Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo V/Libro III/Capo I

Capo I – Lingue straniere

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Tomo V - Libro III Tomo V - Capo II

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Capo I.

Lingue straniere.

I. Dappoichè le belle lettere e le scienze aveano dopo tanti secoli cominciato in Italia a tergere lo squallore fra cui si erano per sì lungo tempo giaciute, parea che le lingue orientali ancora dovessero, per così dire, esser richiamate in vita, e rendersi famigliari a’ dotti. E alcuni vi furono veramente che ne conobbero la necessità e il vantaggio, e si sforzarono di accenderne e di propagarne lo studio. Fra questi vuolsi annoverare singolarmente il celebre Raimondo Lullo, il quale non perdonò a diligenza per ottenerlo. Fin dall’anno 1286 egli erasi adoperato presso il pontefice Onorio IV; perchè si aprissero pubbliche scuole di lingue orientali. Ma ciò ch’egli allora non potè impetrare, si ottenne al principio di questo secolo, in occasione del general concilio in Vienna del 1311. Tra le leggi che da Clemente V in esso furono pubblicate, e che veggonsi ancora inserire nel Corpo del Diritto Canonico (Clement. tit. de Magistris), havvi quella con cui si [p. 675 modifica]LIBRO TERZO 675 ordina che ne’ luoghi ove la romana curia avrà residenza, e inoltre nelle università di Parigi, d1 Oxford, di Bologna, di Salamanca sieno due professori di lingua ebraica, due di arabica, due di caldaica, i quali esercitandosi in traslatare i libri di quelle lingue nella latina, in esse ancora istruiscano i loro scolari; anzi, come avverte il ch. monsignor Gradenigo, in alcuni codici mss. a queste tre lingue si aggiugne ancora la greca (Della Letterat. greco-ital. p. 116, ec.). Questo decreto probabilmente si dovette all’ardor di Raimondo per la conversione degli Infedeli; perciocché troviamo ch’egli si adoperò caldamente nel mentovato concilio per introdurre lo studio di queste lingue (V. Acta SS. jun. t.5,p. 666, ed. Antuerp.), e avrebbe aneli1 esso prodotti alla Chiesa non meno che alla letteratura copiosissimi frutti, se fosse stato eseguito. Io non so, nè è mia intenzione di ricercare, se cotai cattedre si fondassero veramente nelle tre università poc’anzi nominate fuori d’Italia. Ma in quella di Bologna io certo non ne trovo indicio veruno, e il Ghirardacci che ci ha dati alcuni catalogi de’ professori di tutte le scienze, che nel corso di questo secolo vi tennero scuola, non nomina mai un professore di lingue straniere. Onde è probabile che per le sciagure de’ tempi il riferito decreto non avesse esecuzione. Anzi la lingua arabica, la quale ne’ passati secoli, come si è veduto, avea avuti in Italia non pochi coltivatori, in questo ne ebbe assai pochi. E io non trovo che Pietro d’Abano, di cui si narra che recò dall’arabico in latino alcuni libri, come altrove abbiamo [p. 676 modifica]676 LIBRO osservato, e un certo Giovanni de’ Danti aretino, di cui dice l’ab. Mehus di aver veduta manoscritta una traduzione di un arabo geometra, fatta circa l’anno 1370 (Vita Ambr. camald. p. 155). Egli è ben vero che la filosofia d’Averroe, e la medicina di Avicenna e di altri scrittori arabi, avea ancora in questo secolo molti seguaci, e abbiamo udito.il dolersene che facea Francesco Petrarca. Ma i loro libri erano stati già comunemente tradotti in latino, e non facea bisogno di apprendere la lingua arabica per sapere ciò ch’essi insegnavano. Nella lingua ebraica parimente io non trovo chi fosse versato a questa età, oltre il legista Bartolo, di cui si è detto altrove, se non fosse quel Porchetto de’ Salvatici, genovese di patria e monaco certosino, che credesi vissuto al principio di questo secolo, di cui abbiamo alle stampe uif opera contro i Giudei (Oudin de script, eccl. t. 3,p. 736); perciocchè valendosi egli a confutarli de’ lor libri medesimi talmudistici e cabalistici , sembra che nol potesse fare senza intender la lingua in cui essi erano scritti. II. Assai più felice fu in questo secolo la sorte della lingua greca in Italia. L’ab. de Sade, parlando della cattedra di lingua greca data in Firenze l’anno 1360 a Leonzio Pilato, di che noi pure parleremo tra poco: Ecco, dice con gran sicurezza (Mém. pour la vie de Petr. t. 3,p. 626), la vera epoca del ritorno della lingua greca in Italia, ove ella era quasi interamente ignorata , checchè ne dica il P. Gradenigo nella sua lettera al Cardinal (Querini, in cui si fa a provare che questa lingua dopo t ix secolo è scnyjre [p. 677 modifica]TERZO O77 stata coltivata in Italia. Leggiadra maniera in vero di confutare le altrui opinioni 1 A questo modo, qualunque dimostrazion geometrica con un checche ne dica si può sciogliere ed atterrare. Ci dica di grazia l’ab. de Sade: Que’ che da monsignor Gradenigo si annoverano, e possiamo! aggiugnere, que’ non pochi di più che in questa Storia si son rammentati, seppero eglino, o non sepper di greco? Se egli afferma che non ne seppero, ce ne rechi le pruove, e distrugga quelle che si son recate a provare che ne avevano fatto studio. Se poi concede eh1 essi ne seppero, che trova egli a ridire nell1 opinione di monsignor Gradenigo? Soffrasi adunque in pace che noi continuiamo a vantarci che la- lingua greca non venne mai meno in Italia, e che ebbe sempre maggior numero di studiosi coltivatori che le circostanze de’ tempi non sembravan permettere. In questo tomo medesimo già ne abbiam vedute più pruove. Le traduzioni di più opere dal greco in latino fate da Pietro d1 Abano, e quelle non poche di Galeno, tradotte pure dal greco da Niccolò di Reggio, ci fan conoscere quanto in questa lingua essi fosser versati. Abbiam parimente veduto che assai dotto nella medesima era quel Paolo da Perugia custode delle biblioteche del re Roberto, e che in essa era ancora esercitata Cristina da Pizzano. Il Giannone racconta (l. 22, c. 7) che il re Roberto fece da Niccolò Ruberto recare da greco in latino più opere d1 Aristotele e di Galeno. Ma questi è probabilmente quel! medesimo Niccolò da Reggio da noi or or mentovato. Questo autore ragiona di un monastero di Tiràboschi, Voi VL il [p. 678 modifica]G78 LIHHO monaci greci che di questi tempi era presso Otranto, ove essi istruivano i giovani nella lor lingua e in tutte le scienze. Ma di ciò non panni di’ ci rechi pruova bastevole ad accertarcene (a), io non so parimente se possa addursi come certo argomento a provare che in Pavia si coltivasse assai questa lingua, ciò che nell1 opuscolo delle lodi di questa città, scritto al principio di questo secolo e pubblicato dal Muratori, si dice (Script rer. ital. t. 11,p. 14 cioè che nella chiesa di S. Michele Maggiore durava ancora il costume, che nella festa di S. Ennodio, diviso il clero in due cori, uno ufficiasse in latino, l’altro in greco5 perciocchè forse que’ che ufficiavano in greco non sapeano punto più di tal lingua di quello che or sappiasi comunemente da’ preti, i quali pur nelle Messe dicono non poche parole greche. III. Più certe pruove ne abbiamo riguardo ad alcuni dei quali parla il più volte lodato monsignor Gradenigo. E primieramente un figliuolo • (a) Pi il autorevole è la testimonianza di Antonio Galateo (che visse presso a que’ tempi, e che veduto avea il monastero, distrutto poi dai Turchi, che presero Otranto) a stabilire ciò che dal Giannone si afferma. Ecco le parole del Galateo (rie Situ Japig. p. Basii.).* Me Monachorum Magni Dasilii turba convivebat: hi omni veneratione rligni omnes Uteris Gracchi et plerique latinis inslructi optimum sui praebebant speetaeulum. Quicumque graecis literis operam dare cupi ebani, iis maxima pars victus, pracceptor, domicilium sine aliqua mercede donabatur. Sic res graccay quae quo ti die retro labi tur, substcntabatur. Queste ultime pai ole del Galateo fan vedere ancora che a7 tempi suoi le lettere greche erano in vigore nella provincia, sebbene non fiorivano come pria. [p. 679 modifica]TERZO 97Q di Bosone Rafaelli da Gubbio, di cui ragioneremo fra’ poeti italiani. Il sig. Francesco Maria Rafaelli, della famiglia medesima di Bosone, ha pubblicato un sonetto di Dante al detto Bosone (Vita di Bos. p. 118), in cui quegli con lui si rallegra che il figliuolo di lui velocemente s avvaccia nello stil greco e Francesco. Nel qual sonetto però quel verso: Gavazzi pur el primo Rafaelloy che da monsignor Gradenigo è stato inteso (l. dtp. 113) come se Gavazzi fosse il nome proprio di Bosone, a me pare che in diverso senso si debba intendere, e che gavazzi sia ivi verbo che italianamente dicesi per rallegrarsi, sicchè Dante voglia dire che Bosone può ben rallegrarsi per un tal figlio. Vivea al tempo medesimo il B. Angiolo da Cingoli, francescano, e fondatore della Riforma detta de’ Clareni, di cui abbiamo le traduzioni, di greco in latino, di alcuni opuscoli di S. Giovanni Grisostomo, di Giovanni Climaco e di S. Maccario, riprese, è vero, da Ambrogio camaldolese, come intralciate ed oscure, ma pur degne di lode riguardo a’ tempi in cui furon fatte. Intorno a lui e a queste due traduzioni veggasi il sopraccitato monsignor Gradenigo (p. 121). Questo scrittor medesimo annovera tra’ grecisti di questo secolo, sull’autorità dell’Arisi, cinque Cremonesi (p. 125,ec.), Valentino Emarsono, Dionigi Plasonio, Rinaldo Persichelli, Tommaso di Zaccaria e Ortensio Panerinio. Ma poichè l’Arisi o non ci arreca, a conferma della sua opinione, pruova alcuna, o sol qualche iscrizion sepolcrale troppo moderna, ei ci permetterà che per ora sospendiam di parlarne. Così pure non sembranmi abbastanza [p. 680 modifica](i8o uuno ciliare le pruove con cui si attribuisce la lode di aver saputo di greco a Giovanni Diacono veronese (ib. p. 126), nominato da noi tra gli storici. A mostrare che F. Domenico Cavalca domenicano (da’ PP. Quetif ed Echard mal collocato nel secolo xv (Script Ord. Praed. t 1, p. 878), mentre è certo (V. Zeno nota al Fontan. t. 2, p. 460) ch’ei morì nel 1342) fosse dotto nel greco, arreca monsignor Gradenigo (p. i2 \) f autorità del Cinelli che nella sua Storia manoscritta degli Scrittori fiorentini afferma che più libri ei tradusse dal greco nell’italiano. Ma io non veggo che alcun altro ne faccia menzione, e io trovo bensì che alcuni libri di S. Gregorio Magno e di S. Girolamo ei recò dalla latina nell1 italiana favella (Bibl. de’ Volgarizz. t. 2, p. 182; t. 5, p. 526, 533, 534, 535, 754, 755), ma di greci autori da lui tradotti non trovo vestigio. Finalmente monsignor Gradenigo ragiona di Pietro da Braco piacentino (p. 127), a cui attribuisce l’Oudin (De Script eccL t 3, p. 1220) la traduzione di due orazioni di Demostene e di Luciano. Ed è certo che a questi tempi fiorì un Pietro da Braco cappellano d’Innocenzo VI, e autore di qualche opera canonica che conservasi manoscritta (Mazzucch. Scritt. ital t 2, par. 4, p- 1968). Ma se ei sia lo stesso che il traduttore di dette opere, non è sì facile a diffinire. Invece di questi però noi possiam nominare Guglielmo da Pastrengo, di cui abbiam ragionato nel capo precedente, perciocchè il Petrarca, col rammentare le conferenze ch’ei soleva far seco sugli autori greci e latini, ci mostra eh1 ci possedeva l’una non meno che l’altra lingua. [p. 681 modifica]TERZO 68 f IV. È certo però che al Petrarca e al Boccaccio singolarmente, e a’ due Calabresi da essi favoriti e protetti, si dovei te il fervore con cui più che in addietro si volsero gl’Italiani allo studio di questa lingua. Il Petrarca, avido al sommo di apprendere quanto apprendere può un uomo, desiderava occasione d’istruirsi in essa. E la sorte gliene fu favorevole all’occasione della venuta in Occidente del celebre monaco Barlaamo, di cui, poichè fu italiano di nascita, dobbiamo qui ragionare; e noi il faremo seguendo singolarmente le tracce del diligentissimo co. Mazzucchelli (ib. t 2, par. 3, p. 369, ec.), il quale confessa di essersi giovato della Vita che di fresco aveane scritta il Dott Baldassarre Zamboni lettor di teologia nel seminario di Brescia, e che doveasi allor pubblicare: il che però io non so che siasi ancora eseguito. Ma insieme aggiugneremo più cose tratte dalle opere dello stesso Petrarca, esaminando al medesimo tempo ciò che ne ha scritto l’ab. de Sade. Questo scrittore, sull’autorità non troppo valida dell’Ughelli (Ital.sacra} t 9, p. 395), oltre il nome di Barlaamo, gli dà quel di Bernardo (Mém. pour la vie de Petr. t. 1 , p. 406), e benchè confessi, come tutti gli Scrittori affermano costantemente , eh’egli era nato in Seminara nella Calabria, aggiugne, senza recarne pruova , ch’egli era oriondo di Grecia. Egli, rendutosi in età giovanile monaco basiliano, per desiderio di apprendere la lingua greca passò nell’Etolia, quindi a Salonicchi, poscia nel 1327 a Costantinopoli. Quivi [p. 682 modifica]682 L1BHQ avendo dato saggio del suo sapere nell1 astronomia, nella filosofia, nelle matematiche e in ogni sorta di letteratura e di scienza, ottenne il favore dell’iniperador Andronico il giovane, e di Giovanni Cantacuzeno, che allora erane il favorito. Questi, raccoltoselo in casa, gli diè l’incarico d’insegnare la teologia, e la Dottrina creduta di S. Dionigi, e insieme le belle lettere; e l’anno 1331 ebbe anche l’onore di esser fatto abate del monastero non di S. Salvadore, come con alcuni altri dice l’ab. de Sade, ma di Santo Spirito, come pruovasi dagli autentici monumenti citati dal co. Mazzucchelli. Barlaamo, gonfio di tanti onori, credeva ormai di non aver l’uguale in dottrina; e ardì di sfidare a contesa P «ice foro Gregora, uno de’ più dotti Greci che allor vivessero. Ma il cimento riuscì poco onorevole a Barlaamo, che, vergognatosene, si ritirò a Salonicchi. Fra non molto però gli si offerse occasione di tornare con decoro a Costantinopoli. Perciocchè, venuti colà due legati di Giovanni XXII per trattare della riunione della Chiesa greca colla latina, e non volendo i Greci venir con loro a disputa, Barlaamo, che col lungo soggiorno tra gli Scismatici ne avea contratti gli errori, entrò a difenderli, e li sostenne con alcuni libri allor pubblicati. Ma poco appresso ei concitò contro se medesimo altri nemici. Verso il 1336 mosse guerra a’ monaci del Monte Ato sulla famosa quistione del lume Taborico, quistione troppo nota a’ teologi, e troppo indifferente pe’ non teologi perchè io qui ne ragioni. La contesa tra lui c [p. 683 modifica]TEMO 683 que’ monaci, sostenuti singolarmente da Gregorio Palama, durò allora fino all’an 1339, nel qual anno fu interrotta, perchè Barlaamo fu dalfimperador Andronico inviato alle corti d’Occidenle, e nominatamente a quella di Benedetto XII in Avignone, sotto pretesto della bramata riunione, ma veramente per ottenerne soccorso contro de’ Turchi, da’ quali l’impero greco veniva sempre più minacciato. Tutte le quali cose, da me in breve accennate, si posson veder comprovate con testimonio di autori contemporanei e di autentici documenti presso il sopraccitato co. MazzucchellL V. L’abate de Sade afferma che a questa occasione il Petrarca fece conoscenza ed amicizia con Barlaamo (l. cit p. 408), e che cominciò sotto di un tal maestro ad apprendere la lingua greca, e altrove riprende il co. Mazzucchelli (ib. t 2, p. 76) perchè ha creduto che probabilmente ciò avvenisse non in Avignone ma in Napoli. E certo in questa seconda città non potè seguire il primo incontro del Petrarca con Barlaamo, come ora vedremo; ma io penso ch’esso delibasi ancor differire al secondo viaggio in Italia che fece Barlaamo. Questi, non avendo ottenuto dalla sua venuta in Avignone il frutto ch’egli sperava, tornossene in Grecia, ed ivi di nuovo diedesi a molestare i monaci del Monte Ato, intorno alla lor opinione sul lume taborico. La contesa andò tant’oltre, che fu mestieri di radunare un sinodo in Costantinopoli , a cui si diè cominciamento agli 11 di giugno del 1341 • Ma il poco favorevol successo che vi ebbe la causa di Barlaamo detemiinollo [p. 684 modifica]684 L1BH0 a tornarsene in Italia , e a recarsi alla corte del re Roberto. Or il Petrarca, venuto a Napoli verso il marzo di quest’anno medesimo, ne partì presto per andare a ricevere in Roma la corona d’alloro, di cui fu onorato agli otto di aprile; e tosto partitone, e recatosi a Parma, al principio del seguente anno 1342 fe’ ritorno in Avignone. Non potè dunque certamente il Petrarca conoscere in Napoli Barlaamo, che non vi venne se non dopo il mentovato concilio tenutosi’ , quando già da più mesi il Petrarca era partito da Napoli. L’ab. de Sade afferma che Barlaamo, dopo aver soggiornato per qualche tempo in Napoli, tornò ad Avignone, e che ivi di nuovo si strinse in amicizia col Petrarca , finchè, a’ 2 di ottobre dello stesso anno 1342, fu fatto vescovo di Geraci nella Calabria (il qual vescovado non è già stato poscia trasferito a Locri, come questo scrittore afferma , ma al contrario (UghelL Ital. Sacra t 10 in Episc. locr.) quel di Locri è stato trasferito a Geraci) , e dovette di bel nuovo staccarsene. Di questa seconda venuta di Barlaamo ad Avignone non parla il co. Mazzucchelli. E nondimeno io credo ch’ella si debba ammetter per certa, se è vero ciò che l’abate de Sade asserisce, cioè che Barlaamo fosse ordinato vescovo dal Cardinal Bertrando del Poggetto: perciocchè questi allora era in Francia; e pare che in ciò ei meriti fede, perchè egli ha veduti i registri delle lettere pontificie di questi tempi, che conservansi in Avignone. Ma che il Petrarca amendue le volte vi conoscesse Barlaamo, e amendue le volte gli si desse a [p. 685 modifica]I TEnzo G85 discepolo f come lo stesso ab, de Sade ci racconta , io non posso indurmi a crederlo sì facilmente, e penso che la seconda volta soltanto ei si stringesse in amicizia con lui. Il Petrarca, ogni qualvolta ne fa menzione, sempre ne parla come di uomo una volta sola e per breve tempo da lui conosciuto*, nè mai accenna che due volte lo avesse a maestro. Confessa bensì che con grande ardore egli avea intrapreso lo studio della lingua greca e de’ greci autori. Ne’ suoi Dialogi con S. Agostino, questi, da’ libri di Platone, gli dice, tu hai potuto apprendere cotali cose, i (quali corre voce che di fresco sieno stati da te avidamente, letti Io avea preso , il confesso, ripiglia il Petrarca, a leggerli con viva speranza e con gran desiderio; ma la novità della lingua straniera e F affrettata partenza del mio maestro troncarono i miei disegni (De Contemptu Mundi dial. 2). Ove riflettasi che questi Dialogi, come ottimamente afferma Y abate de Sade (t. 2, p. 101), furon dal Petrarca composti l’an 1343, e perciò, col dirsi che di fresco avea preso a legger Platone, nuper incubuisse diceris, sembra certo che si accenni il precedente anno 1342, il quale io penso che fosse il solo in cui il Petrarca fece conoscenza con Barlaamo. Udiamo ancora com’ ci ragiona in una lettera , scritta dopo la morte di Barlaamo , a Niccolò Sigeros, che aveagli inviato in dono un Omero greco. Egli si duole (Var. ep. 21) che non sappia tanto il greco quanto a intendere quel poeta sarebbe d* uopo. Quindi, la morte, dice, mi ha rapito il nostro Barlaamo, o a dir meglio io stesso me n era [p. 686 modifica]686 LIBRO privato, non riflettendo al danno che mi veniva dal desiderio eh9 io avea di fargli onore• Pertanto, mentre io gli porgo aiuto per giugnere al vescovado, perdetti il maestro sotto cui avea preso a studiare con grande speranza... Avendo ei cominciato a istruirmi in più cose nel cotidiano suo magistero, confessava però, che nullameno egli era a me debitore, e che molto apprendeva dalla mia conversazione. Io non so se così egli favellasse per cortesia , o per amore di verità. Ma certo, quanto egli era eloquente nella lingua greca, altrettanto inesperto era della latina , ed essendo di prontissimo ingegno , penava nulladimeno nell esprimere in essa i suoi sentimenti Quindi a vicenda ed io entrava dietro i suoi passi, ma con timore , ne’ confini del suo regno , ed egli spesso segui vanii, ma con piede più fermo, entro i miei. Perciocchè sapeva egli assai più di latino che non io di greco, ec. Qui ancora non parla il Petrarca che di una sola occasione in cui conobbe Barlaamo; e non altra cagione arreca dell’aver interrotti gli studi sotto di lui intrapresi, che l’elevazione di lui al seggio episcopale, in cui dice che aveagli egli stesso recato aiuto. Due altre volte finalmente egli accenna questo medesimo studio da sè cominciato sotto di Barlaamo (Senil l 11, ep. 9 de Ignorantia, sui, etc. op. t 2, p. 1162), e ne attribuisce l’interrompimento alla morte che gli avea rav pito il maestro; il che però deesi intendere nel senso in cui l’abbiamo udito spiegarsi da lui medesimo nel passo or ora recato. Non parmi adunque probabile che la prima volta che [p. 687 modifica]TERZO 687 Barbiamo recossi alla corte di Avignone vi conoscesse il Petrarca, che allora probabilmente stavasene nella sua Valchiusa; e sembra anzi verisimile che solo l’anno i’i’ \2 ei facesse con lui conoscenza. * VI. Barlaamo, prima di esser fatto vescovo di Geraci, dovette ritrattare palesemente gli errori de’ Greci, in addietro da lui sostenuti} e, a fare pubblicamente noto il suo ravvedimento, scrisse alcuni libri in difesa della Chiesa latina. Secondo l’Ughelli (l. cit), egli era già morto a’ 4 agosto del 1348, nel qual giorno gli fu dato a successore Simone da Costantinopoli, monaco egli pure basiliano. Nondimeno l’abate de Sade ne differisce la morte fino all’anno 1353 (l. cit p. 77). Ma di questa sua opinione ei non si compiace pur di accennarci una leggera pruova. Del sapere di Barlaamo ci sono un bastevole testimonio gli elogi con cui abbiamo udito favellarne il Petrarca. Domenico di Bandino d’Arezzo il dice diligentissimo ricercatore della greca letteratura, e ottimo interprete delle poetiche favole (ap. Mehus. Vita Ambr. camald p. 219); e con somiglianti encomii ne parla Giannozzo Manetti nelle Vite del Petrarca e del Boccaccio (ib. p. 269). Il Boccaccio ancora, che avealo conosciuto in Napoli, ne parla con somma lode, chiamandolo calabrese, piccolo di statura , ma grandissimo in sapere: talchè ei portava seco attestati di imperadori e principi greci, e di più uomini dotti che affermavano non sol nei tempi presenti, ma ancor da più secoli addietro, non essere stato tra’ Greci alcun altro fornito di sì vasta scienza (Gencal. [p. 688 modifica]688 LIBRO Deor. l 15, c. 6). Ma pruova ancora più certa ne sono le opere da lui composte, delle quali veggasi l’esatto catalogo presso il ch. Mazzucchelli e presso il Fabricio (Bibl.gr. t. 10, p. 427 ec.)Alcune di esse son teologiche, quali in difesa degli errori dei Greci, quali a loro confutazione, secondo i diversi tempi in cui le scrisse, come si è osservato; la qual diversità di opinioni ha indotto alcuni a pensare, ma contro ogni ragione, che si dovessero ammettere due Barlaaini (a). Altre ancora ve ne ha sulle contese eh1 egli ebbe con Gregorio Palama. Ma Barlaamo non era solo teologo: sei libri abbiamo ancor d’aritmetica da lui composti, e dati poscia alle stampe, oltre una dimostrazione aritmetica di alcune proposizioni di Euclide, che dal conte Mazzucchelli si omette, e dal Fabricio si annovera in altro luogo (ib. t. 5, p. 18); inoltre due libri di Filosofia Morale secondo gli Stoici, pubblicati da Arrigo Canisio (Thes. Lection. antiq. t. 4 ed. Antuerp.); alcune orazioni e alcune lettere; oltre qualche libro che o senza pruova, o contro ragione gli si attribuisce, di che si veggano i mentovati scrittori. Di lui ha parlato a lungo anche l’Oudin (De Script, eccl. t 3, p. 814; ec.) e il ch. monsignor Gradenigo (o) Anche il sig Matteo Barbieri afferma che due furono i Barlaaini, amendue di Seminara (Notizie d?y Matem. e Filos. ruzpol. p.). Di questa sua opinione ei non adduce pruova di sorte alcuna; nè io posso perciò sapere a qual fondamento sia appoggiata. Certo io non veggo alcuna necessità di farne due personaggi, quando non vi siano documenti che apertamente li distinguano. [p. 689 modifica]TERZO G8(J (l 22 c. i3) rilevando alcuni errori commessi nel favellarne da monsig. Domenico Giorgi, e da lui stesso poi modestamente ritrattati. VIL La perdita di Barlaamo non iscemò nel Petrarca l’ardore, ond’era compreso, di sapere la lingua greca. E quanto ei ne fosse avido ben il dimostra la lettera poc’anzi accennata a Niccolò Sigeros, in cui nel tempo medesimo che si duole di non poter gustare, come vorrebbe, le bellezze di Omero, sfoga il vivo suo giubilo d’averlo pur ricevuto, e lo prega insieme a mandargli ancora Esiodo ed Euripide. Questo suo trasporto medesimo per la lingua greca si dà a vedere in una lettera ch’egli scrisse, secondo il suo costume di scrivere a’ morti, l’anno 1360, a Omero, in risposta a una che o egli finge essergli da lui stata scritta, o gli fu veramente scritta a nome di Omero dal Boccaccio, o da qualche altro. Questa lettera del Petrarca è inedita, ma è stata in gran parte inserita dall’ab. de Sade nelle sue Memorie (t 3 , p. 627). Io ne sceglierò solo un tratto, in cui il Petrarca ragiona di quelli che allora in Italia sapean il greco: Non e’ strano, scrive egli ad Omero, che tu non abbi trovati che tre amici in una città (Firenze) che non si occupa che nel commercio. Se cercherai meglio, ne troverai un quarto; converrebbe aggiugnerne un quinto ancora onorato della corona; ma la Babilonia ce lo ha tolto. Cinque in una sola città sono eglino una cosa da nulla? Cercane nelle altre città: uno ne troverai in Bologna madre degli studj, due in Verona, uno in Mantova , se il cielo non Vavesse tolto alla terra, % [p. 690 modifica](k)0 LIBRO e se non avesse abbandonate le tue insegne per seguir quelle di Tolommeo. Perugia ne ha prodotto un solo, che avrebbe fatti gran progressi se fosse stato più diligente, e se non avesse abbandonato il Parnassi), HA pennino c V Alpi per viaggiare in Ispagna. A Roma non ve ne ha alcuno. Certi altri io conoscevane altrove7 che or più non vivono. L’ab. de Sade, commentando questo passo del Petrarca , dice che i tre Fiorentini nominati in primo luogo sono il Boccaccio, Francesco Nelli priore de’ SS. Apostoli , noto nelle lettere del Petrarca sotto il nome di Simonide; Coluccio Salutato, ovvero Francesco Bruni; che il quarto fu forse lo stesso Petrarca, e il quinto fu certamente Zenobi da Strata. E quanto al Boccaccio e a Zenobi la cosa non soffre difficoltà. Il Salutato probabilmente non seppe di greco, come fra poco vedremo. Del Nelli e del Bruni io non trovo argomento a provare che ne sapessero: Che poi il Petrarca voglia intender se stesso , ove nomina il quarto, l’ab. de Sade nol mel persuaderà di leggeri, perciocchè se di Zenobi, stato lungo tempo in Firenze, e allor trasferitosi in Avignone, dice che dovrebbe aggiugner lui pure, ma che non ardisce di farlo perchè non è in Firenze, quanto più avrebbe dovuto parlare in somigliante maniera di se medesimo , che due volte appena e sol di passaggio veduta avea la sua patria? Il Bolognese, crede lo stesso autore che sia Pietro da Muglio, di cui parlerem tra’ gramatici; i due Veronesi , Guglielmo da Pastrengo, di cui è certo che il possedeva, e Rinaldo da Villafranca, di [p. 691 modifica]TERZO 6yi cui direni tra’ poeti; il Mantovano, Andrea da Mantova poeta amico del Petrarca; il Perugino finalmente, Muzio da Perugia, di cui abbiamo

alcuni sonetti allo stesso Petrarca Ma chiunque

essi fossero, qui abbiam dieci Italiani noti al Petrarca come uomini intendenti nella lingua greca, oltre quegli altri che ei dice da lui conosciuti, e già morti, e oltre quelli ch’ei non avrà conosciuti. Come dunque ha potuto l’abate de Sade affermare (t. 1 , p. 406) che si penerebbe a trovar sei persone in Italia che a questi tempi sapesser di greco? Vili. 11 Boccaccio, che certamente era uno de’ Fiorentini dal Petrarca indicati, apprese il greco da Leonzio Pilato. L’ab. de Sade dice che questi era natio di Tessalonica (t 3yp. 620), e così afferma anche in un luogo il Boccaccio (Geneal. Deor. l. 15, c. 6). Ma il Petrarca ci assicura ch’egli era calabrese, e solo faceasi creder greco, per averne maggior fama: Leo noster vere Calaber, sed, ut ipse vulty Thessalus, quasi nobilius sit Graecum esse quam Italum: idem tamen, ut apud nos Graecus, sicut apud illos , credo, Italus, quo scilicet utrobique peregrina nobilitetur origine (SeniL l. 3, ep. 6); e altrove dice che due uomini assai dotti nel greco avea la Calabria avuti a’ suoi giorni, Barlaamo e Leonzio (Senil. l. 11, ep. 9). Il Boccaccio medesimo ce ne fa una pittura non molto piacevole , e cel descrive come uomo di orrido aspetto, di fattezze deformi, di lunga barba e di capegli neri, sempre immerso in profonda meditazione, di rozze ed incolte maniere, ma insieme dottissimo nella [p. 692 modifica]6^3 LIBRO greca letteratura, e quasi un Inesausto archivio delle storie e delle favole greche, benchè nelle latine non troppo istruito (l. cit.). Costui dunque venuto essendo a Venezia, l’anno 1360, per andarsene in Avignone (nel che 1 ab. de Sade confuta a ragione il sentimento del signor Domenico Maria Manni, che dice (Illustr. del Decam, par: 1, c. 11) ciò avvenuto circa il 1348) fu dal Boccaccio invitato a venirne a Firenze. Udiamo da lui medesimo come di ciò giustamente si vanti, narrando ciò che fatto avea riguardo a Leonzio: Non fui io forse (l. ciL c. 7) che co’ miei consigli distolsi Leonzio Pilato dal lungo viaggio che far volea da Venezia alla Babilonia occidentale, e il tenni meco in Firenze? che il ricevetti nella mia propria casa, e per lungo tempo gli diedi alloggio , e con gran fatica mi adoperai perchè fosse ricevuto tra’ dottori dello Studio fiorentino, e assegnato gli fosse dal pubblico lo stipendio? Io fui il primo tra gli Italiani che da lui udii privatamente spiegar! l’Iliade; io che feci in modo che i libri di Omero si spiegassero pubblicamente. Ed ecco la prima cattedra di lingua greca aperta in Italia, di cui io non so se altra più antica si possa additare nell’Occidente. Firenze ne fu debitrice al Boccaccio, il quale, di ciò non pago, diessi ancora, a raccogliere, come altrove abbiamo veduto, a sue spese le opere d’Omero, cui sotto la direzione di tal maestro studiò per lo spazio di tre anni con somma attenzione (ib. c. 6). Quindi a ragione Giannozzo Manetti affermò che quanto aveasi di libri greci in Toscana, tutto doveasi al Boccaccio: [p. 693 modifica]TERZO (X)3 ut totum hoc quidquid apud nos Graecorum est} Boccaccio nostro feratur acceptum (Ap. Manni, L cit c. 18). Ma il Boccaccio non potè godere sì lungamente , come avrebbe voluto , della istruzion di Leonzio. Avendolo egli condotto seco a Venezia, ove era il Petrarca, sul line deir anno i363 , nel tornarsene che dopo qualche tempo ei fece a Firenze, Leonzio volle rimanersi in Venezia per tragittarsi di nuovo in Grecia, come di fatto avvenne. Udiamone il racconto dello stesso Petrarca in una sua lettera al Boccaccio dei 5 di marzo 1364 (Senil. l. 3 , ep. 6). Questo Leone, dice egli, che veramente per ogni riguardo è una gran bestia, benchè io nol volessi e cercassi di dissuadernelo più sordo nondimen degli scogli, a quali volea andarsene, dopo la tua partenza se n è partito. Tu ben conosci e me e lui, e non sapresti decidere se ci fosse più malinconico , o io più lieto. Temendo adunque che col continuo convivere io non ne contraessi il reo umore (poichè le infermità dell animo non son meno contagiose di quelle del corpo), e vedendo che a ritenerlo facea il uopo ben d* altro che di preghiere, gli ho permesso t andarsene , e gli ho dato a compagno del viaggio il comico Terenzio, di cui io aveva osservato che ei dilettavasi sommamente, benchè io non intenda che abbia a fare questo sì malinconico Greco con quel sì piacevole Africano: tanto è vero che non v ha dissomiglianza che in qualche cosa non si assomigli. Ei dunque se ne é andato sul finir della state, dopo avere in mia presenza fatte mille amare invettive contra l Italia c T ira boschi , Vol. TI. 12 [p. 694 modifica]694 ItBilO contra il nome Latino. Appena poteva egli essere giunto in Grecia, quando eccomi alt improvviso una sua lettera più lunga e più ispida della sua barba e de’ suoi cape gli, in cui, fra le altre cose, loda ed esalta come una terra celeste F Italia già da lui maledetta, e maledice Costantinopoli tanto da lui già lodata , e mi prega che gli comandi di tornarsene a me in Italia più istantemente di quel che Pietro vicino a naufragare chiedesse di esser liberato dall onde. Ma il Petrarca, che troppo avea conosciuta l’istabilità di costui, non volle farne altra pruova: e in un’altra lettera scritta da Pavia al Boccaccio del decembre dell’anno stesso (Senil. l. 4, ep. 4) > No, dice , ei non avrà mai nè lettera nè messo che in nome mio il richiami, per quanto egli mi preghi: stinsi ove egli ha voluto, e abiti miseramente colà ove insolentemente se ne è andato. L’infelice Leonzio, benchè non vedesse risposta alle sue lettere, determinossi di ritornare in Italia, sicuro di ritrovare nel Petrarca e nel Boccaccio un’amorevole accoglienza. Ma mentre, postosi in mare, accostavasi all’Italia , ecco sorgere un’impetuosa tempesta per cui atterrito , mentre si stringe a un albero della nave, un fulmine incenerì al medesimo tempo l’albero e il misero Greco. Di che il Petrarca ragguagliando il Boccaccio con una sua lettera, scritta nel gennajo dell’anno 1365 (ib. l. 6, ep. 1), ne piange con sentimenti di compassione la morte, poichè, comunque colui fosse sì poco amabile, sapeva ciò nondimeno di esserne amato; ed egli e il Boccaccio non poco frutto tratto n’avevano pe’ loro studi. [p. 695 modifica]TERZO 6g5 IX. E il principal vantaggio che essi n’ebbero. fu l’avere una traduzione di Omero dal greco in latino. Aveasene, è vero, una più antica versione attribuita a Pindaro tebano , come pruova l’ab. Mehus citando gli autori che han recati passi latini d’Omero, prima che Leonzio facesse la sua. Ma ella non soddisfaceva al desiderio degli ammiratori di quel divino poeta. Leonzio perciò ad esortazion del Boccaccio si accinse a questa impresa. Nella lettera poc’anzi citata, in cui il Petrarca avvisa il Boccaccio della partenza di Leonzio per la Grecia, io ti prego, gli dice, a volermi mandare quella parte dell Odissea dOmero, in cui Ulisse scende all’Inferno, che costui a tua esortazione ha recata in Latino Poscia procura di grazia , che a mie spese per opera tua questa mia Biblioteca, che già da lungo tempo ha un Omero greco , ne abbia ancora un intero latino. Il Boccaccio soddisfece alle istanze del suo amico Petrarca, mandandogli l’Omero latino di sua mano copiato, come raccogliesi dalle lettere che questi in ringraziamento gli scrisse (Senil. l 5, ep. 1; l. 6, ep. 1,2), da cui però intendiamo che ei n’ebbe bensì intera f Iliade , ina parte solo dell’Odissea. Fu dunque questa versione opera di Leonzio, fatta a esortazion del Boccaccio; nè il Petrarca altra parte vi ebbe che di farne a sue spese trarre una copia. Quindi debbonsi emendare quegli scrittori, accennati dall’ab. de Sade (t. 3, p. 633), che dicono essersi fatta cotal traduzione a spese dello stesso Petrarca, e quegli che con più grave errore pensano che il Petrarca medesimo [p. 696 modifica]Ogb libro ne fosse 11 traduttore. Il dirsi poi dal Petrarca che solo una parte dell’Odissea avea ei ricevuto, ha fatto credere allo stesso ab. de Sade (ib. p. 673) che Leonzio Pilato non l’avesse finita. Ma l’esemplare compito , che se ne conserva nella biblioteca della Badia fiorentina , scritto per mano di Niccolò Niccoli (Mehus, Vita Ambr. camald, p. 3^3)? ci mostra che Leonzio condusse a fine il suo lavoro, e che se il Petrarca non l’ebbe intero, ciò fu probabilmente perchè il Boccaccio non potè finir di copiarlo (*). X. Così a due Calabresi Barlaamo e Leonzio, e a due Fiorentini, cioè al Boccaccio ben istruito in questa lingua, e al Petrarca che non ne ebbe che qualche tintura, ma pur fomentonne molto lo studio, dovette l’Italia il fervore con cui si presero a ricercare e a studiale gli autori greci. U11 altro Greco ebbe per (*) Della versione di Omero, che stava allora facendo Leonzio, parla il Petrarca anche nella decima delle sue lettere inedite nel codice Morelliano , che è scritta al Boccaccio verso il 1361 , e in essa di nuovo si duole di non aver potuto apprender sì bene, come avrebbe bramato, la lingua greca: ni si meis principiis invidisset fortuna, et praeceptoris eximii haudquaquam opportuna rtiors, ho di e forte plus aliquid quam elementarius Grajus essem. Parla in essa ancora di un codice greco delle Opere di Platone , ch’ei seco avea, e che il Boccaccio bramava, per farlo pure recare in latino: Quod Platonicum volumen, quod exillo transalpini ruris incendio ereptum domi habeo , simul poscitis, vestrum mihi commendat ardorem , et id ipsum praesto erit tempore; nec omnino aliquid tantis caeptis per me deerit. [p. 697 modifica]TERZO 697 qualche tempo PItalia, che giovò egli pure a far conoscere e coltivar la sua lingua , dico Demetrio, detto da altri Cidonio, da altri tessalonicese, da altri Costantinopolitano, di che veggasi il Fabricio (Bibl graec. vol 10, p. 385). Che ei venisse in Italia e soggiornasse qualche tempo in Milano nel corso di questo secolo , attendendovi allo studio della lingua latina e della teologia, si a (Terni a dal Volterrano (Comment. urbana. l. 15). Ma più certa pruova ne abbiamo non solo in varie opere da lui tradotte da latino in greco, che si annoverano dallo stesso Fabricio, ma ancora dalla traduzione e sposizione che in lingua greca ei fece della Liturgia Ambrosiana, la quale, con erudite note illustrata e tradotta in italiano dal ch. P. D. Angelo Maria Fumagalli abate Cisterciense, è stata pubblicata in Milano l’an 1757. Coluccio Salutato in varie sue lettere inedite , delle quali alcuni passi ha pubblicati l’ab. Mehus (Vita Ambr. camald. p. 356, ec.), parla con somme lodi di questo Greco, di cui esalta l’eloquenza e il sapere, e accenna che essendo egli venuto dalla Grecia a Venezia insieme con Manuello Crisolora, Roberto Rossi fiorentino, di cui parleremo tra’ poeti latini del secol seguente, erasi colà recato per apprenderne la lingua greca. Quando ciò accadesse, non è facile a diffinire, poichè ciò non dovett’essere allor quando il Crisolora fu da’ Fiorentini chiamato l’an 1396 alla cattedra di lingua greca nella loro università, perciocchè in tal caso un Fiorentino non sarebbesi recato a Venezia per darglisi a discepolo. Egli è dunque probabile che fosse questo [p. 698 modifica]698 LIBRO un viaggio da’ mentovati due Greci fatto alcuni anni prima. Dalle stesse lettere si raccoglie che Jacopo d’Angelo fiorentino egli pure, di cui, come ancor del Crisolora, ragioneremo nel tomo seguente, erasi a bella posta recato in Grecia per imparare sotto la direzion di due sì famosi maestri la loro lingua. Il che ci mostra che non erasi spenta tra’ Fiorentini la brama d1 istruirsene. La cattedra però di tal lingua , per opera del Boccaccio aperta in Firenze, non trovo che dopo la partenza dell’infelice Leonzio fosse ad alcun altro affidata sino al 1396 in cui, come abbiamo accennato, ed altrove diremo più stesamente , fu ad essa condotto il Crisolora. XI. Abbiamo detto poc’anzi che Coluccio Salutato non ebbe probabilmente tintura alcuna di greco. Io il raccolgo da una delle sue lettere or ora accennate, scritta da lui in età di sessantacinque anni, com’egli stesso confessa: cras enim annum sexagesimum quintum attingam. In essa ei dice che forse seguendo l’esempio di Catone negli ultimi anni di sua vita applicherassi alla greca letteratura: Forte e ti am nostri Catonis exemplo, extremo licet vitae tempore, graecis intemdam litteris. Non avea egli dunque fatto per anche studio alcuno di greco, e solo avea qualche pensiero di farlo in appresso. Or io non trovo che ei conducesse ad effetto questo suo disegno; e sembra difficile che la sua provetta età e il suo impiego di cancellier del Comune gliel permettesse. Egli è vero che Leonardo aretino confessa (L 2, ep. 11) che, se ei sapeva di greco, ne era debitore a Coluccio: Quod Graecas didici litteras, Collidi [p. 699 modifica]Terzo 699 est opus. Ma ciò si può intendere ancor di semplice esortazione con cui Coluccio a tale studio lo stimolasse. Lasciato dunque in disparte questo scrittore, a cui non possiamo attribuir con certezza un tal pregio, conchiuderemo quest1 argomento con nominare f Tebaldo dalla Casa dell’Ordine de’ Minori, di cui già abbiam altrove mostrato quanto diligente e sollecito fosse nel raccogliere e copiare i buoni autori, e di cui ragionando il Mehus (l.citp.a35) pruova da alcuni codici, da lui medesimo scritti, che egli ancora era intendente di questa lingua. Ed io ben conosco che per quanto io abbia raccolto intorno agli Italiani che in questo secolo sepper di greco, ciò è nulla in confronto alla copia che ne vedremo nell1 età susseguenti. Ma, a gloria della nostra Italia dee bastare il poterne mostrar quel numero che pur può mostrarne; e a cui io non penso che alcun1 altra nazione ne possa di questi tempi additarne l’uguale. XII. Nella storia del secolo precedente non abbiamo a questo luogo lasciato di ragionar di coloro che coltivarono la lingua francese e in essa scrissero libri. Noi potremmo qui ancora rammentare quel conte Lodovico di Porcia autor di una Vita di Giulio Cesare in questa lingua di cui parla il ch. signor Liruti (Notizie de’ Letter. del Friuli t. 1 , p. 391), e forse ancor qualche altro si potrebbe similmente indicare. Ma la lingua italiana, cresciuta in questo secolo in eleganza e in dolcezza, fece quasi dimenticare ogni altra lingua vivente, nè fu più in gran pregio chi in alcuna di esse si esercitò. [p. 700 modifica]700 Liimo E noi perciò lasciando di cercarne più oltre , direm sol brevemente di quel Niccolò di Giovanni da Casole bolognese di patria , ma che vivea, come sembra, nella corte de’ marchesi di Ferrara. Questa biblioteca Estense conserva manoscritto in due grossi tomi un poema in lingua francese da lui composto l’anno 1358, o, come ei dice, tradotto in versi dalla Cronaca antica di Tommaso d’Aquileja. Esso è intitolato latinamente: Attila Flagellum Dei, e in esso all’occasione di raccontare le guerre da quel re fatte in Italia , descrive le magnanime imprese de’ signori Estensi che, secondo lui , fin d’allora fiorivano gloriosamente. Del qual poeta si è poscia fatto un breve compendio storico, pubblicato in Ferrara l’anno 1568. Ma questa nobilissima famiglia, come ben riflette il Muratori (Antich. estens. t 1, pref. p. 19), ha troppo chiari e incontrastabili documenti di una rimotissima antichità, per non doversene cercar le pruove ne’ romanzeschi racconti che questo poeta ci mette innanzi (<a). (a) A ssai più giusto diritto ad aver luogo tra gli scrittori di poesia francese ha Tommaso III, marchese di Saluzzo, che comincio a reggere quello Stato vivente ancora il suo padre Federigo II, circa il 1391, e finì di vivere a’ 18 d’aprile del 1418, dopo aver avuta gran parte ne’ pubblici affari dell’Italia e della Lombardia singolarmente. Il ch. sig. Vincenzo Malacarne, da me più volte lodato per molti bei documenti alla mia Storia opportuni da lui gentilmente comunicatimi, mi ha mandata una lunga ed esattissima descrizione di una voluminosa opera ms. da questo marchese composta. Essa è divisa in 310 articoli, parte in prosa, pai le in verso francese , e il codice è composto di 2G9 pagine, [p. 701 modifica]TERZO 70i XIII. Per la stessa ragione anche di poesie provenzali abbiamo assai poco in questo secolo , e io perciò ne parlerò a questo luogo , senza lame una trattazione distinta , come l’ampiezza della materia ini ha consigliato a fare nel precedente tomo. 11 Crescimbeni (Comment. nell’ultima della quali egli espressamente se ne dice autore. Eccone il titolo colla stessa rozza ortografia con cui è scritto: Ce livre est appelle le livre du Chevalier errant, le quel livre est extrait et cc ni file en partie de plusieurs hystoires anciennes et parle en bref de tous les Seigneurs et dames de. renommee de lancien temps et du present, et apres parle d’amour moralizce 9 et apres parle de madame fortune et puis apres parle de madame cognoissance et de ses VI filles et son fils. Et est ce livre en prose et en rime. Appena si può spiegare quante belle notizie storiche in mezzo alle finzioni poetiche trovili si in quest’opera sparse; quanti principi di quell’età dipinti coi più vivi colori, e talvolta dall’autore amante della satira e del sarcasmo beffeggiati e derisi; quanti fatti poco conosciuti nelle storie di quel tempo spiegati chiaramente. Non poco vantaggio al certo recherebbe alla storia, chi facesse un giudizioso estratto di ciò che in quest’opera si contiene di più interessante. Vuolsi qui avvertire che nel catalogo dei mss. della Biblioteca dell’Università di Torino si è accennata quest’opera che vi si conserva: ma senza conoscerne e indicarne l’autore, perchè non si sono osservati gli ultimi versi, ne’ quali egli attcsta di aver In composta. Più degno ancora di riflessione si è che nel 10.57 fu pubblicato in Anversa le Voyage du Chevalier Errant di Giovanni Carthemi carmelitano; e l’idea che ne dà il Quadrio (t. 7, p. 270), corrisponde a quella del marchese di Saluzzo, e potrebbesi! sospettare che il Carthemi, avuta nelle mani copia di quell’opera, ne facesse un transunto , e sotto il suo nome lo pubblicasse. Ma a ben giudicarne, converrebbe aver nelle mani il libro del Carmelitano, e confrontarlo con quel del Marchese , il che a me non è stato possibile. 9 [p. 702 modifica]703 LIBRO t 2, par. i, p. 170) e il Quadrio (Stor. della Poes. t. 2, p. 138) parlano di Beltramo della Torre, di cui nel codice Vaticano, altre volte da noi mentovato , si conservano alcune poesie provenzali; ma non è certo che ei fosse italiano, nè vi ha monumento a provarlo. « Il Nostradamus e, sulla fede di esso, l’ab. Millot (Crescimb. l cit. p. 170; Quadr. l. cit. p. 144) ragionano di Guglielmo Boyer da Nizza che servì a’ re di Napoli Carlo II e Roberto, per essi fu podestà nella sua patria, e morì verso il 13557 e gli attribuiscono alcuni trattati di Storia naturale scritti in lingua provenzale , ma ora tutti smarriti^. Il Crescimbeni e il Quadrio ci narrano ancora , sulla fede del Nostradamus , le avventure di un certo Lodovico Lascaris signore di Ventimiglia , di Tenda e di Briga , che dicesi pure avere scritti in tal lingua alcuni libri (t. 3, p. 272). Ma tutto ciò che essi ne narrano , è appoggiato all’autorità del Nostradamus, la quale già abbiam veduto, e vedremo ancor meglio , quanto sia degna di fede (*). Dante Alighieri e Fazio degli Uberti ci lasciarono essi pur qualche saggio di poesia provenzale, ma di essi parleremo nel capo seguente. Io mi fermerò solamente a esaminare la Vita che il Nostradamus, e dopo lui il Crescimbeni (l. cit. p. 177) e il Quadrio (l. cit p. 145 e il Baldinucci (*) Un saggio di poesia provenzale abbiamo ancora nel poema della Lenndreide, da me nominato in questo tomo medesimo, in cui il canto ottavo del libro quarto è scritto in quella lingua, e in esso, come si dice nell’argomento, introducittir Ernaldus de Provincia ad nomìnandum suos Provinciale $ Doctorcs. [p. 703 modifica]TERZO 7o3 (Notizie de’ Profess. del t. 2, p. 176, ec. edit. Fir. 1767), ci han data di uno degli scrittori delle Vite de’ poeti provenzali che da essi dicesi italiano, acciocchè da questo si possa conoscere qual conto dobbiam fare della Storia de’ Poeti provenzali de’ sopraddetti scrittori. Egli è il monaco detto dell’Isole cT oro ossia di Jeres. Questi, secondo il Nostradamus, era deir antica e nobil famiglia Cibo di Genova, e si fece religioso nel monastero di S. Onorato di Lerins. Ivi ebbe la cura della biblioteca che era la più famosa e bella di quante ne aveva t Europa. Ed eccoci tosto una notizia che da niun altro ci è stata data (*). Questa biblioteca di Lerins non è stata conosciuta da alcuno degli scrittori di tale argomento, e il P. Ziegelbaver, che lungamente ha trattato di tutte le biblioteche Benedettine (Hist. Litter. Ord. S. Bened. t 1, p. 425; ec.), di questa sì celebre non ha fatto pur motto. Ma ciò ò (*) Ho dubitato dell’esistenza della biblioteca del monastero di Lerins \ e veramente io non so se si possa provare clf ella fosse a’ tempi, di cui ragiono, la piti famosa e bella ni quante n’aveva F Europa, come si afferma dal Nastrndamus. E certo nmdimeno, die in quel monastero tuttora esiste una biblioteca nera di nnticbi Codici, come mi ha assicurato 1’ornatissimo signor abate D. Giannantonio della Beretta, ora degnissimo vescovo di Lodi, che fha veduta e esaminata, benché ei non vi abbia potuto trovare il codice di cui il detto Nostradamus favella, lo credo però probabile che questa biblioteca debba principalmente la copia di cotai Codici al Cardinal Gregorio Cortese che per più anni vi fece soggiorno , come a suo luogo si dirà, e ad altri dotti monaci che a quel tempo medesimo vi abitarono. [p. 704 modifica]704 LIBRO poco. Il nostro monaco valoroso si diè ad ordii larla ed accrescerla , e vi trovò il catalogo die (T ordine (f Jdelfonso 11 Re di Aragona e Conte di Provenza, era stato già fatto. È vero che Idelfonso ossia Alfonso II , re di Aragona, l’anno 1167 occupò la contea di Provenza, da cui dipendeva il! monastero di Lerins. Ma chi mai crederà che in un secolo in cui sì poco pensavasi ai libri, questo re si volesse prender pensiero del catalogo di una biblioteca monastica? Siegue il Nostradamus a raccontare che fra’ codici di quella sì magnifica biblioteca trovò il monaco le Vite e le Poesie de’ Poeti provenzali , che per comando del medesimo re Idelfonso erano state ivi raccolte , e che , copiatolo con assai leggiadro carattere , ne inviò copia a Lodovico II, padre di Renato re di Napoli e conte di Provenza, e che alla regina Giolanda d’Aragona madre del re Renato offerì in dono un Ufficio della B. Vergine da sè vagamente copiato, e adorno di pregevoli miniature 3 onde Lodovico e Giolanda vollero presso loro questo monaco sì valoroso 3 e che questi morì Fanno 1 |o8. Io non posso a tai cose apporre la taccia d’incredibili, poichè nulla vi è che ripugni alla serie de’ tempi. Ma io dimando a’ seguaci del Nostradamus: se veramente e il monaco dell’Isole d’oro, e Ugo di S. Cesario monaco di Monte Maggiore, e un altro monaco di questo medesimo monastero hanno scritte le Vite de’ Poeti provenzali, e se della prima opera singolarmente , come il Nostradamus afferma, si fecero allora moltissime copie, onde mai è avvenuto che niuna più se ne trovi? [p. 705 modifica]TERZO 7o5 Inoltre a’ tempi del detto re Idelfonso II non erano ancora nè sì frequenti nè sì pregiati i poeti provenzali, che si possa creder probabile che ei pensasse a raccogliere le lor canzoni. Per altra parte le Vite de’ Poeti provenzali , che si contengon ne’ codici della biblioteca del re di Francia, della Vaticana e della Estense, sono come altrove abbiamo osservato, diverse assai e assai men favolose di quelle del Nostradamus. E io perciò sempre più mi confermo nel mio sospetto, che gli autori dal Nostradamus citati non abbian mai avuta esistenza fuorchè nella fantasia di questo storico romanziere 5 e che egli al più abbia vedute quelle di alcun de’ codici sopracitati, e le abbia poi ornate , o a meglio dire imbrattate e guaste a capriccio. Io mi stupisco che l’ab. de Sade scopritor sì minuto de’ falli degli scrittori italiani non abbia, parlando di queste Vite, sospettato punto d’impostura in questo scrittor francese (Mém. pour la vie de Petr. t. 2 , nota p. 68, ec.). Egli ci rimette alla Storia de’ Poeti provenzali, che dovea pubblicar fra non molto M. de la Curne de Sainte Palaye. Io non so che quest’opera sia ancora uscita a luce: e se un giorno uscirà , mi gioverò ben volentieri delle fatiche di questo dotto scrittore, per illustrare un punto così interessante non solo per la francese, ma anche per l’italiana letteratura, e su cui la mancanza de’ monumenti, a me non ha permesso di spargere quella luce che avrei bramato (*). (*) L’opera di M. de la Curne de Sainte Palaye,