Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
dell'impero romano cap. lii. | 381 |
ron messe in luogo sicuro, indi a far orazioni, processioni e tutte le cerimonie più solenni della religione, che per lo meno servirono a guarire la fantasia e a riconfortar le speranze della plebe. Da lungo tempo non s’avea pensiero di ciò che concerneva alla difesa della città; non già che si sperasse la pace, ma perchè l’angustia e la miseria dei tempi non davan luogo a simili cure. Leone ristaurò le mura come potè coi deboli mezzi che aveva e nella ristrettezza del tempo; quindici torri furono erette, o rifabbricate nei siti di più facile accesso: due di queste torri dominavano le due rive del Tevere, e si tirarono catene sul fiume per impedire alle navi nemiche il passaggio all’insù. Ebbero almeno i Romani qualche intervallo di riposo, poichè seppero avere i Saracini levato da Gaeta l’assedio, e i flutti ingoiato buon numero di Musulmani col sacrilego loro bottino.
[A. D. 849] L’esplosione della procella fu differita, per poi scoppiare in breve con più violenza. L’Aglabita1, che regnava in Affrica, avea redato dal padre un tesoro e un esercito; una squadra di Arabi e di Mori, dopo un breve soggiorno nei porti della Sardegna, venne ad approdare alla foce del Tevere, cioè a sedici miglia da Roma, e col numero e colla disciplina parea che annunciassero non una scorreria passeggera, ma la ben ferma intenzione di conquistare l’Italia. Leone intanto era stato sollecito ad allearsi colle città li-
- ↑ De Guignes (Hist. génér. des Huns, t. I, pag. 363, 364), Cardonne (Hist. de l’Afrique et de l’Espagne, sotto il dominio degli Arabi, t. II, pag. 24, 25). Questi scrittori non van d’accordo intorno alla successione degli Aglabiti, nè a me basta l’animo di conciliarli.