nostre grandi città.
  138. Eutichio, Annal., t. II, p. 308-31l. I venti milioni furono calcolati dalle massime seguenti: un duodecimo della popolazione per l’età superiore ai sessant’anni, un terzo per quella che non passa i sedici; e la proporzion dagli uomini alle donne di diciassette a sedici. (Recherches sur la population de la France, pag. 71, 73). Il signor Goguet (Orig. des arts, etc. t. III, p. 26 ec.) suppone che l’antico Egitto contenesse ventisette milioni d’abitanti, perchè i millesettecento compagni di Sesostri erano nati lo stesso giorno.
  139. Elmacin (Hist. Saracen. p. 218); d’Herbelot senza scrupolo ammette questo enorme computo (Bibl. orient., p. 1031); Arbuthnot (Tables of ancient coins, p. 262) e il de Guignes (Hist. des Huns, t. III, p. 135) avrebbero potuto ammettere la non meno strana generosità d’Appiano, che dona ai Tolomei (in Praefat.) un’entrata annua di settantaquattro miriadi, settecentoquarantamila Talenti, cioè cento ottantacinque, o circa duecento milioni di lire sterline, se si fa il conto sul valore del Talento di Egitto o di quello d’Alessandria (Bernard, De Ponderibus antiquis, p. 186).
  140. V. i calcoli del d’Anville (Mém. sur l’Egypte, p. 23 ec.). Il signor di Paw, dopo qualche disputa da uomo di mal umore, non può valutare più di duemila dugento cinquanta leghe quadrate (Recherches sur les Egyptiens, t. I, p. 118-121).
  141. Renaudot (Hist. patriarch. Alexandr. p. 334) il quale tratta la lezion comune, o la version d’Elmacin, da’ error librarii. I 4,300,000 pezze che egli sostituisce pel nono secolo sono un termine medio assai probabile, oltre i 3,000,000 che acquistarono gli Arabi colla signoria dell’Egitto (idem, p. 168) e i 2,400,000 che il sultano di Costantinopoli riscosse nell’ultimo secolo (Pietro della Valle, t. I, pag. 352; Thevenot, part. I, p. 824). Il Paw (Recherches, t. II, p. 365-373) cresce a poco a poco la rendita dei Faraoni, dei Tolomei, e dei Cesari, da sei a quindici milioni di scudi di Germania.
  142. La lista di Schultens (Index geograph. ad calcem vit. Saladin., p. 5) contiene duemila trecento novantasei città o villaggi: quella del d’Anville (Mém. sur l’Egypte, p. 29), a seconda dei dati fornitigli dal divano del Cairo, ne numera duemila secento novantasei.
  143. V. Maillet (Description de l’Egypte, p. 28): i suoi argomenti sono giudiziosi e sembrano procedenti da un uomo leale. Son più contento delle osservazioni fatte da questo autore, che della sua erudizione: egli non conosceva nè le lettere greche, nè le latine, ed è troppo incantato dalle finzioni degli Arabi. Abulfeda (Descript, Aegypt. arab. et latin., Joh. David Michaelis, Gottingue, in 4. 1776) ha raccolto quanto essi dissero di più ragionevole. Per riguardo ai due viaggiatori moderni, Savary e Volney, il primo diletta, come già notai; ma il secondo è tanto istruttivo che io vorrei che potesse girare tutto il globo.
  144. La mia narrazione della conquista dell’Affrica è cavata da due Francesi che scrissero sulla letteratura degli Arabi. Cardonne (Hist. de l’Afrique et de l’Espagne sous la domination des Arabes, t. I, p. 8-55) e Otter (Hist. de l’Acad. des inscriptions, t. XXI, p. 111-125, 136); essi hanno attinto i fatti in gran parte da Novairi, che compose (A. D. 1331) un’Enciclopedia in più di venti volumi. Questa Enciclopedia ha cinque parti generali; ella tratta, 1. della medicina, 2. dell’uomo, 3. degli animali, 4. delle piante, e 5. dell’istoria. Gli affari dell’Affrica sono discussi nel sesto capitolo della quinta sezione di quest’ultima parte (Reiske, Prodidogmata ad Hadii chalifae tabulas, p. 232-234). Fra gli storici antichi citati da Novairi, è da osservarsi la narrazione originale d’un soldato che conduceva la vanguardia dei Musulmani.
  145. V. l’istoria d’Abdallah in Abulfeda (vit. Mohammed, p. 109), e Gagnier (Vie de Mahomet, t. III, p. 45-48).
  146. Leone l’Affricano (in Navigazione e Viaggi di Ramusio, t. I, Venezia, 1550, fol. 76, retro) e Marmol (Description de l’Afrique, t. II, p. 562) hanno descritta la provincia e la città di Tripoli. Era il primo un Moro erudito che avea viaggiato; compose o tradusse la geografia dell’Affrica a Roma, dove si trovava prigioniero, e avea preso il nome e la religione di Papa Leon decimo. Lo spagnuolo Marmol, soldato di Carlo V, era prigioniero dei Mori quando compilò la sua descrizione dell’Affrica; tradotta in francese dal d’Ablancourt (Parigi, 1667, 3 vol. in 4). Marmol avea letto ed osservato; ma non ha quell’occhio curioso e quelle vedute estese che si trovano nello scritto di Leone l’Affricano.
  147. V. Teofane, che fa menzione della sconfitta piuttosto che della morte di Gregorio. Egli dà al Prefetto il nome ingiurioso di Τυραννος Tiranno; è verosimile che Gregorio avesse presa la porpora (Chronograph., p. 285).
  148. V. in Ockley (Hist. of the Saracens, vol. II, p. 45) la morte di Zobeir, che fu onorato dalle lagrime di Alì contro cui si era egli ribellato. Eutichio (Annal., t. II, p. 308) parla del suo valore all’assedio di Babilonia, se pure non si tratta d’altra persona collo stesso nome.
  149. Shaw’s Travels, p. 118, 119.
  150. „Mimica empito„, dice Abulfeda, „erat haec, et mira donatio; quandoquidem Othman, ejus nomine nummos ex aerario prius ablatos aerario praestabat„ (Ann. mosl. p. 78). Elmacino (nella sua oscura versione pag. 39) riporta, per quel che pare, questo medesimo raggiro. Quando gli Arabi assediarono il palazzo di Othmano, fu questa una delle principali incolpazioni allegate.
  151. Επεστρατευσαν Σαρακηνοι την Αφρικην, και συμβαλοντες τω τυραννω Γρηγοριω τουτον τρεπουσι και τους συν αυτω κτεινουσι και στοικησαντες φορους μετα των Αφρων υπεστρεφαν. Guerreggiarono i Saraceni in Affrica, e venuti a conflitto col tiranno Gregorio lo batterono, e con lui uccisero i suoi compagni, e dopo avere segnato il tributo sugli Affricani si ritirarono. (Teofane, Chronograph., p. 285, ediz. di Parigi). La sua cronologia è incerta ed inesatta.
  152. Teofane (in Chronogr., p. 293) riferisce le voci vaghe che andavano arrivando a Costantinopoli sulle conquiste degli Arabi all’occidente; e Paolo Warnefrido, diacono d’Aquileia (De gest. Langobard., l. V, c. 13), ci avvisa che a quei giorni mandarono un’armata navale da Alessandria nei mari di Sicilia e dell’Affrica.
  153. V. Novairi (apud Otter, p. 118), Leone l’Affricano (fol. 81 retro), che conta solo cinque città ed infiniti casali; Marmol (Descript. de l’Afrique, t. III, pag. 33) e Shaw (Voyages, p. 57-65-68).
  154. Leone l’Affricano, fol. 58; Marmol t. II, p. 415; Shaw pag. 43.
  155. Leone l’Affricano, fol. 52; Marmol t. II, p. 228.
  156. Regio ignobilis, et vix quicquam illustre sortita, parvis oppidis habitatur, parva flumina emittit, solo quam viris melior et segnitie gentis obscura. (Pomponio Mela, I, 5, III, 10.). Mela è tanto più degno di credenza in quanto che i suoi Maggiori, oriundi della Fenicia, aveano lasciata la Tingitania per traslocarsi in Ispagna. (V. in II, 6, un passo di questo geografo, messo a crudel tortura dal Salmasio, da Isacco Vossio, e da Giacomo Gronovio, il più violento dei critici). Viveva egli nel tempo che questo paese fu interamente soggiogato dall’imperatore Claudio; eppure, trent’anni dopo, Plinio (Hist. nat., V, 1) si lagna di quegli autori troppo indolenti per indagare quella provincia selvaggia e rimota, e troppo orgogliosi nel confessare la loro ignoranza.
  157. Aveano gli uomini a Roma la smania del legname di cederno, come le donne quella delle perle. Una tavola rotonda di quattro o cinque piedi di diametro, si vendeva al prezzo d’un ricco podere (Latefundii taxatione), cioè per otto, dieci o dodicimila lire sterline. (Plinio Hist. nat., XIII, 29). So bene che non va confuso il citrus coll’albero che dà il frutto dagli antichi appellato citrum; ma non sono abbastanza dotto in botanica per caratterizzare il primo, che somiglia al cipresso dei boschi, col nome volgare o con quello che gli assegna Linneo, e non deciderò nemmeno se il citrum sia l’arancio o il limone. Pare che il Salmasio abbia esausta questa materia; ma troppo spesso si intrica nelle file confuse d’una mal ordinata erudizione (Plinian. Exercit., t. II, p. 666 ec.).
  158. Leone l’Affricano fol. 16 retro; Marmol, (t. II, p. 28). Trattasi spesso di questa provincia, che fu il primo teatro delle glorie e della grandezza dei Sceriffi, nella curiosa storia di questa dinastia registrata in fine del terzo volume della descrizione dell’Affrica del Marmol. Il terzo volume delle Ricerche storiche sui Mori, pubblicata recentemente a Parigi, spande molta luce sulla storia e la geografia dei regni di Fez, e di Marocco.
  159. Otter (pag. 119) ha messa tutta l’enfasi del fanatismo a questa esclamazione che il Cardonne (p. 37) ha mitigata, e che sotto la sua penna non indica il pio pensiero di predicare il Corano. Eppure aveano l’uno e l’altro davanti il testo di Novairi.
  160. Ockley (Hist. of the Saracens, vol. II, p. 129, 130) parla della fondazione di Cairoan, e Leone l’Affricano (fol. 75), Marmol (t. II, p. 532) e Shaw (p. 115) parlano della situazione della moschea ec.
  161. Bene spesso gli autori han commesso un enorme sbaglio per una piccola somiglianza di nome, confondendo la Cirene dei Greci col Cairoan degli Arabi, due città lontane mille miglia l’una dell’altra. Non evitò quest’errore il grande de Thou, errore tanto meno scusabile in quanto si trova in una descrizion dell’Affrica accuratamente da lui elaborata (Hist. l. VII, c. 2, in t. I, p. 240 ediz. di Buckley).
  162. Oltre le cronache arabe d’Abulfeda, d’Elmacin, e d’Abulfaragio pel settantesimoterzo anno dell’Egira, si possono consultare d’Herbelot (Bibl. orient. p. 7) ed Ockley (Hist. of the Saracens, vol. II, p. 339-349). Ockley riferisce in modo patetico l’ultimo colloquio d’Abdallah e di sua madre, ma dimenticò un effetto fisico del dolore da lei provato alla morte del figlio: il ritorno cioè, e le funeste conseguenze dei suoi mestrui in età di novant’anni.
  163. „Λεοντιος .... απαντα τα Ρωμαικα εξωπλισς πλοιμα ςτρατηγον τε επ’αυτοις Ιωαννην τον Πατρικιον εμπειρον των πολεμιων προχετρισαμενος προς Καρχηδονα κατα των Σαρακηνων εξεπεμψεν„ „Leonzio .... imbarcò tutte le forze romane, ed eletto per capitano di quelle il patrizio Giovanni pratico di guerra lo spedì a Cartagine contro de’ Saraceni„ (Niceforo, Constantinop. Breviar. p. 28). Il patriarca di Costantinopoli e Teofane (Chronogr. p. 309) hanno in poche parole rammentato quest’ultimo tentativo per soccorrer l’Affrica. Il Pagi (Critica t. III, p. 129-141) ha stabilita la Cronologia, confrontando esattamente gli storici Arabi e Bizantini che sovente si contraddicono per le epoche e pei fatti. V. pure una nota d’Ockley (p. 121).
  164. „Dove s’erano ridotti i nobili Romani e i Goti: e di poi, i Romani fuggirono e i Goti lasciarono Cartagine„ (Leone l’Affricano, fol. 72). Non so da quale scrittore Arabo abbia tolto questo fatto relativo ai Goti: ma questo nuovo ragguaglio è tanto importante e verosimile che mi basta la più piccola autorità per ammetterlo.
  165. Questo Commendatore è chiamato da Niceforo βασιλεως Σαρακηνων re dei Saraceni definizione un po’ vaga, ma esatta abbastanza, delle incombenze del Califfo. Teofane usa la strana denominazione di Προτοσυμβολος Protosimbolo, che Goar, suo interprete, applica al Vizir Azem. Forse attribuivano giustamente al ministro piuttosto che al principe l’uficio attivo; ma dimenticarono che i califfi Ommiadi non aveano che un Cateb, o segretario; e che non fu rimessa o istituita la dignità di Visir, se non che l’anno 132 dell’Egira (d’Herbelot p. 912).
  166. Solino (l. XXVII, p. 36 ediz. Salmasio) dice che la Cartagine di Didone ha sussistito seicento settantasette, o settecento trentasette anni. Queste due versioni dipendono dalla differenza dei manoscritti e delle edizioni (Salmas. Plinian., exercit., t. I, pag. 228). Il primo di questi computi, che ne porta la fondazione a ottocentoventitre anni avanti Gesù Cristo, s’accorda meglio colla testimonianza ben pesata di Velleio Patercolo; ma i nostri cronologisti (Marsham, Canon. chron., p. 398) preferiscono l’ultimo conto, che par loro più conforme agli annali degli Ebrei e de’ Tiri.
  167. Leone l’Affricano, fol. 71; Marmol. t. II, p. 415-447: Shaw, p. 80.
  168. Si ponno distinguere quattro epoche nella Storia del nome di Barbaro: 1. al tempo di Omero, quando i Greci o gli abitanti della costa asiatica usavano forse un idioma comune, il suono imitativo di barbar divenne un nome che si dava alle tribù più rozze, che aveano più ingrata pronunzia e più difettosa grammatica. „Καρες βαρβαροφωνοι„ „I Carii di barbaro accento„ (Iliade 2, 567, con lo Scoliaste d’Oxford, con le note di Clarke e col Tesoro greco di Enrico Stefano t. I, pag. 720). 2. Sin dai tempi d’Erodoto almeno, fu applicato a tutte le nazioni straniere alla lingua e al nome dei Greci. 3. Nel secolo di Plauto i Romani si sottomisero a questo insulto (Pompeo Festo l. II, pag. 48 ediz. del Dacier), e si davano da sè il nome di Barbari. Vennero a poco a poco nella pretensione che non convenisse questo titolo all’Italia, e alle province che aveano assoggettate; e infine non lo diedero che ai popoli selvaggi, od ai nemici che stavano fuori del precinto dell’impero. 4. Conveniva ai Mori in tutti i sensi. I conquistatori Arabi presero questa parola dalla lingua dei Romani stanziati nelle province, ed è poi divenuto un nome locale pei popoli che vivono lungo la costa settentrionale dell’Affrica nomata Barbaria.
  169. Il primo libro di Leone Affricano, e le Osservazioni del dottor Shaw (p. 220, 223, 227, 247 ec.) schiarirono assai le tribù erranti della Barbaria che dagli Arabi o dai Mori discendono. Ma lo Shaw s’era tenuto a una rispettosa distanza da quei Selvaggi, e pare che Leone, prigioniero a Roma, dimenticasse in Italia quel che sapeva della letteratura Araba, mentre acquistava qualche cognizione di quella dei Greci e dei Romani. Ha commesso gran numero d’errori grossolani nella prima parte dell’istoria Maomettana.
  170. In una conferenza disse Amrou, ad un principe Greco, che la lor religione era differente, e che questo dava giusto motivo alle liti tra fratelli (Ockley, Hist. of the Saracens, vol. I, p. 328).
  171. Abulfeda, Annal. moslem., p. 78, vers. Reiske.
  172. Il nome d’Andalusia vien dato dagli Arabi non solo alla provincia che ha questo nome al presente, ma a tutta la penisola di Spagna. (Geograph. nub., pag. 151; d’Herbelot, Bibl. orient., pag. 114, 115). Sembra che questo nome non derivi da Vandalusia, paese dei Vandali, come han detto alcuni autori (d’Anville, Etats de l’Europe, p. 146, 147 ec.). La vera etimologia par quella di Casiri che osserva che Handalusia significa in arabo la region dell’occidente, e così equivale all’Hesperia dei Greci (Bibl. arabico-hispana, t. II, p. 327, ec.).
  173. Descrive il Mariana la caduta e il risorgimento della monarchia dei Goti (t. I, p. 238-260, l. VI, c. 19-26, l. VII, c. 1, 2). Lo stile di questo storico nella suo nobile opera (Historia de rebus Hispani, libri XXX, Aia 1733, 4 volumi in folio colla continuazione del Miniana) ha quasi il pregio e l’energia degli autori Romani classici, e dal duodecimo secolo in poi si può riposare sulle dottrine e sul giudizio che egli palesa. Ma questo Gesuita non era scevro dai pregiudizi del suo Ordine; come il suo rivale Buchanan, egli ammette e abbellisce le leggende nazionali più assurde. Trascura troppo la critica e la cronologia, e colla sua vivace immaginazione supplisce alle lacune dei monumenti storici. Queste lacune sono considerabili e frequentissime. Rodrigo di Toledo, primo storico Spagnuolo, viveva cinque secoli dopo la conquista degli Arabi: e quanto si sa dei tempi anteriori è ristretto in poche linee aridissime degli oscuri annali, o cronache, d’Isidoro di Badajoz e di Alfonso III re di Leone, da me trovati solamente negli annali del Pagi.
  174. Lo stupro, dice Voltaire, è difficile a fare, come a provare. Si sarebbero mai collegati i vescovi per una fanciulla? (Hist. gener., c. 26). Questo argomento non è concludente in buona logica.
  175. Sembra che nella storia di Cava, il Mariana (l. VI, c. 21, pag. 241, 242) voglia gareggiare col racconto che fa T. Livio nella storia di Lucrezia. Ad esempio degli antichi, cita rare volte gli autori, e la testimonianza più antica indicata dal Baronio (Annal. eccles., A. D. 715, n. 19) quella è di Luca Tudense, diacono di Galizia, del secolo tredicesimo il quale dice solamente Cava quam pro concubina utebatur.
  176. Gli orientali Elmacin, Abulfaragio ed Abulfeda trapassano in silenzio la conquista della Spagna, o appena appena ne fan motto. Il testo di Novairi e degli altri scrittori Arabi si trova, con qualche mistura, nella storia dell’Affrica e della Spagna sotto la dominazion degli Arabi (Parigi 1765, 3 vol. in 12, t. I, p. 55-114), scritta dal signor de Cardonne, e in modo più conciso nella storia degli Unni (t. I, p. 347-350) del signor de Guignes. Il bibliotecario dell’Escurial non ha risposto alla mia aspettazione, eppure sembra che abbia attentamente rifrustati i materiali confusi che sono sotto la sua custodia. Alcuni frammenti preziosi del genuino Razis (che scrisse in Cordova l’anno dell’Egira 300), di Ben-Hazil, etc. dan lume alla storia della conquista di Spagna (V. Bibl. Arabico-Hispana, t. II, p. 32-105, 106-182, 252-319, 332). Il dotto Pagi ha fatto suo pro delle cognizioni che aveva il suo amico abate di Longuerne sulla letteratura degli Arabi, e molto mi giovarono le lor fatiche.
  177. Uno sbaglio di Rodrigo di Toledo, nel paragone che ha fatto degli anni lunari dell’Egira cogli anni giuliani dell’Era di Cesare, condusse il Baronio, il Mariana e la turba degli storici Spagnuoli a porre la prima invasion degli Arabi nell’anno 713, e la battaglia di Cheres nel novembre 714. Questo anacronismo di tre anni fu scoperto dai cronologi moderni, e soprattutto dal Pagi (Critica, t. III, p. 169-171, 174), che hanno indicato la vera data della rivoluzione. Il sig. Cardonne, versato nella letteratura degli Arabi e che per altro ammise l’antico errore, ha palesato in questo proposito una ignoranza o una negligenza inescusabile.
  178. Il primo anno dell’Era di Cesare, seguìta dalla legge e dal popolo di Spagna sino al secolo decimoquarto, è di trent’otto anni anteriore alla nascita di Gesù Cristo. Parmi che si riporti alla pace generale per mare e per terra che rassodò il potere e la divisione dei Triumviri (Dione-Cassio, l. XLVIII, p. 547, 553; Appiano De bell. civ., l. I, p. 1054 ediz. in folio). La Spagna era una delle province sottomesse a Cesare Ottaviano, e Tarragona, che innalzò il primo tempio in onore d’Augusto (Tacito, Annal., 1, 78), potè apprendere dagli orientali questa specie d’adulazione.
  179. Il padre Labat (Voyages en Espagne et en Italie, t. I, pag. 207-217) parla col suo brio ordinario della strada del Cantone e del vecchio castello del conte Giuliano, come pure dei tesori nascosti ec., a cui prestan fede i superstiziosi Spagnuoli.
  180. Il geografo di Nubia (p. 154) descrive i siti che furono il teatro della guerra; ma difficilmente si crede che il Luogo-tenente di Musa siasi appigliato ad un espediente tanto disperato ed inutile quanto quello d’incendiare i propri vascelli.
  181. Xeres (la colonia romana d’Asta Regia) non è lontana da Cadice che due leghe; nel sedicesimo secolo era un granaio del paese, ed oggi è noto il vino Xeres a tutte le nazioni Europee (Lud. Nonii Hispania: c. 13, p. 54-56, opera esattissima e concisa). D’Anville (Etats de l’Europe, etc. p. 154).
  182. Id sane infortunii regibus pedem ex acie referentibus saepe contingit. (Ben-Hazil di Granata, in Bibl. arabico-hispana, t. II, p. 323). Alcuni Spagnuoli creduli pensano che Rodrigo riposasse in una cella d’un Eremita; altri dicono che fu chiuso vivo in una botte piena di serpenti, e che esclamò con grido lamentevole: „Sono straziato nella parte ove tanto peccai!„ (Don Chisciotte, part. II, l. III, c. I).
  183. Il sig. Swinburne ha speso settantadue ore e mezzo per andare sopra le mule da Cordova a Toledo per la via più breve. Debbe abbisognare più tempo alle mosse lente e deviate d’un esercito. Attraversarono gli Arabi la provincia della Mancia, divenuta pei lettori di tutte le nazioni una terra classica sotto la penna di Cervantes.
  184. Nonio (Hispania, c. 59, p. 181-186) descrive in pochi tratti le antichità di Toledo, la quale nel tempo delle guerre puniche era urbs parva, ed urbs regia nel sedicesimo secolo. Egli prende in prestito da Rodrigo il fatale palatium dei ritratti moreschi; ma modestamente accenna che altro non era che un Anfiteatro romano.
  185. Rodrigo di Toledo (Hist. Arab., c. 9, p. 17, ad calcem Elmacin) descrive questa tavola di smeraldo, e si fonda sull’autorità di Medinat-Almeyda, del quale ci dà il nome in lettere arabiche. Par che conosca gli autori Musulmani; ma non posso convenire col sig. di Guignes (Hist. des Huns, t. I, p. 350) che abbia letto e copiato Novairi, perchè morì un secolo prima che Novairi componesse la sua storia. Questo sbaglio nasce da un errore anche più goffo: il sig. di Guignes confonde lo storico Rodrigo Ximenes, arcivescovo di Toledo nel secolo tredicesimo, col cardinale Ximenes che governò la Spagna nel principio del secolo sedicesimo, e che ha esercitato i pennelli della storia, ma non li ha maneggiati giammai.
  186. Avrebbe potuto Tarik incidere su l’ultima rocca quel verso vanaglorioso di Regnard e dei suoi compagni nell’estremità della Lapponia: Hic tandem stetimus, nobis ubi defuit orbis.
  187. Questo fu l’argomento del traditore Oppas; e i Capi a cui si diresse non risposero già collo spirito di Pelagio: Omnis Hispania dudum sub uno regimine Gothorum, omnis exercitus Hispaniae in uno congregatus Ismaelitarum non valuit sustinere impetum. (Chron. Alphonsi regis, apud Pagi, t. III, p. 177).
  188. D’Anville (Etats de l’Europe, p. 159) in poche parole, ma chiare, riferisce il risorgimento dei Goti nelle Asturie.
  189. I legionari superstiti dopo la guerra de’ Cantabri (Dione-Cassio, t. LIII, p. 720) furono collocati in questa metropoli della Lusitania, e forse della Spagna (submittit cui tota suos Hispania fasces). Nonio (Hispania, c. 31, p. 106-110) fa l’enumerazione degli antichi edifizii, ma la termina con queste parole: Urbs haec olim nobilissima ad magnam incolarum infrequentiam delapsa est et praeter priscae claritatis ruinas nihil ostendit.
  190. I due interpreti di Novairi, il de Guignes (Hist. des Huns, t. I, p. 349) ed il Cardonne (Hist. de l’Afrique et de l’Espagne, t. I, pag. 93, 94, 104, 105) fanno entrare Musa nella Gallia narbonese; ma io non trovo che Rodrigo di Toledo, od i manoscritti dell’Escuriale faccian menzione di questa impresa; ed una Cronaca francese rimanda l’invasione dei Saraceni al nono anno dopo la conquista della Spagna, A. D. 721 (Pagi, Critica, t. III, pag. 177, 195: Historiens de France, t. III). Ho gran dubbio che Musa non abbia passato i Pirenei.
  191. Quattro secoli dopo Teodemiro, i suoi demanii di Murcia e di Cartagena ritengono il nome di Tadmir nel geografo di Nubia (Edrisi, p. 154-161); V. pure il d’Anville (Etats de l’Europe, p. 156; Pagi, t. III, p. 164). Nonostante la miseria in cui vedesi oggi l’agricoltura della Spagna, il sig. Swinburne (Travels in Spain, p. 119) vide con piacere la deliziosa vallata che da Murcia si stende ad Orihuela, e che, in uno spazio di quattro leghe e mezzo, presenta una quantità considerabile di belle biade, di legumi, di trifoglio, di Aranci, ec.
  192. V. questo trattato, in arabo e in latino, nella Bibliotheca arabico-hispana, tom. II, pag. 105, 106. Ha la data del 4 del mese Regeb, A. II. 94, cioè 5 aprile A. D. 713, il che sembra che prolunghi la resistenza di Teodemiro e il governo di Musa.
  193. Il Fleury (Hist. eccles., t. IX, p. 261) ha dato, seguendo l’istoria di Sandoval (p. 87), l’estratto d’altra convenzione segnata A. AE. c. 115 A. D. 734, tra un Capo Arabo ed i Goti e Romani del territorio di Coimbra nel Portogallo. Quivi si fissa la contribuzione delle chiese a venticinque libbre d’oro, quella dei monasteri a cinquanta, delle cattedrali a cento; si dichiara che i cristiani saran giudicati dal loro conte, ma che, negli affari capitali, questi dovrà consultare l’Alcade; che le porte della chiesa saranno chiuse, e i cristiani rispetteranno il nome di Maometto. Non ho sott’occhio l’originale per decidere se sia fondato o no il sospetto che questo scritto sia stato inventato per introdurre le immunità d’un convento del paese.
  194. Può paragonarsi questo gran disegno, attestato da vari scrittori Arabi (Cardonne, t. I, p. 95, 96), a quello di Mitridate, di marciare dalla Crimea a Roma, o all’altro di Cesare di conquistare l’oriente, e di tornare dal settentrione in Italia; ma l’impresa eseguita da Annibale supera per avventura quei tre vasti divisamenti.
  195. Mi duole assai che siano smarrite due Opere arabe dell’ottavo secolo, una vita di Musa e una poesia sulle vittorie di Tarik, delle quali, se non son perdute, non ho avuto almeno alcuna notizia. La prima di queste, autentiche amendue, era stata composta da un nipote di Musa, sfuggito alla strage della famiglia; e la seconda dal Visir del primo Abdalrahman, Califfo di Spagna, che aveva potuto conversare con qualche veterano di quel conquistatore (Bibl. arabico-hispana, t. II, p. 36-139).
  196. Bibl. arabico-hispana, t. II, p. 32-252. La prima di queste citazioni è tratta da una Biographia hispanica, scritta da un Arabo di Valenza (V. i lunghi estratti che ne dà Casiri, t. II, p. 30-121); e l’ultima da una cronologia generale dei Califfi e delle dinastie Affricane e Spagnuole, con una storia particolare di Granata, tradotta quasi tutta da Casiri (Bibl. arabico-hispana, t. II, p. 177-319). L’autore Ebn-Khateb, nativo di Granata, e contemporaneo di Novairi e di Abulfeda (nacque A. D. 1313, e morì A. D. 1374) era storico, geografo, medico e poeta (t. II, p. 71, 72).
  197. Cardonne, Histoire de l’Afrique et de l’Espagne, t. I, p. 116, 119).
  198. Si vede nella biblioteca dell’Escuriale un lungo trattato d’agricoltura composto da un Arabo di Siviglia nel dodicesimo secolo, e Casiri aveva l’intenzione di tradurlo. Reca una lista degli autori Arabi, Greci, Latini, ec. che vi sono citati; ma è molto senz’altro se lo scrittore di Andalusia abbia conosciuto gli ultimi per l’opera del suo concittadino Columella (Casiri, Bibl. arabico-hispana, t. I, p. 323-338).
  199. Bibl. arabico-hispana, t. II, p. 104. Casiri traduce la testimonianza originale dello storico Rasis, tal quale si trova nella Biographia hispanica araba, part. 9; ma stupisco altamente vedendola diretta Principibus coeterisque christianis Hispanis suis Castellae. Questo nome Castellae era ignoto all’ottavo secolo, non avendo cominciato il regno di Castiglia che nel 1022, un secolo dopo Rasis (Bibl. t. II, p. 530); e quel nome indicava non una provincia tributaria, ma una serie di castella non soggette a’ Mori (d’Anville, Etats de l’Europe, pag. 166-170). Se Casiri fosse stato buon critico, avrebbe forse schiarito una difficoltà a cui ha dato egli per avventura occasione.
  200. Cardonne, t. I, p. 337, 338. Egli valuta questa entrata a centotrenta milioni di franchi. Da questa pittura della pace e prosperità dell’impero de’ Mori resta amenizzato il sanguinoso ed uniforme quadro della loro storia.
  201. Posseggo per avventura una magnifica ed interessantissima opera non mai posta in vendita, ma dispensata in dono dalla Corte di Madrid, la Bibliotheca arabico-hispana escurialensis, opera ed studio Michaelis Casiri, Syro Maronitae. Matriti, in folio, tomus prior, 1760, tomus posterior, 1770. Questa edizione onora veramente i torchi di Spagna: l’editore indica mille ottocento cinquant’un manoscritto giudiziosamente classificati; e co’ suoi lunghi estratti illustra la letteratura musulmana e la storia di Spagna. Non rimane più timore di perdere que’ monumenti; ma fu veramente imperdonabile la negligenza di chi non fece questo lavoro avanti l’anno 1671, tempo funesto per l’incendio che divorò la maggior parte della Biblioteca dell’Escuriale, allora doviziosa delle spoglie di Granata e di Marocco.
  202. Gli Harbii, che così son detti, qui tolerari nequeunt, furono, 1. quelli che non solo adorano Dio, ma ben anche il sole, la luna, o gl’idoli; 2. gli atei utrique, quamdiu princeps aliquis inter Mohammedanos superest, oppugnari debent donec religionem amplectantur, nec requies iis concedenda est, nec pretium acceptandum pro obtinenda conscientiae libertate (Reland, Dissert. 10, De jure militari Mahommedan., t. III, p. 14). Che teorica austera!
  203. Si suppone che l’Autore ciò dica siccome asserito dai seguaci della religion Maomettana, che avevano ed hanno una prevenzione in favore di lei; poichè ogni buon credente sa che le rivelazioni di Mosè, e gli Evangelj hanno i caratteri, ed i segni che mostrano la loro origine divina; nè questi segni e questi caratteri si osservano nella pretesa rivelazione di Maometto. (Nota di N. N.).
  204. In una conversazione del Califfo Al-Mamoun cogl’ idolatri, o Sabei di Charra, sta chiaramente indicata la distinzione che facevasi tra una Setta proscritta e una tollerata, tra gli Harbii, e il popolo del libro, ossia i credenti d’una rivelazione divina (Hottinger, Hist. orient., p. 107, 108).
  205. Vorrà dire l’Autore, che la legge di Maometto fu più generale di quella di Mosè, alludendo alla permessa poligamia: ma risguardando la legge di Mosè, anche come quella soltanto d’un legislatore civile, è certamente più saggia, e più conforme al buon ordine sociale di quella di Maometto; nè vale il porre in campo il clima caldo degli Arabi, perchè anche gli Ebrei abitavano i paesi ad essi vicini. La pretesa folla de’ misterj de’ Cristiani, erano stati determinati dai Concilj generali, secondo rettissime spiegazioni dell’Evangelio, al sorger che facevano le erronee opinioni particolari, ossia eresie, perciò quei misterj erano già negli evangelj. (Nota di N. N.)
  206. Il Zend o Pazend, che è la Bibbia de’ Guebri, è da questi, o almeno da’ Musulmani annoverata fra’ dieci libri che Abramo ricevette dal cielo[*], e la loro religione ha il nome onorevole di religione d’Abramo (d’Herbelot Bibl. orient., p. 701; Hyde, De religione veterum Persarum, c. 13, p. 27, 28, ec.). Temo assai che ci manchi una esposizione pura e libera del sistema di Zoroastro. Il dottore Prideaux (Connection, vol. I, p. 300, in 8) aderisce all’opinione che crede che Zoroastro, durante la cattività di Babilonia, fosse schiavo e discepolo d’un profeta Giudeo. I Persiani che furono i de’ Giudei rivendicheranno forse l’onore, miserabile onore, d’essere pure stati loro precettori per le opinioni religiose.
    [*] Fu una tradizione delle teste calde d’alcuni abitanti della Caldea, della Palestina, e dell’Arabia, e d’alcun paese della Persia, che Abramo avesse scritto libri, o li avesse ricevuti dal cielo; lo si fece anche scrittore d’astronomia. Il Calmet ha mostrato che Abramo non iscrisse libri, e non ne ricevè dal cielo; ed il Calmet è un cattolico commentatore della sacra Scrittura: Mosè, i Profeti, gli scrittori Ebrei se ne sarebbero gloriati. Il dotto Autore poi dice benissimo, non aver noi un’esatta esposizione del sistema religioso di Zoroastro, che fu un grand’uomo; e siccome sappiamo, che alcune opinioni filosofiche, o religiose si sono unite insieme, e ne venne che alcuna di loro prese altro nome, così potè avvenire, che i Maomettani abbiano accozzato colle cose dei pretesi libri d’Abramo, da essi riverito, la religione persiana de’ Magi, e così questa, ch’era già stata data loro da Zoroastro, sotto la rinomanza d’Abramo, sia stata tollerata da’ Maomettani potenti. I Guebri per altro, ed alcun’altra popolazione della Persia, conservano anche oggidì l’antica religione di Zoroastro: è estremamente difficile distruggere una religione che abbia poste estese e ferme radici in uno Stato: è questa l’opera del tempo. (Nota di N. N.).
  207. Le mille ed una Notte Araba, dipintura fedele de’ costumi orientali, rappresentano sotto i più odiosi colori i Magi, o adoratori del fuoco a cui rinfacciano il sagrifizio annuo di un Musulmano. Non sussiste la menoma affinità tra le religioni di Zoroastro e quella degli Indi; ma non di rado i Musulmani le confondono, e questo sbaglio è stato una delle cagioni della crudeltà di Timur (Hist. de Timur-Bec, di Cerefedin-Alì-Yezdi, l. V).
  208. Vie de Mahomet di Gagnier, t. III, p. 114, 115.
  209. Hae tres sectae, judaei, christiani, et qui inter Persas magorum institutis addicti sunt κατ’ εξοχην (per eccellenza) POPULI LIBERI dicuntur (Reland, Dissert., t. III, p. 15). Il Califfo Mamoun confermò questa onorevole distinzione che separava le tre Sette dalla religione indeterminata ed equivoca de’ Sabei, sotto lo scudo della quale permettevasi agli amichi politeisti di Charrae il loro culto idolatra (Hottinger Hist. orient., p. 167, 168).
  210. Questa curiosa storia è narrata dal d’Herbelot (Bibl. orient., p. 440, 449) su la testimonianza di Condemiro, ed anche dello stesso Mirchond (Hist. priorum regum persarum, etc. p. 9-18, not. p. 88, 89).
  211. Mirchond (Mohammed emir Khoondah Shah), nativo di Herat, compose in lingua persiana una storia generale dell’oriente, dalla creazione del Mondo sino all’anno ottocento settantacinque dell’Egira (A. D. 1471). Nell’anno 904 (A. D. 1498), fu fatto bibliotecario del principe, e con questo soccorso pubblicò in sette o dodici parti un’opera che fu commentata, e poi fu ridotta in tre volumi dal suo figlio Condemiro (A. E. 927, A. D. 1520). Petit de la Croix (Hist. de Gengis-Khan, pag. 537, 538, 544, 545) accuratamente ha distinto questi due scrittori confusi dal d’Herbelot (pag. 358, 410, 994, 995). I molti estratti da quest’ultimo pubblicati sotto il nome di Condemiro appartengono al padre piuttosto che al figlio. Lo storico di Gengis-Khan rimanda il lettore ad un manoscritto di Mirchond datogli dal suo amico d’Herbelot. Ultimamente fu stampato in Vienna, 1782, in quarto, cum notis di Bernardo di Jenisch, un curioso frammento in persiano ed in latino (le dinastie Taheriana e Soffariana), e l’editore dà speranza di continuare l’opera di Mirchond.
  212. Quo testimonio boni se quidpiam praestitisse opinabantur. Mirchond per altro avrà condannato questo zelo, giacchè approvava la tolleranza legale dei Magi, cui (il tempio del Fuoco) peracto singulis annis censu, uti sacra Mohammedis lege cautum, ab omnibus molestiis ac oneribus libero esse licuit.
  213. L’ultimo Mago, che abbia avuto un nome e qualche autorità, sembra essere Mardavige-il-Dilemita, che nel decimo secolo regnava nelle province settentrionali della Persia situate presso il mar Caspio (d’Herbelot, Biblioth. orient., p. 355); ma i Bovidi, suoi soldati e successori, professarono l’Islamismo, oppure l’abbracciarono, ed io porrei la caduta della religione di Zoroastro al tempo della loro dinastia (A. D. 933-1020).
  214. Quanto ho esposto dello stato presente de’ Guebri nella Persia è tratto dal Chardin, il quale, benchè non sia nè il più dotto, nè il più giudizioso de’ viaggiatori moderni, è però quegli che ha posto maggior diligenza nelle ricerche (Voyages en Perse, t. II, p. 109, 179, 187, in 4). Pietro della Valle, Oleario, Thevenot, Tavernier, ec., che indarno ho consultati, non aveano occhi abbastanza esercitati con acutezza sufficiente d’ingegno per ben esaminare questo popolo sì osservabile.
  215. La lettera d’Abdoulrahman, governatore o tiranno dell’Affrica, al Califfo Aboul-Abbas, primo degli Abbassidi, ha la data dell’A. E. 132 (Cardonne, Hist. de l’Afrique et de l’Espagne, t. I, p. 168).
  216. Bibl. orient., p. 66; Renaudot, Hist. patriar. Alex., p. 287, 288.
  217. V. le lettere de’ papi Leone IX (epist. 3), Gregorio VII (l. I, epist. 22, 23; l. III, epist. 19, 20, 21), e le annotazioni del Pagi (t. IV, A. D. 1053, n. 14; A. D. 1073, n. 13), il quale ha cercato il nome e il casato del principe Moro, con cui carteggiava sì urbanamente il più superbo de’ Papi.
  218. Mozarabes o Mostarabes, adscititii, secondo la traduzione di quella parola in latino (Pocock, Specim. Hist. Arabum, p. 39, 40; Bibl. arabico-hispana, t. II, pag. 18). La liturgia mosarabica, tenuta un tempo dalla chiesa di Toledo, è stata dai Papi disapprovata ed esposta alle incerte prove del ferro e del fuoco (Marian., Hist. Hispan., t. I, l. IX, c. 18, p. 378): è scritta in lingua latina, ma nell’undecimo secolo si credè necessario (A. D. 1039) fare una versione in arabo dei canoni dei Concilii di Spagna (Bibl. arabico-hispana, t. I, pag. 547), ad uso dei vescovi e del clero de’ paesi soggetti ai Mori.
  219. Circa la metà del decimo secolo l’intrepido inviato dell’imperadore Ottone primo rinfacciò al clero di Cordova questa colpevole condiscendenza (Vit. Johann. Gorz, in sec. Benedict. V, n. 115, apud Fleury, Hist. eccles., t. XII, pag. 91).
  220. Pagi, Critica, t. IV, A. D. 1149 n. 8, 9. Egli osserva giustamente che quando Siviglia fu ripresa da Ferdinando di Castiglia non vi si trovarono altri cristiani fuorchè i prigionieri, e che la descrizione delle chiese mozarabiche dell’Affrica e della Spagna, datane da Giacomo di Vitry, A. D. 1218 (Hist. Hieros., c. 80, pag. 1095, in gestis Dei per francos) fu tolta da un libro più antico, e soggiugne che la data dell’Egira 677 (A. D. 1278) debbe applicarsi alla copia, e non all’originale d’un Trattato di giurisprudenza in cui si espongono i dritti civili de’ cristiani di Cordova (Bibl. arab.-hisp., t. I, pag. 47), e che i Giudei erano i soli dissidenti che da Abul-Waled, re di Granata (A. D. 1313), potessero essere perseguitati o tollerati (t. II, p. 288).
  221. Renaudot, Hist. patriar. Alex., p. 288. Se avesse potuto Leone Affricano, prigioniero in Roma, scoprire il menomo avanzo di cristianesimo nell’Affrica, non avrebbe lasciato di dirlo per far la corte al Papa.
  222. „Absit„ (diceano i cattolici al Visir di Bagdad) „ut pari loco habeas Nestorianos, quorum praeter Arabas nullus alius rex est, et Graecos quorum reges amovendo Arabibus bello non desistunt„, etc. V. nelle Raccolte d’Assemani (Bibl. orient., t. IV, p. 94-101) lo stato dei Nestoriani sotto i Califfi. Nella dissertazione preliminare del secondo volume d’Assemani viene esposto più concisamente quello dei Giacobiti.
  223. Eutych., Annal., t. II, pag. 384, 387, 388; Renaudot Hist. patr. Alex., p. 205, 206, 257, 332. Il primo di quei patriarchi Greci poteva essere men fedele agli imperatori e men sospetto agli Arabi, professando in qualche punto l’eresia dei Monoteliti.
  224. Motadhed, che regnò dall’A. D. 892 sino al 902. Conservavano tuttavia i Magi il lor nome e il grado fra le religioni dell’impero (Assem., Bibl. orient. t. IV, p. 97).
  225. Narra Reland le angarie messe dalla legge e dalla giurisprudenza musulmana sopra i cristiani (Dissert., tom. III, p. 16-29). Eutichio (Annal., t. II, p. 448) e il d’Herbelot (Bibl. orient., pag. 640) accennano gli ordini tirannici del Califfo Motawakkel (A. D. 847-861), i quali sono ancora in vigore. Il greco Teofane racconta, e probabilmente esagera, una persecuzione del Califfo Omar II (Chron., p. 334).
  226. S. Eulogio, che fu pure una delle vittime, celebra e giustifica i martiri di Cordova (A. D. 850 ec.). Un sinodo convocato dal Califfo censurò in modo equivoco la lor temerità. Il saggio Fleury, usando la solita moderazione, non può accordare la lor condotta colla disciplina dell’antichità: Pure l’autorità della chiesa ec.. (Fleury, Hist. eccles., t. X, p. 415-522, e particolarmente p. 451-508, 509). Gli atti autentici di questo sinodo spandono una viva luce, benchè passeggera, sullo stato della chiesa di Spagna nel nono secolo.
  227. V. l’articolo Eslamiah (noi diciamo cristianità) nella Bibliothèque orientale (p. 325). Questa carta dei paesi soggetti alla religion musulmana è attribuita all’anno dell’Egira 885 (A. D. 995), ed è di Ebn-Alwardi. Le perdite sofferte dal Maomettismo in Ispagna da quel tempo in poi, si sono bilanciate coi conquisti nell’Indie, nella Tartaria e nella Turchia europea.
  228. Nel collegio della Mecca s’insegna come lingua morta l’arabo del Corano. Il viaggiator Danese paragona questo antico idioma al latino; la lingua volgare dell’Hejaz e dell’Yemen all’italiano, e i dialetti arabi della Sorìa e dell’Egitto e dell’Affrica ec. al provenzale, allo spagnuolo, e al portoghese (Niebuhr, Descript. de l’Arabie, p. 74 ec.).