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dell'impero romano cap. lii. 387

difendere la patria de’ suoi antenati. Quando gli eserciti si avvicinarono, parve che la fronte della linea musulmana fosse la più abbondante di picche, e di chiaverine: ma dall’una e dall’altra parte, non fu per le milizie nazionali glorioso l’esito della pugna. Gli Arabi furono sbaragliati, ma dalle spade di trentamila Persiani che aveano ottenuto servigio e domicilio nell’impero Greco. Furono respinti e sconfitti i Greci, ma dalle freccie della cavalleria turca; e se una pioggia caduta la sera non avesse bagnate e allentate le corde degli archi, a stento avrebbe potuto l’imperatore salvarsi con piccol drappello di cristiani. L’esercito debellato si fermò in Dorilea, città tre giornate lontana dal campo di battaglia. Teofilo, facendo la rivista de’ suoi palpitanti squadroni, non ebbe che a scusare la propria fuga con quella dei sudditi. Dopo questa pubblicità della sua debolezza, invano ebbe speranza di preservare Amorio: rigettò con isdegno l’inesorabile Califfo le sue preghiere e promesse; ne ritenne anche presso di sè gli ambasciatori perchè fossero testimoni della sua vendetta, e poco mancò che non fossero spettatori della sua vergogna. Un governator fedele, una guarnigione composta di veterani e d’un popolo disperato, sostennero per cinquantacinque giorni i vigorosi assalti dei Musulmani, e sarebbero stati astretti i Saracini a levar l’assedio, se un traditore non avesse loro indicata la parte più debole dei muri, che facilmente potea conoscersi dalle figure d’un leone e d’un toro collocate in quel luogo. Motassém compiè in tutto il rigore il suo voto. Affaticato dalla strage senza esserne sazio, ritornò al palazzo di Samara, che egli avea fabbricato poco prima