Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo V/Libro III/Capo II

Capo II – Poesia italiana

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[p. 706 modifica]1.1DBU Capo II. Poesia i/al Lina. I. L’applauso con cui nei secolo precedente erano state soggette le Rime de’ poeti italiani, e i nuovi vezzi che da essi si erano aggiunti al natio loro linguaggio, sollevata aveauo la poesia a sì alto grado d’onore, che appena sembrava possibile acquistarsi faina d’uom dotto, se ad essa ancora non si volgea il pensiero e lo studio. Basta dar un1 occhiata alle notizie de1 poeti di questi tempi, che ci ban date il Crescinibcni e il Quadrio, che noi tosto incontriamo il nome di teologi , di legisti , di medici , di guerrieri, i quali non si sdegnarono di poetare, e le cui rime ancor si leggono o ossia il Compendio di essa datoci dall’ab. Millot, è poi uscito alla luce, e ne abbiamo parlato più volte nelle giunte a’ due precedenti volumi. Qui aggiugnerò solamente che intorno agli autori delle Vite de’ Poeti provenzali noi avevam diritto di lusingarci che lo scrittor di quest opera meglio c’istruisse. Ei dice (Prrf\p. 77) che Ugo di S. Ciro, detto da altri di S. Cesario, e Michel dalla Torre sono i soli di cui conoscasi il nome. Ma abbiam veduto che il Nostradamus ne nomina alcuni altri. Aggiugne che probabilmente la maggior parte di quelle Vite sono opera loro: e che quelle del Nostradamus, paragonate con quelle da essi scritte, non son che favole. Ma il dire che sono probabilmente opera loro, non basta a provare ch’essi ne sieno veramente gli autori, e intorno a ciò pareva che ci si dovessero dare più esatte notizie. [p. 707 modifica]TERZO 707 ne1 libri stampati, o ne’ codici a penna. E poichè sin d1 allora sembrava a molti, come sembra anche al presente a non pochi, che il verseggiare e il poetare fossero una cosa medesima, e che ad essere poeta bastasse l’essere rimatore, quindi infinito era il numero di coloro che si davano il vanto di cantare soavemente j e a1 quali, quando avean accozzati insieme quattordici versi rimati, pareva d’aver fatto un sonetto , e di poter cingere alloro alla fronte. Nondimeno , fra la gran turba di freddi ed insipidi rimatori, sorsero in questo secolo alcuni genii sublimi e veramente poetici 5 ed altri ancora che, benchè inferiori ad essi in valore, seppero nondimeno con diligenza premere le loro pedate e divenner poeti. Nel quarto tomo di questa Storia ci siamo alquanto a lungo distesi in ricercar le notizie de’ più antichi poeti, benchè la più parte delle lor poesie possano senza gran danno giacersi dimenticate. Doveasi questo ai primi padri della poesia italiana, i quali, comunque poetassero rozzamente, furon però i primi ad aprire un non più tentato sentiero su cui poscia si misero i lor successori con esito più felice. Ma ora ci è troppo necessario il restringere le nostre ricerche a quelli che o per F eccellenza del poetare, o per qualche altro riguardo furon e son tuttora più illustri. Altrimente quando mai questa nostra Storia avrebbe fine ì Per altra parte , chi è avido di sapere quanti e chi fosser coloro che poetarono in lingua italiana, e in quai libri conservinsi le lor poesie, nelle sopraccitate opere del Crescimbeni e del Quadrio troverà abbondantemente di che [p. 708 modifica]708 LIBRO satollare F erudita sua curiosità. E nondimeno, benchè io mi stringa a’ que’ soli che degni sono di più distinta menzione, è sì ampia la materia di questo capo, che ni un altro forse ce ne ha offerto altrettanto. II. Io comincio da un poeta che, con unione a quella età più che in altre frequente a vedersi, fu insiem poeta e fu santo; dico il beato Jacopone da Todi, di cui però sarebbe stato più opportuno luogo a trattare il tomo precedente, poichè assai pochi anni ei toccò del secolo di cui scriviamo. Di lui, olire il Cresci rnboni (Comm. della Poes. t. 2, par. 2, p. 6 j) ed il Quadrio (Stor, della Poes. t. 2, p. 72), ha lungamente e prima di essi parlato il padre Wadingo (Ann. Min. t. 5 ad an. 1298, n. 24, ec.; ad an. i3o(3, n. 8). Io lascio che ognun legga presso questo scrittore ciò che spetta alle virtù cristiane e a’ doni celesti di cui fu adorno. Egli era nato in Todi della famiglia de’ Benedetti, che ora, come afferma il Wadingo, volgarmente dicesi de’ Benedettoni!, ed eragli stato posto il nome di Jacopo che poi dal volgo gli fu per disprezzo cambiato in quello di Jacopone, quando egli mosso da uno spirito straordinario di santità affettava di farsi credere pazzo. Dopo aver esercitata per più anni la giurisprudenza , ed aver menata una vita mondana e libera, convertitosi a Dio, all’occasione del morirgli che fece la moglie donna di santa vita, abbandonata ogni cosa, si arrolò al Terz1 Ordine di S. Francesco, e dieci anni appresso, cioè nel 1278, si rendette claustrale nel medesimo Ordine. Ivi a perfezionarne la santità, si aggiunse [p. 709 modifica]TEUZO 70Q talvolta il rigore de’ suoi superiori , che per una colpa appostagli il gittaron prigione nel più fetente luogo di casa , ove dicesi clic ei componesse il cantico che comincia:* O giubilo del cuore, che fai cantar d amore. Ma più ebbe a soffrire dal pontefice Bonifacio VIII. Mentre questi sdegnato contro de’ Colonnesi assediava Palestrina, Jacopone che ivi allora trovavasi, alla vista de’ danni ond’era travagliata la Chiesa , non potè frenare il suo zelo, e scrisse il cantico che comincia: Piange la Chiesa , piange e dolora (a), e quello inoltre che nelle ultime edizioni non si ritrova, e che comincia: O Papa Bonifacio, quanto hai giovato al mondo? Acceso però d’ira il pontefice, poichè ebbe in mano Palestrina, fe’ incarcerare e stringere tra’ ferri Fra Jacopone, condannandolo a vivere solo di pane ed acqua. In questa dura prigione egli stette, finchè Bonifacio non fu egli stesso imprigionato dai Colonnesi; e dicesi che lo stesso f Jacopone glielo avesse predetto 5 e che avendolo un giorno Bonifacio interrogato nel passare innanzi alla prigione in cui era chiuso: quando ne uscirai tu? Jacopone gli rispondesse: quando tu v’entrerai. Liberato dalla carcere sopravvisse per lo spazio di 3 anni, finchè verso l’anno 1306 morì in Collazzone, e il corpo ne fu poi trasportato a Todi. I Cantici spirituali da lui composti, de’ quali si son (a) Nelle note aggiunte all5 edizione romana si è giustamente avvertito che il cantico che comincia: Piange la Chiesa, ec. non puh provarsi che fosse scritto a5 tempi di Bonifacio Vili. Tiraboschi, Voi. VI. [p. 710 modifica]710 Libilo latte più edizioni, gli han fatto aver luogo tra’ poeti italiani. Essi quanto allo stile sono rozzi assai; e la lingua, lungi dall’esser toscana, è un miscuglio di voci e di frasi siciliane, marchigiane e di più altri paesi; e nondimeno egli è annoverato fra gli autori che fanno testo di lingua. Ma i sentimenti ne son sublimi, e vi si vede per entro un estro e un fuoco che era probabilmente effetto dell’amor divino di cui ardeva. Dicesi ancora che ei sia l’autore del Ritmo ecclesiastico che incomincia: Stabat Matery e di un altro che riportasi dal Wadingo. 11L Dopo questo poeta, a cui, come si è detto, doveasi a miglior ragione altro luogo, Dante ci si fa innanzi il primo, poichè, come si crede da molti, ne’ primi anni di questo secolo ei diede mano al gran lavoro a cui il consenso di più secoli ha dato il titolo di Divino. Ed io mi compiaccio di poter seguire nel ragionare di lui le tracce di un erudito scrittor fiorentino, cioè del sig. Giuseppe Bencivenni già Pelli, il quale nelle sue Memorie per la Vita di Dante, premesse al quarto tomo dell’edizione dell’opere di questo poeta, fatta recentemente dal Zatta, ha con somma diligenza e con amplissima erudizione raccolto ed esaminato tutto ciò che alla vita di lui appartiene. E nondimeno mi lusingo di poter aggiugnere qualche cosa alle belle ricerche di questo scrittore, e desidero insieme che all ri, venendomi appresso, accrescano ancor nuova luce alle memoria di sì valoroso poeta. Il Boccaccio , Filippo Villani , Leonardo Bruni , Giannozzo Manetti, Giammario Filelfo , Secco Polentone ed altri [p. 711 modifica]TERZO ^11 autori del xiv e del xv secolo avevano scritto, quai più, quai meno ampiamente, della vita di Dante, e si posson leggere le osservazioni che su questi lor lavori ha fatti il suddetto signor Pelli (parag 2), e prima di lui l1 ab. Mehus (Vita Ambr. camald. p. 167 , ec.) (tf). Gò non ostante molto rimaneva ancora a cercare, e la più parte di quelle Vite contenean anzi un elogio che un’esatta serie di azioni e di vicende. Io non farò che accennare le cose che il mentovato scrittore ha già rischiarate e provate, e mi stenderò solo sa quelle che mi sembreranno ancor meritevoli di qualche esame. E quanto alla famiglia e agli antenati di Dante, io non ho che aggiugnere a ciò che il sig. Pelli ne ha (a) Tra i moderni scrittori che hanno illustrata la vita e il poema di Dante, deesi onorevol luogo a M. Merian, il quale nelle Memorie dell’Accademia di Berlino del 1784 (p* 439) una ne ha inserita intorno al nostro poeta. Io confesso che non ho trovato finora alcun autore oltramontano che con uguale esattezza abbia maneggiato un tale argomento, e con piede così sicuro, senza quasi mai inciampare, abbia corsa la storia letteraria e civile d’Italia di que’ tempi. Tutto ciò chea Dante e all’argomento del suo poema, e al modo e allo stile con cui l’ha egli scritta, e alla scienza di cui egli fa or lodevole, or biasimevole uso, tutto ivi vedesi con somma vitalità insieme e con singolare accuratezza svolto e spiegato L’autore si mostra versatissimo nella lingua italiana; e di fatto, cosa rarissima nelle stampe di Oltramonti, molti tratti di Dante vi s’incontrano esattamente stampati e fedelmente tradotti. Ei rileva assai bene i sommi pregi di Dante, ma non ne dissimula i molti difetti, e ci dà in somma la più giusta idea che bramar si possa della Divina Commedia e dell’un ture di essa. [p. 712 modifica]7 12 LIBRO scritto, ri quale, confutate le favolose, o almeno non provate asserzioni del Boccaccio , del Villani e di altri scrittori intorno agli antichissimi ascendenti di questo poeta , ne ha formato l’albero genealogico (parag 3), da cui si raccoglie che ei discese da Cacciaguida e da Aldigiero ossia Aligiero di lui figliuolo nel secolo XII , dal quale poi la famiglia fu detta degli Alighieri, nome, come affermasi dal Boccaccio e da Benvenuto da Imola (Comment in Comoed. Dant t 1, Antiq. ital. p. i o36), tratto dalla famiglia della moglie di Cacciaguida, che era degli Alighieri di Ferrara (a), come si accenna dal medesimo Dante (Paratie. i5). Di ciò veggansi le pruove presso il soprallodato scrittore, il quale ancora assai lungamente ragiona (parag 4) di tutti gli antenati e di tutti i discendenti di Dante, la cui famiglia finì in Ginevra figlia di Pietro, maritata l’anno 1549 nel conte Marcantonio Sarego veronese. Il nostro Poeta nacque in Firenze, nel 1265 , di Alighiero degli Alighieri e di Bella , e fu detto Durante, benchè poscia per vezzo si dicesse comunemente Dante. Io qui non parlerò nè dell’oroscopo che si dice averne formato Brunetto Latini, di che abbiamo parlato altrove (t 4 , p. 438), nè di un misterioso sogno avuto dalla madre di Dante , mentre erane incinta, che narrasi dal Boccaccio, e si accenna dal signor (rr) Nella Storia della Badia di Nonantola (t. i^p. 55o) abbi am dimostrato, che la famiglia degli Àldighieri prima eli stabilirsi in Ferrara sembra che fosse o per origine, o per lungo domicilio stabilita in Nonantola. [p. 713 modifica]TERZO 7l3 Pelli (§5), poiché non credo che cotai cose possan ora ottener fede sì facilmente , come ottenevanla a’ tempi antichi. Io lascio pure che ognun veda presso questo scrittore (parag 6, 7) la storia e le pruove dell’innamoramento di Dante con Bice ossia Beatrice figlia di Folco Portinari, cominciato, mentre ambedue erano in età di circa dieci anni, e durato fino alla morte di essa , seguita nel 1290; perciocchè, comunque io non creda che l’amor di Dante fosse sol misterioso, e che sotto nome di Beatrice intender solo si debba , come altri han pensato, la Sapienza , o la Teologia, è certo però, come confessa il medesimo sig. Pelli, che Dante nelle sue opere e nella sua Commedia singolarmente ha parlato di questo suo amore in termini così enigmatici , e che sembrano spesso gli uni agli altri così contrari , clic è quasi impossibile Y adattarli tutti nè al senso allegorico nè al letterale. Non giova dunque il voler indagare ciò che è avvolto fra tenebre troppo folte, l’aggirarsi fra le quali sarebbe nojosa al pari che inutil fatica. IV. Se Dante ne’ primi suoi anni fu innamorato , ei seppe congiugnere all’amore F applicazione agli studi delle gravi scienze non meno che dell’amena letteratura. Brunetto Latini , come altrove abbiam detto, gli fu maestro, ed egli era uomo a poterlo istruir negli studi di ogni maniera, e molto ancora potè giovargli l’amicizia che con lui ebbe Guido Cavalcanti altrove da noi mentovato (t. 4 > p• 378). Il sig. Pelli non fa menzione di alcun viaggio che Dante facesse per motivo di studio ne’ primi [p. 714 modifica]7*4 LIBRO anni della sua gioventù; e solo accenna 14) il recarsi eli’ ri fece, mentre era esule, secondo Mario Filelfo, alle scuole di Cremona e di Napoli, e, secondo Giovanni Villani, a quelle di Bologna e di Parigi. Anche il Boccaccio il conduce a Bologna e a Padova in tempo d’esilio. Ma parmi degno di riflessione ciò che Benvenuto da Imola narra, cioè che ancor giovane e prima dell’esilio egli andossene alle università di Bologna e di Padova, e poi, essendo esule, a quella di Parigi: Quum Auctor iste in viridiori aetate vacasset Philosophiae naturali et morali in Florentia, Bononia, et Padua , in matura aetate jam exul dedit se sacrae Theologiae Parisiis (l. cit.) (a). E riguardo a (a) Un altro antico scrittore, ma vissuto un secolo dopo Dante, non solo in Parigi, ma anche in Oxford conduce Dante per motivo di studio; e in Parigi non solo cel rappresenta studente, ma maestro ancora e vicino a conseguire la laurea. Egli è Giovanni da Serravalle vescovo di Fermo, che nel suo Comento inedito sulla Commedia di Dante, scritto, mentr’ei trovavasi al concilio di Costanza, come vedrem tra non moltoy così ne dice: “Anagorice dilexit Theologiam Sacram, in qua dia studuit tam in Oxoniis in Regno Anglie, quam Parisius in Regno Frantie; et fuit Bachalarius in Universitate Pari si ensi, in qua legit Sententias pro forma Magisterii: legit Bibli a: respondit omnibus Doctoribusy ut moris est, et fecit omnes actus, qui fieri debent per doctorandum in Sacra Theologia. Nihil restabat fieri nisi inceptio, seu conventus: et ad incepiendum seu faciendum conventum deerat sibi pecunia, pro qua acquirenda rediit Florentiam optimus Artista, perfectus Theologus. Erat nobilis prosapia, prudens in sensu naturali, propter que scilicet factus fuit Prior in Palatio Populi Florentini, et sic cepit sequi officia Palatii, et neglexit studium, nec rediit Parisius”. E più [p. 715 modifica]TEnzo 7*5 Bologna, altrove così ha Benvenuto. Aiictor nataveratistiim aciiun, quum esset Jìomniae in studio (ib. p. 1135). E vuolsi avvertire che, benchè il Villani sia più antico e perciò più autorevole di Benvenuto, questi però, essendo stato, come egli stesso ci dice (ib. p. i o83), per dieci anni in Bologna, ed avendo ivi letta pubblicamente la Commedia di Dante, doveva di ciò essere meglio istruito che non il Villani e il Boccaccio. Inoltre lo stesso Benvenuto ci narra altrove (ib. p. 1085) che Dante conobbe in Bologna il miniatore Oderigi da Gubbio. Or questi era già morto , come abbiamo provato (t.4 i P-4^9) > l’anno 13oo , innanzi all’esilio di Dante, e convien dire perciò. che Dante prima del detto anno fosse stato in Bologna. Ella è però cosa strana che autori vissuti nel secolo stesso di Dante, quai sono il Boccaccio, il Villani e Benvenuto da Imola, sien tanto discordi ne’ loro racconti. Ma qualunque fosse il luogo in cui Dante attese agli studj, è certo che ei coltivolli con successo soprammodo felice, come le opere da lui scritte ci sotto: Dan ics se in juventute dedìt omnibus Artibui libera li bus, studens eas Padue% Do noni e y demani Oxonbs et Paris;is, ubi fccit tnullos actu* mirabile*, intantum quod ab aliquibus dicebatur magnus Piiilasophus, ab aliquibus magnus Theo log us , ab aliquibus magnus Poeta. Io non so se l’autorità di questo scrittore basti a persuaderci di questi fatti. Ma, ciò non ostante, trattandosi di cosa da niun altro, ch’io sappia , con lai circostanze narrata , c di uno scrittore che, benché lontano di un secolo, potè nondimeno conoscere chi era vissuto con Dante, ini è sembrato di 11011 doverne tralasciare il racconto. [p. 716 modifica]•716 LIBRO manifestano. Da sè medesimo apprese le leggi della poesia italiana , come egli stesso ci accenna (Vita nuova, t 4 dell’Op. ed. Zatta p. 7) } ma la sua amicizia col Cavalcanti , col Latini e con altri poeti di quell1 età, dovette recargli non poco ajuto. La sua Commedia ci mostra quanto studio avesse egli fatto nella filosofia , quale allora insegnavasi, e nella teologia. Amò anche Dante le arti liberali, e ne è pruova l’amicizia da lui avuta col mentovato Oderigi, e ancor col celebre Giotto (Benven. I. ctL)\ anzi, come afferma il medesimo Benvenuto (ib.p. 1147 essendo egli di sua natura assai malinconico, per sollevarsi della tristezza godeva assai del suono e del canto, ed era grande amico de’ più celebri musici e sonatori che fossero in Firenze, e singolarmente di un certo Casella musico ivi allora pregiato assai, e da lui rammentato con lode nella sua Commedia (Purg. c. 2, v. 88, ec.). Il sig. Pelli (§8) si sforza di persuaderci che Dante sapesse di greco, e ciò pure avea già affermato monsig. Girolamo Gradenigo (Lettera intorno agC Italiani, ec.). Ma questo secondo scrittore poscia modestamente ritrattò il suo parere (Della Letterata greco-ital. c. 10), mosso principalmente dalf autorità di Giannozzo Manetti che espressamente nega tal lode a Dante, e da più altre ragioni che egli stesamente viene allegando. E certo le pruove che il Pelli ne adduce , cioè il nominar che Dante fa spesso Omero ed altri poeti greci, e l’usar pure sovente di parole greche, non mi sembran bastevoli a dimostrare ch’ei sapesse di greco \ poiché de’ primi ci potea [p. 717 modifica]TERZO 747 parlare per fama, e potea aver trovate le seconde presso altri scrittori. Francesco da Buti, che nello stesso secolo xiv comentò Dante, racconta (V. Mem, della Vita di Dante, § 8) che questi essendo ancor giovane si fece Irate nell1 Ordine de1 Minori, ma che prima di farne la professione, ne depose l’abito; la qual circostanza però non si accenna da verun altro scrittore della Vita di Dante (#). V. Mentre in tal maniera coltivava Dante il fervido e penetrante ingegno, di cui la natura aveagli fatto dono, ei volle ancora servir la patria coll1 armi, e trovossi a due battaglie, una contro gli Aretini fanno 1289, f altra l’anno 1290 contro i Pisani (ib.) , e nell1 anno seguente prese in sua moglie Gemma di Manetto de1 Donati (ib. § 9). Leonardo Bruni , nella sua Vita di Dante , dice generalmente che fu adoperato nella Repubblica assai. Le quali parole più ampiamente si spiegano da Mario Filelfo, citato dal Pelli (ib.), col dire eli1 ei sostenne in nome de1 Fiorentini quattordici ambasciate, cioè a1 Sanesi per regolamento de1 confini, a1 Perugini per liberare alcuni suoi concittadini che ivi eran prigioni, a1 Veneziani per istringer con essi alleanza, al re di Napoli pel medesimo fine, al marchese di Este in occasione di nozze, da cui dice il Filelfo che ei fu onorato sopra tutti gli (*) Anche il P. Giovanni di S. Antonio ha posto Dante tra’ Francescani, citando P autorità di alcuni scrittori del suo Ordine, i quali hanno creduto ch’egli sul fin della vita si facesse prima terziario, poi anche vero religioso dell1 Ordine stesso (BibL francisc. t. 1 , p, 290). Ma queste son favole. [p. 718 modifica]71.8 LIBRO altri ambasciadori, a1 Genovesi per regolamento de’ confini, di nuovo al re di Napoli per la liberazione di Vanne Barducci da lui dannato a morte, quattro volte a Bonifacio VIII, due volte al re d’Ungheria, e una volta alla re di Francia $ in tutte le quali ambasciate aggiugne il Filelfo, che egli ottenne quanto bramava, trattone nella quarta al pontefice Bonifacio, poichè , mentre in essa era occupato, fu, come vedremo, dannato all’esilio. Se tutte queste ambasciate sostenne Dante a nome dei Fiorentini, come il Filelfo accenna, converrà dire che altro ei non facesse che viaggiar di continuo , perciocchè ei fu esiliato, come vedremo, l’an 1302 in età di trenta-sette anni, nè mai riconciliossi co’ Fiorentini, e quindi convien porre tutte queste ambasciate negli anni che ne precedon l’esilio, cominciandole da quel tempo in cui Dante poteva esser creduto opportuno a trattare negozj, il quale spazio di tempo ognun Vede quanto sia breve e ristretto. Per altra parte niuno de’" più antichi scrittori della Vita di Dante ha parlato di tali ambasciate, se se ne tragga qualcheduna , di cui or ora ragioneremo , nè in tante memorie della città di Firenze, in questi ultimi tempi disotterrate, non se ne trova, ch’io sappia, menzione alcuna , e l’autorità del Filelfo, scrittore di quasi due secoli posteriore a Dante, non è abbastanza valevole ad assicurarcene. Le due sole ambasciate fatte al re di Napoli sembran le meno improbabili , di che veggasi ciò che altrove abbiamo osservato (l. 1, c. 2, n. 5). Troviamo inoltre ch’ei fu nel numero de’ Priori in Firenze da’ 15 di giugno fino a’ 15 [p. 719 modifica]TERZO ,719 d’agosto del 13oo (Mcm. di Danto, § 10). Questo onorevole impiego fu fatale a Dante, perciocchè essendosi allor progettato di mandare a Firenze Carlo di Valois conte d1 Angiò per acchetare le domestiche turbolenze onde quella città ere agitata e sconvolta # Dante , essendo allora priore, opinò che tal venuta fosse per riuscir funesta alla patria , e dovesse perciò impedirsi Ma essendo riuscito a’ partigiani di Carlo di condurlo a Firenze, il partito de’ Bianchi fu da lui cacciato fuor di città; e Dante, che allora era ambasciadore a Bonifacio VIII, con più altri, a’ 27 di gennajo del 1302 fa condennato a una multa di 8000 lire # e a due anni d’esilio, e, quando ei non pagasse la somma imposta, si ordinò che ne fossero sequestrati i beni, come in fatti avvenne; di che veggasi una più stesa narrazione confermata da autentici monumenti presso il lodato moderno scrittore della Vita di Dante (ib.). Ei fa ancora menzione di un’altra sentenza fulminata contro Dante a’ 10 di marzo dello stesso anno, e ne parla come di semplice conferma della prima sentenza. Ma ella, a dir vero, fu assai più severa; poichè in essa Dante, e più altri, se per lor mala sorte cadessero nelle mani del Comun di Firenze, furon condennati ad essere arsi vivi. Di quella circostanza e di questo monumento , sconosciuto finora ad ogni altro scrittore della Vita di Dante, io son debitore alla singolar gentilezza dell’eruditissimo co-. Lodovico Savioli senator bolognese che avendolo scoperto nell’archivio della comunità di Firenze, l’an 1772 , ne fece trarre autentica copia, e [p. 720 modifica]730 LIBRO io credo di far cosa grata a’ miei lettori pubblicando in piè di pagina questo pregevolissimo monumento (f). Se Dante fosse veramente reo (f) Not Cantc de Gabriellibus de Potestas Civitatis Florentie infrascriptamcondemnationis mani damus et proferimus in hunc modum% Dominum Andream de Gherardinis. Dominum Lapum Saltarelli Judicem» Dominum Palmerium de A Itovi tis. Dominum Donatum Albertum de Sextu Porte Domus. Lapum Dominici de Sextu Ultrarni. Lapum Blondum de Sextu Sancti Petri majoris. Gherardinum Diodati Populi S. Martini Episcopi Corsum Domini Alberti Ristori Junctam de Biffo lis. Lippam Becchi Dantem Allighierii. Orlanducciam Orlandi. Ser Simonem Guidalotti de Sexta Ultrarni. Ser Ghuccium Medicum de Sextu Porte Domus. Guidonem Brunum de Falconeriis de Sextu S. Petri, contra quos processimus, et per inquisitionem ex nostro Officio et Curia nostra factam super eo et ex eo quod ad aures nostras et ipsius Curie nostre pervenerit fama publica precedente, quod cum ipsi et eorum quilibet nomine et occasione baracteriarum iniquarum, extorsionum , et illlicitorum lucroram fuerint condemnati, ut in ipsis condemnationibus docetur apertius, condemnationes easdem ipsi vel eorum aliquis termino assignato non solverint. Qui omnes et singuli per nuntium Comuni s Florentie citati et requisiti fuerunt legiptime, ut certo termino jam elapso mandatis nostris parituri venire deberent, et se a premissa inquisitione protinus excusarent. Qui non venientes per Clarum Clarissimi publicum Bapnitorem posuisse in bapnum Comunis Florentie subscripserunt (ita) in quod incurrentes eosdem absentis (ita) contumacia innodavit, ut hec omnia nostre Curie latius acta tenent. Ipsos et ipsorum quemlibet ideo habitos ex ipsorum contumacia pro confessis, [p. 721 modifica]TERZO 721 delle baratterie qhe qui gli vengono apposte, non è sì facile a ditlinire. Io credo che in que’ tempi di turbolenze e di dissensioni fosse assai frequente l’apporre falsi delitti, e che questi facilmente e volentieri si credessero da coloro che voleano sfogare il lor mal talento contro i loro ni mici. Egli è però questo 1’unico monumento , eh’io sappia, in cui si veda a tal delitto assegnata tal pena; ed esso ci pruova il furore con cui i due contrari partiti si andavano lacerando V un Y altro. VI. Ove si andasse Dante aggirando nel tempo del suo esilio, è cosa difficile a stabilir con certezza. Quelle parole eli’ ei pone in bocca di Cacciaguida, nel predirgli che questi fa le sventure che dovea incontrare: Lo primo tuo refugio e *l primo ostello Sarà la cortesia del gran Lombardo Che Jn su la scala porta il santo uccello Parati, c. 17, v. 70, ec. secundun jura statutorum et ordinamentorum Communis et populi Civitatis Florentie, et ex vigore nostri arbitrii, et omni modo et jure, quibus melius possumus, ut si quis predictorum ullo tempore in fortiam dicti Communis pervenerit, talis perveniens igne comburatur sic quod moriatur, in hiis scriptis sententialiter condemnamus. Lata, pronuntiata, et promulgata fuit dicta condemnationis summa per dictum Cantem Potestatem predictum pro tribunali sedentem in Consilio Generali Civitatis Florentie, et lectum per me Bonorum Notarium Supradictum sub anno Domini milesimo tercentesimo secundo Indictione xv tempore Domini Bonifacii Pape ottavi die decimo Mensis Martii presentibus testibus Ser Masio de Eugubio , Ser Bernardo de Camerino Notariis dicti Domini Potestatis, et pluribus aliis in eodem Consilio exi stenti bus. [p. 722 modifica]i2a libro liaii fallo d’edere ad alcuni che ei toslo «e ne andasse alla corte degli Scaligeri in Verona. Ma è certo che Dante per qualche tempo non abbandonò la Toscana, finchè i Bianchi si poterono lusingare di rimetter piede in Firenze, cosa più volte da essi tentata, ma sempre in vano. Ei fu dapprima in Arezzo , come narra Leonardo Bruni, ed ivi conobbe Bosone da Gubbio, da cui fu poscia alloggiato, come fra poco diremoj ed è probabile che l’an 1304 egli entrasse a parte dell’improvviso assalto che i Bianchi, benchè con infelice successo , diedero a Firenze. È certo inoltre che l’an 1306 egli era in Padova, e l’an 1307 nella Lunigiana presso il marchese Morello Malaspina; di che il sig. Pelli reca incontrastabili pruove, tratte quanto al primo soggiorno da uno stromento che si conserva in Padova, e quanto al secondo da’ versi stessi di Dante (ib. § 11). Ciò però dee intendersi, come altrove abbiamo mostrato (l. 1, c. 2, n. 6), in questo senso che Dante dopo aver soggiornato per qualche tempo in Arezzo, andasse a stabilirsi in Verona , e che indi poscia per qualche particolar motivo passasse or a Padova or nella Lunigiana. Noi abbiam pure riferito gli onori che dagli Scaligeri ei ricevette, benchè l’umor capriccioso che lo dominava, gli desse anche occasione di qualche disgusto. Il Boccaccio ragiona in modo che ci potrebbe far credere che si pensasse ivi di conferirgli F onore della corona d’alloro , dicendo ch’egli non l’ebbe solo perchè era risoluto di non volerla se non in patria (De Geneal. Deor. l. 15, c. 6). Ma di questa [p. 723 modifica]TERZO 733 circostanza niun altro ci ha lasciata memoria. Verona però non fu sede stabile del nostro poeta. Il Boccaccio lo conduce in giro in Casentino, in Lunigiana, ne’ monti presso Urbino, a Bologna, a Padova e a Parigi. Altri luoghi da lui abitati si annoveran da altri, e sembra che non potendosi disputare della patria di Dante, come si fa di quella di Omero, molte città d’Italia invece contendan tra loro per la gloria di aver data in certo modo la nascita alla Divina Commedia da lui composta. Firenze vuole che ei già ne avesse composti i primi sette canti, quando fu esiliato, e ne reca in pruova l’autorità del Boccaccio e di Benvenuto, e alcuni passi del medesimo Dante (46). Il marchese Mafiei vuole che alla sua Verona concedasi il vanto, che ivi principalmente Dante si occupasse scrivendola. Un’iscrizione nella torre de’ conti Falcucci di Gubbio ci assicura che in quella città, ove, come sembra indicarci un sonetto da lui scritto a Bosone, abitò qualche tempo presso questo illustre cittadino , ei ne compose gran parte5 e un’altra iscrizione, posta nel monastero di S. Croce di Fonte Avellana (a) Il eh. signor abate Deuina crede probabile (Vicende della Letterat. Berlino, 1784, /. 1 , p• »6i) che Dante prendesse 1‘ idea del suo poema dallo spettacolo rappresentato in F irenze il primo di maggio del i3o4, che finì poi in luttuosa tragedia, e che descrivesi da Giovanni V illani. Ma oltrecchè Dante non avea bisogno di quello spettacolo, per trarne l’idea del suo lavoro , ei certo non vi potè esser presente, perchè fin dal i3oa era stato esiliato, nè più rimise il piede in Firenze. Ed c inoltre probabile eh ei già avesse allora dato principio al suo poema. [p. 724 modifica]7^4 LIBRO nel territorio della stessa città, afferma lo stesso di quel monastero, ove anche al presente si mostrano le camere di Dante. Altri danno per patria a questo poema la città d1 Udine e il castello di Tolmino nel Friuli, altri la città di Ravenna; delle quali diverse opinioni si veggan le pruove presso il più volte lodato sig. Giuseppe Pelli; e vuolsi aggiugnere inoltre che il cav. Giuseppe Valeriano Vannetti pretende che nella Valle Lagarina nel territorio di Trento Dante scrivesse parte della Commedia e altre poesie, come egli si fa a provare in una lettera pubblicata dal Zatta (Op. di Dante t. 4 > par. 2). Io mi guarderò bene dalFentrar nelf esame di latte queste sentenze, e dirò solo che a me sembra probabile ciò che pure sembra probabile al sig. Pelli , che Dante cominciasse il poema innanzi all’esilio, e il compisse innanzi alla morte di Arrigo, seguita nel i3i3, altrimenti, come egli dice, non si vedrebbono negli ultimi canti di esso le speranze che Dante formava nella venuta di quell’imperadore in Italia (Parad. c. 30 , v. 133, ec.) (a). VII. Egli sperava al certo che la discesa di Arrigo potesse aprirgli la via di ritornare a Firenze. Perciò, oltre una lettera scritta a’ re, a’ principi italiani e a’ senatori di Roma; per disporli a ricevere favorevolmente Arrigo, che dall1 ab. Lazzari è stata posta in luce (Misceli. (a) Assai bene ha qui osservato monsignor Dionigi, che questo passo di Dante ci mostra anzi ch’egli scrivea dopo la morte di Arrigo; perciocché altrimenti ei non avrebbe potuto dir con certezza, come pur dice, che rimperauore sarebbe morto prima di lui. [p. 725 modifica]TERZO Coll Rom. t 1, p- 139), un’altra ne scrisse al medesimo imperadore l’anno i3ii, elio è stata pubblicata dal Doni (Prose antiche di Dante, ec.), esortandolo a volger l’armi contro Firenze, e da essa ancora racco’ gliesi che Dante era stato personalmente ad inchinarsi ad Arrigo. E questi infatti era contro de’ * Fiorentini fortemente sdegnato; ma i pochi felici successi eli’ egli ebbe in Italia, e poi la morte che lo sorprese nel 1313, non gli permisero di eseguire i suoi disegni; e l’unico frutto che Dante ne ebbe, fu il perdere ogni speranza di rimetter piedi in Firenze. Il sig. Pelli differisce (§ 13) al 1315 la confermazione della sentenza di esilio contro di lui pronunciata; ma l’ab. Mehus& accenna una carta (Vita Ambr. camald. p. 18:1) del i3i 1 , in cui si dichiara che Dante era irremissibilmente escluso dalla sua patria. E allora è probabile che ei se ne andasse a Parigi , non già ambasciadore de’ Fiorentini, come dice il Filelfo , ma per desiderio di passare utilmente il tempo, e di semprepiù istruirsi in quella università. Questo viaggio di Dante commentasi da Giovanni Villani, come già abbiam detto , da Benvenuto da Imola (l. cit. p. 1164), da Filippo Villani (Ap. Mehus, l. cit. p. 167) e dal Boccaccio (Vita di Dante et Gene al. Deor. l. 14, c. 11), il quale aggiugne che in quel! luminoso teatro ei sostenne pubblicamente una disputa su varie questioni teologiche. Uu’ altra disputa filosofica ei tenne nel 1320 in Verona, se pur non è un’impostura un libretto stampato in Venezia nel 1508, di cui parlano Apostolo Zeno (Lettere} t 2 , p. 304) e il Pelli Tiràboschi, Voi VI. i f [p. 726 modifica]726 LIBRO (§ 14 > 18), e che ha questo titolo: Quaestio florulenta ac perutilis de duobus Elementis Aquae et Terrae tractans, reperta , quae olim Mantuae auspicata 7 Veronae vero disputata , et decisa, ac manu propria scripta a Dante Florentino Poeta Clarissimo quae diligenter et accurate correcta fuit per Rev. Magistrum Joan. Benedictum Moncerrum de Castilione Aretino Regentem Patavinum Ordinis Eremitrum Divi Augustini Sacraeque Theologiae Docto rem excellentissimum. L’ultima stanza di Dante fu la città di Ravenna, a cui egli recossi sul lìnir de’ suoi giorni (*), invitato da Guido Novello da (*) Quando 10 ho scritto che Dante si ritirò a Ravenna sul finir de’ suoi giorni, non ho già inteso che pochi giorni, o pochi mesi egli passasse in quella città, anzi da tutto il contesto di quelle parole si può raccogliere che io son di parere che Ravenna fosse l’ordinario soggiorno di Dante, dopo la morte d’Arrigo imperatore, trattone il tempo che egli potè impiegare in qualche viaggio, o in qualche ambasciata. Giaunozzo Mannelli, st rittor degno di molta fede, espressamente racconta che, dopo la morte d’Arrigo, Dante invitato da Guido Novello se ne andò a Ravenna , e il viaggio di Parigi, secondo questo scrittore, fu fatto da Dante innanzi la morte di quell’imperadore. Deesi poi qui emendare ciò ch’io ho scritto, cioè che Guido Novello non ebbe tempo di innalzargli il destinato sepolcro, e che questo onore non fu a Dante renduto che più di un secolo e mezzo dopo da Berna ri lo Bembo nel 1483. Il sepolcro gli fu veramente innalzato da Guido, come chiaramente narra il Boccaccio nella Vita di Dante; e anche il Manetti, più anni prima che il Bembo andasse a Ravenna, nella Vita di quel poeta così scrisse: Sepultus est Ravennae in Sacra Minorum Æde egregio quodam atque eminenti tumulo lapide quadrato et amussim constructo , compluribus insuper egregiis carminibus [p. 727 modifica]TERZO 737 Polenta coltivatore insieme e splendido protettore de’ buoni studj, come dice il Boccaccio. Fra le prose di Dante, pubblicate dal Doni, havvi una lunga lettera da lui scritta al suddetto Guido da cui egli era stato inviato l’an 1313 a Venezia ambasciadore al nuovo doge, nella qual lettera di Venezia e de’ Veneziani ei parla con insofferibil disprezzo. Ma che una tal lettera e in conseguenza anche una tale ambasciata che ad essa sola si appoggia, sia una impostura del Doni, era già stato avvertito del canonico Biscioni nel ristampare ch’ei fece le medesime prose, e si è lungamente provato dal doge Foscarini (Letterat. venez. p. 319, ec.), e più fortemente ancora dal P. degli Agostini (Scritt. venez. t. 1 , pref. p. 17, ec.)3 il quale inoltre confuta a lungo le accuse che P autor della lettera dà a’ Veneziani. Più verisimile è un’altra ambasciata di Dante a’ medesimi, che si narra da Giannozzo Manetti nella Vita ch’egli ne inciso v:si°nitoquc. Il Bembo ristorollo poscia , c vi aggiunse la stallia del poeta e altri ornamenti di marino; intorno a che leggasi la dissertazione, da me indicata, del eli. sig. conte Ippolito Gamba Gkisclli, a cui io debbo le osservaziotu da me qui esposte. a Un a>s;ii più magnifico sepolcro ha poscia a sue spese innalzato a D.inte, nel 1780, il sig. Cardinal Luigi Valenti Gotuaga, mentre era legato di Kuvenna; e se ne può vedere la descrizione con uguale munificenza stampata in Firenze. Quanto alle diverse epocbu stabilite dal sopralodato monsignor Dionigi intorno all’andata di Dante a Verona e ad altri luoghi , io mi rimetto a ciò che ne ha detto quell’erudito scrittore nel secondo e quarto de1 suoi Aneddoti; perchè troppo a lungo mi condurrebbe il chiamalo ogni cosa ad csauie ”, [p. 728 modifica]728 LIBRO scrisse, dicendo che essendo in guerra i Veneziani con Guido, questi il mandò ad essi ambasciadore per ottenere la pace; che Dante avendo perciò più volte richiesta pubblica udienza , questa per l’odio, di che i Veneziani ardevano contro di Guido, gli Fu sempre negata; di che egli dolente e afflitto tornossene a Ravenna e in poco tempo vi morì l’an 1321. In somigliante maniera raccontano il Fatto anche Filippo Villani e Domenico di Bandino d’Arezzo (ap). Mehus, /. dtp. 167, 170), e si accenna ancora da Giovanni Villani, il quale così narra la morte di Dante: Nel detto anno 1321 del mese di Settembre il dì di Santa Croce morì il grande e valente Poeta Dante d Ili ghie ri di Firenze nella Città di Ravenna in Romagna essendo tornato d ambasceria da Fine gì a in senugio de Signori da Polenta; con cui dimorava (l. 9 , c. i33). VID Queste parole del Villani ci danno l’epoca certa della morte di Dante, conFermata con altre pruove dal sig. Pelli (Nuova Racc. d’Opusc. t 17), il (quale poscia ragiona dell’onorevol sepolcro che Guido da Polenta volea innalzargli , ma che, non avendolo egli potuto per la morte da cui non molto dopo Fu preso, gli Fu poscia eretto l’anno 1483 da Bernardo Bembo protettor di Ravenna per la Repubblica di Venezia, e restaurato nel 1692 dal Cardinal Domenico Maria Corsi legato di Romagna; intorno al qual monumento degna è d’essere letta una erudita dissertazione del co. Ippolito Gamba Ghiselli contro un supposto M. Lovillet, il quale avea preteso di togliere a Ravenna la gloria di [p. 729 modifica]TERZO 729 posseder le ceneri di questo poeta. Il Pelli reca ancora le diverse iscrizioni onde esso ne fu onorato; e narra le istanze più volte fatte da’ Fiorentini, ma sempre inutilmente, per riaverne le ceneri; il disegno da essi formato, ma che non ebbe effetto, di ergergli un maestoso deposito; e l’onore che gli fu in Firenze renduto, con coronarne solennemente F immagine nel tempio di S. Giovanni, come narra in una sua lettera il Ficino , il qual racconto però da altri si prende in senso allegorico; e finalmente ragiona (§ 16) delle medaglie in onor di esso battute, e delle statue a lui innalzate. Il Boccaccio ce lo descrive come uomo ne’ suoi costumi sommamente composto , cortese e civile. Al contrario Giovanni Villani ce ne fa un carattere alquanto diverso; e io recherò qui il passo in cui ne ragiona , perchè parmi il più acconcio a darcene una giusta idea (l.9. c. 134) - Qtwsùi fu grande letterato quasi in ogni scienza, tutto fosse laico; fu sommo Poeta et Philosofo et Rettorico , perfetto tanto in dittare , e versificare , come in aringhiera parlare; nobilissimo dicitore, e in rima sommo con più pulito e bello stile 9 che mai fosse in nostra lingua infino al suo tempo et più innanzi. Fece in sua giovinezza el libro della Vita nuova di amore, et poi quando fu in esilio fece da 20 Canzoni morali et d’amore molto eccellenti, et infra 11 altre fece tre nobili Pistole, l’una mandò al reggimento di Firenze, dogliendosi del suo esilio senza colpa; l altra mall’ happrodare Arrigo, (piandoera allo assedio di Brescia, [p. 730 modifica]fÀo Limo riprendendolo della sua stanza , quasi profetizando; la terza a’ Cardinali Italiani, quando era la vacatione dopo la morte di Papa Clemente, acciò che s’accordassero a eleggere Papa Italiano; tutte in latino con alto dittato et con eccellenti sententie et autoritadi, le quali furono molto commendate da’ savii intenditori. Et fece la Comedia , ove in pulita rima, et con grandi questioni morali, naturali7 astrologò e y philosophiche y et theologiche et con belle comparationiy et poetrie compose, et trattò in cento Capitoli ovvero Canti dell’essere et stato delI Inferno et Purgatorio et Paradiso così altamente y come dire se ne possa , siccome per lo detto suo trattato si può vedere? et intenderey chi è di sottile intelletto. Bene si dilettò in quella Comedia di garrire, et esclamare a guisa di Poeta, forse in parte più che non con venia , ma forse il suo esilio li fece fare ancora la Monarchia, ove con alto latino trattò dello Officio del Papa e degl’Imperadori Et cominciò uno Commento sopra 14 delle sopraddette sue Canzoni morali volgarmente y il quale per la sopravvenuta morte non perfetto si trova , se non sopra le tre, la quale per quello, che si vede, grande e alta e bellissima opera ne riuscia, però che ornato appare iT alto dittato et di belle ragioni philosophiche et astrologiche. Altresì fece un libretto, che T intitolò di Vulgari Eloquentia 7 ove promette fare quattro libri , ma non se ne trova se non due, forse per la affrettata sua fine 7 ove con forte et adorno Latino et belle ragioni riprova tutti i [p. 731 modifica]TERZO 73| vulgari d Italia. Questo Dante per suo sapere fu alquanto presuntuoso et schifo et isdegnoso, et quasi a guisa di Philosopho mal gratioso non bene sapeva conversare co’ Laici, ma per ! l’altre sue virtudi et scienti a et valore di tanto Cittadino ne pare, che si convenga di darli perpetua memoria in questa nostra Cronica, con tutto che per le sue nobili opere lasciate a noi in iscritture facciano di lui vero testimonio et honorabile fama alla nostra Città. La taccia d’uom troppo libero nel favellare e di costumi alquanto aspri e spiacevoli gli si appone ancora da Domenico cT Arezzo e da Secco Polentone (ap. Mehus, l. cit p. 169, 1 >. Al qual carattere Benvenuto da Imola aggiugne (l. cit p. 1209) quello di una singolar astrazione di mente, allorquando immergevasi nello studio, e ne reca in pruova ciò che gli avvenne in Siena, ove essendosi abbattuto a trovar nella bottega di uno speziale un libro da lui finallora inutilmente cercato, appoggiato a un banco si pose a leggerlo con tale attenzione, che da nona sino a vespero si stette ivi immobile, senza punto avvedersi dell’immenso strepito che menava nella contigua strada un accompagnamento di nozze, che7 di colà venne a passare. IX. Il Villani nel passo da me recato ci parla di quasi tutte l’opere che ci son rimaste di Dante. Io non farò che accennare le più importanti notizie intorno alle altre, per istendermi alquanto più su quella a cui sola egli è debitore del nome di cui gode tuttora fra’ dotti. La Vita nuova è una storia de’ giovanili suoi [p. 732 modifica]unno auiori con Beatrice, frammischiata a diversi componimenti che per essa compose. Il Comento su quattordici sue canzoni, di cui parla il Villani, è quell’opera che vien dettali Convivio, la qual però fu da lui lasciata imperfetta, poichè non comprende che tre sole canzoni col lor comento. Il libro de Monarchia fu da lui scritto in latino, e in esso prese a difendere i diritti imperiali, e scrisse perciò di essi e dell1 autorità della Chiesa, come poteva aspettarsi da un Gibellino che dal contrario partito riconosceva il suo esilio e tutte le sue sventure. In latino pure egli scrisse i libri de Vulgari eloquentia, i quali essendo dapprima usciti alla luce solo nella lor traduzione italiana (a), furon creduti supposti a Dante; nè si riconobbero come opera di lui, se non quando ne fu pubblicato (tj) La traduzione de’ libri de Vulgari Eloquentia fu, secondo Apostolo Zeno, opera del Trissino. Ecco ciò ch’egli ne scrive a monsignor Fontanini (Lettere, t. 1, p. fi!i, sec. ed.): Prima di partirmi da Dante, vi dico che il trattato latino de \ ulgari Llocpienlia tanta ì suo, quanto il volgare è traduzione del Trissino. Io l’ho a parte a parte esaminato, e ho fatti molti curiosi riscontri, per far avveduto ciascuno che la traduzione non è di Dante , ma bensì del Trissino , che in molti luoghi ha sbagliato. non intendendo il sentimento del latino, confondendolo, ed alterandolo a suo piacimento. La dir tura scuopre la verità delP uno e dell* altro y vedendoti il latino di quella barbarie, misto , che era in uso a que’ tempi f e praticata da Dante negli altri suoi componimenti latini; dove alL opposto il l’olgare sì scosta di molto dalla di lui dicitura assai più purgata ed armoniosa. La prima edizione di fatto ne fu pubblicata in Vicenza, patria del Trissino, l’an 1529. [p. 733 modifica]TEHKO 733 roriginai latino in Parigi 1577. Abbiamo ancora di Dante la traduzione in versi italiani dei Salmi Penitenziali, del Simbolo Apostolico, dell’Orazione Domenicale e di altre simili cose sacre 5 le quali poesie, troppo diverse dalla Divina Commedia, sono state di nuovo date alla luce dall’ab. Quadrio l’an 1752. Delle quali opere, e di alcune contese a cui esse han data occasione, delle lettere scritte dal Dante, delle poesie italiane e latine, e di una canzon provenzale che di lui abbiamo, veggansi le tante volte lodate Memorie del sig. Pelli (§ 17, 18)} a cui però io debbo aggiugnere che le poesie sacre che vanno unite a’ Salmi Penitenziali tradotti da Dante, credonsi dal celebre Apostolo Zeno non già di Dante, ma o di Antonio dal Beccaio ferrarese, o di qualche altro poeta contemporaneo del Petrarca (Lettere, t 1, p. 91). Io passo senz’altro a dire del gran lavoro a cui egli volle dare il nome di Comedia. Essa è, come è noto ad ognuno, la descrizione di una visione in cui finge di essere stato condotto a vedere l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. E checchessia del tempo in cui ei la scrivesse, di che si è detto poc1 anzi, ò certo eli1 ei finge di averla avuta l’anno 1300, dal lunedì santo fino al solenne giorno di Pasqua j come dai varii passi di essa raccogliesi chiaramente. Per quale ragione ei volesse così chiamare un’opera a cui pareva che luti’ altro titolo convenisse, si è lungamente e nojosamente disputato da molti. La più probabile origine di questo nome a me sembra quella che si adduce dal marchese Maffei, e prima di lui era stata [p. 734 modifica]^34 LIBRO recata da Torquato Tasso (V. Pelli §17), cioè che avendo Dante distinti tre stili, il sublime da lui detto tragico, il mezzano ch’ei chiamò comico, e l’infimo ch’ei disse elegiaco, diede il titolo di Commedia al suo poema, perchè ei si prefisse di scriverlo nello stile di mezzo. Ma non così ne han giudicato i più saggi discernitori del bello e del sublime poetico, che han rimirato e rimiran tuttora la Commedia di Dante, come uno de’ più maravigliosi lavori che dall’umano ingegno si producesser giammai. Lasciamo stare l’erudizione per quei tempii vastissima, che vi s1 incontra, per cui Dante è stato detto a ragione profondo teologo non meno che filosofo ingegnoso, poichè egli mostra di aver appreso quanto in quelle scienze poteasi allora apprendere (a), e consideriamo la Commedia di Dante solo in quanto ella è poesia. Io so che essa non è commedia, nè poema epico, nè alcun altro regolare componimento. (a) Chi avrebbe creduto die in Dante dovesse trovarsi espressa una delle nuove opinioni del Galilei riguardo alla fisica? JNelIe Lettere scientifiche del Magalotti , stampate in Firenze nel 1721, ne ha una (lett.r) su quel detto di quell’illustre filosofo, che il Vino altro non se non luce del Sole mescolata con F umido della vite. Or il ltedi in una sua lettera al Magalotti f graziosamente scherzando lo avverte (Redi y Op. t. 5f /?. 134 -j ed. Napol. 1778) che Dante più secoli prima avea detto lo stesso in que’ versi: E perche meno ammiri la parola, Guarda 9i calor del Sol, che si fa vino Giunto all’umor che dalla vite cola. Purg. c. a5. Questo passo non è stato avvertito dal sopralodato M. Merian. [p. 735 modifica]TERZO 705 E qnal maraviglia , s’essa non è ciò che Dante non ha voluto che fosse? So che vi si leggon sovente cose inverisimili e strane; che le immagini sono talvolta del tutto contro natura; che ei fa parlare Virgilio in modo cui certo ei non avrebbe tenuto; che molto vi ha di languido; e che di alcuni Canti appena si può sostener la lettura; che i versi hanno spesso un’insoffribil durezza, e che le rime non rare volte sono così sforzate e strane che ci destano alle risa; che in somma Dante ha non pochi e non leggieri difetti che da niun uomo, il qual non sia privo di buon senso, potranno giammai scusarsi. Ma , in mezzo a tutti questi difetti , non possiamo a meno di non riconoscere in Dante tai pregi che sarebbe a bramare di vederli ne’ nostri poeti più spesso che non si veggono. Una vivacissima fantasia , un ingegno acuto, uno stile a quando a quando sublime, patetico , energico che ti solleva e rapisce, immagini pittoresche, fortissime invettive, tratti teneri e passionati , ed altri somiglianti ornamenti onde è fregiato questo o poema, o, comunque vogliam chiamarlo , lavoro poetico , sono un ben abbondante compenso de’ difetti e delle macchie che in esso s’incontrano. E assai più chiaramente vedremo qual lode debbasi a Dante, se poniam mente a’! tempi in cui egli visse. Quale era stata finallora la poesia italiana? Poco altro più che un semplice accozzamento di parole rimate, con sentimenti per lo più languidi e freddi, e tutti comunemente d’amore, ovver precetti morali , ma esposti [p. 736 modifica]y3 6 libro senza una scintilla di fuoco poetico. Dante fu il primo che ardisse di levarsi sublime, di cantar cose a cui niuno avea ardito rivolgersi, di animare la poesia e di parlare in linguaggio sinallora non conosciuto. Ammiriam dunque in lui ciò che anche al presente è più facile ammirar che imitare; e scusiamo in lui que’ difetti che debbonsi anzi attribuire al tempo in cui visse il poeta, che al poeta medesimo. Io non entrerò qui a rigettare i sogni del p Arduino che pretese di togliere a Dante la gloria di questo lavoro (Mém, de Trév. 1716, août, art. 76), e se pur essi han bisogno di confutazione, ciò è stato già fatto dall1 eruditissimo sig. march, abate Giuseppe Scarampi ora degnissimo vescovo di Vigevano (Innanzi al t 1 dell’edi. di Dante in Ver. 1749)- Solo non è da omettere che Dante avea cominciata quest.1 opera in versi latini, e oltre i tre primi versi che il Boccaccio ne recita nella Vita di lui, alcuni codici si conservano che ne hanno un numero anche maggiore (V. Pelli, l. cit. § 17, p. 111 , nota 3). Ma ei fu saggio in mutare consiglio; poichè verisimilmente egli avrebbe ottenuta fama minore assai scrivendo in latino, come è avvenuto al Petrarca. X. Appena la Commedia di Dante fu pubblicata, ch’ella divenne tosto f oggetto delf ammirazione di tutta f Italia. E ne son pruova non solo i moltissimi codici che ne abbiamo, scritti in quel secol medesimo, ma più ancora i comenti con cui molti presero ad illustrarla. E tra’ primi a farlo furono, come ben conveniva, [p. 737 modifica]TERZO 737 Fietro (a) e Jacopo figliuoli di Dante , delle cui fatiche sopra il poema del padre , che ancor si giacciono inedite, parlano il sig. Pelli (§ 4) e l’ab. Mehus (Vita Ambr. camald. p. 180), il qual secondo scrittore accenna ancora (Ib. et p. i ’ò-j) i Conienti di Accorso dei Bonfantini francescano, di Micchino da Mezzano canonico di Ravenna, di un anonimo che scrivea nel 1334 e di più altri spositori di Dante in questo secol medesimo. Giovanni Visconti arcivescovo e signor di Milano circa l’anno 1350 radunò sei de’ più dotti uomini che fosser in Italia, due teologi, due filosofi e due di patria fiorentini, e commise loro che un ampio comento scrivessero sulla Commedia di Dante , di cui al presente conservasi copia nella biblioteca Laurenziana in Firenze (Mehus , l. cit). Chi fossero questi commentatori, non è ben certo; ma il Mehus paragonando il comento che Jacopo della Lana in questo medesimo secolo scrisse su Dante, e che vedesi anche’ alle stampe, e le Chiose sullo stesso poeta attribuite al Petrarca, che nella citata biblioteca si trovano , ne congettura che amendue fosser tra quelli che (/*1 Che Pietro figliuol di Dante interpretasse la Commedia del padre, non ce ne lascia dubitare l’iscrizione che al sepolcro di psno si vede in Trevigi. Ma clic il comento che sotto il nome di Pietro trovasi ins. in alcune biblioteche, sia veramente opera del figlio di Dante, parecchi non dispregevoli argomenti ce ne ian dubitare, come ha provato il eh. monsignor Giovanni Jacopo D10msi canonico di V erona, nel secoudo de’ suoi Antddoti nella stessa città pubblicati. [p. 738 modifica]’JÓO LIBRO vennero in tal lavoro impiegati (*). L’ab.de Sade però si crede ben fondato a pensare (Meni, pour la vie de Petr. t. 3, p. 515) che il Petrarca non iscrivesse comento alcuno su Dante. Il fondamento, a cui egli si appoggia, è una lettera del Petrarca al Boccaccio, che trovasi nell’edizione delle Lettere di questo poeta , fatta in Ginevra l’an 1610, in cui egli si duole di esser creduto invidioso della fama di Dante (**). (*) A7 comcntatori di Dante, qui mentovati, debbono! aggiugnere un certo F. Riccardo carmelitano, e un Andrea partenopeo ossia di Ma poli. i Conienti de’ (piali afferma di aver letti Mat tino Paolo Nibhia novarese, nella prefazione alla bella edizione di Dante fatta iu Milano nel 1478. (4*) Io ho qui esaminata lungamente la lettera in cui, secondo l’abate de Sade, il Petrarca ragiona di Dante, e nell7 atto medesimo in cui protesta di non avere pel nome di lui quella invidia che volgarmente eragli attribuita, parla in maniera che sembra confermare quell’opinione. E ho recate alcune ragioni che mi faceano dubitare o ch’ella non fosse del Petrarca, o che questi non parli ivi di Dante. Ho poscia avuta l’edizione delle Lettere del Petrarca fatta nel 1601 , in cui essa si legge, e che io dolevaini allora di non avere ancora veduta. E veramente non parmi che si possa negare ch’ella sia del Petrarca. Confesso ancora che la difficoltà da me mossa intorno a ciò che ivi si dice, cioè che il padre del Petrarca e quel poeta di cui ragiona , furono da Firenze esiliati nel dì medesimo, il che pare non potersi intender di Dante, che secondo gli autori citati dall’abate de Sade fu esiliato alcuni mesi prima del padre del Petrarca, confesso, dico, che questa difficoltà non sembrami più aver molta forza, perchè Dino Compagni scrittore di quei tempi pone sotto il giorno medesimo l’esilio di amendue (Script. lier. il al. voi. 10, p. 501). Ma ciò non ostante [p. 739 modifica]TERZO 739 Ei veramente 11011 nomina mai questo poeta, ma, a parere dell’ab. de Sade, parla in tal modo che è evidente che parla di Dante. Ei dunque, rispondendo al Boccaccio che lodato avea questo poeta, gli dice ch’egli è ben giusto eli1 ei si mostri grato a colui ebe è stato la 10 non ardisco ancor di affermare che ivi si parli di Dante, e oltre la ragion presa dall’età di esso e del padre del Petrarca , che non combina con ciò che qui se ne dice, un’altra io ne trovo nella lettera stessa. Da essa raccogliesi! che il Boccaccio soleva vantarsi di aver avuto quel poeta ivi indicato per suo maestro; e le espressioni con cui ciò dal Petrarca si afferma, son tali che sembrano non potersi spiegare abbastanza col dire che il Boccaccio rimiravalo come maestro, perchè sull* opere di esso avea formato il suo stile; ma che si debbano intendere di vero magistero: Inseris nominatim hanc hujus officii tui excusationem, quod ili e libi adolesccntulo primus studio rum dux et prima fax fucrit. Justc quide ni, grate, memoriter, et y ut ita di cani, pie. Si enim genitoribus corporum nostrorum omnia... quid non ingeniorum parentibus ac forma toribus de bea ni us? Quanto min ni e li ut us nobis meriti sunt, qui ani munì nostrum excoluere , quam qui corpus % ec. Or Dante non potè certo esser maestro del Boccaccio; perciocchè questi, nato nel 1313 , passò in Firenze gli anni della sua fanciullezza, e Dante esiliatone fin dal 1302, più non vi pose piede, e inoltre quando Dante morì nel 1321, il Boccaccio non contava che otto anni di età. Per altra parte confesso ancora che non veggo qual altro poeta si possa qui intendere; e nel catalogo degli esuli, lasciatoci dal detto Compagni, non trovo alcuno a cui possano convenir le cose che qui dice il Petrarca. Quindi su questo punto mi è forza restare al buio; e avvertirò solo che essendo sì intralciato ed oscuro il senso di questa lettera, non dovea 1’abate de Sade menar tanto rumore perchè gl’Italiani non ne abbian finora fatto uso. [p. 740 modifica]\ y4o LIBRO prima guida ne’ suoi studj; che ben dovute sono le lodi di cui l’onora; ch’esse sono assai più pregevoli degli applausi del volgo; e che egli stesso con colui si congiunge a lodare quel poeta volgare nello stile , ma nobilissimo ne’ pensieri. Quindi si duole di ciò che spargeasi; ch’ei fosse invidioso del gran nome di cui quegli godeva; dice di’ ei non l’avea veduto che una volta sola essendo fanciullo, o a dir meglio , che una volta gli era stato mostrato a dito; che quegli avea vissuto con suo padre e con suo avolo, più vecchio del primo, più giovane del secondo; e che suo padre e quel poeta erano stati nel medesimo giorno espulsi dalla lor patria. Poscia confessa eh* ei non crasi guari curato di averne le poesie, non perchè non le avesse in gran pregio, ma perchè essendosi allor dato a verseggiar volgarmente, temeva di divenir copiatore, se avesse lette le altrui poesie, e avea risoluto di formarsi uno stile che fosse tutto suo proprio e originale. Siegue indi a replicare mille proteste ch’ei non ne è punto invidioso, che stima e apprezza moltissimo quel poeta , e gli spiace anzi il vederne i versi si sconciamente sfigurati da coloro che per le vie gli andavano canticchiando. Nel qual parlare però osserva l’ab. de Sade, che vedesi un non so che di sforzato, per cui quanto più il Petrarca si studia di persuaderci eh’ei non era punto invidioso , anzi che toglierlo, ci accresce il sospetto ch’ei veramente il fosse alquanto; e da ciò ne ricava il medesimo autore, che non è punto probabile che il Petrarca si facesse a scrivere comenti su [p. 741 modifica]TERZO 74* Dante. Dopo aver recata quasi interamente questa lunghissima lettera, 1 ah. de Sade si volge agl’Italiani, e si maraviglia che niuno tra essi abbia fatta di essa menzione, e con un amaro insulto conchiude: ilJaut avouer, quiljr a dans votre li Itera ture des choses singulieres, et tout-à-fait inconcevables (p. 5i4)- A me sembra però, eli’ ci non avesse a maravigliarsi cotanto che gli Italiani non avesser parlato di questa lettera che non si trova che nella edizione assai rara del 1601 , e in cui Dante non è espressamente nominato. Io non ho veduta questa edizione, nè posso perciò giudicare se questa lettera sia veramente secondo lo stil del Petrarca, poichè lo scrittor francese non ce 1’ ha data che in francese. Ma io confesso che incontro in essa qualche difficoltà, la quale vedrei volentieri sciolta dall1 ab. de Sade, Io lascio da parte una contraddizione in cui cade il Petrarca , s’egli è autor della lettera; poichè dopo aver detto che i suoi proprii versi italiani sono abbandonati al popolo, il quale gli sfigura cantandoli, poco appresso dice ch’ei non invidia a Dante gli applausi del volgo, de’ quali gode di essere privo con Virgilio e con Omero. Lascio quel vantarsi ch’ei fa di aver voluto essere scrittor originale, il che non mi pare proprio del pensar del Petrarca che è sempre modesto nel parlar di se stesso. Ma due errori io trovo in questa lettera, i quali non so persuadermi che si potesser commettere dal Petrarca. Si dice in essa che il padre del Petrarca e Dante furon nel medesimo giorno cacciati da Firenze. Or i monumenti autentici, citati dal Pelli, mostrano che Tulàioschi, Voi VI. i5 • [p. 742 modifica]Jija LIBRO , Dante fu esiliato a’ 27 di gennaio del 1302,e il padre del Petrarca, come confessa lo stesso ab), de Sade (t 1, p. 13), non fu condennato che a’ 20 d’ottobre dello stesso anno. Più grave ancora è il secondo. In questa lettera si dice che il padre del Petrarca era più giovin di Dante. Or checchè ne dica f ab. de Sade (ib. p. 12, 54? ec.), è certo che egli era più vecchio. Pruova convincentissima ne è una lettera del Petrarca a Guido da Settimo scritta, come confessa lo stesso ab. de Sade (t. 2, p. 671), l’an 1367, poichè in essa fa menzione elei trernuoto che ei senti in Verona ventanni addietro, che fu appunto nel 1347* Or il Petrarca narra in questa lettera un viaggio ch’egli con suo padre, con un zio paterno di Guido e con Guido medesimo avea fatto al fonte di Sorga, mentre egli insieme con Guido studiavan gramatica: in illo surgentes aevi flore... quem grammaticorum in stramine... egimus l 10 Senil, ep. 2): il che si dee riferire circa all’anno 1316 in cui il Petrarca contava dodici anni di età. Questi aggiugne che suo padre e il zio di Guido avevano a quel tempo quell’età a un di presso che aveano al presente egli e Guido; e come il Petrarca nato nel 1304 contava, mentre scriveva tal lettera, cioè nel 1367, sessantatre anni d’età, così è evidente che verso il 1316 il padre del Petrarca avea egli pure circa sessantatre anni, mentre Dante nato nel 1265 appena avea passati i cinquanta. Come dunque potea scrivere il Petrarca, che suo padre era più giovin di Dante? È egli possibile che l’ab. de Sade, osservator sì minuto dell’opere del Petrarca , [p. 743 modifica]fEMO 743 non abbia a ciò posto mente? Nè io perciò ardisco decidere che la riferita lettera sia supposta; ma desidero solo che l’ab. de Sade sia alquanto più ritenuto nell’insultare agli italiani, perchè non abbian parlato di una lettera della cui sincerità essi potean dubitare non senza qualche ragione. Ma rimettiamoci in sentiero, e torniamo a’ commentatori di Dante. Già abbiamo parlato della traduzione che Alberigo da Rosciate fece in lingua latina del Comento di Jacopo della Lana, cui anche stese ed ampliò maggiormente. Il Boccaccio ancora, Benvenuto da Imola, Francesco da Buti scrissero in questo secolo dichiarazioni e comenti; ma questi appartengono a un’altra classe d’interpreti de’ quali ora ragioneremo (a). (’?) Anche i padri del concilio di Costanza al principio del secol seguente occuparonsi nella lettura di Dante, e uno di essi a richiesta di altri tra loro impiegò il tempo a tradurlo e a comentarlo. F. Giovanni da Serravalle della diocesi di Rimini dell’Ordine de’ Minori, e vescovo e principe di Fermo, a istanza del Cardinal Amedeo di Saluzzo, e di due vescovi inglesi Niccolò Bubwich vescovo bathoniese, e Roberto II alni vescovo sarisberiese , prese a tradurre in prosa latina, e quindi a comentare la Commedia di Dante, e cominciò il lavoro il i.° di febbraio del 1416 , e compiello a’ 16 di iebLraio dell* unno seguente. Così raccogliesi dalla lettera dedicatoria ad essi diretta, in cui si scusa se, attesa la brevità del tempo a ciò concedutogli , egli è stato costretto a tradurla meno elegantemente, e il prega a non riprenderlo de rusticana latinitate incompta et inepta trans lai ione. L’opera non è mai stata stampata , ed è nota a pochissimi \ ed è forse unico l’esemplare che se ne conserva nella Capponiana ora Vaticana , da cui io ho avuto copia della lunga prefazione ch’ei vi premise. [p. 744 modifica]744 LIBRO XI. Era sì grande il concetto in cui aveasi Dante, che si credè opportuno l’aprire in Firenze una cattedra in cui questo autore si spiegasse a comun vantaggio pubblicamente. Ne fu fatto decreto a’ 9 di agosto del 1373, e il Boccaccio essendo stato a ciò destinato coll* annuo stipendio di 100 fiorini (Manni, Stor. del Decam. par. 1 , c. 29), egli a’ 3 d’ottobre dell’anno medesimo, nella chiesa di S. Stefano presso il Ponte vecchio, cominciò a tenere le sue lezioni; all’occasion delle quali egli scrisse il suo Comento su Dante, che è poi stato stampato, e di cui parla, oltre il co. Mazzucchelli, anche l’ab. Mehus (l. cit p. 181). Il decreto era stato fatto sol per un anno; ma l’applauso che cotai lezioni ottenevano, fece che dopo la morte del Boccaccio, avvenuta l’anno 1375 , alcuni altri fossero nominati a tal cattedra; e il canonico Salvino Salvini, che eruditamente ha raccolto ciò che a questo argomento appartiene (Fasti consol. dell Accad. fiorenL pref. p. 12, ec.), nomina Antonio Piovano che leggeva Dante nel 1381 , e Filippo Villani già da noi nominato fra gli storici di questo secolo, che fu a ciò destinato nel 1401. Bologna imitò presto l’esempio di Firenze; e Benvenuto de’ Rambaldi da Imola, da noi nominato più volte, vi fu chiamato a legger Dante , e dieci anni vi si trattenne, come poc’anzi si è detto, alla qual lettura noi dobbiamo l’ampio Comento che su quest’autore egli scrisse, di cui il Muratori ha dati alla luce que’ tratti (Antiq. Ital. t. 1) che giovano ad illustrare la storia. Da un di essi sembra raccogliersi che ei lo scrivesse nel 1 33q 5 [p. 745 modifica]TERZO 7^5 perciocché, parlando del Campidoglio, dice (ib. p. 1070): Sed proh dolor! istud sumptuosum opus destructum et prostratum est de anno praesentì i38;> per populum Romanum. E così veramente si legge nel codice ms. che ne ha questa biblioteca Estense. Ma l ab. Mehus riflette (p. 182) che in un codice della Laurea* ziana si legge mccclxxix , e così veramente mi sembra che debba leggersi, poichè in quest’anno i Romani espugnarono il Campidoglio occupato finallora da’ fautori dell’antipapa Clemente (a). È certo però. eli1 ei vi leggeva Dante fino dal 1375, poiché ei dice che avendo scoperto un grave disordine in quella università uimccclxxv cium csscm Bononiae, et legerem istum librimi (l. cit. p. io(>3), ne diede avviso al Cardinal «li Bourges legato, il quale in quest’anno appunto ebbe il go\crno di Bologna (Ghirardacci, t. 2, (a) Vuoisi qui avvertire che il Comento italiano sulla Commedia di Dante, sotto il nome di Benvenuto da Imola pubblicato in Milano nel e in Venezia nel 14-77 •> c cosa affatto diversa dal Comento latino in gran parte prodotto dal Muratori, e che vi è fondamento a credere eli’ essa sia opera a Benvenuto supposta. Veggansi su ciò il Quadrio (t. 6, p. 249) , ec.), il P. abate Bargellini (Industrie filologiche, ec. p. 96) e gli Elogi degl’illustri Imolesi del sig. canonico Rivolta (p. 195). Anzi il eh. sig. conte Fantuzzi ha pubblicata una lettera del celebre Giovanni Vincenzo Pinelli (Scritt. bologn, t. 5, p. 18), in cui osserva che quel Comento italiano sembra lo stesso che quel poc’anzi citato di Jacopo della Lana. Benvenuto illustrò ancora con suo latino comento le opere del Petrarca; ed esso fu stampato in Venezia, da Marco Orrigone, colla data del mccccxvi; ove è probabile che debba leggersi mccccxcvi. [p. 746 modifica]74u libro p. 333). Ei dedicò il suo Comento al marchese Niccolò II d’Este, da cui dice di essere stato consigliato a distenderlo e a pubblicarlo. Anche in Pisa fu istituita la lettura di Dante, ed essa fu data, circa il 1386, a Francesco di Bartolo da Buti, di cui e del Comento che egli pure scrisse su Dante, e di qualche altra operetta da lui composta, veggasi il co. Mazzucchelli (Scritt. ital t. 2, par. 4? p 2468&) e gli altri scrittori da lui citati. In Venezia ancora leggevasi in questo secolo Dante da Gabriello Squarto veronese, come prova il P. degli Agostini (Scritt venez. t 1 , pref. p. 27). Finalmente nel catalogo, da noi mentovato più volte, de’ professori delf uni versila di Piacenza, all’anno 1399 veggiam assegnato lo stipendio mensuale di L. 5. (6. 8. M. Philippo de Regio legenti Dantem et Auctores (Script. rer. ital. vol. 20, p. 940). Altri al tempo medesimo presero a tradurre Dante in versi latini - e il primo fu Mateo Ronto monaco olivetano, del quale ragioneremo fra’ poeti latini del secol seguente a cui appartiene. Egli è vero però, che tutte queste fatiche, con cui a que’ tempi cercossi di rischiarar Dante, non produsser gran frutto. Invece di occuparsi di rilevarne le bellezze poetiche, in illustrarne i passi più oscuri , in dichiarare le storie che vi si trovano solo accennate, la maggior parte degl’interpreti gittavano il tempo nel ricercarne le allegorie e i misteri. Ogni parola di Dante credeasi che racchiudesse qualche profondo arcano, e perciò i comentatori poneano tutto il loro studio nel penetrar dentro a quella pretesa caligine, e nel ridurre [p. 747 modifica]TERZO 747 il senso mistico al letterale. E che sa quanti pensieri hanno essi attribuiti a Dante, che a lui non erano mai passati pel capo! Ma checchessia del successo delle loro fatiche, l’ardore con cui le intrapresero, ci fa vedere quanto fosse in quel secolo la brama di venirsi istruendo, e in quanto pregio si avessero i buoni studj, o quelli almeno , che allor credeansi buoni. XII. Dal padre non debbonsi separare i figliuoli. Sei ne ebbe Dante, Pietro, Jacopo, Gabriello, Aligero, Eliseo e Beatrice; perciocchè quanto all’altro detto Francesco che alcuni gli aggiungono, il Pelli crede (§ 4)> e panni a ragione, che essi confondano un fratello di Dante, che così fu chiamato , con Jacopo di lui figliuolo. Questi e Pietro sono i soli tra’ figli di Dante, che a questa Storia appartengono; perciocchè amendue, oltre l’illustrar che fecero la paterna Commedia si esercitarono anche in versi , e alcune loro poesie si annoverano dal soprallodato Pelli e dal co. Mazzucchelli (Scritt. ital. t 1 , par. 1 , p. 4^3, 3()4)> presso i quali più altre notizie ancora di essi potran vedersi. Pietro fu inoltre versato assai nelle leggi , e coll’esercizio di queste scienze radunò in Verona, ove’erasi stabilito, molte ricchezze, e morì in Trevigi nel 1361, Ei fu amico del Petrarca di cui abbiamo alcuni versi a lui scritti (Carm. l. 3, ep. 7). Da essi l’ab. de Sade raccoglie che Pietro l’anno 1348 fosse già ritornato a Firenze (Mèra, pour la vie de Petr. t 2, p. 440 ec.). A me essi non sembrano abbastanza chiari, per affermarlo con sicurezza. E se pure ei vi fece [p. 748 modifica]7 48 LIBRO ritorno, ciò non fu che per poco tempo; perciocchè negli ultimi suoi anni egli era certamente in Verona e in Trevigi. Jacopo visse sempre in Firenze, come pruova il Pelli, ed era ancor vivo nel 1342. Un sonetto da lui indirizzato al celebre Paolo dell’Abaco da noi mentovato altrove, in cui pare che il riconosca per suo maestro, ha fatto credere ad alcuni, che così fosse; ma 1’età dell1 uno e dell1 altro non ce lo rende credibile, come parlando di Paolo abbiamo osservato, e perciò è probabile che o quel sonetto non sia di Jacopo, o che il termine di maestro da lui si adoperi solo a spiegare la stima in cui lo tenea. XIII. Tra i cortesi ricettatori di Dante abbiamo annoverato, oltre Can Grande della Scala, un sonetto del quale si accenna dal Quadrio (Stor. della Poes. t. 2, p. 174)? Guido Novello da Polenta signor di Ravenna, e Bosone da Gubbio; e amendue debbon aver qui luogo , perchè non solo protessero , ma coltivarono ancora la poesia. Il Crescimbeni (Comment della volg. Poes. t. 2, par. 2, p. 49), ha confuso il primo con quel Guido Novello de’ conti Guidi vicario in Toscana del re Manfredi, di cui abbiamo altrove parlato (t. 4 L 2, C. 2, n. 15). Il nostro Guido era figliuol di Ostasio da Polenta, e l’an 1265, cacciati i Traversari! e i lor seguaci da Ravenna, se ne fece signore (Ann. forol. Script. Rer. ital. vol. 22, p. 139). Uno, o due anni appresso egli insieme con altri ottenne che la Romagna si soggettasse al pontefice; ma poscia di nuovo si sottrasse all1 ubbidienza della Chies^ e^me [p. 749 modifica]TEMO 7-1}) abbiamo negli antichi Annali di Cesena (Ann. Caes. ib. vol. 14, p. 1104). Secondo questi egli era podestà di Firenze nel 1290 (ib. p. l ì0/j)y nel (qual anno Lamberto e Ostasio di lui figliuoli fecer prigione Stefano di Genazzano conte di Romagna; ma di questa carica di Guido non trovo indicio negli scrittori fiorentini. Nel 1293, secondo gli Annali di Forlì (l. cit. p. 163), o nel seguente , secondo que’ di Cesena (l. cit p. 1100), essendo egli capitano in Forlì, sollevatasi una popolar sedizione, ne riportò una ferita con Lamberto suo figlio , e fu con lui fatto prigione; ma pochi giorni appresso da Maghinardo da Susinana riebbe la libertà. Più grave sciagura il colse l’anno 1295$ in cui Pietro arcivescovo di Monreale, comandante general della Chiesa , entrato in Ravenna vi rimise gli esuli, e rilegò Guido a’ confini, e ne fece spianar le case (Ann. Forol. l. cit p. 1 (5G; Ann. Caes. l cit p. 1 11 1). Le quali circostanze della vita di Guido ho volute qui riferire perchè non le veggo accennate dal ch. P. ab. Ginanni (Scritt. ravenn. t. 2 , p. 215), il quale ha raccolto quanto di lui ha scritto il Rossi nelle sue Storie ravennati. Non trovo quando ei ripigliasse la signoria di questa città; ma se è vero ciò che i suddetti due scrittori affermano , che l’an 1304 ei prendesse a nome de’ Ravennati il possesso di Comacchio, il che pure affermano ch’ei fece di nuovo l’an 1319, ciò ci dimostra ch’egli non fu esule per lungo tempo. I medesimi scrittori parlano dell’andar ch’egli fece podestà a Cesena nel 1314? come infatti abbiamo anche negli antichi Annali di questa [p. 750 modifica]7^0 LIBrtO città (l. cit p. 1134)? ne’ quali si aggiugne che nell’anno medesimo ei combatté contro i nemici , facendoli ritirare di là dal ponte; ma poscia ei medesimo ritirossi segretamente e abbandonò la città. Questo fatto dal Rossi e dal P. abate Ginanni si differisce all’anno 1315 in cui dicon che Guido era podestà di Faenza; ma io dubito che forse abbian essi fatto seguire in Faenza ciò che accadde in Cesena. Finalmente ei fu di nuovo privo del dominio di Ravenna, poco dopo la morte di Dante, e fuggito a Bologna, fu ivi, l’an 1322, capitano del popolo (Script. rer. ital. vol 18 , p. 335) , e ivi, secondo gli storici di Ravenna, morì l’anno seguente. Or un uomo sì occupato da’ pubblici affari, e travagliato da contrarie vicende, era7 come dice il Boccaccio nella Vita di Dante, negli liberali studi ammaestrato sommamente, e gli valorosi uomini onorava, e maximamente quegli, che per scienza gli altri avanzavano. Quindi fu l’accoglier ch’ei fece sì amorevolmente Dante, e l’onorarne egli stesso, come dice il Boccaccio, le esequie con una orazione funebre. Ei dilettossi singolarmente della poesia italiana, e alcuni componimenti se ne conservano nelle Raccolte dell’Allacci e de’ Poeti ravennati, nella Poetica del Trissino, e nelle note dell’Ubaldini a’ documenti del Barberino , intorno a che veggasi il soprallodato padre Ginanni. XIV. Più brevemente ci spediremo dall’altro cortese accoglitore di Dante , cioè da Bosone da Gubbio, poichè le notizie intorno a lui sono già state esattamente e diligentemente raccolte [p. 751 modifica]TEMO ~5| dal sig. Francesco Maria Rafaelii (Delirine Fraditi r. t. 17), e compendiate poscia dal co. Mazzo cchelli (Scritt ital t 2, par. 37 p 1842, ec.). Bosone adunque, figlio di Bosone di Guido d’Alberico, e detto perciò comunemente Bosone Novello, era dell1 antica e nobil famiglia dei Rafaelli di Gubbio, e non de’ Caffarelli , come molti han detto. Nato verso il 1280, fu probabilmente compreso tra i Gibellini esiliati da Gubbio l’anno 1300, ed è verisimile che in tal occasione ei contraesse amicizia con Dante in Arezzo nel 1304 Richiamato in patria più voltey ne fu più volte di bel nuovo cacciato, secondo il costume di quell’età, e a questi esilii ei dovette le cariche, che sostenne, di podestà d1 Arezzo nel 1316 e nel 131 y, poscia di podestà di Viterbo in questo secondo anno5 quindi di capitano di Pisa e di vicario di Lodovico il Bavaro nel 1327, e finalmente di senatore di Roma da’ 15 ottobre del 1337 sino al giorno medesimo dell’anno seguente. Ei vivea ancora nel 1345 , e probabilmente morì circa il 1350; di tutte le quali cose si posson veder le pruove ne’ poc’anzi citati autori. Essi parlano ancora delle poesie, non troppo al certo felici, che di lui ci sono rimaste, le quali dal medesimo Rafaelli sono state date alla luce, e che sono per lo più parte chiose e comenti in terza rima sulla Commedia di Dante. Egli scrisse ancora un romanzo, intitolato l’Avventuroso Ciciliano, che non è mai stato stampato. XV. Fra gli illustri Fiorentini, de’ quali Filippo Villani ha scritta la Vita, havvi Francesco , da Barberino, di cui però egli ci ha date assai1 [p. 752 modifica]~S2 LIBRO poche notizie (Vite et ili Fiorent p. 64)Più ampiamente ne ha scritto Federigo Ubaldini , il quale, avendo prima d’ogni altro pubblicati in Roma, l’an 1640, i Documenti d’amore di questo poeta, ne premise ad essi la Vita raccolta da quegli autori eh1 ei potè avere tra le mani, e finalmente ne ha ragionato a lungo il co. Mazzucchelli così nelle sue note al Villani , come ne’ suoi Scrittori italiani (t. 2 , par. 1 , p. 2()5). L’ab. Mehus si duole (Vita Ambr. camald. p. 187) che la Vita del Barberino , pubblicata dal co. Mazzucchelli, sia piena d’errori, e che l’Ubaldini abbia senza discernimento affastellate le notizie da lui raccolte. Ma noi gli saremmo assai tenuti, se non contento di far tali doglianze, ci avesse additati i falli che si debbon correggere. Ei nacque , secondo il Villani, l’an 1264 in Barberino castello di Valdelsa, e applicossi alla giurisprudenza civile e canonica, il che ei fece in Padova e in Bologna, secondo il co. Mazzucchelli. E in Bologna egli era al certo l’anno 1294? era già notaio, come raccogliesi da una carta accennata dal P. ab. Sarti (De Prof. Bon, t 1, pars 1 , p. 425). Mancatogli il padre nel 1296 (di che però ha mosso qualche dubbio (Novelle letter. 1748, p. il celebre dottor Lami) venne a Firenze, ove continuò gli studj già intrapresi , e servì in essi a due vescovi, Francesco da Bagnarea e Lottieri della Tosa. Credesi che più volte viaggiasse alla corte d* Avignone; ed è certo, come pruova il sopraccitato scrittore, ch’egli intervenne al general concilio di Vienna nel 1311, e forse fu premio di uno di [p. 753 modifica]TERZO y53 onesti viaggi il privilegio, ch’egli ottenne da Clemente V, di essere laureato in legge. Questo privilegio riferito ancora dal Tommasini (Gj /mi. patav, p. 162), e accennato dal Mehus, è indirizzato a’ vescovi di Firenze, di Bologna e di Padova, forse perchè avendo Francesco in tutte queste città date pruove del suo sapere, essi poteano farne onorevole testimonianza. Dicesi eh1 ei fosse il primo che ricevesse un tal onore in Firenze, e che ciò avvenne l’an 1313. Il dott. Lami accenna al contrario più Fiorentini che aveano prima di lui ricevuta la laurea, Accorso, Francesco di lui figliuolo, Dino dal Mugello ed altri. Ma questi certamente avean ricevuta la laurea in Bologna. Lo stesso Francesco però, come avverte il medesimo Lami, non si sa di certo in qual città la ricevesse. Il Mehus accenna due altre carte fiorentine, in una delle quali, del 1304 egli è detto notaio, nelf altra, del 1324, ha il nome di giudice. Questi studi però e queste occupazioni legali nol distolsero dal coltivare la poesia, e ne abbiamo in pruova l’opera mentovata de’ Documenti d’amore scritta in varii metri e in uno stile che, benchè non sia il più facile e il più elegante, e troppo sappia di poesia provenzale in cui egli dovea essere ben versato , lo ha fatto annoverar nondimeno tra’ buoni poeti che fan testo di lingua. Ella non è già, come il titolo sembra promettere , un’opera amorosa , ma è anzi un trattato di filosofia morale , diviso in dodici parti, in ciascheduna delle quali ragiona di qualche virtù, o de’ premii ad essa destinati. Un’altra opera egli scrisse, accennata [p. 754 modifica]j54 LIBRO pur dal Villani, su’ Costumi delle Donne, essa pure in versi, di cui conservasi nella Vaticana un codice a penna; e forse, come osserva il co. Mazzucchelli, le Novelle, di cui alcuni il fanno autore, non sono opera punto diversa da questo; poichè più Novelle ei viene in essa narrando ad istruzione delle donne. Ei morì in Firenze nella peste del 1348, in età di ottantaquattro anni, e se ne può vedere T iscrizion sepolcrale presso il co. Mazzucchelli, il quale ancora altre più minute notizie potrà somministrare intorno a questo poeta (a). XVL Di alcuni che potrebbono aver qui luogo, abbiam già altrove parlato. Tai sono Cecco d’Ascoli, del cui poema detto V Acerba si è già trattato nel ragionar de’ filosofi , e Paolo dell’Abbaco nominato nel medesimo capo, di cui alcune poesie si citano, dopo altri scrittori, dal co. Mazzucchelli (Scritt ital. t. 1 , par. 1 , p. 16); e Dino Compagni da noi mentovato tra gli storici, di cui il Crescimbeni ha pubblicato un sonetto (Comment. t. 3, p. 73). Due ancora de’ teologi agostiniani da noi rammentati, cioè Gregorio da Rimini e Guglielmo Amidani, si annoverano dal Quadrio (t 2, p. 170, 172) tra1 (/?) In argomento somigliante a quello del Barberino esercitassi Graziolo de’ Bambaglioli bolognese, morto verso la meta di questo secolo, di cui si posson veder notizie presso il eh. sig. conte Fantuzzi (Scria, bologrj. t. 1, p. 335, ec). Egli scrisse in versi italiani un trattato delle Virtù Morali. falsamente attribuito a Roberto re di Napoli, e sotto il nome di esso pubblicato da Federigo (Jbaldini in Roma nel 1642 , e lo stesso Graziolo aggiunse alla sua opera un cornento in prosa latina. [p. 755 modifica]TERZO 755 coltivatori della poesia italiana, e del secondo il Crescimbeni ha pubblicato un sonetto (t.3, p. 71). Abbiamo inoltre parlato a lungo di ("Cino da Pistoia giureconsulto insieme e poeta, ma più famoso per le sue poesie che per le sue opere legali, perciocchè per comune consentimento egli è uno dei più colti poeti di questa età, e fra quelli che precederono il Petrarca, non vi ha (forse alcuno che in eleganza e in dolcezza a lui si possa paragonare, degno perciò dclP amicizia e della stima di Dante che spesse volte ne parla con molta lode (Op. t 4 ed Zatta p. 261, 268, 275, 285, ec.). Più edizioni si hanno delle poesie di Cino, e fra esse quella più copiosa pubblicata in Venezia, l’an 1589, dal P. Faustino Tasso minor osservante, nella quale però il P. degli Agostini con buon fondamento sospetta che le poesie del secondo libro sieno di autori più moderni (Scritt vcnez. pref. L 2, p. 523, ec.). Una canzone di Cino sulla morte di Dante conservasi manoscritta nella biblioteca di S. Marco in Venezia (Cat Bibl. S. Marci, t. 2, p. 247). Il Petrarca cbc, benché non f avesse probabilmente avuto mai a maestro , stimavalo nondimeno come leggiadro poeta, ne pianse con un sonetto la morte (par. 1 , son. 71). Nell’edizione del Petrarca, fatta in Firenze nel 1522, leggonsi, come avverte il Quadrio (l. cit. p. 187), alcune rime di Giovanni de’ Don di, non già pistoiese, come altri ha scritto, ma padovano, di cui si è ragionato all’occasione dell1 ingegnosa sfera da lui ritrovata. Lo stesso dicasi di alcuni altri di quelli da noi rammentati ne’ precedenti capi, [p. 756 modifica]^56 LIBRO ile’ quali qualche poesia si legge nelle Raccolte degli antichi Poeti, ma cui non giova il ricercare minutamente, per la stessa ragione per cui ci siamo prefissi di non voler parlare di tutti i poeti. XVII. Fra’ poeti che in questo secolo produsse Siena, due hanno ottenuto nome superiore agli altri, Benuccio Salimbeni e Bindo Bonichi. Il Salimbeni avvolto nelle turbolenze da cui Siena era agitata, e nelle domestiche nimicizie che la sua famiglia avea con quella de’ Tolommei, ne rimase all’ultimo vittima infelice. Il Crescimbeni (l. cit. p. 77) e il Quadrio (l. cit. p. 178) avvertono che altri ne fissala morte al i3:i8, altri al 1330. Ma pare che la contesa si possa decidere colf autorità della Cronaca di Andrea Dei scrittore contemporaneo, che così ne parla all1 anno i33o. A9 dì 22 di Ottobre , anno detto, Misser Pietro Mini, Misser Tavenozzo, e certi altri della casa de’ Tolommei uccisero nella contrada di Tortanieri Misser Benucio, e Misser Alessandro proposto della casa de’ Salimbeni (Script. rer. ital. vol. 15, p. 88). Nondimeno nelle note del sig. Uberto Benvoglienti, ad essa Cronaca aggiunte , si cita un monumento (ib. p. 95)che) ci indica Benuccio vivente ancora nel 1337 e nel seguente, e ci dà una grande idea delle ricchezze di quella famiglia, nè io ho lumi bastevoli a sciogliere questo inviluppo. I due suddetti autori ne lodan lo stile, e accennano le biblioteche in cui se ne conservan le Rime; e un sonetto ne ha pubblicato, dopo l’Allacci, il Crescimbeni (t. 3, p. 83), che a me però non sembra corrispondente [p. 757 modifica]TERZO agli elogi clic essi ne fanno. Esso è indirizzato all altro poeta da noi or or nominato, cioè a Bindo Bonichi. Di lui, oltre i mentovati scrittori , parla il co. Mazzucchelli (Scritt. ital. t a, par.3, p. 1368) che annovera esattamente le rime che se ne hanno alle stampe, e quelle che se ne conservano manoscritte. In lui lodasi comunemente più la nobiltà de’ pensieri che l’eleganza della espressione, e dicesi perciò, eh1 ei fu più filosofo che poeta. Nelle poche rime ch’io ne ho vedute, a me pare che egli non superi di molto ne’ sentimenti gli altri poeti di questo tempo, nè di molto sia loro inferiore nelP eleganza. Egli, secondo l’Ugurgieri (Pompe sanesi p. 548), morì a’ 3 di gennaio del 1 XVlll. Di mezzo a questi poeti, de’ quali comunemente non ci son rimasti che brevi componimenti , uno ne abbiamo che volle levarsi più alto, e come Dante avea corso nella sua Commedia P Inferno, il Purgatorio e il Paradiso, così egli intraprese di correre il Mondo tutto, e di darcene in versi una fedel descrizione. Ei fu Bonifacio ossia Fazio degli Uberti fiorentino di patria. Filippo Villani ne ha scritta la Vita , in cui, dopo aver detto ciò ch’egli ci permetterà di non credergli , cioè ch’ei discendea da Catilina, soggiugne: fu figliuolo di Lupo (o come altri vogliono di Lapo figliuol del celebre Farinata degli Uberti) e fu uomo a’ nostri tempi (Fite et ili. Fiorimi, p. 70, ec.) d’ingegno liberale, il quale aW Ode volgari e rimate con Continuo studio attese: uomo certamente giocondo e piacevole, e solo d una cosa reprensibile , che per guadagno frequentava le Tiraboschi, Voi. VL 16 \ [p. 758 modifica]

^58 LIBRO Corti de’ Tiranni, adulava e la vita e i costumi de’ potenti. Ed essendo cacciato dalla patria? le loro laudi fingendo con parole e con lettere cantava. Questi fu il primo , che in quel modo di dire, il quale i volgari chiamano frottole, mirabilmente e con gran senso usò. Ma nella vecchiezza voltosi a miglior consiglio? e imitando Dante y compose un libro a’ volgari assai grato e piacevole del sito e investigazione del mondo, il quale alcuni vogliono dire , che sopravvenuto dalla morte non fornì: nel quale quasi andando in cammino, come Dante e Virgilio , così egli si fa Maestro Solino y il quale libro è assai dilettevole e utile a quegli, che cercano di sapere il circuito e il sito del mondo. Molte cose ridusse in quel? opera appartenenti a verità Storica e a varie materie secondo la distinzione delle regioni e de’ tempi? le quali pienamente compiono la Cosmografia. Contiene eziando molte altre cose degne per la loro eleganza di essere lette, le quali anche perla loro brevità rendono facile la memoria. Questi dopo molti dì della sua vecchiezza modestissimamente passati in tranquillità morì a Verona, e quivi fu seppellito. L esilio dalla patria sostenuto da Fazio, che qui si accenna , è probabile che non fosse a lui intimato personalmente, ma ch’ei soffrisse la pena a cui i suoi maggiori erano stati condennati, come pruova il conte Mazzucchelli (Note al Villani l. cit.). Ma della vita da lui condotta appena sappiamo altro che ciò che qui ne accenna il Villani. In una sua canzone, pubblicata nella Raccolta dei Giunti (l. 9); egli amaramente e disperatamente [p. 759 modifica]TERZO 759 si duole dello stremo di povertà, a cui era condotto; ma non ci accenna alcuna particolar circostanza. Alcuni autori hanno asserito oli* ei fosse solennemente coronato in Firenze; ma non se ne adduce pruova; e non sembra al certo che ciò potesse accadere in questa città in cui pare clf ei non avesse stabil soggiorno. Delle canzoni da lui composte parla il sopraccitato co. Mazzucchelli e il dott. Lami (Novelle letter. 1748); il quale ancora nel Catalogo della Riccardiana ne ha pubblicata una che per altro già vedeasi stampata dopo la Bella Mano di Giusto de’ Conti. Ma la più celebre opera da lui composta è quella sopraccennata, in cui egli prese a imitar Dante, e che s’intitola il Dittamondo, ed è divisa in sei libri. Qual ne sia T argomento, già l’abbiamo udito da Filippo Villani; ma essa non è compita, come ognun conosce leggendola, e come pruovasi da qualche codice a penna % citato dal co. Mazzucchelli e dal Quadrio (t. 6, p. 47)* M primo di questi due scrittori, e prima di lui Apostolo Zeno (Diss. voss. t 1 , p. 23), riflettendo a quei versi di Fazio: Carlo il figliuol coronato dapoi Nel mille trecento e cinquantuno E cinque più t e questo regna ancoi. Dittam. l. 2, c. 30. ne inferiscono di’ egli scrivea a’ tempi di Carlo IV. E ciò è certissimo; ma ancora certissimo che Fazio ragiona in diversi passi in sì diversa maniera, che non è possibile il fissare precisamente a qual tempo egli scrivesse il suo Dittamondo. Nel passo or ora recato ei parla [p. 760 modifica]760 libro della coronazion di Carlo, che però avvenne Donnei i336, com’egli sembra accennare, ma nel 1355. Non molto dopo (l. 3, c. 4) , parlando della città di Milano e de’ Visconti, dice: Tutti questi son morti, fuorchè uno, Cioè Giovanni; questo ne conduce Sì ben, che al mondo non ha pari alcuno; Nè non pur sol del temporale è duce; Ma questa nostra Chieresia dispone Come vero pastor et vera luce. Ora egli è certissimo che Giovanni Visconti, arcivescovo e signor di Milano , morì nel 1354Come potè dunque Fazio parlare di lui ancora vivente , dopo aver parlato della coronazione di Carlo, seguita solo nel 1355? Inoltre egli parla della venuta del re di Cipri alla corte d’Avignone, come cosa seguita appunto mentr’egli scrivea (l. 4? C. 21) j e questo non si può intendere che del re Pietro, il quale P anno i36a fece un tal viaggio (Rayn. Ann, eccl. ad h. an. n. 18). E poco prima (l. ciL c. i8) indica il re Carlo V, di Francia, succeduto a Giovanni suo padre l’anno 1364Venuti meno quei di questo scudo Filippo de Vab is Signor poi Et Giovanni, el figli noi del qual concludo, Che con gran guerra tiene el regno ancoi. Io confesso che non so come conciliare tai passi così tra loro contrarj , se non dicendo che Fazio pose mano a questo poema circa la metà di questo secolo, e che poscia più volte e per lo spazio di più anni lo andò ritoccando e in alcuni luoghi aggiugnendo ciò eli1 era poscia seguito, e lasciandone altri, quali già aveagli [p. 761 modifica]TERZO 761 scritti. E forse ei travagliava ancora intorno a questo poema l’an 1367. Perciocchè, verso il fine di esso ei dice: Dal principio del Mondo dei sapere , Può seimila anni al tempo, ove hora se’ Con cinqueciento sessanta sei avere. L. 6, c. 8. Non sappiamo di certo qual cronologia seguisse Fazio per poterne raccogliere, qual anno dclT era volgare corrisponda, secondo lui , al detto anno del mondo. Ma questa biblioteca Estense, oltre la rarissima e prima edizione del Dittamondo fatta in Vicenza nel 1474; ne ha un bel codice a penna ornato di pitture e di un anipio coment o , il quale, come dice il comentatore a questo luogo, fu scritto l’an 1435. Or questi dice che in quest7 anno contavansi dalla creazione del mondo 6635 anni, e perciò se il comentatore, come è probabile, seguì la stessa cronologia di Fazio, gli anni del mondo 6566 corrispondono all’an 1367 delT era volgare , ed è probabile che poco appresso morendo Fazio, non gli rimanesse tempo a compiere il suo lavoro. Questo non è certamente paragonabile all’originale cui T autore prese a seguire. È certo però, ch’egli è uno de’ migliori poeti di questa età , in ciò singolarmente che è forza ed energia di stile, e che leggerebbesi ancora con più piacere, se le due edizioni, che sole ne abbiamo, non fossero troppo ingombre di errori. In questo qual eh7 egli sia poema, Fazio ci ha dato ancor qualche saggio della perizia eh7 egli avea così della lingua francese , in cui introduce a parlare un corriere di [p. 762 modifica]762 LIBRO quella nazione (l. 4 y c- 17) > come della provenzale , in cui fa ragionare un pellegrino Romeo, nel qual s’incontra per via (ib. c. 21). Ma di poeti di serio e grave argomento più fecondi saranno gli ultimi anni di questo secolo; e noi ne rammenteremo i più celebri, dopo aver parlato del gran padre della lirica poesia italiana, cioè dell1 immortai Petrarca a cui ora facciam passaggio. XIX. Niuno ha mai avuto sì gran diritto ad aver luogo distinto nella Storia della Letteratura Italiana, quando il Petrarca. Egli ricercator diligente e faticoso raccoglitore delle opere degli antichi scrittori; egli studiosissimo delle storie e delle antichità singolarmente romane, e il primo di cui si trovi memoria che pensasse a formar serie di medaglie imperiali; egli zelantissimo della gloria del nome italiano, e sostenitore fermissimo de’ pregi della comun patria contro la gelosia e l’invidia degli stranieri; egli tra’ primi a promuovere e a propagare in Italia lo studio della lingua greca; egli filosofo, storico, oratore, poeta, filologo, coltivò ad un tempo e promosse i buoni studi d’ogni maniera , e ottenne loro la stima e la protezione di tutti i principi dell1 età sua, a’ quali era singolarmente caro ed accetto. La perfezione a cui la poesia italiana fu per lui sollevata, suol essere il principale argomento degli elogi che ne fan gli scrittori. Io non cederò ad alcuno in lodarlo di ciò. Ma non temerò insieme di dire che quando ancora ei non si fosse giammai rivolto a poetare in lingua italiana, l’Italia dovrebbe pur riconoscerlo ed ammirarlo come [p. 763 modifica]TERZO 7G3 uno de1 più grand’ nomini , di cui ella possa vantarsi. Essa potrà mostrare più uomini quali in una, quali in altra scienza più dotti di lui, ma niuno ne potrà, io credo, mostrare a cui a più giusta ragione convenga il titolo di ristoratore e di padre dell’italiana letteratura. Le cose che qua e là ne abbiamo già dette nel decorso di questo tomo, ne sono chiarissima pruova. Spero pertanto di far cosa non dispiacevole a’ miei lettori, se intorno alla vita di questo grand’uomo io mi estenderò forse più che non abbia mai fatto su quella di alcun altro. La Storia che ne ha scritta l’ab. de Sade, e di cui ho a lungo parlato nella prefazione di questo tomo, mi servirà comunemente di scorta, trattone quando mi avvenga di aver ragione, a mio parere valevole, per discostarmene; e talvolta ancora introdurrò a parlare lo stesso Petrarca, di cui niuno ha mai esposti con più sincero candore i suoi sentimenti (a). XX. Pietro, detto comunemente Petracco o Petraecolo, notaio di Firenze, ed Eletta Canigiani sua moglie furono i genitori di Francesco, che perciò fu detto dapprima Francesco di Petracco, e poscia Petrarca. Essi sbanditi dalla patria, nell’anno stesso i3o2 in cui erane stato esiliato Dante, si ritirarono in Arezzo , cd ivi (<7) Due scrittori ci han dato di fresco nn nuovo Elogio del Petrarca, il sig. abate Rubbi che lo ha inserito nel tomo dodicesimo della sua raccolta di Elogi italiani, e il sig. abate Bettinelli che lo ha pubblicato colle stampe di Padova l’anno 1786, il quale secondo scrittore singolarmente con molta eloquenza descrive i meriti del Petrarca verso ogni genere di letteratura.

a’ 20 eli luglio del 1304 nacque Francesco. Appena era giunto a sette mesi di età, che Eletta sua madre essendo stata richiamala dall’ fsilio ritirossi col fanciullino Francesco a un suo# podere in Ancisa quattordici miglia sopra Firenze, nel qual viaggio poco mancò ch’egli non rimanesse affogato nell’Arno, insiem con colui a cui ne era stato confidato l’incarico. Ivi egli si stette fino a compiuto il settimo anno, dopo il quale passò coi genitori a Pisa, e quindi un anno appresso, perduta ormai ogni speranza di tornare a Firenze, essi postisi in mare, e usciti felicemente da una pericolosa tempesta che incontrarono presso Marsiglia. giunsero col fanciullo alla città d’Avignone: Quivi adunque, dice il Petrarca (ep. ad poster.), alle sponde del Rodano passai la mia fanciullezza sotto la cura de’ miei genitori, poscia, abbandonato alla mia vanità, gli anni giovanili. Ma questo soggiorno fu da più viaggi interrotto. Perciocchè quattro anni intieri mi trattenni in Carpentras piccola città vicina ad Avignone, e postale alC oriente, e in amendue queste città feci nella gramatica, nella dialettica e nella rettorica que’ progressi che F età perme tteva mi, c che far si possono nelle scuole, i quali quanto sogliano essere scarsi, tu puoi ben saperlo, o lettore. Indi passato allo studio delle leggi in Montpellier , e poscia a Bologna, quattro anni vi impiegai nella prima città, tre nella seconda; e tutto udii spiegare il Corpo del Diritto civile. Molti dicevano cK io mi sarei in esso non poco avanzato, se proseguito T avessi Ma appena io mi trovai abbandonato da genitori, che in tutto [p. 765 modifica]TERZO 765 1 abbandonai, non perchè non piaccsscmi V autorità delle leggi, Solo è grandissima e piena di antichità romane. di cui mi diletto non poco; ma perchè V iniquità degli uomini ne ha guasto f uso, e io perciò non sofferiva di apprendere una scienza di cui io non volea fare un infame esercizio, e appena mi era possibile il farlo onesto; e quando pure V avessi voluto9 lamia onestà sarebbe stata creduta ignoranza. Quindi in età di ventidue anni feci ritorno a casa; che • con tal nome io chiamo P esilio mio d Avignone, ove avea passati gli ultimi anni della mia fanciullezza. Cosi parla il Petrarca de’ primi suoi studi. L’ab. de Sade (Meni, pour la vie de Petr. t. 1 , p. 19) avverte giustamente P errore del Tommasini, del Muratori, di Luigi Bandini e di altri, che affermano avere il Petrarca avuto a suo maestro in Pisa il monaco Barlaamo, cui egli non conobbe che molti anni dopo. Ma io penso ch’ei non sia stato più di essi felice nel dargli ivi a maestro Convennole, ossia Convenevole, da Prato, di cui poi dice che di nuovo lo istruì in Carprentras. Filippo Villani, che è il solo tra gli scrittori della Vita del Petrarca, che ci abbia conservato il nome di questo poeta , ci dice solo eh’ei gli (11 maestro non in Carpentras, ma in Avignone (Mehus* Vita Ambr. camald. p. 195); e nelle opere del Petrarca non trovo parola onde raccogliere che il fosse anche in Pisa, o in Carpentras. Ei riprende ancora non men giustamente (p. 37) l’errore di quelli che in Montpellier han dato per maestri al Petrarca Cino da Pistoja e Giovanni d" Andrea, e in Bologna Giovanni [p. 766 modifica]766 lìmo Calderiuo c Bartolommeo d’Ossa; poichè i due primi non tennero giammai scuola fuori d’Italia, e Bartolommeo fu professore, per quanto credesi , non in Bologna , ma in Montpellier, Ma noi abbiam già osservato che anche Cino e Bartolommeo probabilmente non ebber mai a loro scolaro il Petrarca} e io credo inoltre eli’ ei noiì avesse a maestro alcuno degli altri due professori, perciocchè essi erano interpreti del Diritto canonico , ed egli dice bensì di avere studiato il Diritto civile, ma del canonico non fa mai motto; e io non trovo che il solo Domenico d’Arezzo, che dica avere il Petrarca anche a questo studio rivolta la mente (Mehus l. cit. p. ij)7). Questi, come abbiamo udito da lui medesimo, era naturalmente avverso a cotali studj, e tutto il tempo, di cui potea a suo talento disporre , da lui impiegavasi nella lettura di Cicerone, di Virgilio e di altri antichi scrittori di belle lettere. Al qual proposito leggiadro è il fatto ch’egli stesso racconta (Senil. l. 15, ep. 1), e che con piccola diversità narrasi ancor dal Villani (Mehus, l. cit. p. i})6). Petracco, che avrebbe ad ogni modo voluto che suo figliuolo divenisse un solenne dottore, avendo saputo ch’egli in vece del Codice avea di continuo in mano oratori e poeti, entratogli un giorno in camera all’improvviso} e cercatala per ogni parte, e trovati finalmente in un angolo alcuni di cotai libri da lui odiati, presili con dispetto , gii togli al fuoco. Francesco a tal vista non potè rattenersi dal gemere amaramente} e il padre mossone a compassione, e tratti dalle fiamme due di que’ libri già mezzo arsi, cioè [p. 767 modifica]TERZO 767 Virgilio e la Rettorìca di Cicerone, li die’ sorridendo al figlio, e, tienti questi, gli disse, per sollevarti qualche rara volta nel leggerli. L’abate de Sade ci vorrebbe far credere (p. 44) Petracco a tal fine venisse a bella posta da Avignone a Bologna. Ma chi mai gli può credere che perciò solo egli intraprendesse si lungo viaggio? Per altra parte il Petrarca non dice ove tal fatto accadesse; e il Villani ne parla in modo che sembra indicarne la scena, come è in fatti assai più probabile, in Montpellier. XXL Giunto a’ ventiduc anni d’età, cioè l’anno 1326, il Petrarca tornò da Bologna ad Avignone. L’ab. de Sade arreca per principal motivo la morte prima di Eletta sua madre, poscia di Petracco suo padre che un anno dopo le tenne dietro (p. 53 , 54). Io non so ov1 egli abbia trovata l’epoca di queste morti. È bensì certo cheamendue morirono verso questo tempo, poichè il Petrarca dice che dopo la loro morte abbandonò gli studi legali: il che accadde appunto in quest1 anno. Ma a me sembra più verisimile che Petracco morisse mentre Francesco era ancora in Bologna , e che egli tornato allora in Avignone , assistesse non molto dopo alla morte di Eletta. Ei certamente ne’ versi con cui formonne l’elogio, ci parla in modo che parmi troppo evidente a persuadercene. Versiculos tibi nunc totidem , quot praebuit annos Vita, damus; gemitus et caetera digna tulisti, Dum stetit ante oculos feretrum miserabile nostros, Ac licuit gelidis lacrimas infundere membris. Carm. l. 1 , ep. 7. Avrebbe egli il Petrarca così parlalo , se ei fosse [p. 768 modifica]768 LIBRO stato assente, mentre Eletta morì? Tornato ad Avignone insieme col suo fratello Gherardo pochi anni più giovane di Francesco, e finallora suo compagno negli studj, trovandosi in uno stato assai mediocre, e fatto ancora peggiore dalla infedeltà degli esecutori del testamento paterno (Senil. l. 15, ep. 1), si arrolarono amendue nel Clero, paghi però della sola tonsura. Era ivi allora Jacopo Colonna, che fu poi vescovo di Lombes, figliuol di Stefano, il quale nelle famose discordie con Bonifacio VIII erasi con tutta la famiglia ritirato in Francia. Jacopo avendo avuta occasione di conoscere e di trattare il Petrarca, lo onorò della sua amicizia; e in tal maniera si strinse egli alla famiglia de’ Colonnesi con quel sincero attaccamento che in tutto il tempo ch’ei visse, non venne meno. Con tale appoggio avrebbon potuto i due fratelli avanzarsi agevolmente nella via ecclesiastica; ma non pare che essi nc fosser molto solleciti; anzi all’abito chericale non troppo corrispondevano i lor costumi. Tu ben ti ricordi, scriveva egli più anni dopo a Gherardo , quando questi già da sette anni erasi renduto monaco certosino , quanto noi fossimo allora ansiosamente solleciti per la pulitezza de’ nostri abiti; qual fosse la noja nel vestirci e nello spogliarci mattina e sera; quale il timore che i cape gli noji si scomponessero, e che dal vento non venisser turbati e sconvolti; che i passeggieri non ci urtassero, non ci macchiasser le vesti, non ne sconciasser le pieghe... Che dirò io delle scarpe? Come ci straziavano i piedi in vece di coprirli? I miei al certo mi [p. 769 modifica]TERZO 769 sarebbon divenuti inutili, se finalmente non avessi amato meglio di offendere alquanto gli sguardi altrui , che di rovinarmi i nervi e gli articoli (Variar. ep. 28). Cosi egli prosiegue rammentando al fratello l’antica lor vanità, e la soverchia cura che prendevano nell’ornarsi. Con tali disposizioni non è maraviglia che il Petrarca avvenutosi in una donna, che a lui parve di non più veduta bellezza , ne avvampasse d’amore per modo, che per ventun anni gli si mantenne viva la fiamma in seno, nè potè per quanto si adoperasse, sopirla ed estinguerla. XXII. Chi fosse la Laura del Petrarca, si è lungamente disputato da molti ne’ secoli addietro. Alcuni, a’ quali par che i poeti non sappian parlare e scrivere che in senso allegorico , pretesero che il Petrarca non fosse innamorato che della sapienza, e ch’ella fosse la Laura tanto da lui celebrata. Questa opinione era stata sparsa da alcuni fino ai tempi dello stesso Petrarca , come veggiam da una lettera ch’egli scrisse a Jacopo Colonna vescovo di Lombes (FamiL l. 2, ep. 9), il quale su ciò avea con lui scherzato. Ma non giova il trattenersi nel confutare tai sogni. Alessandro Vellutello, che nel secolo xvi fu uno de’ più accreditati comentatori del Petrarca, andossene a bella posta in Avignone per ricercar notizie di Laura; ed avvenutosi, com’egli stesso racconta nella Vita del Petrarca, in Gabriello de Sade, questi volle persuadergli che Laura fosse figlia di Giovanni de Sade, e che essa vivesse fra il 1360 e il 1370 j ma il Vellutello veggendo che quest’epoca non combinava con ciò che nelle sue rime [p. 770 modifica]jno LIBRO ne dice il Petrarca, non fece alcun conto di ciò che Gabriello diceagli. Ei si abboccò ancora con Aimaro d’Ancezunes signore di Cabrieres picciola terra circa cinque leghe lontana da Avignone, e nulla avendone raccolto al suo intento, si die’ a ricercare i registri de’ battesimi di quelle terre; in un de’ quali trovò una Laura figlia di Arrigo di Chiabau signore di Cabrieres, battezzata a’ 4 di giugno del 1314- Il Vellutello non dubitò punto che questa non fosse la sì celebrata Laura, e lieto di tale scoperta, fondò sopra essa il suo alquanto romanzesco sistema dell’innamoramento del Petrarca. Un uomo che avea veduti ed esaminati i luoghi in cui l’amore di questo poeta era, per così dire, nato e cresciuto, e che avea consultati coloro da’ quali potea sperare più accertate notizie, parea che fosse degno di fede} e la più parte infatti degli scrittori ne seguirono i’ opinione. Altri nondimeno fondati sulla scoperta che l’an 1533 si fece del sepolcro di Laura nella chiesa dei Francescani d’Avignone , nella cappella della famiglia de Sade (V. Mém. de la Vie de Petr. t. 1, not. p, 13, ec.), pensarono ch’ella fosse uscita da questa famiglia. Ma finalmente T ab. de Sade esaminando attentamente i documenti del suo archivio , i quali anche sono stati da lui pubblicati (Pièces justificativ.), ha chiaramente provato che Laura era figlia di Audeberto de Noves cavaliere e sindaco d’Avignone, e di Ermessenda di lui moglie } eh’ella era nata nel sobborgo cT Avignone verso il 1308, e che nel 1325 fu data in moglie a Ugo figlio di Paolo de Sade. [p. 771 modifica]TERZO 7JI Noi ci rallegriamo coll’ab. de Sade di sì belle scoperte, delle quali a lui deesi tutta la gloria; ma il preghiamo a non insultarci, coni egli la (t 1 , pref. p. 37); perchè siamo stati sì lungamente ingannati su questo punto. Che potean far di più gli Italiani per risapere chi fosse Laura? Il Vellutello va a bella posta in Avignone, ne chiede notizia a tutti coloro da cui potea sperarle, e nominatamente alla famiglia de Sade. Il medesimo tentativo , ma col medesimo infelice successo , fece l’arcivescovo di Ragusi Lodovico Beccadelli, come ei narra nella prefazione alla sua Vita del Petrarca. Chi dunque dee incolparsi dell’ignoranza in cui sinora noi siamo stati? gl’italiani che non perdonarono a diligenza per averne contentezza? o i Francesi che non conservarono, nè seppero darci esatte notizie di un fatto tra loro accaduto? L’abate de Sade ci rimprovera che noi siam troppo attaccati alle nostre opinioni, e che non sappiamo indurci a cedere all’evidenza quando, quand’essa si scuopre di là dall’Alpi. Ma di grazia: era forse stato in Francia alcuno prima di lui, che provasse con evidenza ciò ch’egli ha provato intorno alla famiglia di Laura? Come dunque potevan gli Italiani cedere a uri evidenza che ancor non v’era? Dappoichè egli ha evidentemente provato chi fosse Laura, io non so che siavi stato in Italia, che abbia ripetuti gli antichi errori. Appena era uscito il primo tomo di queste Memorie , che il sig. Giuseppe Pelli , formando l’elogio del Petrarca nel primo tomo degli Elogi degli illustri Toscani, ne parlò con gran lode, e fece applauso alla scoperta fatla [p. 772 modifica]772 LIBRO dall7 ab. de Sade. Io ancora ben volentieri cedo a questa evidenza, benchè essa si sia scoperta di là dall Alpi- Ma a me sembra che l1 abate de Sade abbia a fare con più ragione a’ suoi Francesi il rimprovero che sanza ragione fa agl’Italiani. In un’opera, stampata in Parigi tre anni dopo la pubblicazione del primo tomo delle sue Memorie, non solo si torna a ripetere francamente che Laura fu figlia di Paolo de Sade (Vies des Homm. et des Femm. ili. d Ital. à Paris 1767 , t 1, p. 1.48), ma si producon di nuovo con ammirabile sicurezza tutti gli errori che l’ab. de Sade avea già confutati. Sono elleno dunque si poco conosciute in Francia le Memorie dell’ab. de Sade? o sono eglino sì difficili i Francesi a cede/v all evidenza, ancor quando ella si scuopre loro da’ lor medesimi autori? XXIIL Tale adunque fu 1’oggetto del lungo amore e dei versi teneri del Petrarca. Egli si avvenne in lei nella chiesa di S. Chiara in Avignone a’ (6 di aprile del 1327 (come da varii passi dell’opere del Petrarca pruova evidentemente l’ab. de Sade, e come prima di lui avea asserito il Beccadelli (Vita del Petr.) seguito da altri; giorno in cui quell’anno cadde il lunedì santo, e non il venerdì, come sembra accennare il Petrarca in due luoghi (son. 3, 48) i quali si posson perciò e si debbono intendere non del giorno di venerdì, ma del giorno sei cf aprile in cui poteasi con qualche ragione affermare che fosse morto il Divin Redentore (V. Meni, pour la vie de Petr. t. 1 , p. 137). Molti scrittori ci parlano dell’amor del Petrarca, [p. 773 modifica]TERZO 7^3 come di un perfettissimo amor platonico che altro oggetto non avesse che le virtù di Laura; altri ce ne ragionano come di amore , di cui il Petrarca non si occupasse che poetando (*). (*) L’opinione che puro fosse e virtuoso l’amor del Petrarca per la sua Laura, trovò seguaci anche mentr’ei vivea. Così raccogliamo da una opera inedita , di cui due copie scritte, per quanto sembra, prima della metà del xv secolo, una in pergamena , l’altra in carta, conservansi in Milano presso l’eruditissimo sig. abate D. Carlo de’ marchesi ’1 rivulzi , che di codici antichi e di ogni genere di bei monumenti, singolarmente de’ bassi secoli, ha fatta una ricca e sommamente pregevol raccolta. Essa è intitolata s Rosario odor di vita , ed è divisa in ottantaqnatlro capi, dall’undecimo de’ quali si scuopre che l’autore scrivea nel 1373, cioè un anno prima che il Petrarca morisse. Chi egli sia, è ignoto; ma il costume ch’egli ha di citare alcuni autori domenicani, nominando l’Ordine a cui appartennero, può darci una benchè tenue congettura per credere che dell’Ordine stesso fosse egli pure; e la purezza della lingua con cui egli scrive, benchè con poco esatta ortografia, potrebbe ancor persuaderci eli’ ei fosse toscano. Or nel capo ottaotadue, intitolato Luxuria, dopo aver mostrato quanto abbominevole sia questo vizio, entra a cercare se debbansi riprovare molti valenti uomini perchè furono amanti di qualche donna. E risponde che no, perciocchè l’amor loro suole aver fondamento nella virtù, e dopo averne recato qualche esempio, così continua: Ma pur Messer Francesco Petrarca, che è oggi vivo , hebe un amante spirituale appellata Laura , che sempre nomina in tutti soi Sonetti et Canzoni , che lì fa; et ha dicto elli, che lei è stato cagione de tutto l’honore, c/.*? ha ricevuto nel mondo. Or non sarei, die* elli, non sarei ingrato t j’io non manifestasse Lei, come la fatto a me, e non solamente in la vita, ma dopo morte? Però, poichè ella mori y gP è stato più fedele che mai, et ali data tanta fama, Tuuboscui, Voi. VI.

E io son ben lungi dal credere che o egli tentasse mai cosa che offender potesse l1 onestò di Laura, o questa gli corrispondesse in modo che a virtuosa matrona non convenisse. Ma che r amor del Petrarca fosse una vera e impetuosa passione che ne agitava l’animo, e ne turbava continuamente la pace, non può rivocarsi in dubbio da chiunque legga, non dirò già le poesie , nelle quali potrebbe credersi eli’ ei volesse poeticamente scherzare, ma le sue Lettere e le altre opere latine, nelle quali parla seriamente, e sinceramente espone lo stato dell’animo suo. Egli è ben vero che il Petrarca medesimo si lusingava che il suo amore fosse innocente j e eli’esso anzi gli avesse giovato non poco a sollevarsi coll’animo al Cielo c a Dio; ed anche nella sua lettera alla posterità chiama il suo amore veementissimo , ma unico ed onesto (t i Op.). Ma egli stesso poi è costretto a concedere che questa non era che una lusinga; e che il suo amore era ben lungi dall’essere così virtuoso , coni’ ei pretendeva. E non si può leggere senza un dolce senso di tenerezza il terzo che la sempre nominata , et non morirà mai. Et questo è quanto al corpo; po’ li ha fatto tante limosine, et facte dire tante Messe et Orationi con tanta devotione, che s’ella fosse stata la più cattiva femina del mondo, C avrebbe tratta dalle mani del Diavolo, benchè se raxona, che morì pure santa. Così nel codice cartaceo, a cui è conforme V altro in pergamena , se non che vi è alquanto più corretta l’ortografia. E vuolsi avvertire che è questo, per quanto io sappia, il sol monumento da cui raccolgasi che il Petrarca, dopo la morte di Laura , procurasse divotamente di suffragarne V anima con limosine e con Messe. [p. 775 modifica]TERZO 775 de’ suoi dialogi con S. Agostino, da lui scritti T anno i343, cioè cinque anni prima della morte di Laura, in cui egli si fa a disputare col Santo, e a volergli provare l’innocenza del suo amore; ma alf udirsi schierare innanzi da lui tutti gli effetti che ne seguivano , l’inquietudine, la turbazione, il trasporto, le veglie, la noja d’ogni cosa, confessa sinceramente eh1 egli è avvolto in un laccio pericoloso, e chiede ajuto ad uscirne. Deesi però confessare, a onor del Petrarca, ch’egli stesso non tardò molto a conoscere che la sua passione abbisognava di freno, e a cercarne gli opportuni rimedj. Ecco com’ei ne ragiona in una lettera scritta l’an 1336 al P. Dionigi da Borgo S. Sepolcro agostiniano e professore nelP università di Parigi, da noi altrove già nominato. Io diceva a me stesso: oggi si compie il decimo anno, dacchè , abbandonati i fanciulleschi studj, partisti da Bologna. Dio immortale! qual cambiamento de’ tuoi costumi è in questo frattempo accaduto! Sono ancora troppo lungi dal porto per potere ricordare sicuramente le passate procelle. Verrà forse un giorno in cui rammenterò le cose con quel! ordine stesso con cui sono avvenute, dicendo prima col tuo S. Agostino: io vuo’ ricordarmi le antiche mie debolezze, e le vergognose passioni dell9 animo mio, non perchè le ami ancora, ma per amar voi, mio Dio. Molto, egli è vero, ancor mi rimane di pericolo e di fatica: io più non amo ciò che ho amato in addietro: ma no: pur troppo io C amo ancora, ma l’amo con più modestia, con più contegno; sì; io amo ancora, quasi mio malgrado io [p. 776 modifica]<776 LIBRO amo; amo sforzatamente; amo piangendo e sospirando , e provo in me quel detto di Ovidio: Odero, si potero; si non, invitus amabo. Non è ancor passato il terz anno, dacché quella rea e perversa passione, che solo tutto mi occupava e mi regnava nel cuore, ha cominciato a sentire una nemica che la combatte; e già da gran tempo esse sono in guerra tra loro. Quindi, dopo aver dette più altre cose su questo argomento, e dopo aver fatta menzione del libro delle Confessioni di S. Agostino, che da Dionigi avea ricevuto, e che sempre portava seco, conchiude: Tu vedi adunque, Padre amantissimo, come io non voglia nasconderti cosa alc una; mentre non solo sinceramente ti espongo tutta la mia vita, ma tutti ancora i miei pensieri, pe’ quali prega Dio, di grazia, eh1 essi una volta si rendano stabili e fermi, e che, dopo essersi instabilmente aggirati per tanto tempo fra tanti oggetti, si volgano finalmente a quello eh’ h il solo, vero, stabile e certo bene (Famil. l. 4? ep. i). XXIV. Fra i mezzi che il Petrarca usò a combattere la sua passione, uno fu il frequente viaggiare per allontanarsi dall1 oggetto cui gli pareva di non poter non amare , e cui non poteva amare senza sentirsi il cuore agitato e sconvolto. E di questo mezzo perciò ancora valeasi volentieri , perchè era adattato a secondare la sua avidità di apprendere quanto potea sapersi, e conforme a una certa sua impazienza che non lasciavalo fissar soggiorno stabile in alcun luogo. L’anno i33o andossene [p. 777 modifica]TERZO 777 a Loinbcs con Jacopo Colonna che ne era stato eletto vescovo, ed ivi si strinse in amicizia con Lello di Stefano di antica e nobil famiglia romana , e con un Fìammingo di nome Lodovico, co’ quali poi ebbe continua corrispondenza il Petrarca, che uno chiamò sempre col nome di Lelio, T altro con quel di Socrate per la gravità de’ costumi che in lui scorgeasi. Dopo avere ivi passata la state, e parte dell’autunno, lo stesso vescovo il ricondusse ad Avignone, e introdusselo nell’amicizia del Cardinal Giovanni Colonna suo fratello, che fu poscia sempre splendido protettor del Petrarca, e nella cui casa egli ebbe occasion di conoscere i più dotti uomini che allor si trovavano, o che per qualche motivo venivano ad Avignone. Più lungo e più gradito all’erudita curiosità del Petrarca fu un altro viaggio eh* ci lungamente descrive nelle sue Lettere (ib. L 1 , ep. 3, 4)- Fallito da Avignone, l’anno 1333, andossene a Parigi, e vi si trattenne non pochi giorni; quindi, entrato nelle Fiandre, vide Gand e Liegi; poscia in Alemagna, Aquisgrana e Colonia; e di là tornossene per Lione ad Avignone, ove trovò partito per Roma il vescovo di Lombes. L’abate de Sade dice che il Petrarca confessa che fece sì frettolosamente un tal viaggio, che non potè osservare cosa alcuna con esattezza (t. 1 ,p. 206). Io non trovo ove il Petrarca dica tal cosa; anzi rifletto ch’ei ci assicura di avere, singolarmente in Parigi, osservata attentamente ogni cosa: contemplatus sollicite mores hominum... singula cum nostris conferens... cuncta circumspiciens videndi cupidus explorandique, ec. (Furnii [p. 778 modifica]778 LIBRO /. i, cp. 3). E frutto di questo osservar diligentemente ogni cosa fu il confessar ch’ei fece che, benchè molte cose magnifiche avesse altrove vedute, non vergogna vasi però di esser nato in Italia; oche anzi questa tanto più sembravagli bella e ammirabile, quanto più lungamente viaggiava (ib.). Soggiornava frattanto il pontefice Giovanni XXII in Avignone; e alcuni autori italiani, come il Muratori e Luigi Bandini nelle lor Vite del Petrarca, affermano che questo pontefice il fece suo segretario e lo adoperò in gravi affari. L’ab. de Sade il riprende con ragione d’errore (t 1, p. 255); ma ei poteva aggiugnere che in tale errore non è caduto il Beccadeìli che è il più esatto e il più giudizioso scrittore della Vita di questo poeta. XXV. Morto Giovanni l’anno 1334? ed eletto a succedergli il Cardinal Jacopo Fournier, che prese il nome di Benedetto XII (a), il Petrarca cominciò in questa occasione a fare ciò che usò poscia frequentemente, cioè a rivolgersi or co’ suoi versi, or colle sue lettere a’ pontefici , agl’imperadori e ad altri sovrani, e a (a) Io non reputo degno di seria confutazione lo scandaloso romanzo che Francesco Filelfo ebbe V impudenza di pubblicare nel suo comento sulle Rime del Petrarca, stampato in Milano l’anno 14^)4 ^ ove» c°orientando la canzone Alai non i/o’ più cantar, ec. , descrive gli amori di Benedetto XII con Selvaggia pretesa sorella dello stesso Petrarca, fomentati dal eomun fratello Gherardo. Se ne può vedere la descrizione presso P ab. de Sade (Aleni, pour la vie de Petr. 1. 2. p. 67), il quale osserva che anche il Chnufepic ha rigettala questa favola da altri autori protestanti troppo facilmente adottata. [p. 779 modifica]TERZO 779 rappresentar loro liberamente V oppressione in cui giaceva l’Italia, per muoverli a pietà di essa, e per impetrarle soccorso. Scrisse egli dunque una lettera in versi latini al nuovo pontefice, in cui introduce Roma che gli espone il compassionevole stato in cui si ritrova , e il prega a volerle render P onore delP apostolica sede (l. 1 , carm. 2). Ma non era ancor giunto per Roma il tempo di rivedere i suoi pontefici. Io non parlerò qui nè del difender ch’ei fece presso il suddetto pontefice la causa di Azzo da Correggio mandato dagli Scaligeri ad Avignone V anno 1335 per ottener loro la conferma della signoria di Parma, nè del breve viaggio ch’egli intraprese l’anno seguente al Monte Ventoso; poichè non è mia intenzione di andar ricercando ogni più leggera circostanza della vita del Petrarca, come ha fatto P ah. de Sade. A me basta d1 accennarne le cose più acconce a darcene una giusta idea. Ma tra queste non vuolsi omettere un fallo in cui egli cadde, e di cui fu frutto un figlio che nacquegli, e al quale die’ il nome di Giovanni. L’ab. de Sade ne fissa la nascita ne’ primi mesi del 1337 (t 1, p. 313), osservando, a ragione, che fu scritta agli 8 di giugno del 1361 la lettera in cui il Petrarca ne racconta la morte, e in cui dice eli1 ei non avea ancor compiuto il xxiv anno di età (Senil. /. 1 , ep. 2). Ei riflette ancora che questo figliuol del Petrarca è stato sconosciuto finora a tutti i biografi e a tutti gl1 interpreti del Petrarca. Nè è a stupirsene, poichè questi in tutte le lettere (in quelle almeno eli* io ho vedute stampate) non gli dà mai altro nome [p. 780 modifica]780 LIBRO che quello di suo giovane: meus adolescens; parole che potean essere intese in qualunque altro senso. E forse lo stesso ab. de Sade non l’avrebbe scoperto , se non avesse trovato ne’ Registri di Clemente VI il Breve, con cui questi, non l’anno 1347? com’egli afferma (t. 2, p. 373), ma nel seguente, essendo esso segnato a’ 9) di settembre del settimo anno del suo pontificato, lo abilita, non ostante il difetto della sua nascita , ad entrare negli ordini sacri, e a godere di qualunque beneficio ecclesiastico. In questo Breve, che dall’ab. de Sade è stato pubblicato (Pièces justific. p. 49)? egli è detto Giovanni di Petrarco scolaro Fiorentino, e nato de soluto et soluta. Assai sollecito fu il Petrarca per P educazione di questo suo figlio, e ne abbiamo in pruova alcune lettere da lui scritte ne’ seguenti anni a Gilberto e a Moggio da Parma (Famil l. 7 , cp. 17 j Variar ep. 20), a’ quali aveane confidato a coltivare P ingegno. Ma pare eli’ egli non corrispondesse abbastanza alle intenzioni del padre, il quale, come si è detto, lo perdette per morte l’anno i36i. XXVI. Prima di aver questo figlio, egli avea fatto il primo suo viaggio in Italia. Partito di Francia verso la fine del 1336(giunse per mare a Civitavecchia, e quindi a Capranica, ove, (passati alcuni giorni con Orso conte d’Anguillara , entrò in Roma sul principio di febbrajo dell’anno seguente, e vi ebbe da’ Colonnesi quell’amorevole accoglimento che dalla loro amicizia poteva attendere. Trattenutovisi per qualche tempo, ch’egli impiegò singolarmente nel visitare i venerandi monumenti d’antichità, [p. 781 modifica]TERZO 781 clic «incora l’adomano, ne partì, e dopo aver lungamente viaggiato in diversi paesi per terra e per mare affin di estinguere, se veniagli fatto, la fiamma di cui ardeva (l. 1, carm. 7), tornossene finalmente , nella state dello stesso anno i ’òò-j 9 in Avignone. Ma sentendo accendersi sempre più vivo il fuoco ch’egli avrebbe voluto sopire, determinossi in quest’anno medesimo a ritirarsi nella solitudine di Vaichiusa, eli1 egli ha renduta sì celebre co’ suoi versi non meno che colle sue prose. Egli vi comperò una piccola casa e un piccol podere, che fecero per più anni le sue delicie. Alcuni scrittori ci hanno rappresentata Vaichiusa (a) come il luogo in cui la virtù del Petrarca fece naufragio coll’innamorarsi di Laura; ma è certo, e ne abbiam mille pruove nelle sue Lettere, eli1 egli anzi vi si ritirò per combattere e superare la sua passione. L’ab. de Sade reca più lettere del Petrarca (t. 1, p. 345) in cui egli descrive la solitaria e tranquilla vita che vi conduceva. (a) tonami a una edizion del Petrarca , falla nel secolo xv, e posseduta in Bergamo dal coltissimo cavaliere sig. Giuseppe Bcltramelh , leggesi un epigramma di esso in lode di Vaichiusa, che, non avendo io trovato stampato in alcun luogo , ho voluto qui pubblicare. Epi. Frnnc. P. de Falle Clausa y quae nunc dicitur Falle Chiasma non longe ab Avinione. Valle locus clausa toto mihi nullus in orbe Gralior aut nullis aplior ora meis: Valle puer clausa fueram , juvenrinque reversum Fovit in aprico vallis amena sinu. Valle vir in eiausa meliore?, dulciter annos Exegi et vitae candida fila rneae. Valle sene* riausa supremum ducere tempus Et clausa cupio, tc duce, Valle mori. [p. 782 modifica]782 libro Ma in mezzo alla solitudine ancora le sue fiamme faceansi sempre più ardenti. Io soleva, scrive egli a un suo amico (Famil l 8, ep. 3), ritirarnii nell età mia giovanile a Valchiusa, sperando di mitigare fra quelle fresche ombre l’ardore di cui tu ben sai che per molti anni sono stato compreso. Ma oimè! che gli stessi rimedii mi si volgevano a danno. Il fuoco eh* io uvea meco recato, ivi ancor si accendeva , e non essendovi in sì solitario deserto chi m aiutasse ad estinguerlo, faceasi sempre più impetuoso. Quindi a sfogarlo io andava riempiendo di pietosi lamenti, i quali però ad alcuni sembravan dolci} le valli e ’l cielo. Quindi ne vennero le mie giovanili poesie volgari, delle quali ora pruovo pentimento e rossore, ma che pur sono accettissime a coloro i quali dallo stesso male sono compresi. La vicinanza di Cavaillon, piccola città lontana due leghe da Valchiusa e quattro da Avignone , gli diè occasione di conoscere Filippo di Cabassole che n1 era vescovo , e con cui poscia tenne frequente commercio di lettere; ma non vi è pruova, come avverte T ab. de Sade (t. 1, p. 365), di ciò che il Muratori ha asserito, che in quella chiesa avesse il Petrarca un canonicato. « Ben ne ebbe uno in Lombes, per opera probabilmente del vescovo Giacomo Colonna suo amico, e ne fa menzione egli stesso in una delle sue lettere (Fornii. l. 4? ep. 6) ». Non era però egli sì attaccato alla sua solitudine che non tornasse di tanto in tanto ad Avignone, e non vi si trattenesse or più or meno; e appunto in una delle sue dimore in questa città ei si valse, [p. 783 modifica]TERZO 2^ come altrove abbi am detto, del venire che fece a quella corte il monaco Barlaamo, per apprendere sotto la direzione di lui la lingua greca. XXVH. La solitudine di Valchiusa fu quella in cui il Petrarca compose non solo una gran parte delle sue Rime , ma molte ancora delle sue Lettere così in versi come in prosa latina, e molte delle sue Egloghe. Ivi ancora negli anni seguenti egli scrisse i suoi libri della Vita solitaria e della Pace de’ Religiosi, come egli stesso a (Ter ma nella lettera poc’anzi citata. Ma ivi singolarmente, l’an 1339), ei diede principio al suo poema dell’Africa, che finì poscia più anni dopo. Un poema a quell1 età era una cosa sì rara, che dovea destare ammirazione verso F autore in chiunque udivane il nome; e lo stile in cui il Petrarca lo scrisse, benchè or ci sembri ben lungi dall’eleganza del secol d’Augusto, era però allora il più colto e il più sublime che dopo molti secoli si fosse veduto. Quindi appena ne corse la fama, mentre il Petrarca non aveane fatta che piccola parte, e appena furon vedute le altre latine poesie da lui composte, egli divenne l’oggetto dell’universal maraviglia, e per poco non fu creduto un uomo divino. Dionigi da Borgo s Sepolcro andato frattanto a Napoli fece conoscere al re Roberto il nome e l’opere del Petrarca; e questo gran principe, che di niuna cosa pregiavasi maggiormente che della protezione de’ dotti, gli scrisse una lettera in cui inviavagli l’epitafio da sè composto per Clemenza sua nipote reina di Francia, allor morta, come raccogliam dalla lettera eli e in risposta [p. 784 modifica]784 IJBRO gli scrisse il Petrarca (Famil l. 4, ep. 3). Ma questo non era che un saggio degli onori che Roberto gli destinava. Era. già da più secoli cessato l’uso di ornare solennemente del poetico alloro nel Campidoglio di Roma que’ tra’ poeti, che salissero a maggior fama; uso antico tra i Greci, quindi introdotto in Roma da Nerone e da Domiziano, come altrove abbiam detto (t 2, p. 52, 66), e poscia nella decadenza degli studi venuto meno. Di questo uso ha lungamente parlato l’ab. du Resnel in una sua erudita dissertazione (Mém. de l’Acad. des Inscr. t 10) in cui afferma che i giuochi Capitolini cessarono al tempo di Teodosio, di cui abbiam noi pure trattato a suo luogo (t. 2, p. 286, ec.). L’ab. de Sade , al contrario , sostiene (Mem. pour la vie de Petr: t. 2, not. p. 10) che comunque i giuochi Capitolini continuassero fino al tempo di Teodosio, non continuò però l’uso di coronare in essi i poeti, e che non si trova menzione di poeta alcuno coronato nel primo e nel terzo secolo. Ma noi abbiamo altrove provato, col testimonio di un’antica Iscrizione (l. dtp. 99), che l’anno 106 Pudente giovin poeta fu in que’ giuochi onorato della corona; e poichè è certo, per testimonianza di Censorino, come si è dimostrato (ib. p. 286, ec.), che l’anno 283 celebrati furon que’ giuochi, e che in quel tempo medesimo erano in Roma contese e sfide di molti poeti, egli è troppo probabile che l’uso ancora di coronare non fosse se non più tardi abolito. Certo è però, che dopo la decadenza dell’impero romano non troviam più memoria di tale [p. 785 modifica]TERZO 785 onore conferito ad alcun poeta. Al primo risorgimento delle scienze e dell’arti, nel secolo XIII, si vide ancora risorgere in qualche modo questa onorevole cirimonia, e noi ne abbiamo veduto nel quarto tomo di questa Storia qualche esempio; e altri ne vedremo fra poco, che prima ancor del Petrarca furono coronati. Ma niuno ricevuto avea la corona nel Campidoglio, e con quella solenne pompa che anticamente era in uso. Il Petrarca, che per una parte non era insensibile alle lusinghe di una sì gloriosa coronazione, e per l’altra desiderava assai di veder Roma risorta all’antica grandezza, già da lungo tempo bramava di giugnere a questo onore , e a ciò singolarmente indirizzava i suoi studi e le erudite sue fatiche. Chi crederebbe che ad accendere nel cuore del Petrarca un tal desiderio non poco contribuisse il nome della sua Laura, e che più dolce gli riuscisse il pensiero della corona , perchè ella doveva esser di lauro? E nondimeno così confessa egli stesso, colf amabile sua sincerità, ne’ suoi dialogi con S. Agostino , nei quali introduce il Santo che gli rimprovera cotal debolezza (Op. t 1, p. 403). Così la sua passione medesima rendevalo più ardente ne’ suoi poetici studj, e facealo usar d’ogni sforzo per giugnere a quell’onore a cui aspirava. XXVIII. Mentre ei si occupava in un tal pensiero, ecco giugnerli improvvisamente a’ 23 d’agosto agosto 1340, lettera dal senato romano, in cui egli era invitato e caldamente esortato a venirsene a Roma a ricevervi la corona d’alloro, e poche ore appresso un’altra lettera di [p. 786 modifica]786 Liuiio Roberto de’ Bardi cancelliere dell’università di Parigi, in cui pregavalo a voler ricevere lo stesso onore in quella città reale. Chi può spiegare il trasporto e la gioja del Petrarca nel vedersi invitato da due sì grandi città a ciò eli’ egli sì ardentemente bramava? Dubbioso a qual di esse dare la preferenza , ne scrisse il giorno medesimo al Cardinal Colonna (Meni, pour la vie de Petr. t 1 , p. 428&, ec) Per averne consiglio; e quindi, seguendo il parere da lui avuto e la sua medesima inclinazione , determinossi per Roma. Prima però credette opportuno di sottoporsi in certo modo a un esame che il provasse degno di tant’onore, e a tal fine egli scelse il più dotto monarca che allora avesse il mondo , cioè Roberto re di Napoli, alla cui corte egli giunse ne’ primi giorni di marzo del 1341 - Ognuno può agevolmente immaginare quale accoglienza un sì grand’uomo vi ricevesse da un sì grande sovrano. I loro ragionamenti erano sempre di lettere e di scienze; e come il! Petrarca di questa occasione si valse ad istillare nell’animo di Roberto stima ed amor de’ poeti e della poesia , a cui egli non erasi mai applicato, così Roberto mostrò desiderio che il Petrarca gli dedicasse la sua Africa, come infatti egli fece, benchè il re morisse prima di vederla compita. L’esame a cui Roberto lo sottopose, non per assicurarsi del saper del Petrarca , ma per dargli campo di farne pubblica pompa, durò tre giorni, e ne furono argomento i discorsi d’ogni maniera di scienza, che il Petrarca tenne innanzi a tutta la corte; dopo i quali Roberto dichiarollo solennemente degno [p. 787 modifica]TERZO 787 della corona; e inoltre diedegli l’onorevole titolo di suo cappellano , che gli fu poi confermato dalla regina Giovanna (Thomasin. Petrarch. rediv. p. 65). Egli ne lo avrebbe voluto ornare di sua mano in Napoli; ma, udite le ragioni per cui il Petrarca amava che ciò seguisse in Roma, approvolle, e destinò Giovanni Barili suo cortigiano, e valoroso poeta esso pure, ad assistere in suo nome alla solenne cerimonia. Ma questi postosi a tal fine in viaggio, caduto in un’imboscata tesagli da’ nemici , e a gran pena campatone, dovette tornarsene a Napoli. Frattanto giunto essendo a Roma il Petrarca , Orso conte di Anguillara, senator di Roma e amicissimo del Petrarca, destinò a questa sì straordinaria celebrità il giorno stesso di Pasqua, che in quell’anno cadeva negli otto di aprile. Io non mi tratterrò in descrivere le circostanze con cui il Petrarca fra gli applausi di tutto il popolo romano, e fra ’l corteggio di molti de’ più ragguardevoli signori di quella città, ricevette dalle mani di Orso nel Campidoglio la corona d’alloro. Se ne può vedere la descrizione presso tutti coloro che ne hanno scritta la Vita, e singolarmente presso l’abate de Sade (t. 2, p. 2, ec. not p. 1, ec.). Solo è ad avvertire che una più lunga relazione che, sotto il nome di Sennuccio del Bene, poeta contemporaneo al Petrarca, ne fu pubblicata l’an 1549, è certamente supposta, come fin d’allor riconobbe l’arcivescovo Beccadelli, e come di nuovo ha provato il suddetto ab. de Sade, il quale dopo altri, ha ancor pubblicate le lettere patenti in quella occasione date al Petrarca (Pieces [p. 788 modifica]788 LIBRO justific. p. 5o, ee.). Egli però non ha avvertita una circostanza (di questa coronazione, che trovasi in un antico Diario romano pubblicato dal Muratori (Script. rer. itai t. 3, pars 2, p. 843): In nelli MCCCXLI fo laureato Messer Francesco Petrarca, esaminato per lo Re Roberto, in presenza dello popolo de Roma, et foroli posta una corona in capo per lode delli Poeta, e Messer Stephano (Colonna) inSancto Apostolo diè a mangiare ad esso et a tutti i laureati legatori XXIX. Lieto di aver finalmente conseguito il sospirato onor della laurea , partì il Petrarca pochi giorni appresso da Roma, e venuto a Parma vi si trattenne il rimanente di quest’anno e alcuni mesi del seguente co’ Correggeschi suoi protettori ed amici, che ne eran signori, e singolarmente con Azzo, di cui abbiamo altrove veduto quanto onorasse il Petrarca. Ivi ei continuò con indefesso studio il suo poema dell’Africa; e narra egli stesso (ep. ad poster.) che a ripigliare l’interrotto lavoro determinossi un giorno, mentre venuto sul territorio di Reggio trovossi in un bosco che, benchè posto sull’erta di un colle, diceasi Selva piana, e rapito dalla deliciosa veduta che avea sotto gli occhi, si sentì rinascere in seno il poetico ardore, e con tale impegno continuò il suo poema, che in pochi giorni l’ebbe quasi compito. La protezione de’ signori di Correggio fu probabilmente quella che gli ottenne la dignità d’arcidiacono nella chiesa di Parma. L’ab. de Sade afferma che ciò certamente avvenne in quest’anno (t 2, p. 33). Ma ei non ne reca pruova, [p. 789 modifica]TEUZO 789 e a me sembra cli’ei 11011 sia troppo coerente a se medesimo nel ragionare di questa dignità del Petrarca. Perciocchè altrove egli racconta (ib), p. 298) che l’an 1346, essendo morto Filippo Marini arcidiacono e canonico di Parma, Clemente VI diede l’arcidiaconato a Dino d’Urbino, e il canonicato al Petrarca che era bensì arcidiacono, ma non canonico. Or se egli era arcidiacono fin dal 1341, come poteva esser nel medesimo posto Filippo Marini l’anno 1346 e come poteva a lui surrogarsi Dino d1 Urbino, mentre il Petrarca era ancora attualmente arcidiacono? L’ab. de Sade, che ha esaminati i Registri pontificii d’Avignone,poteva rischiarare un po’ meglio questo punto di storia (a). Egli aggiugne ancora (ib. p. 309), citando una lettera inedita del Petrarca , che questi ebbe inoltre un canonicato in Modena , cui poscia rinunciò a un Parmigiano suo amico detto Luca (a) Il cb. P. Affò nel discorso preliminare premesso al tomo secondo delle sue Memorie degli Seri/fori e Letterati parmigiani ha con molta esattezza, secondo il suo costume f corretti i non poc hi ne piccioli errori commessi a questo luogo dal1/ab. de Sade, ed ha prodotta la Bolla di Clemente VI, dell’anno i34fi, dallo scriltor francese sfigurata e travolta. In essa non si parla punto dell’arcidiaconotn, ma si dice solo che conferisce al Petrarca il canonicato ivi vacante per la morte di Pietro Marini. Fu dunque nel 1346 che il Petrarca fu eletto canonico in Parma. Ei pruova poscia coir autorità del Cardinal Francesco Zabarella contemporaneo al Petrarca, che solo nel i35o ei fu eletto arcidiacono della chiesa medesima. Tirahoschi, Voi. VI. 18 [p. 790 modifica]790 unno Cristiani. Dopo aver per lo spazio di un anno abitato in Parma (a), ei fu costretto a tornarsene in Francia l’anno L ab. de Sade dice che non si sa qual motivo a ciò l’astringesse (ib. p. 37)} ma se egli avesse riflettuto a ciò eli1 egli stesso narra non molto appresso (ib. p. 46), cioè ch’ei fu uno degli ambasciadori inviati dal senato e dal popol romano a complimentare il nuovo papa Clemente VI, eletto a’ 7 di maggio di quest’anno medesimo, avrebbe in ciò trovato il motivo del ritorno del Petrarca in Francia; perciocchè io non veggo pruova che egli prima di quel tempo vi si recasse. Egli ebbe a compagno in questa ambasciata il celebre Cola di Rienzi già da noi nominato, e che poscia negli anni seguenti fece al mondo sì grande strepito; e frutto forse di quest’ambasciata fu il beneficio ecclesiastico del priorato di S. Niccolò di Migliarino nella diocesi di Pisa, che Clemente VI in quest’anno gli concedette con suo Breve pubblicato dall’ab. de Sade (Pièces justific. p. 54). Al suo ritorno in Francia ebbe il Petrarca il dispiacere di più non trovare il suo vescovo di Lombes morto qualche tempo innanzi alla sua partenza d’Italia. In quest’anno (a) Dovette il Petrarca, mentre trattenevasi in Parma * o col proprio denaro, o per dono de’ Corrcggeschi, acquistarvi una casa; perciocché in Padova conservasi un documento in cui Francesco da Brossano erede del Petrarca, agli n di decembre del 1affìtta una casa con orto e pozzo, che avea in Panna nella contrada di S. Stefano, e, come sembra, avuta a titolo della detta eredità, a un certo Jacopo del già Bussano cittudiuo parmigiano. [p. 791 modifica]TERZO 791 medesimo , secondo i calcoli del suddetto scrittore (t 2, p. 64 , ec.), egli ebbe il dolore di separarsi dal suo fratello Gherardo che entrò fra i Certosini. Il soggiorno d’Avignone risvegliò in seno al Petrarca la sua antica fiamma per Laura; non però in modo, ch’ei se ne lasciasse distruggere e divorare, senza adoperarsi ad estinguere F ardente incendio. I Dialoghi con S. Agostino, da lui composti nel decimo sesto anno del suo amore (Op. t. 1, p. 398), cioè l’an 1343, ci fan conoscere quanto desiderasse egli stesso di rompere i lacci fra cui trovavasi stretto, e come, benchè cercasse di giustificare, come meglio poteva, il suo amore per Laura, era nondimeno costretto a conoscere e a confessare che la sua passione non era sì innocente, come a prima vista pareagli. A questa confessione così sincera diede forse occasione una nuova caduta ch’ei fece, come ben congettura l’ab. de Sade (l. cit p. 139), in quest’anno, in cui, probabilmente dalla donna medesima da cui avea avuto Giovanni, ebbe una figlia detta Francesca che egli poi diede in moglie a Francesco da Brossano. Egli ci assicura (ep.adposter.) che giunto al quarantesimo anno non solo ebbe orrore, ma perdette ancor la memoria e F immagine di ogni azion disonesta; e perciò la nascita di questa figlia non può differirsi oltre quest’anno che era per lui il trentesimo nono di età, nè può attribuirsi al poco onesto commercio da lui avuto in Milano con una donna della famiglia di Beccaria, come hanno scritto moltissimi (V. Meni, pour la vie de Petr. t. 3, p. 455), degni però di scusa, perchè il vedean narrato [p. 792 modifica]792 Limio ila Girolamo Squarciafichi, che nella Vita del Petrarca racconta di averlo udito da Candido Decembrio, il quale assicurollo che così avea narrato suo padre grande amico del Petrarca. XXX. Clemente VI avea in grande stima la prudenza non meno che il saper del Petrarca, e perciò essendo morto, nel gennajo del 1343, il re Roberto, egli inviollo in suo nome in quest’anno medesimo a Napoli per trattarvi di alcuni affari con quella corte ove regnava allora Giovanna, nipote di Roberto, in età di circa di ciotto anni. Ei trovò Napoli e la corte in uno stato troppo diverso da quello in cui P avea lasciata l’anno 1341 (Famil. l. 5, ep. 3), per l’abuso che della loro autorità faceano quelli che co’ lor consigli governavano la giovine reina. Ei nondimeno vi si dovette trattenere fino alla fine di quest’anno 1343, e allora partitone, sen venne dapprima a Parma , donde uscito ai ventitré di febbrajo dell’anno* seguente , cadde presso Reggio in una imboscata in cui per poco non perdette la vita per una pericolosa caduta da cavallo, com’egli stesso descrive (ib. ep. 10). Ritiratosi con gran pena a Scandiano, e quindi venuto a Modena, passò a Bologna, d’onde, secondo l’ab. de Sade (t. 2, p. 195), ei partì fra non molto per Avignone; e di là tornato nella primavera del seguente anno 1345, venne prima a Parma, poscia a Verona (ib. p. 224). Io confesso che non so indurmi a credere questo viaggio del Petrarca in Avignone; o almeno non veggo quai forti pruove ne arrechi l’ab. de Sade. La coronazione del principe Luigi di Spagna in re delle Canarie, che dal Petrarca si accenna [p. 793 modifica]TERZO 793 (De Vita solit l. 2? sect (6, c. 3), accadde certamente nel novembre del 1344 5 ma ^ ^e“ trarca non dice di esservi stato presente. L’abate de Sade si fonda singolarmente sull1 egloga del Petrarca, intitolata Divortium, cui egli crede scritta all’occasione del partir ch’ei fece nel da Avignone (ecl. 8). Ma in quest’egloga egli dice che già da quattro lustri serviva il Cardinal Colonna: per quattuor inde servio lustra tibi. Or il Petrarca solo nel 1330 avea conosciuto quel cardinale, come confessa lo stesso abate de Sade; e perciò nel 1345 appena compi vasi il terzo lustro. E io credo perciò, che debba differirsi quest1 egloga alla partenza che da Avignone fece, come or diremo, il Petrarca nel 1347, in cui correva il quarto lustro della sua conoscenza col Cardinal Colonna, e che il Petrarca non partisse dall1 Italia che verso la fine del 1345. Clemente VI rividelo con piacere , e gli offrì l1 onorevole impiego di segretario apostolico; ma egli nemico di ogni cosa che rendesselo schiavo, e ora e poscia altre volte se ne sottrasse; e per la stessa ragione non si volle mai prevalere delle liberali offerte che lo stesso pontefice più volte gli fece di sollevarlo a cospicue dignità. Egli avrebbe bramato di viver sempre nella dolce sua solitudine di Valchiusa; ma le amicizie sue co’ personaggi più ragguardevoli d1 Avignone, e gli affari in cui da essi era adoperato non rade volte, ne lo teneano suo malgrado lontano più che non avrebbe voluto. La sollevazione di Cola di Rienzi, da noi altrove accennata, che cominciò ranno 1347? occu~ pollo non poco. Il suo amore e il suo trasporto [p. 794 modifica]794 L1BU0 per Roma gli fece dapprima ravvisare in Cola un eroe che dovea rompere i ferri fra cui giaceva avviata, e richiamarla all’antico splendore; e perciò egli scrisse in quest’occasione quelle eloquenti e patetiche lettere, alcune delle quali si hanno alle stampe tra le sue opere, altre si conservano manoscritte nella real biblioteca di > Torino. Ma poscia ei riconobbe pur troppo che colui non era che un pazzo frenetico, e si vergognò delf errore in cui era caduto, credendolo destinato a ricondurre i tempi della romana repubblica. Nel novembre dello stesso anno 1347, partito da Avignone, sen venne a Genova, e quindi a Parma, e di là, al principio del 1348, a Verona, ove egli avea il suo figlio Giovanni sotto la direzione di Rinaldo da Villafranca; e di qua più probabilmente che non da Parma, come scrive f ab. de Sade (l. cit p. 433) , passò per la prima volta a Padova, e vi conobbe.Jacopo da Carrara, da cui e allora e poscia fu sommamente onorato. Era questo il Funestissimo anno delf universal pestilenza che menò strage sì luttuosa in tutta f Europa. Fra quelli che ne rimasero vittima , fu ancor Laura che morì a’ 5 di aprile, dopo aver fatto tre giorni innanzi il suo testamento pubblicato dalf ab. de Sade (Piéc. justific. p. 83), donna che, se crediamo al Petrarca, a una rara bellezza congiunse una più rara virtù , e che lungi dal fomentar la passione di cui egli per essa ardeva, cercava! col suo esempio di sollevarne l’amore a più nobile e più degno oggetto. Ciò che è certo si è, che si sono troppo ingannati coloro che facendone un assai diverso carattere [p. 795 modifica]TERZO 795 ce F hanno rappresentata come zitella non molto sollecita del suo decoro, e hanno scritto che Clemente VI cercasse d’indurre il Petrarca a prenderla in moglie; poichè dai monumenti pubblicati dall’ab. de Sade evidentemente raccogliesi eh1 ei non prese ad amarla, se non dappoichè ella era già unita in matrimonio a Ugo de Sade. Il Petrarca ne ebbe la trista nuova a’ 19 di maggio, mentre trovavasi in Parma. Ed è facile a immaginare qual dolor ne provasse. La seconda parte delle sue Rime ne fa testimonio, e un’altra memoria ne volle egli lasciare nelle parole che pose in fronte al celebre suo codice di Virgilio, che or conservasi nell’Ambrosiana in Milanoj monumento di cui alcuni han voluto rivocare in dubbio l’autorità, ma che non dee punto sembrare dubbioso dopo la testimonianza di molti prefetti di quella biblioteca, e singolarmente dell’eruditissimo Sassi (Hist Typogr. mediol. p. 377), e dopo le ragioni lungamente recatene dall’ab. de Sade (t 1, not p. 50, ec.). Benchè esso si legga in molti scrittori della Vita del Petrarca, parmi però di non doverlo qui omettere; e io mi varrò dell’edizione fattane più esattamente di tutti, sullo stesso originale, dal sopraccitato Sassi\ Laura propriis virtutibus illustris, et meis longum celebrata carminibus, primum sub oculis meis apparuit sub primum adolescentiae meae tempus anno Domini m. ccc. XXVII die vi mensis Aprilis in Ecclesia S. Clarae A vintone hora matutina. Et in eadem Civitate, eodem mense Aprili, eodem die VI eadem hora prima, anno autem m. ccc.VIII ab hac luce lux illa subtracta est, cum ego forte tiuic [p. 796 modifica]ncfi LIBRO Veronae essem heu! fati mei nescius. Rumor autem infelix per litteras Ludovici mei me Parmae reperit anno eodem mense Majo die xix mane. Corpus illud castissimum atque, pulcherrimum in loco Fratrum Minorum repositum est eo ipso die mortis ad vesperam. Animam quidem ejus, ut de Africano ait Seneca, in Coelum, unde erat, rediisse persuadeo mihi. Hoc autem ad acerbam rei memoriam amara quadam dulcedine scribere visum est hoc potissimum loco, qui saepe sub oculos meos redit 9 ut scilicet nihil esse deberet (quod) amplius mihi placeat in hac vita , et effracto majori laqueo f tempus esse de Babylone fugiendi, crebra horum inspectione, ac fugacissimae aetatis aestimatione commonear, quod praevia Dei gratia facile erit praeteriti temporis curas supervacuas, spes inanes, et inexpectatos exitus acriter ac viriliter cogitanti. XXXI. Più altri amici perdette il Petrarca in questa occasione, e singolarmente il Cardinal Colonna suo gran protettore , che morì in Avignone a’ 3 di luglio. In Parma ei passò il rimanente di quell’anno e quasi tutto il seguente, come confessa lo stesso ab. de Sade (t. 2, p. 38, 48)> il quale per altro avea già asserito (t. 3, p. 38) che il Petrarca non avea passato un anno intero in Parma , che solo ritornando da Roma dopo la sua coronazione. Verso la fine del 1349) egli andossene prima a Carpi a ritrovarvi Manfredi Pio signor del luogo (*), (*) Il passaggio del Petrarca per Carpi, e il suo abboccamento con Manfredi Pio non potè essere nel i34{)t come ha creduto l’ab. de Sade, perciocchè questi era morto nel 1348& a’ 12 di settembre, come ci mostra la [p. 797 modifica]TERZO 797 poscia, al principio del 1350, a Mantova, e vi fu onorevolmente accolto dai Gonzaga che aveano la signoria di quella città , e di là passò a Verona e a Padova, ove Jacopo da Carrara per trattenerlo presso di sè fecegli avere un canonicato. Mentre egli era in questa città, riflettendo allo stato infelicissimo dell Italia che priva della presenza del pontefice e dell1 iinperadore era continuamente sconvolta da gravissime turbolenze, mosso dall1 amore e dal zelo che per essa avea in cuore, scrisse, a’ 24 di febbrajo di quest’anno 1350, una eloquentissima lettera (Op. t. 1 , p. 590) alPimperador Carlo IV, esortandolo a venire in Italia , e sollevarla da’ mali da cui giaceva oppressa -, alla qual lettera rispose tosto l’impera dorè; ma il Petrarca non ne ebbe la lettera che tre anni appresso, e replicogli con altra lettera stampata nell’edizion di Ginevra del 1601, ma di cui ha dato un lungo estratto l’abate. de Sade (t 3, p. 340). Tornato poscia a Parma, determinossi sul finir della state, all’occasione dell’anno santo che allor correva , di fare il viaggio di Roma , e allora fu che andandovi ei vide per la prima volta Firenze sua patria, e vi conobbe personalmente più amici che il suo sapere aveagli conciliati. Una caduta da cavallo, ch’ei fece presso Bolsena, e per cui a stento si potè condurre fino a Roma, costrinselo ivi a guardare lapida sepolcrale pubblicata dal P. Maggi, e < be tuttora leggesi in Carpi: Millrquf trcccntis octo auadrnginta Selfrnbrù Bis luce sexta Manfrcuum duxit ad alla. [p. 798 modifica]■jy8 libuo il lotto por molto tempo. Finalmente, ricuperate le forze , ei si valse di quella occasione non solo per esaminare di nuovo le antichità di Roma , ma ad accendersi sempre più ne’ sentimenti d’una sincera pietà. In una lettera ch’egli scrisse diciassett’anni appresso al Boccaccio, già da molti anni, gli dice (SeniL l 8, ep. 1), ma più perfettamente dopo il giubbileo io rimasi sì libero da quella pestilenza (della disonestà), che ora io f odio infinitamente più che non l amassi una volta; talchè al tornarmene il pensiero alla mente io ne pruovo vergogna e orrore. Gesù Cristo mio liberatore sa, s io dico il vero: egli che, spesse volte da me pregato con lagrime, mi ha porta pietosamente la destra, e a sè mi ha sollevato. Tornato da Roma a Padova sul finir dell’anno vi trovò morto il suo protettore Jacopo da Carrara ucciso da Guglielmo suo parente. Ma egli ebbe in Francesco , che succedette a Jacopo, un mecenate ancor più magnanimo. La vicinanza di Padova a Venezia il condusse talvolta a questa città, ove egli strinse amicizia col celebre doge Andrea Dandolo, e se ne valse a cercare con ogni sforzo, ma con poco felice successo, di riunire in pace quella repubblica con quella di Genova. Frattanto i Fiorentini riconoscendo di qual disordine lor riuscisse, che fosse esule dalla lor patria chi era avidamente cercato da tutte le città d’Italia, risolverono non solo di rendergli i beni paterni già confiscati, ma d’invitarlo ancora alla nascente loro università , c gl’inviaron perciò a Padova il Boccaccio che gli recò a nome di quel Comune l’onorevolissima [p. 799 modifica]TERZO 799 lettera altrove da noi mentovata. Il Petrarca parve dapprima disposto a secondare la brama de’ suoi concittadini, ma cambiato poscia pensiero tornossene nel giugno di quest1 anno medesimo 1351 in Francia, e divise il soggiorno parte nella sua solitudine di Valchiusa , parte nella città d1 Avignone, ove si trattenne due anni e vi fu testimonio della morte di Clemente VI, accaduta a’ 5 di decembre del 1352, e della elezione del Cardinal Stefano Alberti che prese il nome d* Innocenzo VI. Questi non avea del Petrarca opinione sì favorevole come il suo predecessore , anzi troppo facilmente credendo alle voci del rozzo popolo, e sapendo che il Petrarca era poeta, temeva che in conseguenza ei fosse ancora mago. E questa fu la cagione probabilmente per cui il Petrarca determinossi di tornare in Italia nel maggio del 1353, senza aver mai voluto presentarsi al nuovo pontefice. Ei venne a Milano con intenzion di passar oltre} ma Giovanni Visconti che n’era arcivescovo e signore, sì amorevolmente lo accolse, e sì fortemente lo strinse a trattenervisi, clf ei fu costretto a fissarvi la sua dimora, ed abitò per qualche tempo presso la Basilica di S. Ambrogio , poscia nel monastero di S. Simpliciano. Tutta la famiglia de’ Visconti gareggiava ncll1 onorarlo, e Giovanni volle eli1 ei fosse ammesso fra quelli che formavano il suo consiglio di Stato; e inviollo nel 1354 a Venezia al doge Andrea Dandolo per tentar di nuovo la conclusici ì della pace fra le due sempre gelose e sempre nimiche repubbliche; ma questa volta ancora egli adoperossi inutilmente, e dovette tornarsene [p. 800 modifica]800 LIBRO a Milano poco lieto del frutto della sua eloquenza. Morto nello stesso anno Giovanni Visconti, e succedutigli i tre nipoti Matteo, Barnabò e Galeazzo, il Petrarca si strinse singolarmente a quest’ultimo, da cui fu sempre, come altrove abbiamo veduto, con ogni onore distinto. Nel decembre dell’anno medesimo andossene il Petrarca a Mantova all’imperador Carlo IV, che sceso finalmente in Italia avea inviato a Milano un suo scudiero, perchè gli conducesse innanzi un uomo sì celebre, e cui sommamente bramava conoscere di presenza. Le accoglienze che al vederlo gli fece, i discorsi ch’ebbe con lui, che dal Petrarca descri volisi a lungo (Meni, pour la vie de Petr. t 3, p. 379), ec.), eie premurose istanze con cui e in Mantova e in Milano, ove poscia recossi Carlo, cercò di condurlo seco a Roma, sono una chiara pruova dell’alta stima in cui egli avealo. Il Petrarca sperava che l’Italia dovesse da questa venuta di Carlo ricever grandi vantaggi; ma ei fu ben dolente ed afflitto, quando udì che pochi mesi appresso l’imperadore, senza aver recato all’Italia vantaggio alcuno, erasene con poco suo decoro ritornato in Allemagna. Ei non potè rattenersi dallo scrivergli un’amara e pungente lettera (ib. p. 41 1); rimproverandogli l’indolenza con cui abbandonava l’Italia sommersa in un abisso di mali, e lasciava sempre più avvilire la sua medesima dignità. XXXII. Io non so se il Petrarca inviasse veramente questa lettera a Carlo. Ma se questi la ricevette , non iscemò punto per essa la stima in cui aveane l’autore. Perciocchè questo inviato a Praga l’anno 1356 da Galeazzo [p. 801 modifica]TERZO 80I Visconti per distogliere F imperadore dal pensiero, che diceasi aver conceputo, di scendere armato in Italia, singolarmente contro i Visconti , fu da lui accolto, non altrimente che in Mantova, con sommo onore, e tornossene poco appresso a Milano , lieto di potere accertar Galeazzo, che F imperadore a tutt1 altro pensava che a cotal guerra; e non molto appresso ei ricevette un onorevole diploma imperiale in cui gli si dava il titolo di Conte palatino. Il Petrarca amava la solitudine; e perciò scelse una villa lungi tre miglia dalla città, preso alla terra di Garignano e alla Certosa ivi fondata da Giovanni Visconti. Ella diceasi Linterno, e il Petrarca solea talvolta scherzando chiamarla Inferno (ib. p. 447)• ^yì si ritirava egli spesso, e qual vita vi conducesse e qual fosse lo stato del suo animo a questo tempo, udiamolo da alcuni passi di due sue lettere scritte a Guido da Settimo, che si posson vedere riferite distesamente dall1 abate de Sade (ib.), poichè mancano nelle edizioni di Basilea. E io volentieri ne do qui un estratto , perchè esse ci danno una giustissima idea de’ costumi e delP indole di questo incomparabil uomo; e dopo esse non fa d’uopo che io mi trattenga a dirne più oltre: Il tenore della mia vita y dice egli, è sempre stato uniforme, dacchè col crescer degli anni si è in me estinto l’ardor giovanile , e quella funesta fiamma che sì lungo tempo mi ha divorato. Ma che dicìì io? Ella è anzi stata una celeste ruggiada che! l’ha smorzata. Non veggonsi forse ogni giorno de’ vecchi a gran disonore della umanità sepolti [p. 802 modifica]8oa LIBRO nella incontinenza?... A somiglianza di uno stanco viaggiatore io raddoppio il passo a misura che veggo accostarsi il termine della mia carriera. Io leggo e scrivo giorno e notte, e coll alternale a vicenda il leggere e lo scrivere mi vo sollevando. Queste sono tutte le mie occupazioni e tutti i miei piaceri.... La mia sanità è sì forte, sì robusto il mio corpo, che nè wi età più matura , nè occupazioni più serie j nè! astinenza y nè i flagelli non potrebbono domar del tutto questo ricalcitrante giumento a cui fo continua guerra. Io mi confido nell i grazia di Dio; senza essa cadrei certamente y come altre volte mi è avvenuto. Spesso al finir dell9 inverno mi fa d uopo ripigliar I armi; e anche al presente io combatto per la mia libertà Tutta la mia speranza si è che col! aiuto di Gesù Cristo vincerò que’ nimici che in gioventù tante volte mi han vinto y e frenerò questo rivoltoso giumento i cui movimenti sì spesso mi turbano il riposo. Per ciò che è de beni di fortuna, io sono ugualmente lontano da’ due estremi; e parmi di essere in quella mediocrità che è tanto a bramarsi. Una sola cosa può ancora eccitare l altrui invidia; cioè dì io son più stimato che non vorrei, e più che non converrebbe alla mia quiete. Non solamente il gran principe d Italia (Galeazzo Visconti) con tutta la sua corte mi ama e mi onora, ma il suo popolo ancora mi rispetta più che non merito, mi ama senza conoscermi e senza vedermi; perciocchè assai di raro esco al pubblico; e forse perciò appunto io sono amato e stimato. Ho già passata a Milano’ [p. 803 modifica]TERZO 8o3 uri Olimpiade, e comincio V ultimo anno et un lustro.... La bontà che tutti qui hanno per me, mi stringe a Milano per modo che io ne amo perfino le case, la terra } l’aria e le mura 9 per non dir nulla de’ conoscenti e degli amici. Abito in un angolo assai ri moto dalla città verso ponente. Uri antica divozione conduce tutte le domeniche il popolo alla chiesa di S. Ambrogio, a cui sono vicino: negli altri giorni egli è un deserto. Molti cri io conosco, o che desideran di conoscermi, minaccian di venirmi a vedere; ma o rattenuti dai! loro affari , o atterriti dalla distanza, non vengono. Ecco quanti vantaggi io raccolgo dallo starmene presso questo gran Santo. Egli mi consola colla sua presenza, ottiene all anima mia i favori dal Cielo, e mi risparmia non leggiera noja Quando esco di casa o per soddisfare a’! miei doveri col sovrano, o per altro motivo di convenienza, il che accade di raro, io saluto tutti a destra ed a sinistra con un semplice piegar di capo, senza parlare e senza trattenermi con chicchessia. La fortuna non ha recato alcun cambiamento al mio cibo e al mio sonno, che voi ben sapete quel è; anzi ogni giorno ne scemo parte, e fra poco non rimarrà più che scemare, Io non istò a letto che per dormire, purchè non sia infermo.... appena svegliato ne balzo fuori, e passo nella mia biblioteca , e questo passaggio segue di mezza notte, trattone quando le notti sono troppo brevi, e quando ho dovuto vegliare. Alla natura concedo solo ciò cri ella vuole imperiosamente, e ciò che non le si può ricusare. Il cibo, il [p. 804 modifica]So/* LI UIIO sonno, il sollievo variano secondo i tempi ed i luoghi. Amo il riposo e la solitudine; ma cogli amici sembro un ciarlone, forse perchè gli veggo rare volte; ma col parlare di un giorno compenso il silenzio di un anno.... Pel tempo di state ho presa ud assai delie iosa casa di campagna presso Milano, ove l aria è purissima7 e ove ora mi trovo. Meno qui! l’ordinaria mia vita; se non che vi sono ancora più libero e più lontano dalle noje della città. Nulla mi manca, e i contadini mi portano a gara frutta, pesci, anatre e selvatici d ogni genere. Havvi non lungi una bella Certosa fabbricata di fresco 7 ove io trovo ad ogni ora del giorno quegli innocenti piaceri che può offerire la religione. Io volea quasi alloggiarmi dentro del chiostro; que’ buoni Religiosi vi consentivano 7 e parean anche bramarlo; ma ho creduto miglior consiglio lo stanziarmi non lungi da essi7 sicchè potessi assistere ai santi loro esercizj La lor porta mi è sempre aperta; privilegio ad assai pochi concesso.... Voi volete sapere ancora lo stato di mia fortuna f e se dobbiate credere alle voci che si spargono, delle mie ricchezze. Eccovi la pura verità. Le mie rendite sono cresciute, il confesso; ma la spesa ancora a proporzione è cresciuta. Voi mi conoscete: io non sono mai stato nè più povero nè più ricco. Le ricchezze col moltiplicare i bisogni e i desiderii riducono a povertà. Ma io finora ho sperimentato il contrario. Quanto più ho avuto, tanto meno ho bramato: V abbondanza mi ha renduto più tranquillo e più moderato ne miei desuleriL Ciò non ostante [p. 805 modifica]TERZO 8o5 non so che mi avverrebbe, se avessi grandi ricchezze: elle forse produrebbono in me l’effetto che han prodotto in altri C). XXXIII. Io spero che non sarà stato discaro a’ miei lettori Tudir sinora parlare di se medesimo il Petrarca, la cui sincerità nello scoprire tutto il suo interno a1 suoi più fedeli amici 11011 può a meno che non ce lo faccia ascoltar (*) Della sincera e fervente pietà con cui il Petrarca visse gli ultimi anni della sua vita, ci làurio pi uova moltissime delle sue lettere si stampate che inedite. Fra questa è la XIC del codice Morelliano , in cui a lungo descrive il piacere che sente nel leggere i sacri libri e le opere de’ Santi Padri, i quali or Ibi mano le sue più care delizie. Né perciò dice egli di voler del tutto dimenticare gli antichi scrittori greci e latini, ma di volere al tempo medesimo prender questi a modello del suo stile, e quelli a regola e a norma della sua vita. Meriterebbero di esser qui riferite ancora le prime due lettere del codice Morelliano dal Petrarca scritte da Milano al priore de’ Santi Apostoli. In esse, con quell’aurea sincerità che ce lo rende si amabile, descrive la somma premura eh1 egli avea di non gittare una benchè menoma particella di tempo. Il sonno e il ristoro del corpo vuole che al più gli occupino una terza parte della giornata, accordando sei ore al primo, due al secondo. Dice che mentre si fa rader la barba, o tosare i capegli, mentre cavalca, mentre mangia, sempre o legge, o si fa leggere qualche libro; che spesso al finir di un viaggio trova di aver finito un componimento; che sulla mensa e sul capezzale vuole che sempre si trovino gli stromenti da scrivere, e che svegliandosi talvolta di notte, scrive all’oscuro , e fatto giorno appena intende ciò che abbia scritto. Né egli narra tai cose, come facendosene vanto; ma quasi vergognandosi di non vivere ancora come dovrebbe, e di conceder più del bisogno al corpo e alla natura. Tiiuboschi, VI. ■9 [p. 806 modifica]8o6 ’ LIBRO con piacere. Cosi passò il Petrarca ora nella sua villa, or in Milano, più anni caro a Galeazzo Visconti, con cui andò talvolta a Pavia , poichè questi ne ebbe il dominio j nè io dubito punto che alla fondazione che in questa città fece Galeazzo di una splendida università, non concorresse molto co’ suoi consigli il Petrarca. Alcuni moderni scrittori ci parlano di un’accademia di giovani letterari, che il Petrarca avea formata nella sua villa di Linterno; ma io non ne trovo cenno nè in tante lettere in cui egli ci parla pure sì a lungo delle sue cose, nè in alcun antico scrittore. L’anno 1360 Galeazzo inviollo a Parigi a rallegrarsi col re Giovanni uscito allora dalla cattività che lungamente avea sofferta in Inghilterra, e ritornato al suo regno. Il Petrarca vi fu ricevuto con quegli onori che a un uom sì celebre si doveano , e, compito l’ufficio ingiuntogli, fece ritorno a Milano nel marzo dell’anno seguente. Ivi egli ebbe lettera dall’imperador Carlo IV, con cui invitavalo alla sua corte} ma egli era troppo nimico dello strepito e dell’ambizione per accettarne le offerte. Rispose a Carlo facendogli insieme ringraziamenti e scuse, ma insieme stringendol di nuovo a tornare in Italia per rimediare a’ mali che la travagliavano. L’imperadore era troppo lontano dal pensare a un tal viaggio; ma non perciò offeso dal parlar libero del Petrarca, essendogli, in quest’anno 1361 , nato finalmente un figlio, degnossi di partecipargliene la nuova, e insieme gli inviò in dono una tazza d’oro di superbo lavoro, come raccogliesi dalla lettera di ringraziamento, che il Petrarca gli scrisse, [p. 807 modifica]TERZO 807 e che è stata pubblicata dall’ab. de Sade (t 3, p. 559). Era allora il Petrarca passato a Padova, mosso probabilmente dalle truppe straniere che davano il guasto alla Lombardia, e dalla peste che in quest’anno vi menò di nuovo grandissima strage, e questo fu poscia il suo ordinario soggiorno, non ostanti i replicati inviti ch’egli ebbe a recarsi altrove. Innocenzo VI, nello stesso anno 1361, gli offrì l’impiego di segretario apostolico, già da lui ricusato altre volte, e abbiamo ancora la lettera ch’egli scrisse al Cardinal di Taleirand (Senil l. 1, ep. 3), in cui, dopo avergli detto ch’egli non potea a meno di non istupirsi che un papa, il quale erasi ostinato a crederlo mago, lo giudicasse ora degno di occupare tal carica, gli adduce poi le ragioni per cui non potea accettarla. Ebbe egli nello stesso anno pressanti inviti dal re di Francia Giovanni che, avendolo in altissima stima, desiderava di averlo alla sua corte. Ma ad essi ancora ei seppe resistere con fermezza (ib. ep. 1). In questo tempo medesimo nondimeno erasi il Petrarca determinato a tornare a Valchiusa, cui erano ormai dieci anni, com’egli stesso dice (ib. ep. 2), che avea abbandonata; e già era perciò venuto da Padova a Milano. Ma le truppe armate che infestavano i passi , gliene fecer deporre il pensiero, e per questa ragion medesima ei non potè eseguire il disegno che avea formato di recarsi alla corte dell’imperator Carlo che avealo premurosamente invitato, e per cui erasi già posto in viaggio tornando da Milano e Padova. La peste che, l’anno 1362, travagliò di nuovo l’Italia, il condusse, come a [p. 808 modifica]808 LIBRO sicuro asilo , a Venezia , alla qual città più altre volte ei recossi negli anni seguenti, amato ed onorato da’ più ragguardevoli personaggi , e singolarmente dal doge Lorenzo Celso che il volle pubblicamente assiso alla sua destra in occasione delle solenni feste che si celebrarono in Venezia l’anno 1364 Per le vittorie dalla repubblica riportate sopra i ribelli dell’isola di Candia. Nella state, o nell’autunno soleva comunemente trasferirsi a Pavia, poichè Galeazzo, che vi faceva la sua ordinaria dimoi a, non sapea star lungamente da lui lontano. I Fiorentini frattanto, a’ quali sembrava cosa poco alla lor città onorevole che un uom sì famoso non venisse mai ad abitare nella sua patria, scrissero, l’anno 1365, al pontefice Urbano V, pregandolo a onorarlo di un canonicato o in Firenze, o in Fiesole. Ma il pontefice che stimava assai il Petrarca, e desiderava di averlo alla sua corte, diedegli in vece un canonicato in Carpentras; benchè poscia, sparsasi in questo tempo medesimo la voce ch’ei fosse morto, dispose in favor d’altri non solo di questo canonicato, ma degli altri beneficj ancora di cui il Petrarca godeva. A questo pontefice scrisse l’anno seguente il Petrarca una lunghissima lettera (Senil. l. 7, ep. 1), in cui con ammirabile libertà e con patetica eloquenza lo esorta e lo stringe a ricondurre a Roma la sede apostolica. E forse questa lettera stessa ne diede l’ultimo impulso ad Urbano, il (quale infatti nell’ottobre dell’anno seguente entrò in Roma. Ognuno può immaginare qual fosse allora il giubbilo del Petrarca. Egli sfogollo in un’altra non men lunga lettera [p. 809 modifica]TERZO 80 (ib. I. 9, ep. 1) allo stesso pontefice, in cui con esso rallegrasi che finalmente abbia fatta risorger Roma e T Italia tutta all’antica grandezza, e lo esorta a non lasciarsi giammai condurre a privarla nuovamente di sua presenza. Questa gioja fu temperata al Petrarca dalla morte del picciol Francesco da Brossano suo nipote e fanciullo di due anni, nato da Francesca sua figlia e da Francesco da Brossano, a cui il Petrarca aveala congiunta in matrimonio. Ella accadde in Pavia nel 1368, mentre il Petrarca trovavasi in Milano alle solenni feste che si celebravano per le nozze di Violanta Visconti, figlia di Galeazzo, con Leonello secondogenito del re d’Inghilterra. XXXIV. Urbano V frattanto desiderava al sommo di conoscere di presenza un uomo di cui avea sì alta stima. Più volte l’avea invitato, e il Petrarca non era punto meno impaziente di andare a far omaggio a un pontefice che avea fissata di nuovo in Roma la cattedra di S. Pietro. Ma l’età avanzata e le malattie a cui cominciava ad esser soggetto, non gli permisero di eseguire il suo desiderio sì tosto, come avrebbe voluto. Finalmente l’an 1370 determinossi a questo viaggio, e fatto prima il suo testamento, che abbiamo alle stampe (t. 2 Op. p. 1373), partì da Padova; ma giunto a Ferrara, e sorpreso da grave infermità, in cui conobbe a prova quale stima e qual amore avesser per lui i marchesi d’Este, fu costretto a tornarsene a Padova (*). Allora fu eh’ei s (*) Nel secondo volume di Anecdoti , stampato in [p. 810 modifica]81 o LtnRO ritirossi nella villa d’Arquà divenuta celebre pel frequente soggiorno che il Petrarca vi fece gli ultimi quattro anni di vita, e ove ancor si mostra la casa da lui abitata che al presente appartiene alla illustre e nobil famiglia de1 conti Dottori. Appena egli eravisi stabilito, che con incredibil suo dispiacere udì la partenza di Urbano che, abbandonata di nuovo l’Italia, volle tornarsene in Avignone, ove ci mori quasi appena giuntovi in quest’anno medesimo. Gregorio XI, eletto a succedergli, non avea stima punto minor pel Petrarca; e gliene diede un onorevole contrassegno scrivendogli una lettera in cui spiegava il desiderio clic avea di giovargli. Ma il Petrarca non ebbe il conforto che sopra ogni cosa bramava, di veder questo pontefice venire a Roma; poiché ci noi fece che quando quegli era già morto. Sperava il Petrarca di poter passare tranquillamente la sua vecchiezza senza essere più costretto ad intraprendere viaggi, o ad incaricarsi di affari che ne turbassero la quiete. Ma la guerra insorta tra i Veneziani e Francesco da Carrara, e la condizione che a questo fu imposta, se volle da quelli ottenere la pace, di mandare a Venezia Francesco Novello suo figlio a chieder perdono, e a giurar fedeltà alla repubblica, Ruma nel 1774, oltre alla lettera del Petrarca, scritta al marchese Niccolò d* liste, per consolarlo nella morte di Ugo suo fratello, da noi già mentovata, vedesi ora per la prima volta pubblicata (p. 198) la cortese risposta che il marchese Niccolò fece al Petrarca? da cui sempre più chiarii mente si scuopre quanto egli fosse da quel gran principe pregiato ed amato. [p. 811 modifica]TERZO 8ll costrìnse il Petrarca a tornare un1 altra volta a Venezia Tanno poiché il Carrarese desiderò ch’egli vi accompagnasse suo figlio, nè egli potè negarlo a un sì splendido suo protettore , qual era Francesco. Il Petrarca fu destinato in quest’occasione ad arringare il senato; ma la maestà di quell’augusta assemblea turbollo per modo, che spossato, com’era, dalle fatiche e dagli anni non ebbe forza a parlare, e convenne rimettere il discorso al dì seguente in cui il tenne con più felice successo (Chron. Tarvis.Script Rer. ital vol 19, p. 751). Tornato il Petrarca a Padova e alla sua villa d’Arquà, vi passò in continua languidezza senile gli ultimi mesi di sua vita fino alla notte seguente a’ 18 di luglio del 1374 nella quale sorpreso da apoplessia, o, come altri forse più probabilmente scrivono, da epilepsia, fu la mattina seguente trovato morto nella sua biblioteca col capo appoggiato su un libro. Questa, nelle diversissime circostanze con cui da molti, anche antichi scrittori, si narra la morte del Petrarca , sembra la più verisimile; di che veggasi, oltre le Memorie dell’abate. de Sade (t 3 , p. 798, ec.), la prefazione premessa dall’abate Lazzeri alle Miscellanee da lui pubblicate (t 1 , p. 119). Galeazzo Gataro descrive la solenne pompa con cui ne furono celebrate le esequie (Script rer. ital vol 17, p. 213): Il detto corpo fu messo in Villa in un arca su la montagna del terreno di Padova, dove ad honore fu il detto corpo a seppellire Messer Francesco da Carrara Principe di Padova con il V? scovo [p. 812 modifica]8l2 LIBRO et Abate e Preti, Monaci e Frati et universalmente tutta la Cieresia di Padova e Padovano distretto, e Cavalieri, Dottori, e Scolari, eh1 era in Padova , andarono tutti ad honorar detto corpo, il quale fu portato dalla sua casa dAr(juà sopra una sbarra con panno d oro e con un baldacìiino doro Jodrato d arme liino. La detta sbarra fu portata adì xvi d Ottobre per sino alla Chiesa d’Arquà , e lì vi fu fatto un Real Sermone da Messer Fra Bonaventura da Peraga, che fu poscia fatto Cardinale, fece detto Sermone. Dapoi la morte del detto Messer Francesco Petrarca trovossi aver fatto molti libri, i nomi dei quali sono questi quì di sotto scritti Io dubito che ove si legge adì XVI d’Ottobre , debbasi leggere invece da XVI Dottori, poichè non mi sembra credibile che si differisse tanto oh re le esequie. Così di fatto racconta Andrea figlio di Galeazzo, il quale aggiugne (ib. p. 214) che v’intervennero ancora i vescovi di Vicenza, di Verona e di Treviso ed altri prelati, e che poco tempo dopo gliJìi fatta un arca di pietra rossa ad antica, e messo dentro all arca sopra quattro colonne, e messa sul sacrato di detta Chiesa, ove sino al presente si ritrova. XXXV. Tal fu la vita di Francesco Petrarca, uomo di cui non giova eli1 io mi trattenga a formare il carattere, poichè le cose che finora dette ne abbiamo , e quelle che in altre parti di questo tomo medesimo si son vedute , cel fanno abbastanza palese, e cel dimostrano uno de’ più rari uomini che mai vivessero al mondo, \ [p. 813 modifica]TERZO 813 o se ne consideri la vivacità dell’ingegno, il continuo studio e la molteplice erudizione, o si voglia aver riguardo alP indole amabile e alle non ordinarie virtù di cui fu adorno; pregi tutti singolarissimi e che , se vennero alquanto oscurati da qualche ambizione degli onori letterarj, da qualche trasporto nel rispondere con aspro e pungente stile a’ suoi avversarj, e da alcuni giovanili trascorsi, ebbero però ancora maggior risalto dal confessar che fece egli medesimo la sua debolezza, e dal sincero pianto che sparse su’ proprii falli. Ma lasciamo le morali virtù che a questo luogo non appartengono, e parliam solo della poesia italiana che è il principale argomento di questo capo. Il Petrarca avea sortita nascendo quella felice disposizione alla poesia , senza cui inutilmente si cerca di divenire poeta, e ben il diede a vedere 1’avversione eli’ egli ebbe fin da’ primi anni agli studi legali , e il toglier loro quanto poteva di tempo per occuparlo nella lettura de’ poeti. La poesia latina era quella che singolarmente egli amava; e forse s’ei non si fosse innamorato di Laura, noi non avremmo nel Canzoniere del Petrarca il più perfetto modello di poesia italiana. In fatti ei non parla giammai de’ suoi versi volgari che come di scherzi giovanili, e confessa ch’egli era stato più volte tentato di gittarli alle fiamme sì perla frivolezza dell’argomento, come perchè essi spargendosi pel volgo. e passando di mano in mano e di bocca in bocca, si venivano stranamente sconciando e alterando , sicchè era difficilissimo l’averne una copia esatta e corretta (Senil. l. 5, ep. 3; l. 13, ep. 4). Ei [p. 814 modifica]Si 4 LIBRO (lice inoltre, che se avesse creduto che i suoi versi italiani dovessero avere sì grande applauso, avrebbe cercato di ripulirli vie maggiormente, e di perfezionarne lo stile: S1 io m essi creduto che sì care Fosser le voci de’ so spir miei in rima, Fatte l’avrei del sospirar mio prima In numero più spesse, in stil più rare. Par. 2, son. Certo è però, che il Petrarca era diligentissimo nel rivedere e nel correggere più e più volte le sue poesie, e ne abbiamo in pruova i frammenti originali pubblicati dall’Ubaldini l’an 1642, e poi aggiunti all’edizione del Muratori l’anno 1711, e a quella fatta in Padova dal Cornino l’an 1732 , ne’ quali si veggono le correzioni diverse che il Petrarca faceva a un medesimo verso, e le più maniere con cui egli l’andava cambiando, sinchè avesse trovata quella che più piacevagli. In tal maniera noi abbiamo avuto il Canzoniere di questo immortal poeta, guasto però, com1 io credo, e come abbiamo udito dolersene lui medesimo, in più luoghi da’ copisti ignoranti. Io non prenderò qui nè a rilevarne i pregi, nè a noverarne i difetti. Che nelle poesie del Petrarca s’incontrino non rare volte fredde allusioni, concetti raffinati, pensieri più ingegnosi che giusti, non havvi , a mio credere, uom di buon senso che per se stesso non vegga; e se ne dee incolpare il gusto di que’ tempi introdotto da’ Provenzali, e da’ primi poeti italiani loro imitatori sempre più propagato, di assottigliare e di anotomizzare, per così dire, l’amore, e di seguir poetando [p. 815 modifica]TERZO 8l5 V ingegno piti che la natura; gusto da cui dee riconoscer l’Italia il sì gran numero, da cui in addietro è stata inondata, di freddissimi petrarchisti che non avendo forza per sollevarsi in alto con quello ch’essi prendeano a loro guida, non l’han seguito che ne’ suoi errori e ne’ suoi traviamenti. Ma checchè sia di tai difetti, è certo che nel Petrarca abbiamo un sì perfetto modello di poesia italiana, ossia quand’egli sfoga pietosamente la sua amorosa passione, o quando levasi più sublime e prende più nobili oggetti a scopo delle sue rime (a), che chiunque con saggio discernimento si faccia a studiarne le bellezze e i pregi , purché la natura fornito 1’abbia di quell’animo e di (a) Se l’Italia, dice il sig. abate Arteaga (Rivoluz. del Teatro music, ital. t. 1, p. 183, sec. ed.), ebbe in Cino da Pistoja, in Guido Cavalcanti, e nel Petrarca i suoi Tibulli d’un genere più delicato, ella non ebbe mai, nè potè avere degli Alcei , de* Tir tei, dei Pindari , degli Ep imeni di: e segue colf usata sua eloquenza adducendone le ragioni, cioè la corruzion de’ costumi, che avea estinto ogni entusiasmo , l’esser considerata la poesia sol come ministra di piacere, non come strumento di morale , o di legislazione , ec. ec. Colla qual maniera di ragionare sembra eh* ei voglia persuaderci che la poesia italiana non fosse allora occupata che in cantar donne ed amori. Ma fu egli questo per avventura T argomento che prese a trattare Dante? E puossi egli paragonare a Catullo, a T ibullo, ad Anacreonte? E le canzoni del Petrarca: Italia mia, ec. e Spirito gentile , ec., e i sonetti Fiamma del Cielo, ec. e L’avara Babilonia, ec. ed altre sue poesie non possono esse proporsi a perfetto modello di sublime ed eroico stile? E questi son dunque gli autori che vogliono sedere a scranna, e decidere che l’Italia non ebbe allora degli Alcei, de’ Tirtei, ec.? [p. 816 modifica]8l6 LIBRO* quelTestro senza il quale niuno fu mai poeta, potrà seguirlo d’appresso e nella leggiadria del poetare, e nella fama a cui egli giunse. E vuolsi qui ancora riflettere a ciò che detto abbiamo parlando di Dante, cioè che tanto più maraviglio» a si rende la eleganza, la grazia, l’energia da lui usata nel poetare, quanto più scarsa era allora la lingua italiana , e non ancor giunta a quella copia e a quella dolcezza a cui egli singolarmente col suo verseggiar la condusse. Alcuni pretendono che molto egli abbia tolto da’ Provenzali, e l’ab. de Sade decide (t. 1, p. 154) che non se ne può dubitare dopo le ricerche fatte da M. de la Curne su que’ poeti, in cui ha indicati cotali furti. Quest’opera non ha mai, eh1 io sappia , veduta la luce, e perciò quanto è facile all’ab. de Sade l’affermare che ciò in essa vien dimostrato, altrettanto è a me facile il negarlo, finchè non si producano i passi che ne facciano pruova. Io credo però, che, se essi si producessero, si vedrebbe per avventura che ciò che il Petrarca ha preso da’ Provenzali, è appunto ciò che vi ha di men bello nelle sue rime, cioè que’ raffinati concetti e quelle idee astratte, e que’ sentimenti che non son secondo natura, di cui essi si dilettavano (a). Tale è certamente il passo indicato dall’ab. de Sade (t 2, p. 258), in cui il Petrarca ha imitato un cotal poeta di Valenza del secolo XIII, detto Messen Jordi, dicendo: (<2) V. la nota seguente. [p. 817 modifica]TERZO 817 Tal ni ha in prigion , che non m’apre, nè serra, Nè per suo mi ritien , nè scioglie il laccio y E non m* uccide Amor, e non si sferra, . Nè mi vuol vivo, nè mi trae d’impaccio, ec. Par. I son. 103. Se il Petrarca avesse sempre usato di questo stile, ei sarebbe ben lungi dal poter esser proposto come perfetto modello di poesia. E possiamo però conchiudere che, se egli ha imitati i Provenzali, ciò non è stato che a suo e nostro danno; e che meglio avrebbe fatto a seguir sempre la sua natura medesima, come egli ha fatto in que’ sonetti e in quelle canzoni che sono fra tutte le sue poesie le più pregiate, e nelle quali non si potrà sì agevolmente mostrare che egli abbia tolta cosa alcuna da’ Provenzali (a), (a) L’eruditissimo spagnunlo D. Tommaso Sanchez che ci "ha data di fresco una pregevol Raccolta di Poesie castigliane anteriori al secolo xvi, confessa sinceramente che a lui sembra che Messen Jordi sia stato di età posteriore al Petrarca, e che perciò si debba anzi dire che il Jordi tolse dal Petrarca que’ versi. Le ragioni da lui addotte a prova del suo sentimento si posson veder compendiate in questo Giornale di Modena ((. xxiv, p. 267 , ec.). Questi argomenti però non sembrano al ch. abate Andres abbastanza valevoli per distruggere l’antica opinione (Deli Orig. e Progr. d’ogni Lrt/cr. t. 1 , p. 3ao, ec.). Ne io entrerò all’esame di questo punto, poichè a me poco importa che il Petrarca abbia , o non abbia copiati quei versi. Anzi concederò, se vuolsi, ch’ei gli abbia copiati. Ma che perciò? Dunque perchè in un sì copioso Canzoniere, quale è quel del Petrarca, trovasi un sonetto, o , dicasi ancora, trovansene sei, otto o dodici, ne’ quali ha imitati i Provenzali, ci si vorrà rappresentare questo insigne poeta come debitore ad essi di tutte quasi le sue glorie, [p. 818 modifica]8 I 8 LIBRO Che direni noi finalmente della iufinita turba de’ comentalori del Petrarca? Grande sventura de* più antichi poeti! Vedere i lor versi sì barbaramente straziati e contraffatti da noiosi c freddi pedanti, altri de’ quali, essendo tutt’altro che poeti, voglion giudicare delle bellezze poetiche 11011 altamente, che Apolline e le Muse; altri trovano ne1 versi de’ loro autori sentimenti e pensieri eh1 essi non ebbero mai; altri imbrattali le carte di quistioni sì frivole e pedantesche, che egli che nella massima parte delle sue poesie tanto è superiore a tutti insieme i Provenzali, che questi non possono certo osare di venirgli al confronto ì L7 ab. de Sade ci minacciava che nell’opera di M. la Curne de Sainte-Palaye noi avremmo veduti indicati i gran furti che il Petrarca fatti avea ai Provenzali, e noi stavamo con timore aspettando questo severo e inesorabil giudizio. Quell’opera, ossia il compendio di essa fatto da M. Millot, ha poi veduta la luce. Ma io vi ho cercato invano il minacciato esame; anzi veggo che nella prefazione si dice (t. 1, p. lix.iv) che il Petrarca, ecclissò talmente i Provenzali, che il lor nome, la lor lingua, le lor poesie si dileguarono quasi del tutto agli occhi dclP Europa, Sembra poi al sig. abate Andre* che io sia stato alquanto duro co’ Provenzali, quando ho detto che se il Petrarca gli ha imitati, ciò non è stato che a suo e a nostro danno. Ma mi compiaccio ch’egli stesso abbia poi cambiato parere; perciocchè, nel tomo secondo della sua dottissima opera sopraccitata , ei così definisce le poesie provenzali (p. 50): Pochi pensieri volti e rivolti in mille foggie diverse, e nessuna molto felice, espressioni basse e volgari, nojosa monotonia e insoff ribile prolissità, versi duri e difficili, rime strane e stentate, sono le doti che generalmente accompagnano le provenzali poesie. Dopo il qual giudizio io mi lusingo eli’ ei non troverà troppo severo quello che io ne ho portato, dicendo che se il Petrarca gli ha imitati3 ciò non è stato che a suo c a uostro danno. A [p. 819 modifica]TERZO 8llJ felice chi può sostenerne per poco <T ora la fastidiosa lettura. Da tal disgrazia non è ito esente il Petrarca, anzi non vi ha forse chi più li lui F abbia sofferta; perciocchè fra due o tre giudiziosi comentatori ei ne ha avuto gran copia di sì sciagurati, che noi saremmo pure tenuti assai ad un incendio che togliesse iute* ramente dal mondo le lor follie. Ma basti così di questo argomento in cui troppo pericoloso sarebbe il fermarsi più a lungo, o l’entrarvi più addentro (a). XXXVI. Dell1 altre opere del Petrarca non è qui luogo di ragionare. Di alcune già abbiam parlato in addietro, cioè delle opere appartenenti a storia e a filosofia morale, delle sue Invettive contro di un Medico e del suo Itinerario a Terra Santa. Delle poesie latine direm nel capo seguente. Qui aggiugnerem solamente che, oltre qualche altro opuscolo latino, come F Apologia contro le calunnie di un Francese, ed altri somiglianti di piccola mole e di non (a) Presso il sig. abate Domenico Ongaro, più volte da me lodato , conservasi un codice cartaceo, scritto verso la metà del secolo xv , in cui, oltre più altre cose , con densi una nuova opera poetica che vorrebbe attribuirsi al Petrarca , e innanzi alla quale perciò vedesi scritto: D. Franciscus Petrarcha. E più chiaramente al fine: Finita est passio et Oratio Beatae Virginis Marie, quam fecit et compilavit Dominus Franciscus Petrarcha Doctor et Poeta Florentinus, cujus anima requiescat in pace. Sono undici capitoli in terza rima, nei quali ragionasi del dolor della Vergine a piè della Croce; ma lo stile è sì lontano da quel del Petrarca , che anche un mediocre conoscitore non se ne lascerebbe ingannare. [p. 820 modifica]820 LIBRO molto valore, debbono singolarmente aversi in gran pregio le moltissime lettere che di lui ci sono rimaste. Lo stile non è certamente il più elegante, ed esse sono spesso troppo diffuse, e sparse di sentimenti allo scrivere epistolare non troppo opportuni. Ma le infinite notizie di que’ tempi, che vi si trovano sparse per entro, e una certa più volte da noi osservata amabile sincerità con cui in esse parla il Petrarca, le rendono utili non meno che dilettevoli a leggersi* Così ne avessimo edizioni più corrette insieme e più compite! Ma quelle che ne abbiamo, son guaste da tali e sì gravi errori, che spesso non è possibile T intenderne il senso. E inoltre nelle biblioteche di Firenze, in quella del re di Francia e in altre si ha un grandissimo numero di lettere del Petrarca, che non han mai veduta la luce, di che veggansi 1’abate Mehus (Vita Ambr. camald. p. 240, ec.) e l’abate de Sade (Meni, pour la vie de Petr, t 1, préf. p. 69> ec.) (a). E io mi maraviglio che in un secolo, come è questo nostro, in cui tanto si è disotterrato di antichi monumenti, alcuni de’ quali non sarebbe stato gran danno che avessero continuato a dormir nella polvere fra cui giacevano, ninno abhia pensato a una intera ed esatta edizione delle lettere di questo grand’uomo che spargerebbe lume sì grande sulla storia del secolo xiv. (a) Delle Lettere inedite del Petrarca , che si conservano nella Laurenziana, ci ha date diligenti ed esatte notizie il ch. sig. canonico Bnndini (Cai. Cod. lai. Bibl. Laurent. t, 2, p. ^79, 624? ec* * 3 , p. 723» ec. , 737 , ec.). [p. 821 modifica]TERZO 821 XXXVII. La fama a cui era salito il Petrarca pel suo valore nel poetare in amendue le lingue, gli conciliava la stima e l’amicizia di tutti coloro che alla stessa lode aspiravano; anzi egli era non poche volte importunato da alcuni , che, volendo pure sembrar poeti, e non avendo nè il talento nè lo studio che ad esserlo son necessarj, a lui ricorrevano perchè prestasse loro i suoi versi, co’ quali acquistare anch’essi la fama d’illustri poeti. E piacevole è a leggersi ciò ch’egli scrive su questo argomento al Boccaccio: Tu ben conosci, dic’egli (Senil L 5, ep. 3), costoro che campan su’ versi, e (questi ancora non loro, il cui numero è or cresciuto a dismisura. Sono uomini di non grande ingegno , ma di memoria e di diligenza grande, e di assai più grande ardire. Frequentan le corti e i palazzi de’ gran signori, ignudi per loro medesimi , ma vestiti degli altrui versi, e recitando con grande energia le più eleganti poesie or di uno, or di un altro, singolarmente in lingua italiana, si procaccian da quelli favore, denari, vesti, e doni d ogni altra sorta. Questi stromenti del lor guadagno or ad altri li chieggono, or agli autori medesimi, e o gli ottengono con preghiere , o li comprano con denaro, se ciò richiede l’ingordigia, o la povertà del venditore; come avea già detto ancor Giovenale: Esiti it intuctam Paridi nisi vendat Agaven. Quante volte vengono costoro a molestarmi e ad importunarmi colle lor preghiere! E così faranno, io credo, con altri ancora. Benché ornai TIllABOSCHl, Voi VI. 20 [p. 822 modifica]822 LIBRO cominciano ad essermi meno molesti, o perchè sanno che ad altri studi or sono intento, o per rispetto alla mia età. Spesso, acciocchè non si avvezzino a darmi noia, rfò /oro un aperta negativa , nè mi lascio muovere da preghiere. Talvolta però, singolarmente quando conosco la povertà e la modestia di chi mi prega, la carità mi sforza a dar loro qualche soccorso col mio qualunque siasi ingegno, poichè ciò che a me non costa che assai breve fatica, reca talora ad essi non picciol vantaggio. E sonovi stati alcuni che essendomi venuti inanzi poveri ed ignudi y e avendo ottenuto ciò che bramavano, sono poi tornati messi ad abiti di seta, e ben arricchiti, ringraziarmi che per mio mezzo usciti fossero dallo stato di povertà. Ciò mi ha talvolta così commosso, che io avea proposto di non negar mai tal grazia a chiunque me la chiedesse, parendomi in tal maniera di far loro limosina; ma poscia, vinto dalla gran noja, ho cambiato pensiero. Così fin d’allora avveniva ciò che forse avviene anche al presente, che alcuni si abbelliscano delle altrui spoglie, e ottengan d’esser creduti valorosi poeti, finchè trovano chi sia lor liberale di buoni versi, e finchè non si scuopre la ricca fonte a cui essi bevono. E forse alcuni, i cui nomi sono inseriti nel Catalogo de’ poeti del secolo di cui scriviamo, perchè si son trovati de’ versi ad essi attribuiti, non hanno altro diritto ad esservi annoverati, che la liberalità del Petrarca, odi alcun altro de’ più chiari poeti di questa età. Ma noi, dopo aver parlato finor del Petrarca, passiamo ora a dire di quelli che, a lui uniti [p. 823 modifica]terzo 8a3 in amicizia, coltivarono essi pure, seguendone l’esempio, la poesia italiana, benchè niuno giugnesse ad uguagliarne la fama. XXXVIII. E il primo luogo tra essi deesi al Boccaccio, il quale, benchè tardi da lui conosciuto , ottenne nondimeno di stringersi in tal union col Petrarca, che non v’ebbe cosa si occulta ed interna ch’essi a vicenda non si comunicassero. Fra i molti scrittori che ne han tessuta la Vita , due fra i moderni sono i più esatti, il signor. Domenico Maria Manni (Stor. del Decam, par. 1) e il conte Giammaria Mazzucchelli (Scritt. ital. t 2. par. 3, p. 1315,ec.), i quali accennano ancora le più antiche Vite che di lui scrissero Filippo Villani, Giannozzo Mannetti ed altri scrittori di que’ tempi. Noi, secondo il nostro costume, accenneremo in breve ciò che è da essi provato con autentici monumenti, e svolgerem più ampiamente ciò che ancor abbisogna di essere illustrato, e ciò che forse ci verrà fatto d’aggiugnere alle loro ricerche. Giovanni fu figliuol di Boccaccio di Chellino di Buonaiuto, e fu originario di Certaldo castello del territorio Fiorentino venti miglia lungi dalla città, e perciò comunemente egli voll’esser chiamato Giovanni di Boccaccio da Certaldo. Non sembra però che in questo castello ei nascesse, poichè parlando del fiume Elsa (De Nominib. Montium, ec.), presso cui esso è posto, dice: vetus Castellum... sedes et natale solum majorum meorum futi > anteipiam illos susciperet Florentia cives. Le quali parole ci mostrano chiaramente che gli antenati di Giovanni, abbandonato Certaldo, verniero a [p. 824 modifica]8a{ LIBHO stabilirsi in Firenze e vi ottennero la cittadinanza. Che se il Boccaccio nella iscrizion che compose pel suo sepolcro, nomina Certaldo sua patria, ciò deesi intendere pel luogo onde avea tratta origine la sua famiglia. Ma Giovanni nacque egli veramente in Firenze? Il Manni ci assicura (l. cit p. 9) che sì, e aggiugne che l’ab. Antonmaria Salvini ha scoperto ch’ei nacque in detta città al Pozzo Toscanelli. Egli avrebbe fatto cosa assai grata a’ dilettanti di cotali ricerche , se avessi prodotti i monumenti su’ quali tal notizia è fondata; poichè gli antichi scrittori ci parlano in modo a destarcene qualche dubbio. Filippo Villani dice (Vite et ili Fiorent. p. 12) che Boccaccio, padre di Giovanni, trovandosi per cagione di mercatura in Parigi, innamoratosi di una fanciulla la prese a moglie, e n’ebbe poscia Giovanni. Il che se fosse certo, potrebbe dirsi che Boccaccio, condotta a Firenze la moglie, ivi ne avesse il figlio. Ma Domenico d’Arezzo, benchè comunemente sembri copiare il Villani, qui però se ne scosta, e afferma che la più comune opinione è che Giovanni fosse figlio illegittimo di Boccaccio e di una giovane parigina: Boccatius... dum mercandi studio Parisiis moraretur, amavit vehementer quamdam juventulam parisinam, quam, prout diligentes Johannem dicunt, quamquam alia communior sit opinio , sibi postea uxorem fecit, ex qua genitus est Johannes (ep. Mehus Vita Ambr. camald. p. 265). Aggiungasi che, come il Manni medesimo riferisce (l. cit. p. *4)? dicesi che monsignor Giuseppe Maria Suares , vescovo di Vaison, nell’archivio pontificio d’Avignone [p. 825 modifica]terzo 8a5 trovasse la dispensa data al nostro Giovanni di potersi far cherico, non ostante che fosse nato d’illegittimo matrimonio. Or se egli era nato da una giovane parigina che non fosse moglie di Boccaccio, sembra assai probabile ch’ei nascesse in Parigi. I Fiorentini, diligentissimi ricercatori de’ patrj monumenti, potranno forse rischiarar meglio un giorno questo punto di storia, non ancor bene accertato. Alcuni affermano che vili e poveri fossero i genitori di Giovanni. Ma la viltà è smentita dagli onorevoli impieghi che, come pruova il Manni-(l. cit p. 12), affidati furono a Boccaccio. Ei ne nega ancora la povertà , fondato sulla mercatura esercitata dal padre, e sui beni paterni di cui era padrone Giovanni. Io credo però, che, ciò non ostante, ei non fosse molto agiato de’ beni di fortuna; e me lo persuade non solo la testimonianza altrove addotta di Giannozzo Mannetti (V. l. 1, c. 4, n. 9), e quella ancora più autorevole del Villani, ma assai più quella del Petrarca che a lui scrivendo fa menzione della povertà in cui ri trova vasi (ScniL l. 1, ep.!4), e inoltre il legato del suo testamento da lui fattogli di 50 fiorini d’oro, affinchè potesse comprarsi una veste da camera, di cui valersi ne’ suoi studi nelle notti d’inverno. L’anno della nascita di Giovanni fu certamente il 1313, perciocchè il Petrarca nato, come si è detto, 1 anno i3o4, scrivendogli, così gli dice: Ego te in nascendi ordine novem annorum spatio antecessi (Senil l. 8, ep. 1). XXXIX. Nei fanciulleschi suoi anni, applicato Giovanni a’ primi elementi gramaticali in Firenze, sotto il magistero di un altro Giovanni [p. 826 modifica]8a6 libro padre del famoso poeta Zanobi da Strada, diede sin d’allora luminose pruove d’ingegno , che presagivano i più felici successi. Ma Boccaccio che formar voleva un industrioso mercante, non un gentile poeta, trattolo dopo pochi anni dalla scuola, il rivolse al traffico: e, come dice il Villani , mandollo in giro per diverse provincie, per addestrarlo alla mercanzia. Fra questi viaggi Giovanni, giunto all1 età di ventott1 anni, fu per lo stesso motivo mandato a Napoli; ove recatosi un giorno al sepolcro di Virgilio, tanto a quella vista infiammossi di ardor poetico, che a questo studio sopra ogni altro si volse, talchè Boccaccio vedendo il figlio portato da inclinazione si grande alle lettere, gli permise per ultimo di applicarvisi interamente; ma volle insieme che prima egli apprendesse il Diritto canonico. Cosi il Villani, e similmente Domenico d1 Arezzo, il quale solo non parla punto dello studio dei Canoni. È certo nondimeno eli1 ei fu dal padre costretto a rivolgersi a questa scienza, poichè egli stesso ci narra (Geneal. Deor. l. 15, c. 10) che, dopo avere per sei anni gittato il tempo nell1 esercizio della mercatura, suo padre veggendo in lui inclinazione e talento per le lettere, volle ch’egli intraprendesse lo studio de’ Canoni, ed io, dice, sotto un celebre professore quasi altrettanto tempo inutilmente gittai in tale studio. Questo celebre professore, dalla maggior parte degli scrittori della Vita del Boccaccio, vuolsi che fosse Cino da Pistoja; e se ne arreca in pruova una lettera da Giovanni scritta a questo famoso giureconsulto, data alla luce dal Doni (Prose antiche del Bocc. ec.). Ma questa [p. 827 modifica]TEUZO 827 opinione è stata, con ragioni a mio parere fortissime, confutata dopo altri dal co. Mazzucchelli (l. ciL p. 1320, nota 37), il quale mostra e che il Boccaccio non potè avere a suo maestro Cino, e che la lettera mentovata è una impostura del Doni. Alle ragioni da lui addotte si può aggiugnere ancora, che noi troviamo bensì che Cino fu professore di leggi civili, ma che il fosse ancora di Canoni non ve 111 ha indicio. Anzi il disprezzo con cui egli ragiona di questa scienza , ci persuade ch’ei fu ben lungi dal professarla. Veggasi ciò che abbiam detto parlando di questo celebre giureconsulto, e della lettera che pretendesi da lui scritta al Petrarca, e le cose da noi ivi dette gioveranno a provare sempre più chiaramente che Giovanni non potè averlo a maestro. Ma chiunque fosse il celebre professore, la cui scuola dovette frequentare Giovanni, questi nol fece che di mal animo, e i suoi pensieri eran sempre rivolti ai poetici studj; somigliante in ciò al Petrarca ch’ebbe pure a contrastare col padre, il quale voleva a forza renderlo un insigne giureconsulto. Sembra che Boccaccio si conducesse per ultimo a lasciar libero il figlio a quegli studi che più gli piacessero; e mi par difficile a credersi che ciò non seguisse che dopo la morte del padre; perciocchè questi, come con sicuri monumenti ha provato il Manni (l. ciL p. 21), non morì che nel 1348, e Giovanni aveva allora trentacinque anni di età, in cui non sembra probabile che il padre volesse costringerlo ad abbracciare uno studio piuttosto che un altro. [p. 828 modifica]828 libro XL. Libero dunque Giovanni a rivolgersi ove credesse più opportuno > non si restrinse talmente agli studi della poesia, che non abbracciasse ancora le scienze più gravi. Egli afferma di aver avuto a suo maestro in astronomia (De Geneal. Deor. l 1, c. 6, l. 2, c. 7) Andalone il Nero, di cui abbiamo altrove veduto l’onorevole elogio ch’ei ci ha lasciato, e generalmente afferma di avere in sua gioventù coltivati gli studi alla Sacra Filosofia appartenenti (Corbaccio). Ch’egli avesse a maestri Benvenuto da Imola f Francesco da Barberino e Paolo dall’Abbaco, si è detto da alcuni, ma senza recarne pruova, come osserva il co. Mazzucchelli (l. cit p. 1323, nota 55); e quanto a Benvenuto da Imola, non solo ei non fu maestro al Boccaccio, ma anzi lo riconosce egli stesso e lo chiama suo maestro (Comm. in Dante t. 1 Antiq. ital. p. 1277). Ben si pose il Boccaccio sotto la direzione di Leonzio Pilato per apprendere la lingua greca , e già abbiamo altrove veduto quanto si adoperasse per promuoverne in ogni maniera lo studio. Molto egli ancora si valse dell’amicizia di Paolo da Perugia da lui conosciuto in Napoli, come in altro luogo si è detto. Quindi col conversare frequente co’ più dotti uomini della sua età , col raccogliere da ogni parte e copiare i migliori tra gli antichi scrittori latini e greci, e col leggere ed esaminare attentamente l’opere loro, divenne anche il Boccaccio non solo uno de’ più colti scrittori , ma uno ancora degli uomini più eruditi di questo secolo, come ci [p. 829 modifica]TERZO 8^9 mostrano chiaramente le opere mitologiche , geografiche e storiche da lui composte, e delle quali abbiam ragionato a luogo più opportuno (l.2, c. 6). I viaggi che in più province egli fece, o per l’ambascerie impostegli, delle quali appresso diremo , o per altri motivi, contribuiron! non poco a renderlo sempre più colto. Alcuni moderni scrittori, citati dal co. Mazzucchelli (l. cit. p. 1321), affermano ch’egli se ne andasse in Sicilia affin di apprendervi la lingua greca; ma noi abbiam già veduto eli1 ei P apprese in Firenze da Leonzio Pilato , e questo suo viaggio non parmi che abbia bastevole fondamento. Niuna cosa però fu più vantaggiosa al Boccaccio che P amicizia e il frequente commercio di lettere col Petrarca. Quando essa avesse principio, non possiamo accertarlo. Potrebbesi sospettare che quando il Petrarca andò a Napoli nel 1341, ivi conoscesse il Boccaccio; ma il riflettere che in molte lettere, nelle quali il Petrarca ragiona minutamente di quel suo viaggio e degli uomini dotti eli1 egli allora conobbe , non fa alcuna menzione del Boccaccio, non può non tenerci su questo punto dubbiosi assai. È certo però , che l’origine di questa amicizia non può differirsi oltre l’an 1350, poichè il Petrarca in una lettera che gli scrisse, mentre andando a Roma pel giubbileo già era passato da Firenze, gli dice: Romam ego, ut scis, salutato quidem te, pe(ebani, quo annus hic quidem... fere Cristianum genus omne collima: it (ap. Mehus Vita Ambr. camald. p. 266). E a me sembra probabile che questa fosse la prima occasione, in cui essi si vedessero l’un [p. 830 modifica]83o LIBRO raltro. Perciocché la lettera del Petrarca al Boccaccio (Senil.l. 3, ep. 1), che dal co. Mazzucchelli si cita come scritta dopo il 1348 (l. cit. p. 1322 , nota 49)? hi cui lo chiama suo amico antico, fu certamente scritta l’anno 1363, poichè in essa dice che correva allora il decimosesto anno dopo la famosa peste del 1348. Ma assai più stretta dovette f amicizia lor divenire l’anno 1351 in cui il Boccaccio fu da’ Fiorentini mandato a Padova a recare al Petrarca la sì onorevole lettera , da noi riferita altrove, con cui essi rendeangli i paterni suoi beni, e insieme invitavanlo caldamente ad onorare di sua presenza la novella loro università. D1 allora in poi frequenti furon le lettere fra i due amici, e niuna cosa vi ebbe più tra essi segreta ed occulta; e dovrem vederne una chiara pruova frappoco. Or ci convien raccogliere ed ordinare, colla maggior diligenza che ci sia possibile, l’epoche principali della vita di questo illustre scrittore, e le onorevoli ambasciate in cui fu adoperato, nel che parmi che ci lascino desiderar qualche cosa que’ che sinora ne hanno trattato. XLI. La sua gita a Ravenna deesi ad ogni altra antiporre per riguardo al tempo. Ch’ei fosse mandato da’ Fiorentini loro ambasciadore in Romagna, ricavasi da un codice di quella repubblica, scritto l’anno 1350, e citato dall’ab. Mehus (Vita Ambr. camald. p. 267), in cui si nomina: Dominus Johannes Boccacci olim Anibajciator trans missus ad partes Romandiolae. Le quali parole ci mostrano che ciò accadde qualche tempo prima del 1350. Or io penso che quest* ambasciata sia quella a cui [p. 831 modifica]teiizo 83i allude il Petrarca in una lettera scritta al Boccaccio, l’an 1367 (V. Meni, pour la vie de Petr. t 3, p. 700), in cui parlandogli di Giovanni da Ravenna allor giovinetto, gli dice: Ortus est Adriae in littore ea ferme aetata , nisi fallor, qua tu ibi agebas cum antiquo plagae illius Domino ejus avo , qui nunc praesidet (ap. Mehus l cit). Era allora signor di Ravenna Guido da Polenta , figliuolo di Bernardino e nipote di Ostasio morto nel 1347. Se dunque il Boccaccio fu alla corte dell’avolo di Guido, cioè di Ostasio, convien dire che ciò accadesse prima del 13475 ^ probabile ch’egli appunto vi fosse quando fu inviato dai Fiorentini ambasciadore in Romagna. Non sappiam quanto tempo ei vi si trattenesse; ma ciò non fu certamente per molti anni; perciocchè l’anno 1348 egli era in Firenze, come raccogliesi dalla prefazione che al suo Decamerone ha premessa. Quindi al fine dello stesso anno 1351, in cui egli era stato spedito a Padova al Petrarca, come si è detto, ei fu invitato da’ Fiorentini loro ambasciadore a Lodovico marchese di Brandeburgo , e figliuolo di Lodovico il Bavaro, per indurlo a scendere in Italia e ad abbassare il poter de’ Visconti (Ammirato. l 10 ad an. 1352); e l’ab. Mehus ci ha dato il principio delle lettere che a tal fine furon date al Boccaccio, la cui ambasciata però non ebbe l’esito che si bramava. Quando si udì in Italia che l’imperador Carlo IV avea pensiero di entrarvi, i Fiorentini spedirono un’ambasciata a Innocenzo VI, in Avignone, per concertare qual modo tener si dovesse in riceverlo. Di essa ancora fu incaricato [p. 832 modifica]832 libro il Boccaccio, come raccogliesi dalle lettere con cui fu accompagnato, citate dal Mehus (l. cii. p. 268). Esse sono segnate del mese d’aprile del 1353, la qual data se è esatta, convien correggere l’Ammirato che ne parla all’anno seguente. Frattanto ei non avea ancor veduto il Petrarca, che per tempo assai breve nelle occasioni da noi già accennate; e questo fu verisimilmente il motivo che lo determinò a portarsi l’an 1359 a Milano, ove allora era il Petrarca. Con lui si trattenne parecchi giorni, e il Petrarca scrivendone al suo amico Simonide , cioè a Francesco Nelli priore de’ SS. Apostoli in Firenze, si diffonde in ispiegare il piacere che avea provato conversando con lui, e il dolore sentito nel distaccarsene (Mém. polir la vie de Petr. t 3, p. 505). Il Boccaccio confessa che fra gli altri beneficii! di cui era tenuto al Petrarca, dovea annoverare le salutevoli ammonizioni con cui avealo esortato a distaccarsi dai temporali piaceri, e a rivolgere i suoi affetti alle cose celesti (ibt et Manni, l. ciL p. 62). E veramente la vita che sinallora avea condotta il Boccaccio, non era molto lodevole; e le sue opere, e il Decamerone singolarmente, ci mostrano un uomo troppo libero ne’ costumi, e derisore delle cose più sacrosante. L’amicizia sua col Petrarca, il quale anche fra le sue debolezze conservò sempre sentimenti sinceri di pietà e di religione, giovò non poco a condurlo a più sani pensieri; ma ei cambiò interamente costumi l’an 1362, all’occasione di un avvenimento che non otterrebbe fede da molti, se non avessimo la [p. 833 modifica]TERZO 833 lettera del Petrarca, colla quale rispondendo al Boccaccio che glie I1 avea narrato, ci scuopre insieme ciò che quegli aveagli scritto (SeniL l 1, ep. 4): Tu mi scrivi, dice egli, che un certo Pietro sanese (cioè il B. Pietro Petroni certosino (V. Acta SS. Maii t. 7) morto a’ 29 di maggio del 1361) celebre per la singolar sua pietà, e pe’ miracoli da lui operati, essendo non ha molto vicino a morte, predisse molte cose di molti, e fra gli altri di noi due; e che ciò ti è stato riferito da uno a cui egli avea commesso di favellartene (cioè dal P. Giocassimo Ciani certosino e sanese esso pure).... Due cose fra le altre dici di aver udite da lui, cioè in primo luogo , che pochi anni ti rimanevan di vita, e inoltre che tu dovevi abbandonare la poesia. Questo fatto, che si può vedere più ampiamente narrato, e con altri documenti confermato dal Manni (l. dtp. 84> ec.) e dalT ab. de Sade (t. 3, p. 601), avea talmente atterrito e conturbato il Boccaccio, ch’egli avea risoluto non solo di abbandonare la poesie e ogni studio profano, ma di disfarsi ancora di tutti i suoi libri. Il Petrarca però saggiamente il fece avvisato che non era già d’uopo di cessare interamente dagli studi dell1 amena letteratura, e molto meno di spogliarsi de’ libri, ma che bastava il farne buon uso, come tanti santissimi uomini e gli stessi Padri e Dottori della Chiesa aveano in ogni età costumato. In questa occasione è probabile ch’ei vestisse II abito chericale (V. Mazzucchelli. l. cit p. 1327, nota 88), e a questo tempo parimente appartiene verisimilmente ciò ch’ei narra di se [p. 834 modifica]834 LIBRO medesimo (Geneal. Deor. l.15, c. 10), cioè che in età avanzata avea preso a coltivare gli studi sacri; ma che la difficoltà che in essi provava, e la vergogna di dover sì tardi apprendere gli elementi di una nuova scienza, ne lo dissuase. XLU. Da una lettera del Boccaccio, pubblicata dal Doni e poi dal canonico Biscioni (Prose antiche, p. 289, ec.), ricaviamo ch’egli invitato da Niccolò Acciajoli gran siniscalco del regno di Napoli, recossi a quella corte, ma che sdegnato per la maniera poco onorevole con cui fuvvi accolto, se ne partì. E allora fu probabilmente che si sparse la voce che il Boccaccio erasi fatto certosino nella Certosa di Napoli, come veggiam da un sonetto che compose Franco Sacchetti all’udire di cotal nuova (Manni, l. cit. p. 99). Ciò avvenne, per quanto io credo, l’anno 1363, poichè abbiamo una lettera del Petrarca al Boccaccio (Senil L 3, ep. 1), scritta a’ 7 di settembre di quest’anno, in cui gli rammenta il piacere che avea provato ne’ tre mesi che quegli avea seco passati a Venezia tornando da Napoli. L’ab. de Sade dice (t 3 , p. 625) che il Boccaccio era partito da Firenze per cagion della peste, e che per la stessa cagione invece di ritornarvi partendo da Napoli divertì a Venezia. Ma il Petrarca chiaramente ci dice che quando il Boccaccio venne a Venezia, Firenze non era ancora travagliata dalla pestilenza: tu... linquens Neapolim , et omissa Florentia longiore circuitu me petiisti, quamvis adhuc utraque urbium illarum tranquilla persisteret. Due anni appresso il Boccaccio fu di nuovo ambasciadore de’ Fiorentini alla corte [p. 835 modifica]TERZO 835 <TAvignone affine di giustificarli presso il pontefice Urbano V che sembrava mal soddisfatto della loro condotta. L’abate. Mehus ci ha dato il principio delle lettere (Vita Ambr. camald. p. 268) con cui egli fu accompagnato dalla repubblica, e abbiamo ancora una lettera che il Petrarca gli scrisse, quand’ei fu tornato da questo viaggio (Senil. l. 5, ep. 1), da cui raccogliamo che alP occasion di esso avea il Boccaccio veduta Genova. Il co. Mazzucchelli crede (l. cit p. 1326, nota 79) che ciò debba differirsi all’ultima ambasciata che il Boccaccio sostenne nel 1367, e dice che l’ultima lettera del libro XIII delle Senili pruova che al fin di quell’anno era il Petrarca in Pavia , donde scrisse la lettera mentovata poc’anzi. Ma quella lettera ha la data di Padova, non di Pavia, e il Boccaccio nelP ultima ambasciata non andò in Francia, ma a Roma, come ora vedremo, nè perciò dovette passar per Genova. L’anno 1367 era il Boccaccio in Firenze uno degli ufficiali del magistrato della condotta degli stipendiarii (V. Mazzucchelli, l. cit nota 80). Finalmente nel novembre dello stesso anno 1367 fu di nuovo ambasciadore de’ Fiorentini allo stesso pontefice non già in Avignone, come dice il co. Mazzucchelli (ib. p. 1326), ma a Roma, ove allora era Urbano, e questa è l’ambasciata medesima di cui all’anno 1368 parla l’Ammirato (Stor. di Fir. l. 13). Questa fu l’ultima ambasciata di cui fu incaricato il Boccaccio, il quale nello stesso anno 1368 recossi da Firenze a Venezia per rivedervi il suo Petrarca, ma ebbe il dispiacere di trovarlo partito già [p. 836 modifica]83G LIBRO per Pavia, come ricavasi da una lettera che il Boccaccio gli scrisse, pubblicata dall’ab. de Sade (t. 3, p. 724, ec.). Ella però non fu l’ultima pruova ch’egli ebbe della stima in cui avealo la sua patria. Perciocchè essendosi presa la determinazione in Firenze d’istituire una pubblica lettura della Commedia di Dante, il Boccaccio fu creduto a ciò il più opportuno, come altrove si è detto, e nell* ottobre del 1373 ei diè principio pubblicamente alla sposizione di quel poeta, intorno a che veggansi i monumenti prodotti dal Manni (l. cìL p. 100, ec.). Questi ha ancor pubblicato e ampiamente illustrato il testamento che Giovanni fece l’anno 1374 (p. 109, ec.). Ei morì in Certaldo, ove solea ritirarsi sovente per attendere più tranquillamente a’ suoi studi a’ 21 di decembre del 1375, poco oltre ad un anno dopo la morte del suo amico Petrarca, e fu ivi onorevolmente sepolto. XLIII. Nelf ordinare, come meglio ho potuto, le principali epoche della vita del Boccaccio, non ho fatta menzione alcuna de’ suoi amori colla celebre sua Fiammetta, perchè mi sembra più difficile, che comunemente non credesi, lo stabilire intorno ad essi cosa alcuna probabile non che certa. La comune opinione si è che il Boccaccio, quando in età giovanile fu a Napoli , s’innamorasse d1 una donna a cui diè il nome di Fiammetta*, che questa fosse Maria figlia naturale del re Roberto, e che essa, benché maritata a nobile personaggio, corrispondesse alf amor di Giovanni più che ad onesta donna non conveniva. E che il Boccaccio amasse una donna a cui diè il nome di Fiammetta, ne [p. 837 modifica]terzo 837 abbiamo in pruova la lettera con cui egli le dedica la sua Teseide, che è segnata in Napoli a’ 15 d’aprile del 1341 > mentre il Boccaccio contava ventott’anni. Inoltre, nel principio del suo Filocopo, racconta che il re Roberto, avanti che alla Reale eccellentia pervenisse, acceso di amore per una gentilissima giovane dimorante nelle reali case ne ebbe una figlia, cui diè il nome di Maria, e aggiugne poscia ch’egli della presente opera componitore, veduta avendola in Napoli nella chiesa di S. Lorenzo, se ne invaghì. Ma dobbiam noi rimirare le cose che de’ suoi amori ei ci narra, come vera storia, o come finzion poetica? Benchè io vegga la più parte degli scrittori darci per vero l’innamoramento del Boccaccio con una figlia naturale del re Roberto, io confesso però, che non posso sì di leggeri indurmi a entrare nel lor sentimento. E la ragion principale di dubitarne si è il vedere che il Boccaccio nel ragionare della sua Fiammetta è assai poco coerente a se medesimo. Nel passo del Filocopo, da noi poc’anzi citato, dice che il re Roberto s’invaghì della madre della Fiammetta, ossia di Maria, avanti che alla reale eccellentia pervenisse. Al contrario nel Ninfale d’Ameto, ov’egli introduce a parlare la stessa Fiammetta, e ove indica il re Roberto col nome di Mida, e se stesso, come credesi, col nome di Calaone, dice che ciò avvenne quand’egli era stato poco tempo davanti coronato de’ regni (p. 71, ed. Giol. 1558). Nel primo passo la madre della Fiammetta era una giovine zitella che stava in corte, poichè il Boccaccio dice che il re volendo eli se e della giovata; Tirabosciu, Voi. VI. 21 [p. 838 modifica]838 LIBRO donna serbare l’onore, la fece sotto altro nome allevare; nel secondo ella era maritata, e perciò la Fiammetta, parlando presso il Boccaccio di sua madre, dice eli’ ella due dubbi padri le diede nel nascimento (ib.). Inoltre nell’opera intitolata la Fiammetta, in cui pretendesi che il Boccaccio sotto il nome di Panfilo abbia descritti i suoi amori con essa, egli racconta che era stato costretto a lasciar Napoli e la Fiammetta , perchè suo padre, mortigli tutti gli altri figliuoli, stringevalo con preghiere a venire in soccorso della sua vecchiezza: la inevitabil morte... di più figliuoli nuovamente me solo ha lasciato al padre mio (Fiamm. p. 23 , ed. Gioì. i558). Or egli è certo che Jacopo fratel di Giovanni gli sopravvisse non poco, come pruovasi da’ documenti addotti dal Manni (p. 104). Nella Fiammetta e nel Filocopo l’innamoramento del Boccaccio si dice seguito in un tempio. Nel Ninfale d’Ameto al contrario, senza alcuna previa disposizione, l’amante entra furtivamente nella stanza della Fiammetta (p. 73). Finalmente il Boccaccio, nella lettera già citata alla sua Fiammetta, si duole che , mentre egli ancor 11’ è acceso, ella abbia cambiato l’amore in odio; al contrario nella Fiammetta ei la rappresenta come abbandonata dal suo amante. Tutte queste contraddizioni ne’ diversi passi in cui il Boccaccio ragiona della Fiammetta, a me sembrano un evidente argomento a conchiudere ch’egli, benchè forse sia vero che in Napoli s’innamorasse di una giovane d’alto affare, in ciò nondimeno che ci racconta dell’oggetto e del frutto de’ suoi amori, [p. 839 modifica]TERZO 839 abbia favellato non da storico, ma da poeta. Di altri suoi amori ei parla in altre sue opere, ma non sappiamo se essi pure fossero reali, o solo effetti di poetica fantasia. È certo però, che molte fra le opere del Boccaccio, e il suo Decamerone singolarmente, cel mostran uomo di non troppo onesti costumi; e frutto ne fu una figlia eli1 egli ebbe, benchè non ammogliato, detta Violante, e che pianse poi morta in età fanciullesca sotto il nome d1 Olimpia in una sua egloga latina, come afferma egli stesso (V. Mazzucch. l. cit. p. i32(5, nota 82). Alcuni scrittori moderni, citati dal co. Mazzucchelli (ib.), gli danno anche un figlio; ma io non veggo eh1 essi producano argomenti a provarlo. Degno però di lode è il Boccaccio che, conosciuti i suoi falli sugli ultimi anni del viver suo, come si è detto, cangiò costumi. E vuolsi qui riferire ciò che in questo proposito narra Filippo Villani a mostrare come egli cercò di toglier il danno che colle sue opere temeva di potere recare all’altrui pietà ed innocenza: Sonci ancora, dice egli (Vite d ili. Fior. p. 16), molte sue opere composte in vulgare sermone, alcuna in rima cantata , alcuna in prosaica composizione descritta, nelle quali per la lasciva gioventù alquanto apertamente il suo ingegno si sollazza, le quali dipoi, essendo invecchiato, stimò di porre in silenzio, ma non potè, come desiderava, la parola già detta al petto rivocare, nè il foco, che col mantice avea acceso, colla sua volontà spegnere. XL1V. Moltissime sono le opere che del Boccaccio ci son rimaste nell’una non meno clic [p. 840 modifica]840 LIBRO nell’altra lingua, e in prosa non men che in verso. In prosa latina abbiamo quelle da noi altrove citate, cioè i quindici libri delle Genealogia degli Dei, il libro sui nomi de’ monti, delle selve, de’ fiumi, ec., i nove libri de’ casi degli uomini e delle donne illustri, l’opera sulle celebri donne, e una lettera a F. Martino da Segni agostiniano, suo confessore, pubblicata dal P. Gandolfi (De CC. Script. August p. 262). In poesia latina abbiam sedici per lo più lunghe egloghe, delle quali egli stesso ci ha data la spiegazione nella lettera ora mentovata. Ma come nella prosa latina egli è ben lungi dall’eleganza degli antichi scrittori, così in queste ei non è al certo troppo felice poeta, e non posson nemmeno porsi a confronto di quelle del Petrarca. In poesia italiana abbiamo la Teseide divisa in dodici libri in ottava rima, del qual genere di poesia egli è comunemente creduto il primo autore, benchè il Crescimbeni abbia intorno a ciò mosso qualche dubbio (Comment t 3 , p. 148), l’amorosa Visione composta di cinque Trionfi, il Filostrato e il Ninfale Fiesolano, poemi romanzeschi in ottava rima, e più altre poesie, altre delle quali sono stampate in diverse raccolte, altri si conservano manoscritte in alcune biblioteche. Alcuni han voluto persuaderci (V. Mazzucch. /. dtp. 1331) che il Boccaccio, dopo Dante e il Petrarca, sia il più elegante fra gli antichi poeti italiani; anzi sembra che il Boccaccio non fosse pago di ciò, poichè parendogli di non poter occupare il primo luogo, quando ebbe vedute le poesie del Petrarca, gittò al fuoco le sue, come raccogliesi [p. 841 modifica]TERZO 84I da una lettera che questi gli scrisse (SeniL L 5, ep. 3). Ma qualunque fosse il giudizio che facea ei medesimo delle sue poesie, e checchè altri ne abbian detto, il comun sentimento de’ ()più saggi maestri di poesia e de’ poeti più valorosi ha ormai deciso eh* egli nè per eleganza di stile, nè per vivezza d’immaginazione, nè per forza di sentimenti non può aver luogo tra gli eccellenti poeti. Le opere in prosa italiana sono tra quelle del Boccaccio le più pregiate, e sono, oltre il Comento di Dante ,• da noi accennato altrove, e la Vita dello stesso poeta, scritta per altro in aria più di romanzo che di storia, alcuni amorosi romanzi e altri componimenti di somigliante argomento, cioè il Filocopo, la Fiammetta, l’Ameto, o Commedia delle Ninfe fiorentine, mista di prosa e di versi, e il Laberinto d’Amore, detto altrimenti il Corbaccio. Ma niuna tra esse può venire in confronto col Decamerone, a cui dee singolarmente il Boccaccio la celebrità del suo nome. Esso contiene cento novelle che fingonsi recitate in dieci giorni da sette donne e da tre giovani uomini in una villa lungi due miglia da Firenze, l’an 1348, mentre la pestilenza facea sì grande strage, di cui perciò egli ha premessa F eloquente e patetica descrizione a tutti nota. L’ab. de Sade si vanta di voler dare un* idea di quest’opera più giusta forse di quella che abbiasene comunemente in Francia e ancora in Italia (t. 3, p. 608). Io non so qual idea abbiano i Francesi del Decamerone. Ma certo F ab. de Sade, che vantasi di volere intorno ad esso istruir gl’Italiani, non dice cosa [p. 842 modifica]842 LIBRO che non trovisi in mille nostri scrittori, come ognuno potrà vedere al confronto. Il Manni ha lungamente mostrato (Stor, del Decam, par. 2) che le Novelle del Boccaccio sono pressochè tutte fondate su veri fatti, benchè poi egli gli abbia abbelliti, e anche travolti, come tornavagli più in acconcio. Ma o veri, o falsi sieno cotai racconti, egli è certissimo che quanto la poesia italiana dee al Petrarca, altrettanto dee al Boccaccio la prosa j e le sue Novelle per l’eleganza dello stile, per la sceltezza delle espressioni, per la naturalezza de’ racconti, per T eloquenza delle parlate in esse inserite, son ripula te a ragione uno de’ più perfetti modelli del colto e leggiadro stile italiano (a). E non [a) M. le Grand nella sua Raccolta ili Falliattr re Corifes dii xil et dii xru sirclc, stampala in quattro tomi in Parigi nel 1779, ec. (t. 2, p. 288) accusa il Boccaccio poco men che di furto. Delle sue Cento Afovelle, dice egli, un gran numero le ha egli copiate degli antichi favolisti francesi. Osserva che il Boccaccio essendo andato giovane a Parigi , e avendo studiato in que In università, avea acquistata molta cognizione di quella lingua e di quegli scrittori; confessa però, che il Boccaccio afferma egli stesso di non essere 1* inventore delle sue Novelle; ma vorrebbe che egli almeno avesse dichiarato ciò che dovea a’ Francesi: Quanto al Boccaccio, conchiude, che si era arricchito delle loro spoglie, e che loro dovea la celebrità della sua fama, io non so perdonargli qui sto ingrato silenzio. Ecco dunque il Boccaccio accusato o di furto, o almeno d* ingratitudine. De’ quai delitti nondimeno io speio eli’ei sarà dichiarato innocente ad ogni altro tribunale fuorchè a quello di M. le Grand. Questi si è presa la pena di indicare a tutte le favole o novelle francesi da lui pubblicate , quali siano quelle di cui ha fatto uso il Boccaccio; e io pure mi son presa la pena [p. 843 modifica]TERZO „ 843 è perciò a stupire se innumerabili edizioni se ne son fatte , e se non v’ ha quasi lingua in cui esse non siano state recate. Così non le avesse egli sparse di racconti osceni e d’immagini disoneste, e di sentimenti che offendono la pietà e la religione, di che poscia egli stesso ebbe pentimento e vergogna, come si è detto, e cercò, ina troppo tardi, di toglier lo scandalo di noverarle, e non ne ho trovate che quindici, o poco più. È egli dunque sì gran delitto, che fra cento novelle ne abbia il Boccaccio tratte circa quindici da’ novellisti francesi? Ci dica poscia M. le Grand. Come sa egli che quelle novelle le abbia tratte da’ Francesi il Boccaccio, e non piuttosto dal Boccaccio i Francesi? Egli appena mai c’istruisce dell’età a cui vivessero i suoi novellisti, e di molte novelle non si sa pure l’autore. Chi può dunque assicurarci che il Boccaccio fosse a lor posteriore, e il copiasse? Ma diasi ancora che dopo essi vivesse il Boccaccio. Come sa egli M. le Grand, che da essi e non da altri trasse le novelle il Boccaccio? Come sa egli che il Boccaccio e i Francesi ugualmente non le ricavassero da qualche altro più antico scrittor non francese? Il Boccaccio, dice M. le Grand, andò giovane a Parigi e studiò in quella università: dunque potè ivi aver notizia degli antichi novellisti francesi. Se questo scrittore avesse esaminate un po’ meglio le cose che alla vita del Boccaccio appartengono, avrebbe veduto che questo viaggio a Parigi non è appoggiato che all* autorità di moderni poco esatti scrittori, de’ quali io non ho pur creduto necessario di dare un cenno; e che se pur voglia ammettersi il lor racconto , egli vi andò , non già per attendere agli studj, ma per occuparsi nella mercatura. L’accusa dunque di M. le Grand non ha alcun fondamento; e se ne’ tribunali letterarii avesser luogo le leggi dei tribunali civili, ei dovrebbe esser condannato a quelle pene che a’ falsi accusatori son minacciate. [p. 844 modifica]844 LIBRO che ne potea derivare (ri). Di tutte quest’opere del Boccaccio, delle lettere da lui scritte, di (a) Un bel documento a provare il dispiacer clic ‘ebbe il Boccaccio dello scandalo dal suo Decamerone cagionato, mi ha trasmesso l’eruditissimo sig. abate Giuseppe Ciaccheri bibliotecario dell’università di Siena, tratto da un codice , il quale contiene , oltre più altre cose , nove lettere latine dello stesso Boccaccio. In una di esse, scritta da Certaldo a Maghinardo de’ Cavalcanti maresciallo del regno di Sicilia , dopo avere cogli usati complimenti risposto a ciò ch’egli aveagli scritto, di non avere ancor potuto leggere alcune sue opere, così continua: Sane quod inclitas mulieres tuas domesticas nugas meas legere permiseris, non laudo; quin imo queso per fidem tuam, ne feceris. Nosti, quot ibi sint minus decentia et adversantia honestati, quot Veneris infaustae aculei, quot in scelus impellentia , etiam si sint ferrea pectora, a quibus , et si non ad incestuosum actum illustres impellentur feminae, et potissime quibus sacer pudor frontibus insidet, subeunt tamen taci o passu estus illecebre, et impudicas animas obscena concupiscentiae tibe non numquam inficiunt irritantque; quod omnino ne contingat agendum est. Nam tibi, non illis, si quid minus decens cogitaretur, imputandum esset. Cave igitur iterum meo monitu precibusque, ne feceris. Sine illud juvenibus passionum sectatoribus, quibus loco magni muneris est volgo arbitrari y quam multas infecerint petulantia sua pudicitias matronarum. Et si decori diminarum tuarum parcere non vis, parce saltem honori meo , si adeo ma diligis, ut lacrimas in passionibus meis effundas. Existimarunt enim legentes me spurgidum , lenonem , incestuosum senem , impurum hominem, turpiloquum, maledicum , et alienorum scelerum avidam relatorem. Non enim ubique est, qui in excusationem meam consurgens dicat: juvenis scripsit, et majoris coactus imperio. Ove è a riflettere a queste ultime parole che ci additano ciò che forse ignoravasi, che a scrivere il Decamerone ei fosse da autorevol comando sospinto. [p. 845 modifica]TERZO 845 altre opere che senza bastevole fondamento gli vengon attribuire, delle edizioni, de’ comenti e di altre somiglianti cose di tal argomento, veggansi i due scrittori già da me allegati, cioè il Manni e il co. Mazzucchelli. A me basta di averne data quella breve idea che alla natura di questa mia storia si conviene. XLV. Più brevemente diremo ora degli altri poeti che il Petrarca ebbe ad amici; e prima di uno che troppo si affrettò a piangerne la morte. Quando il Petrarca fu da Clemente VI mandato a Napoli, l’an 1343, si sparse voce di’ei fosse morto, come egli stesso racconta (Senil. l. 3, ep. 7). Un poeta ferrarese, di nome Antonio# poichè ebbe udita tal nuova, compose una canzone in cui introduce le scienze e le arti a pianger la morte di sì grande uomo. Essa vedesi aggiunta in molte edizioni al) Canzonier del Petrarca, e non ci dà una troppo vantaggiosa idea del valor di questo poeta. Il Petrarca però risposegli con un sonetto (par. 1 , son. 96) poco migliore della canzone. L’abate de Sade afferma (t. 2, p. 181) ch’era già gran tempo che i due poeti erano stretti a vicenda in commercio di poesia, e ne reca in pruova due sonetti dell’uno all’altro (Giunta al Petr. p. 367, 368, ed.Fir. 1748)? poco felici amendue. Ma io non veggo onde si possa raccogliere clic essi fossero scritti prima della mentovata canzone. Sembrano discordare gli scrittori nello stabilire di qual famiglia egli fosse. Il Zeno, in una sua lettera pubblicata fra quelle scritte a monsignor Fontanini (p. 21, ec.), rigetta l’opinion di coloro che il dicono figliuol di un [p. 846 modifica]846 LiBno beccaio, e detto perciò Antonio dal Beccaio; e dice ch’ei fu della nobil famiglia de’ Beccaria da Ferrara, e che esso aveane avuto un ritratto in legno fatto circa il 1363, e conservato presso i discendenti di questo poeta , che questi fu figlio di Pietro, ed ebbe due figli Bartolommeo e Paolo, come si pruova dallo stromento d’investitura della villa Stiensa concedutagli da’ marchesi d’Este l’anno 1363.Il Quadrio al contrario afferma (Stor, della Poes. t 2, p. 174) che in un codice dell1 Ambrosiana in Milano , ove leggesi la canzone da lui fatta sulla creduta morte del suo amico Petrarca, egli è detto Antonio del Berthaio (*). Ma forse questo è un error del copista, o forse, come avverte il Borsetti (Hist Gymn. ferrar t 2, p. 326), non è che una diversa denominazione della stessa famiglia. Di lui fa menzione Francesco Sacchetti scrittore contemporaneo, dicendo: Maestro Antonio da Ferrara fu uno valentissimo uomo quasi Poeta, e ave a dell uomo di Corte... essendo in Ravenna... entrò nella Chiesa de’ Frati Minori, dov e il sepolcro del corpo del Fiorentino Poeta Dante... in quelli tempi che morì Papa Urbano V (Novella 121). Non parmi però, che il Sacchetti sia qui troppo esatto , perciocchè questo pontefice morì nel 1370, e (*) Antonio del Beccaio, o de5 Beccaria, ebbe un fratello di nome Niccolò, di cui pure si leggono alcune rime, c un’opera di esso inedita, intitolata Regnine, singulares , si conserva in un codice della libreria di San Michel di Murano, scritta nel 1379, da cui ancor si raccoglie eh’ei fu al servigio dell’imperador Carlo IV (Cai. MS. S. Michael. Fenef. p. in), [p. 847 modifica]TERZO 847 Antonio era già morto nel 1363, come raccogliesi dalla stessa lettera in cui il Petrarca ragiona della canzone che quegli avea composta per lui creduto morto vcnf anni addietro (Senil. L 3, ep. 7). In questa lettera il Petrarca lo chiama uomo di non cattivo, ma volubile ingegno. Il titolo di maestro, che gli veggiam dato, ci pruova ch’egli avea atteso ancora alle più nobili scienze, e si dice di fatto clT egli era medico, filosofo e matematico, nelle quali arti però ei non ci ha lasciato alcun saggio, onde conoscere quanto in essa fosse versato; poichè un trattato del Tremuoto, che il Borsetti dopo altri gli attribuisce, io dubito che possa appartenere a scrittor più recente. Abbiamo bensì alcune altre rime di Antonio in più Raccolte , delle quali veggansi il Crescimbeui (Com. ment t. 2, par. 2, p. 102) e il Quadrio (l. cit). Fra questi evvi un sonetto riportato ancor dal Tassoni nelle sue note al Petrarca (p. 225 ed. moden. 1711), da cui questi sembra che traesse quel suo che comincia: Cesare poi che ’l traditor d’Egitto. Ma forse, come avverte l’abate de Sade (l. cit p. 182), il Petrarca volle solo correggere e migliorare il sonetto d’Antonio. XLVI. Non vi ha forse niuno tra quelli a cui veggiamo indirizzate le lettere famigliari del Petrarca, che abbiane maggior numero di Tommaso Caloria messinese, che talvolta dicesi solo Tommaso da Messina. Questa diversità di nomi ha fatto sospettare ad alcuni, ch’essi fosser due personaggi diversi; e io non so intendere come abbia su ciò il Mongitore potuto contraddire a se stesso nel medesimo articolo in cui [p. 848 modifica]848 LIBRO di lui ci ragiona (Bibl. sicula,, t 2, p. 256, 258). Perciocchè, dopo aver detto al principio di esso che Tommaso da Messina e Tommaso Caloria sono un sol personaggio, al (fine dice clT essi sono diversi, e ne reca per argomento che alcune cose che dell1 uno dice il Petrarca, convenir non possono all’altro. Ma egli è certo che nelle edizioni delle Lettere del Petrarca molte si veggono per errore indirizzate a Tommaso , che sono scritte a tutt1 altre persone, cioè al Delfino Umberto (Famil l. 3, ep. 10), a Guido da Gonzaga signor di Mantova (ib. ep. 11). a un professor di Bologna (ib. l. 4 , ep. 9, 10), cui l’ab. de Sade,.come altrove abbiam detto, crede, ma senza bastevole fondamento, che sia Giovanni d1 Andrea, al Cardinal Giovanni Colonna e al vescovo di Lombes di lui fratello (Epist. de Laurea , t 2 Op. p. 1251, ec.). Io credo pure che falsamente si sien credute indirizzate a Tommaso due altre lettere (Famil t. 6, ep. 12, 13) in cui lo riprende come uomo di corrotti costumi, poichè da altre raccogliamo clT egli era uomo non sol per sapere, ma per probità ancora lodevole. Più altre lettere, a lui indirizzate, altro non sono che vaghe declamazioni e precetti morali, talchè io dubito che il nome di Tommaso sia stato per gli editori delle Lettere del Petrarca un supplemento , di cui valersi a far l’indirizzo di esse, quando nol trovavan nel codice, nè sapevano a chi fossero scritte. Quindi è seguito che il Mongitore tessendo Y elogio di Tommaso, ne ha narrate più cose che non avendo altro fondamento che le lettere che a lui credeansi [p. 849 modifica]TERZO 049 scritte , mancando questo, cadono a terra; come l’averlo il Petrarca esortato alla guerra, il che conviene al Delfino soprannomato, e l’averlo consultato sul luogo in cui dovesse prender la laurea, di che egli scrisse non già a Tommaso, ma al Cardinal Colonna. In una lettera, che il Petrarca scrisse quando ne udì la morte (l. 4* ep. 4)y lo chiama giovine di rara indole , che prometteva copiosissimo frutto, e dice ch’erano della stessa età, che aveano le medesime inclinazioni, che si occupavano ne’ medesimi studj; ed è perciò probabile ch’essi si fossero conosciuti nell1 università di Bologna, ove certamente avea studiato Tommaso, come vedremo fra poco affermarsi dallo stesso Petrarca. Sembra ch’ei fosse povero, poichè il Petrarca con lui si scusa, se non può mandargli sovvenzion di denaro, come l’avea richiesto (ib. L 3, ep. 14), e in altra lettera < ib. l 4) ep 8) gli manda parte d’alcuni doni ch’egli avea ricevuti, scrivendogli che si lusinga che essi saranno opportuni; nè io so onde abbia tratto lo Squarciafico ciò ch’ei racconta nella Vita del Petrarca , cioè che Tommaso gli donasse denaro per far il viaggio da Bologna in Avignone. In un’altra scritta poco prima del viaggio ch’ei fece alla corte del re Roberto, si conduole con lui il Petrarca (L 1 ep. 1), che stando in Sicilia, paese nimico a quel principe, non possa andarne alla corte e godervi della protezione e della munificenza di quel sovrano. i diversi argomenti, de’ quali ragiona con lui nelle sue lettere il Petrarca, cel mostrano uomo dotto e versato in più generi di [p. 850 modifica]850 LIBRO scienze. Egli morì in età giovanile, e il Petrarca ne fu sì a (Ili Ilo, che infermossi egli stesso, e ne fu vicino a morire (l. 4, ep 5). L’ab. de Sade racconta (t. 2 , p 24) ch’ei morì in Messina l’an 1341 , al ritorno d’un viaggio che egli avea fatto a Lombes, per passarvi qualche tempo con quel vescovo Jacopo Colonna, e che questo viaggio avealo impedito di esser presente in Roma alla coronazion del Petrarca. Così scrive ancora il Mongitore, e questi è degno di scusa, perchè non ha avvertito che molte lettere dal Petrarca erano sol per errore dirette a Tommaso. Ma io non so intendere come l’ab. de Sade che ha scoperto quest’errore, abbia potuto ciò affermare. Il fondamento di tal racconto è appunto una di queste lettere, che per errore è diretta a Tommaso, in cui il Petrarca si duole con lui (Op. t 2, p. 1252) che essendo venuto a Roma per ricevervi la laurea, e sperando ivi di rivederlo, abbial trovato già partito per Lombes. Or l’ab. de Sade, il quale avea già osservato (t 1, p. 428) che le lettere in cui il Petrarca chiede consiglio se debba ricever la laurea in Roma, o in Parigi, furono scritte non già a Tommaso, ma al Cardinal Colonna, non ha egli avvertito che in questa lettera il Petrarca dice di essersi determinato per Roma pel consiglio del fratello di colui a cui scrive: ingenti ante alios fratre tuo suasore et consultore; e che perciò essa fu scritta non a Tommaso, ma al vescovo di Lombes, fratello del cardinale, il quale di fatto era partito da Roma, prima che vi giugnesse il Petrarca? [p. 851 modifica]TERZO 85I Non è dunque appoggiato a verun documento questo viaggio di Tommaso (a), e non panni nemmeno che se ne possa con certezza fissar la morte all’anno i34i.Ècerto però, che essendo Tommaso coetaneo del Petrarca, ed essendo morto nel fior degli anni, ella deesi stabilirsi verso questo tempo. Il Petrarca ne pianse la morte con un epigramma che abbiamo tra le sue lettere: Indolis atque animi felicem cernite Thomam , Quem rapuit fati praecipitata dies. Hunc dederat Mundo tellus vicine Peloro,: Abstulit haec eadem munus avara suum, Florentemque nova juvenem virtute repente Succidit misero mors inimica mihi. Anne igitur grates referam pro munere tanto, Carminibus Siculum litus ad astra ferens? Anne gemam potius simul indignerque rapinam? Flebo..Nihil miseris dulcius est gemitu. Famil. L 4 j fp. 4* Onorevol menzione ne ha egli fatta ancora ne’ suoi Trionfi, annoverandolo tra’ poeti: Vidi ’l buon Tomasso Ch’ornò Bologna, ed or Messina impingua O fugace dolcezza! O viver lasso! Chi mi ti tolse sì tosto dinanzi, Senza ’l qual non sapea mover un passo? Tr. d’Amore, c. 4Alcuni scrittori, citati dal Mongitore, parlano di un volume di poesie latine di Tommaso, che si conservava in Messina; e lo stesso (a) Questo viaggio del Caloria a Lombes c stato riconosciuto per insussisteute dallo stesso abate de Sade nella sua Apologia ms. [p. 852 modifica]852 LIBRO Mungitore aggiugne che alcune rime se ne leggono in un certo Rosario de’ Poeti, pubblicato da Maurizio de’ Gregori. Alcune l ime di Tommaso da Messina si trovano nella Raccolta dell’Allacci , e una canzone ne ha pubblicata il Crescimbeni (t 3, p. 83). Egli però, osservandone il rozzo e barbaro stile, crede (t. 2, par. 2. p. 78) che questi sia diverso dall’amico del Petrarca; e ch’ei vivesse a’ tempi di Federigo II, il che pure è stato affermato dal Quadrio (t. 2, p. 160, 180), dal Mongitore (l. cit p. 262) e da altri scrittori siciliani che fanno questo poeta non della famiglia Caloria , ma del Sasso. A dir vero però, non parmi che la rozzezza dello stile sia argomento bastevole a stabilire che quelle rime fossero scritte nel secolo XIII, perciocchè più altre se ne incontrano, come altrove ho avvertito, di tempo ancor posteriore, che si crederebbero scritte quando la poesia italiana era, per così dire, ancor tra le fasce. Quindi 9 se altro argomento non si produce in contrario, io penso che un sol Tommaso da Messina si debba ammettere tra’ poeti, e che questi sia P amico e coetaneo del Petrarca. XLVn. Nel viaggio che l’an 1341 fece il Petrarca a Napoli, si strinse in amicizia con due cortigiani del re Roberto, valorosi poeti amen due, e co’ quali poscia egli ebbe commercio di lettere in prosa e in versi. Essi furono Marco Barbato natio di Sulmona, ch’ei chiama sempre Barbato Sulmonese, e Giovanni Barrili da Capova. Di amendue parla con somme lodi in un suo componimento poetico (Carni. I. 2, [p. 853 modifica]TERZO 853 cp. 16); c dice che quando era tra loro pareagli di udire i versi di Virgilio; e del Barbato singolarmente afferma ch’egli era un altro Ovidio , e che ben avrebbe meritata la corona d’alloro, ma che per modestia sfuggiva sì grande onore. Con essi l’anno 1343 andò a vedere le delicie di Baie e de’ luoghi circonvicini (Famil. l. 5, ep. 4)- H Barrili era stato destinato ad assistere alla coronazion del Petrarca in nome del re Roberto; ma abbiam veduto per qual motivo ei non potesse trovarvisi con suo gran dispiacere. Ebbe il Petrarca occasione, l’anno 1352, di mostrare al Barrili la sua riconoscenza, perciocchè adoperossi a riconciliarlo insieme col gran siniscalco del Regno Niccolò Acciajoli, con cui erasi inimicato, e ottenne felicemente divedergli riuniti (Mém. pour la vie de Petr. t. 3, p. 218). Io non trovo in qual anno ei morisse, nè veggo chi accenni qualche saggio del suo talento nel (poetare ch’ei ci abbia lasciato. Il Barbato morì l’an 1363 , come raccogliam dalla lettera con cui il Petrarca ne piange la morte (Senil. l 3, ep. 4), e in cui dice ch’egli avealo conosciuto già da ventidue anni addietro. Grande è l’elogio che ivi ne fa il Petrarca, dicendo che uom più dolce, più incorrotto, più schietto, più amante dello studio non era mai stato al mondo; che le lettere erano l’unico piacere di Barbato, uomo nemico della gloria, della ostentazion, della invidia, di vivace ingegno, di dolce stile, di ampia dottrina e di vasta memoria; e che dopo la morte del re Roberto egli avea abbandonata la corte , ed erasi ritirato a vita tranquilla in Sulmona sua patria. Il Toppi afferma Tiraboscui, Voi. VI. 12 [p. 854 modifica]854 Libilo (BibL napol) che un grosso volume manoscritto di Poesie, non so se italiane o latine, se ne conserva nella libreria de’ Minori osservanti in Sulmona. XLVIU. Tra i Fiorentini che goderono deifi amicizia del Petrarca, il più intrinseco e il più confidente, dopo il Boccaccio, fu Sennuccio del Bene, detto anche. Sennuccio Bennucci figliuol di Benuccio. Se crediamo a Paolo Mini, citato dal co. Mazzucchelli (Scritt ital. t 2 , par. 2, p. 808), ei fu fatto prigione e condannato con taglia di quattromila lire, l’anno 1301, da Carlo di Valois, quando questi da Bonifacio VIII fu inviato a Firenze per acchetar*le discordie onde era sconvolta, benchè Sennuccio avesse prima accolto e trattato splendidamente più volte il medesimo Carlo in una sua villa. L’Ammirato (Stor. fior. t. 1, p. 331) e più altri scrittori fiorentini dicono che nell’anno 1326 ad istanza del pontefice Giovanni XXII fu richiamato a Firenze, e renduti gli furono i beni già confiscati. È certo però, che lungo tempo ancora dopo quell’anno egli era in Avignone , come raccogliesi da alcune poesie del Petrarca, dalle quali veggiamo ch’egli avea fatta confidenza a Sennuccio de’ suoi amori con Laura, i quali non cominciarono che nel 1327. Quindi, benchè, come osserva fi ab. de Sade (t 2, p. 58), non siavi pruova di ciò che affermano molti, ch’ei fosse segretario di Stefano Colonna o del Cardinal Giovanni di lui figliu olo, è probabil però, ch’egli stesse presso loro in Avignone, e che ivi si strignesse in amicizia col Petrarca. E ciò ancora confermasi da un [p. 855 modifica]TERZO 855 sonetto dello stesso Sennuccio, che leggesi in alcune edizioni del Petrarca, e dal detto abate de Sade è stato inserito nelle sue Memorie (ib. p. 231). In qual anno morisse Sennuccio non si può affermare precisamente. Ma è probabile ciò che afferma l’ab. de Sade (t. 3, p. 32), ch’ei morisse nell’anno 1349 Alcune rime di Sennuccio si trovano sparse fra quelle del Petrarca, e in alcune raccolte degli antichi poeti; altre se ne conservano manoscritte in alcune biblioteche, di che veggasi il sopraccitato conte Mazzucchelli. Il Petrarca con un suo sonetto ne pianse la morte (par. 2, son. 19). XLLY. Non solo amico, ma parente ancor del Petrarca, era Francesco o Franceschino degli Albizzi. Questi, come raccogliam da due lettere del Petrarca (Famil. l. 7, ep. 11, 12), erasi P anno 1345 trasferito in Avignone per godervi della compagnia del suo parente ed amico, nè io veggo su qual fondamento il Zilioli, citato dal co. Mazzucchelli (Scritt ital. t 1 , p. 340), abbia asserito ch’egli era stato cacciato da Firenze alP occasione delle guerre civili. È certo che quando, l’an 1348, ei fece ritorno in Italia, avea risoluto di ristabilirsi in Firenze, come afferma il Petrarca. Con lui era stato due anni in Avignone, donde Francesco era partito per veder Parigi e altre città della Francia , sperando di ritrovare ancora al suo ritorno in Avignone il Petrarca; ma questi erane già partito; e Francesco perciò era tosto passato l’an 1347 a Marsiglia per tragittarsi in Italia , colla speranza di rivedere il suo caro 1 [p. 856 modifica]856 LIBRO Petrarca prima di arrivare a Firenze. Le lettere poc’anzi accennate ci mostrano quanto impaziente fosse il Petrarca di abbracciare Francesco, ch’egli chiama suo congiunto non men di volontà che di nome, e di amore non men che di sangue, e qual fosse il trasporto del suo dolore quando udì che l’infelice, giovane giunto a Savona era ivi morto in età troppo immatura. Vuolsi dunque corregger l’errore del sopraddetto Zilioli , secondo il quale Francesco morì in Avignone in corte del Cardinal Colonna, di cui senza alcun fondamento il fa segretario. Io credo pure che abbiano errato coloro che hanno scritto Francesco aver avuto un figliuolo detto Riccardo, poeta esso pure: perciocchè il Petrarca nomina bensì i fratelli e le sorelle e i genitori di Francesco (Famil. l. 7, ep. 18), ma del figlio non dice motto. Il Quadrio dice ch’ei fu amico di Dante (t 2, p. 180). Ma come mai potè Francesco, morto nel suddetto anno in età giovanile, fiorentissima aetate, come dice il Petrarca, essere amico di uno morto fin dal 13s 1? Lab. de Sade ha avvertito saggiamente questo errore del Quadrio (t 1, p. 435); ma egli ancora ha errato non leggermente (ib. p. 437) 7 credendo che Sennuccio intenda di parlare del nostro Francesco in que’ due suoi versi, pubblicati dopo la Bella Mano di Giusto de’ Conti (p. 165, ed. 1753), in cui dice: Ma prima che tu passi L uni gì una Hit coverai il marchese Frati ce se hi no. Il titolo di marchese non davasi allora che a’ [p. 857 modifica]TERZO 85^ signori assoluti di qualche paese (a). Tale non era certamente Francesco; e io credo che que’ versi debbano intendersi di alcuno della famiglia de’ Malaspina, ch’erano fin d’allora signori di molte terre nella Lunigiana (b). Di lui insieme e di Sennuccio ha fatta onorevol menzione il Petrarca nel suo Trionfo d1 Amore, annoverandoli tra’ più illustri poeti: Sennuecio e Franeeschin che Jur sì umani, Come ogn’uom vide. Cap. 4* Poche però sono le rime che di lui ci son pervenute, delle quali si può vedere un’esatta notizia presso il co. Mazzucchelli. L. Abbiamo ancora una lettera in prosa (Famil. l. 7, ep. 18) e un’altra in versi (Carm. l. 2, ep. 14), scritte dal Petrarca a Lancellotto cavalier piacentino. La seconda altro non c’insegna se non che Lancellotto, benchè assai pregiasse i poeti e la poesia, erasi nondimeno in certa occasione lasciato condurre a dirne male; ma che poscia avea conosciuto e confessato il suo errore. Nella prima, che fu scritta l’anno 1348, come raccogliamo dalla risposta che il Petrarca gli fa, avea Lancellotto pregato il Petrarca a compir finalmente e a pubblicare la tanto aspettata sua Africa; e inoltre aveagli sinceramente scoperta la passione d’amore da cui era travagliato, e gli avea (a) Anche questo errore è stato confessato dall7 abate de Sade nella sua Apologia ms. (b) Vivea anche a que’ tempi un marchese Franceschino da Dallo, ucciso in battaglia l anno r313 (Script. Rer. ital. voi. io, col. 521), e panili perciò ora più verisimile che di lui parli Sennuecio. [p. 858 modifica]858 LIBRO chieste per suo sollievo le poesie volgari da lui composte; al che rispondendo il Petrarca, gli dice eli’ esse eran anzi opportune ad accender vie maggiormente, che ad estinguer quel fuoco. Era questi dell’antica e nobil famiglia degli Anguissola, e onorevol menzione sulla scorta delle antiche cronache di Piacenza ne fa l’eruditissimo proposto Poggiali (Stor. di Piac. t.6, p. 259, 271 , ec.), rammentando il valore con cui egli con due suoi fratelli Annibale e Bernardo difesero, finchè fu loro possibile, la loro patria contro Azzo Visconti l’anno 1336, e il trovarsi che ei fece l’anno 1339) alla battaglia di Parabiago; nella qual occasione ei fu fatto cavaliere da Luchino Visconti. Ma bello singolarmente è l’elogio che il medesimo scrittore ne ha tratto (ib. p. 3.j6) dalla Continuazione della Cronaca di Giovanni Musso, ove se ne riferisce la morte all’agosto del 1359, la qual però, coll’autorità dell’iscrizion sepolcrale, egli pruova che avvenne nel primo di settembre del 1364 Decessit, così ivi si dice, in Civitate Paduae D. Lanzalottus de Anguisolis de Placentia Miles filius D. Riccardi, et fuit sepultus in Civitate Paduae in Domo Fratrum Praedicatorum cum maximo honore; ad cujus sepulturam fuerunt xii Magistri in Sacra Theologia ultra Episcopum et Abbates et alios Clericos, qui ad dictam sepulturam fuerunt Et hoc fuit conveniens, quod ad ejus sepulturam fuerint tot et tanti Doctores et sapientes: quia ipse fuit sapientissimus in quibuscumque scientiis, et maxime Poexiae, in qua multum se delectabat, et multories scribebat per rimam aliis [p. 859 modifica]TERZO 85i) Poetis multa praeclara moralia et notabilia , et ipsi sibi. Et etiam fuit probissimus miles, re. Iu«un codice di questa Biblioteca Estense scritto nel 1447 leggonsi parecchie Rime di Lancellotto, e fra le altre un sonetto in risposta al già mentovato Antonio da Ferrara, e un sonetto pure ne ha pubblicato dopo altri il Crescimbeni (Comm. t 3, p. 113), e ne fa menzione anche il Quadrio (t. 2 , p. 170)* LI. Molti altri poeti potrei qui annoverare , de’ quali, poichè trovasi qualche poesia indi-r rizzata al Petrarca, si può congetturare chec gli fossero amici, e di cui, oltre ciò che ne hanno scritto nelle Opere loro i più volte citati Crescimbeni e Quadrio, parla ancora il ch. Muratori (Idea della perf. Poes. l. 1 , C. 3). Ma basti f aver detto de’ più illustri, e aggiugniam qui solo il nome di (due che si distinsero fra coloro che ne pianser la morte. Il primo è Zenone Zenoni pistojese, il qual trovavasi in Padova quando vi morì il Petrarca , con cui avea in quegli ultimi anni vissuto. Ei compose un poema diviso in tredici capitoli in terza rima, e intitolato Pietosa Fonte, il quale è stato dato alla luce, e con erudite note illustrato dal ch. dottor Lami (Delic. Erudit. t. 14). Questi vi ha premesse le notizie della Vita di questo poeta, eli1 ebbe per moglie Franceschina Salvetti di Pistoja, e che a questo poema si accinse per ordine di Francesco da Carrara. Egli però si mostra in esso non troppo colto poeta, e ben lontano dall1 eleganza di colui di cui piange la morte. L’altro è Franco Sacchetti, di cui pure abbiamo una canzone in morte [p. 860 modifica]860 LIBRO dello stesso Petrarca , pubblicata dopo altri dal medesimo Lami , dopo il poema del mentovato Zenoni. Assai diligenti ed esatte son le notizie che della vita dì questo poeta sono state premesse all1 edizione delle sue Novelle , fatta in Firenze F anno 1724. Da esse raccogliesi ch’ei nacque in Firenze circa il 1335 5 che fu avuto in conto di uno de’ più eleganti poeti del secol suo; che dai Fiorentini fu onorato di ragguardevoli cariche e di diverse ambasciate; che godé dell’amicizia de’ più dotti uomini e de’ più possenti signori di quell’età; che fu nondimeno soggetto a molti disastri non solo di malattie, ma di gravi danni ancora ch’ei sostenne e in se medesimo e ne’ suoi più stretti congiunti; e ch’ei morì, come sembra probabile, poco oltre al 1400. Le quali cose si posson ivi vedere ampiamente svolte e provate; e a me basta darne qui un cenno7 per non gittare il tempo in ripetere inutilmente ciò che può leggersi appresso altri. Ivi ancora si parla a lungo delle molte opere del Sacchetti, che ci rimangono manoscritte, poichè alle stampe non se ne hanno che alcune rime, dopo la Bella Mano di Giusto dei Conti, e le Novelle. Queste eran trecento; ma non se ne trovano che 258, e alcune di esse imperfette. Il loro stile, benchè non possa uguagliarsi a quel del Boccaccio, è nondimeno per una certa semplicità e schiettezza pregevole assai: ed esse perciò sono state annoverate tra’ libri che fanno testo di lingua. LII. E qui, poichè abbiam già fatta menzione delle Novelle del Boccaccio e del Sacchetti, e [p. 861 modifica]TERZO 86l poiché questo genere di componimenti si può con qualche ragione annoverar tra i poetici, non sarà, io credo, fuor di proposito il dir brevemente degli altri scrittori di Novelle che vissero a questa età. Il Boccaccio, benchè sia detto comunemente il primo scrittor di Novelle, non può nondimeno aver diritto al primato, se non per l’eleganza in cui niuno 1’ ha mai potuto uguagliare. Ma quanto al tempo, altri scrittori ve n’ebbe più antichi. Fra le Cento Novelle antiche , benchè non tutte sieno del medesimo secolo , e ve n’abbia ancora delle posteriori al Boccaccio, alcune ve ne ha però che hanno Un cotal contrassegno di antichità, che a ragione si credono scritte o al fine dei xiii , o al principio del xiv secolo; di che veggasi la prefazione premessa al primo tomo del Novelliere Italiano pubblicato in Venezia l’an 1754, ove però non sembrami abbastanza provato (p. 14) ch’esse sieno scritte poco dopo la morte d’Ezelino da Romano. Dietro a questi scrittori fu in questo secol medesimo quel ser Giovanni fiorentino autore del Pecorone, di cui non si ha alcun’altra notizia fuorchè quella ch’ei ci ha lasciata nel sonetto premesso alle sue Novelle, che è il seguente: Mille trecento con settant’otto anni Veri correvan 9 quando incominciato Fu questo libro, scritto et ordinato , Come vedete, per me Ser Giovanni; E in battezzarlo ebbi anche pochi affanni, Perchè un mio car Signor l’ha intitolato: Et è per nome Pecoron chiamato, Perchè ci ha dentro novi Barbagianni. [p. 862 modifica]862 1 LIBRO , f Et io son capo di cotal brigata 9 Che vo belando come Pecorone, Facendo libri, e non ne so boccata; Poni am che ’l facci a tempo , e per cagione Che la mia fama ne fosse onorata , Come sarà da zotiche persone. Non ti maravigliar di ciò , Lettore , Che ’l Libro è fatto come è l’Autore. Io non so comprendere come abbianvi potuto essere alcuni, accennati nella prefazione al secondo tomo del Novelliere Italiano, che abbiano sospettato che questo ser Giovanni fosse Giovanni Villani, mentre questi morì nel 1348, e le Novelle furono scritte trent’anni appresso. Altri poi seguiron le tracce di questi più antichi scrittori, ma quanto più essi son lungi da’ loro tempi, altrettanto sembrano ancora scostarsi da quell’aurea semplicità e da quella non ricercata eleganza che forma il più bello, o a dir meglio, l’unico pregio di cotali componimenti. Ma facciam ritorno a’ poeti. LUI. Gli ultimi anni del secolo xiv ne contaron parecchi che invece di cantar solamente d’amore presero più sublime argomento delle lor poesie. Tali furono alcuni che in versi vollero scriver la storia de’ loro tempi, ma il fecero comunemente con poco felice successo: come Boezio di Rainaldo di Poppleto aquilano, detto comunemente Buccio Renallo , che scrisse in versi, che or diconsi martelliani, la Storia deifi Aquila sua patria, dal 1252 fino al 1362, e Antonio di Boezio, detto volgarmente di Buccio di S. Vittorino, che con due altri poemi, uno intitolato Delle Cose del!Aquila, l’altro Della venuta del re Carlo di Durazzo, continuò la [p. 863 modifica]TERZO 863 Storia dell’Aquila dal i363, in cui era morto Boezio, fino al 1382; i quali tre poemi, benchè rozzi ed incolti, furon nondimeno dal Muratori dati alla luce (Antiq. Ital. t 6) per le notizie che ci somministrano. Somigliante giudizio dee darsi della Cronaca in terza rima de’ fatti di Arezzo dal 1310 fino al 1384# scritta da ser Gorello de’ Sinigardi o de’ Sighinardi d1 Arezzo notaio che allor vivea, la quale è stata pubblicata dal medesimo Muratori (Script Rer. ital vol 15, p. 809)5 ne^a cn* Prefazione si posson leggere le poche notizie che questo poeta ci ha lasciate di se medesimo nella sua Cronaca. Quel Pier de’ Natali, di cui abbiam ragionato parlando degli Scrittori di storia sacra, descrisse nel medesimo metro, cioè in terza rima, la venuta di papa Alessandro III a Venezia, del qual poema, che conservasi manoscritto, ha dato un saggio il celebre Apostolo Zeno (Diss. voss. t 2, p. 41). Maggior lode, in ciò che appartiene a stile poetico, deesi ad Antonio Pucci: perciocchè, come a ragione avverte il Quadrio (t. 2, p. 551), egli fu uno de’ primi che introducesse nel poetare quella burlesca e piacevol maniera, che fu poscia da’ susseguenti poeti, e singolarmente dal Berni, perfezionata. Ne sono pruova le Rime dall’Allacci inserite nella sua Raccolta, e un Capitolo delle cose di Firenze, scritto l’an 1373, e stampato dopo la Bella Mano di Giusto de’ Conti, ed altre Rime che se ne conservano manoscritte , delle quali veggasi il Crescimbeni (t 2, par. 2, p. 99). Nel qual genere di poesia si esercitaron in questo seco! medesimo [p. 864 modifica]864 LIBRO Adriano dei Rossi , Andrea Orgagna ed altri (Quadr. l. cit.). Opera di più ampio argomento fu quella che intraprese il Pucci, volgendo in terza rima la Cronaca di Giovanni Villani, la qual versione poetica è stata di fresco data alla luce in Firenze, per opera del P. Ildefonso di S. Luigi carmelitano scalzo (Deliz. degli Erud. Tosc. t. 3 , ec.). Dalla prefazione che l’indefesso sig. Domenico Maria Manni vi ha premessa, raccogliamo che Antonio fu figliuolo di un fonditor di campane, e che esercitò egli medesimo quest’impiego, e qualche altro ancora di non gran momento, che dal pubblico gli fu affidato. In essa trattasi inoltre di altre poesie di Antonio, e alcune se ne recan per saggio. Egli era già vecchio, come si trae dall’accennato capitolo, l’an 1373, e perciò non dovette viver molto più oltre. L1V. L’agricoltura ancora ebbe a questi tempi un poeta, cioè Paganino Bonafede bolognese che nel 1360 compose un poema sopra quest’arte intitolato il Tesoro dei Rustici. Il Quadrio ne rammenta (t. 6, p. 70) un codice ms. che aveane il canonico Amadei; ma il saggio che egli ne dà è sì poco felice, che a niuno, io credo, caderà mai in pensiero di pubblicarlo. Miglior sorte ha avuto il Quatriregio o Qilatri re gnio di Federigo Frezzi da Foligno domenicano, poi vescovo della sua patria, e morto al concilio di Costanza l’anno 1416 (Quetif et Echard. Script Ord. Praed. t. 1 , p. 758). In esso scrive l’autore in terza rima i quattro regni cf Amore, di Satana, de’ Vizi e delle Virtù, a imitazione di Dante, a cui, [p. 865 modifica]TERZO 865 benché sia ben lungi dall’essergli uguale, si può dire però, che non infelicemente tien dietro. Dopo alcune antiche edizioni, che si rammentan dal Quadrio (t 9, p. 262), è stato di nuovo dato alla luce in Foligno, e illustrato con note l’anno 1725. Questo autor medesimo ne rammenta un’altra opera in terza rima (ib. p. f\ 1) intitolata Cosmografia di Federigo da Foligno con varie istorie e viaggi 7 la quale trovasi nella biblioteca del re di Francia. Ad argomento sacro si volse Jacopo Gradenigo nobile veneziano che fioriva al fine di questo secolo stesso, e morì verso il 1420. Egli ridusse in un sol corpo di storia, ed espose in 44 capitoli in terza rima i quattro Vangeli, della qual opera conservasi copia nella libreria che già fu d’Apostolo Zeno (a). Di lui, e delle luminose cariche che sostenne nella repubblica, parla colla usata sua esattezza il P. degli Agostini (Scritt venez. t 1 , p. 278, ec.), il quale a questa occasione ragiona ancora (ib. p. 291) di un altro poema in terza rima di un anonimo veneziano di questi tempi medesimi, intitolato Leandreide ossia degli amori di Leandro e di Ero, in cui si nominano più altri Veneziani i quali allora aveansi in conto di valorosi poeti. Di questo poema tien copia l’eruditissimo e da me altre volte nominato con lode co. Rambaldo degli Azzoni Avogaro canonico di Trevigi. 11 (a) Jacopo Gradenigo scrisse ancora un ampio Coniento sulla Commedia di Dante, che ras. in un codice in pergamena conservasi presso il sig. Cardinal Giuseppe Gai ampi. Il nome deir autore vi è indicalo ju uu acrostico formalo in versi italiani. [p. 866 modifica]866 LIBRO Quadrio fa menzione (t 6, p. 429, ec.) di un altro codice che se ne ha nel monastero di S. Ambrogio in Milano, al fin del quale se ne fa autore il Boccaccio: il che però mostra egli stesso non potersi credere in alcun modo, essendo troppo evidente dal poema medesimo, clic f autore fu veneziano. Finalmente in argomento sacro si esercitarono Neri di Landocio, che in versi volgari descrisse la Vita di Santa Caterina di Siena, di cui era stato segretario, la qual Opera è stata pubblicata dal Gigli fra quelle della medesima Santa (t. ’ 1 , par. 2), e il Cardinal Luca Manzuoli fiorentino dell’Ordine degli Umiliati, che, per testimonianza del medesimo Gigli e di altri, scrisse in versi volgari alcune cose ad essa attinenti. Di questo cardinale io ho parlato stesamente in altra mia Opera (Vetera Humiliat. Monum. t. 1, p. 260, 290), ove ho ancora addotte le ragioni che mi persuadono di’ ei non sia l’autore di una traduzion di Lucano in ottava rima, come ha pensato il Quadrio (t 6, p. 170); la qual però, secondo l’osservazione di Apostolo Zeno (Note alla Bibl. del Fontan. t 1 , p.,285), è tutt’altro che una traduzion di Lucano, ma è anzi un rozzo accozzamento di storia e di favole , in cui talvolta vien citato Lucano (a). (a) A questi poeti sacri un altro ne aggiugnerò che da niuno, ch’io sappia, è stato finor conosciuto, benchè, a dir vero, non abbia gran diritto ad esser recato alla luce. Egli è il frate Enselmiuo da Monte Belluna degli Eremitani di S. Agostino, di cui presso il ch. signor Giacomo Biancani, professore di antichità nell’Istituto dì Bologna , conservasi un codice cartaceo in folio , [p. 867 modifica]TERZO 867 LV. Anche la sopraddetta santa Caterina di Siena, che verso il fine di questo secolo si rendette sì illustre non solo per la santità de’ costumi , ma ancora pe’ gravi affari in cui a ben della Chiesa si adoperò, e che finì di vivere l’an 1380, potrebbe aver luogo tra’ coltivatori della poesia italiana, tra’ quali in fatti l’ha annoverata il Quadrio (t 2 , p. 191); per alcuni pochi e non troppo felici suoi versi che se ne hanno alle stampe. Ma ella è troppo più illustre per altri riguardi, perchè le si debba ricercar nuova lode da questo studio per lei coltivato, benchè anche alle lettere abbia ella recato vantaggio colf eleganza con cui sono scritte le sue Opere in prosa, pubblicate dopo altri dal Gigli in quattro tomi. Alcune altre donne veggiam nominate che in questo secolo fatte esse pur poetesse o dall’amore, o dal desiderio di fama verseggiarono con qualche nome. Ma vi ha luogo a dubitare che la più parte di cotai rime siano state composte più tardi assai che non sembra, e attribuite a tai donne che o non mai vissero al mondo, o non mai poetarono. Tali sono Ortensia di Guglielmo e Lionora de’ Conti della Genga, e Livia di Chiavello tutte-da Fabbriano, alcune Rime delle quali ha scritto, come mi sembra, nel xiv secolo. Esso comincia: Incipit Orario si ve obsecratio ad postulamlam lamentacionem Beata? t’irginis Marine compilatimi vulgariter a frat re Enselmino de Monte Bri luna Ordinis Fratrum heremitarum sancii Augustini. L? inlrnduzione è in terza rima. Yien poscia il lamento della B. V. nello stesso metro divìso in più copi * e per ultimo la passione di Cristo ili ottava rima. [p. 868 modifica]868 LIBRO Eubblicato il Gilio dopo la sua Logica poetica; Lisabetta Trebbani ascolana, moglie di Paolo Grisanti, e donna che dicesi avvezza a trattar ugualmente la cetra e le armi, e di cui il Crescimbeni ha pubblicato un sonetto (Comment t. 3, p. 132) che dicesi estratto dall9 archivio del duomo d’Ascoli; Giustina Levi Perotti , della qual dicesi che inviasse un sonetto al Petrarca, pubblicato dal Tommasini (Petr. rediv.). a cui il poeta rispondesse con quello che comincia: La gola e ’l sonno e ’l oziose piume (V. Meni, pour la vie de Petr. t. 1, p. 189), il qual per altro dal Gilio dicesi indirizzato a Ortensia da Fabbriano , e da altri ad altri, Io non contrasterò a queste donne il titolo di poetesse; ma vorrei che un tal onore fosse lor confermato dalla testimonianza di scrittori e di poeti contemporanei. Una donna che facesse de’ versi, dovea allora sembrare un prodigio; e dovea perciò risvegliare in molti la brama di tramandarne il nome alla posterità. Or io non trovo che di alcuna di queste donne sinor nominate si faccia menzione da alcuno degli scrittori che visser con loro, e non posso perciò a meno di non dubitare che P alloro poetico non sia troppo ben fermo sulla lor fronte. Le Rime amorose di Cino da Pistoja sono comunemente indirizzate a una cotal Selvaggia che dal Quadrio t. 2, p. 176) e da altri dicesi essere Ricciarda de’ Selvaggi, ma negli Elogi degli illustri Toscani vien detta Selvaggia Vergiolesi (t, 2, elog. 3). Or fra le Rime di Cino abbiamo ancora un sonetto di Selvaggia. Ma sarebbe egli per avventura questo sonetto come que’ che [p. 869 modifica]TERZO 869 sotto il noine della Laura del Petrarca furono pubblicati in Venezia l’anno 1552, i quali da tutti si riconoscono per supposti? Più certe pruove abbiamo dei moltiplici studi di Giovanna Bianchetti bolognese. IL co. Mazzucchelli le ha dato luogo (Scritt. ital t 2, par. 2, p. 1126) tra gli scrittori italiani per alcune rime che se ne hanno stampate f e ha riferiti insieme gli elogi che ne fanno alcuni moderni scrittori. Io godo di poter comprovare almeno in parte il loro detto con assai più autorevole testimonianza, e stabilire con più certezza il tempo a cui ella visse. Nell’antica Cronaca italiana di Bologna, Pubblicata dal Muratori, si narra che quando imperador Carlo IV, l’an 1345, entrò insieme coll’imperadrice sua moglie in Bologna , con lei era in compagnia una venerabile Donna Bolognese, che sapeva ben parlare per lettere, e sapeva bene il Tedesco, il Boemo, e l’Italiano. A ve a nome Madonna Giovanna figlia che fu di Matteo dei Bianchetti di Strà San Donato , ed era Vedova, e fu moglie di Messer Buonsignor de’ Buonsignori da Bologna Dottor di Legge (Script. Rer. ital vol. 18, p. 436). Le quali medesime cose si narrano nella Cronaca latina della stessa città (ib. p. 170). Ma di ciò che gli accennati moderni scrittori affermano, eh1 ella sapesse ancora il latino, il greco, il polacco, e che fosse versata nelle scienze filosofiche e legali, io non trovo monumento ugualmente certo. LVI. Or dalle poetesse facendo ritorno a’ poeti, ella sarebbe fatica da non condursi sì presto a fine il parlare di tutti quelli che Tira boschi, Voi VI. 23 [p. 870 modifica]870 unito polrcbbono in questo capo aver luogo; si grande ne è il numero , come ben può raccogliersi dalle Storie del Crescimbeni e del Quadrio. Ma qual sarebbe il frutto di tal fatica? Nuli’ altro, come già ho accennato, che il sapere che il tale e il tal altro fecer de’ versi, del che io non credo che sia molto sollecito chi legge questa mia Storia; e che non parmi necessario a dare una giusta idea dell’italiana letteratura, potendoci bastare il sapere che grandissimo fu a questa età il numero de’ poeti che verseggiarono volgarmente. Solo vuolsi aggiugnere che tale era in questo secolo, se così possiam dire, la mania di verseggiare, che anche tra i principi e signori italiani furon moltissimi che ci lasciarono lor poesie. Già abbiamo altrove parlato di quelle di Luchino Visconti, di Guido Novello da Polenta, di Bosone da Gubbio, di Francesco Novello da Carrara. Oltre questi nella Storia del Quadrio veggiam indicate le Rime di Can Grande dalla Scala (t. 2 , p. 274)? di Castruccio Castracani signor di Lucca (ib. p. 177), e di Arrigo di lui figliuolo (ib. p. 179), del co. Guicciardo dei conti Guidi (ib. p. 180), di Bruzzi Visconti figliuol naturale di Luchino (ib. p. 188), di cui negli antichi Annali Milanesi si dice (Script. Rer ital. vol 16, p. 720) che era uomo ingegnoso e coltivatore delle scienze morali, e che da ogni parte radunava libri, di Aston e Manfredi signor di Faenza (Quadr. l. cit. p. 192), di Lodovico degli Alidosi signore d1 Imola (ib. p. 194); i nomi de’ quali ci basti l’aver qui accennati a onore della poesia italiana. Ed io farò fine alla serie de’ poeti di questo secolo [p. 871 modifica]TEMO 871 col dir brevemente di Bonaccorso da Montemagno, che per comune consenso è dopo il Petrarca un de’ più colti poeti del secolo XIV. Le poesie italiane da lui composte han veduta più volte la luce, e la miglior edizione è quella fattane in Firenze l’an 1718 per opera del canonico co. Giambattista Casotti (*). Questi vi ha premessa una prefazione erudita in cui raccoglie le poche notizie che si hanno di questo poeta, e avverte che le Rime, sotto il nome di lui pubblicate, non son di lui solo, ma di due Buonaccorsi da Montemagno, avolo il primo vissuto verso la fine del secolo xiv, il secondo nipote circa la metà del seguente. Il primo fu confaloniero in Pistoja sua patria l’an 1364 e credesi che sopravvivesse alcuni anni al Petrarca. Alcuni scrivono che Venceslao imperadore lo onorasse del cingolo militare; ma il suddetto editore dimostra non solo non avervi di ciò pruova alcuna , ma non esser punto probabile un tal racconto, poichè nè Venceslao scese mai in Italia, e Buonaccorso, quando quegli era imperadore, trovavasi, se pur ancora vivea, in età sì avanzata, che non poteva intraprendere il lungo viaggio dell’Allemagna, il che nondimeno, come avverte T eruditissimo ab. Zaccaria (Bibl. Pistor. p. 208), potrebbe spiegarsi dicendo che Venceslao gli mandasse (*) Dopo l’edizione delle Rime de* Buonaccorsi di Montemagno, futa in Firenze nel 1718, uà’altra più copiosa e meglio illustrata ne è stata fatta in Cologni, terra fra Vicenza e Verona, nel 1762, per opera del sig. Vincenzo Bcuini. [p. 872 modifica]872 unno il cingolo In Italia. Ma che così veramente avvenisse, converrebbe addurne più certe pruove. Lo stesso editore osserva che alcuni, quando tai Rime la prima volta si pubblicarono, ebber sospetto che fosser supposte da quei medesimi che al primo promulgatore le aveano inviate, cioè dal Varchi e dal Tolommei. Ma oltre le ragioni da lui addotte, i codici a penna, che se ne conservano in alcune biblioteche , e singolarmente nella Riccardiana, bastano a provare F insussistenza di tal sospetto. LVIL Chiudiam questo capo colf accennare il nome di uno che, se non Fu valoroso poeta, fu almeno il primo che scrivesse le leggi per poetar volgarmente. Ei fu Antonio da Tempo giudice padov ano, di cui abbiamo alle stampe un trattato latino intorno a’ versi italiani intitolato De Rithmis vulgaribus, il quale si dice composto l’an 1332. Il ch. Apostolo Zeno osserva (Lettere, t. 2, p. 240) che in questo libro, qual si ha alle stampe, parlasi ancora dell’ottava rima, la qual per altro credesi da molti usata prima d1 ogni altro dal Boccaccio. Ma egli riflette insieme che in un codice a penna, eh7 egli ne avea , nulla leggesi in tal metro; e lo stesso posso io dire di un altro codice che ne ha questa biblioteca Estense. In questo vi ha qualche altra diversità dallo stampato: perciocchè qui non si nomina distintamente nè l’autore, nè il personaggio a cui il trattato si dedica, che nella stampa è Antonio dalla Scala; ma solo si veggono alcune lettere iniziali , le quali nè all’uno nè all’altro non possono convenire. Ecco le prime parole della