Le Mille ed una Notti/Storia d'Alaeddin
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Traduzione dall'arabo di Antoine Galland, Eugène Destains, Antonio Francesco Falconetti (1852)
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STORIA
D’ALAEDDIN.
— Eravi una volta in Egitto un mercante di nome Schemseddin, il quale faceva esteso commercio, e godeva del maggior credito per la sua esattezza a mantenere la propria parola. Possessore d’immense ricchezze, aveva un gran numero di schiavi, ed occupava il primo posto tra i negozianti del Cairo, i quali aveanlo scelto a loro sindaco.
«A tutti questi vantaggi, Schemseddin aggiungeva quello d’avere una sposa teneramente amata, e che gli corrispondeva di pari affetto; ma benchè fossero maritati da più di vent’anni, non aveano mai avuto prole.
«Tal privazione affliggeva assai Schemseddin; se la prendeva talora in secreto colla moglie, ma non aveva mai osato farle apertamente alcun rimprovero. Un giorno che stava seduto nel suo magazzino, guardando i vicini, i quali tutti tenevano per mano i loro figliuoli, sentì più vivamente il dispiacere di non possederne, e per conseguenza si trovò più indisposto contro la moglie.
«Era un venerdì: Schemseddin andò al bagno, ed uscitone, si fece profumare, radere i capelli ed acconciare la barba, come soleva fare tutti i venerdì. Mentre stava fra le mani del garzone dei bagni, prese lo specchio, e si mise a rimirarsi; la sua barba, che cominciava a divenir grigia, accrebbe il suo dispiacere d’esser senza prole, talchè tornò a casa di molto mal umore.
«La sposa del mercante, sapendo l’ora ch’ei doveva rientrare, avea avuta la cura di bagnarsi anch’essa, ed abbigliarsi de’ più begli abiti per riceverlo. Quando rientrò, gli corse incontro, augurandogli la buona sera; ma egli l’accolse assai male, dicendole di non aver bisogno de’ suoi augurii.
«Dolente di quella fredda accoglienza, la donna fece servir da cena, e pregollo di mettersi a tavola. — Non voglio mangiar nulla,» rispos’egli. Nel medesimo tempo respinse col piede la tavola, su cui stava la cena. — Perchè mai,» diss’ella, «non volete mangiare, e qual è la causa del vostro mal umore?
«— Voi stessa,» rispose il mercante duramente; «questa mattina, aprendo il magazzino, ho veduti tutti i nostri vicini, circondati dai loro bimbi, ed io dissi tra me: Fui ben sciocco di giurare a mia moglie, la prima notte delle nostre nozze, che non ne avrei sposato altre, e che nessuna schiava diventerebbe la sua rivale; infine, che non avrei mai passata la notte fuor di casa: allora non prevedeva che mia moglie sarebbe sterile, e non mi darebbe mai prole.
«— Chi chiamate voi sterile?» rispose la moglie incollerita; «siete voi piuttosto impotente ad aver figliuoli. —
«Il mercante, maravigliato di quella risposta e dell’accento di sicurezza col quale venivagli fatta, cominciò a concepir sospetti su quanto lo concerneva, e disse alla moglie: — Sarebbe mai possibile, e non vi potrebb’essere, in tal caso, qualche specifico che potesse procurarmi prole? Io son pronto ad acquistarlo a qualunque prezzo, e tentarne la prova. «— Io credo,» rispose la moglie, «che vi siano di codesti specifici, e voi ne troverete dagli speziali. — «Il mercante passò tutta la notte a riflettere alle parole della consorte; erano ambidue malcontenti fra sè dei rimproveri voltisi vicendevolmente. Il marito, alzatosi per tempo, andò al mercato, ed entrato da uno speziale, e salutatolo, gli chiese se avesse qualche droga dotata della virtù di far ottener prole. — Ne avea poco tempo fa,» rispose lo speziale; «ma ora non ne ho più: l’ho venduta tutta. Se voleste andare dal mio vicino, forse avrà di soddisfarvi. —
«Il mercante andò di bottega in bottega, ripetendo la sua dimanda ad ogni speziate che trovava; ma tutti gli risero in faccia, beffandosi di lui. Vedendo riuscir inutili le ricerche, tornò alla sua bottega, e sedè col cuore pieno di amarezza.»
NOTTE CDXCVIII
— Il capo dei sensali, uomo furbo ed astuto, di nome Scheikh Mohammed, avendolo veduto, lo salutò, e gli chiese la cagione dell’abbattimento nel quale vedevalo immerso. Il mercante gli narrò il colloquio avuto la sera innanzi colla moglie, lagnandosi perchè, essendo maritato da vent’anni e più, non avesse ancora avuto figliuoli. — Essa pretende che è mia colpa,» aggiunse, «e mi fe’ cercare tutta la mattina una droga che abbia la proprietà di far aver prole; ma mi fu impossibile trovarla.
«— Ho il vostro occorrente,» disse Mohammed; «ma qual ricompensa darete voi a chi potrà procurarvi la felicità d’esser padre, dopo vent’anni di matrimonio? — Contate,» rispose il mercante, «su tutta la mia riconoscenza e generosità.» Scheikh Mohammed gli domandò anticipatamente uno zecchino, ed invece l’altro gliene presentò due.
«Mohammed prese allora un gran vaso, nel quale mise un po’ di cannella, chiodi di garofano, cardamomo, zenzevero, pepo bianco, ed alcune altre droghe; vi aggiunse polvere di coccodrillo di monte, ed avendo pestato il tutto insieme, lo fece bollire in buon olio d’olivo; prese indi tre once d’incenso maschio, ed un po’ d’un certo seme nero, mescolò il tutto con miele, ne fece un impasto che chiuse in un vaso, e lo presentò al mercante, dicendogli di servirsi del contenuto a mo’ di burro fresco, dopo aver mangiato carne d’agnello e piccioni domestici. — Voi avrete cura,» aggiunse, «di bere un buon bicchier di vino per soprammisura. —
«Scheraseddin risolse di seguire esattamente il consiglio, portò alla moglie la carne d’agnello ed i piccioni, pregandola di farli cuocere per la cena, e le diede il vaso ov’era la droga da Mohammed preparata, raccomandandole d’averne cura.
«Giunta la sera, si ammannì la cena. Il mercante, dopo aver fatto onore all’agnello ed ai piccioni, chiese il vaso, ne mangiò, con gran maraviglia della moglie, quasi tutto il contenuto, e bevve un gran bicchiere di vino di Cipro; finito il pasto, il mercante e sua moglie andarono a letto.
«Dopo alcuni mesi, la moglie del negoziante s’accorse d’essere incinta. Giunto il momento del parto, fe’ venire una levatrice che la sgravò felicemente di un bel maschio. La levatrice, da buona musulmana, non dimenticò, staccando il bambino, di profferire il nome d’Alì e di Maometto; gli gridò quindi nell’orecchio con tutta la forza: «Allah acbar!1» e lo diede alla madre, la quale gli presentò il seno. Il bimbo lo prese benissimo, succhiò il latte per molto tempo, e s’addormentò.
«Dopo tre giorni, la puerpera fu in istato d’alzarsi; il mercante entrò nell’appartamento, si congratulò per la di lei convalescenza, e volle vedere il fanciullo. Quando glie lo presentarono, fu sorpreso della beltà e della sua forza; imperocchè, sebbene avesse due soli giorni, avreste detto, vedendolo, che era un fanciullo d’un anno.
«— Qual nome gli avete dato?» disse Schemseddin alla moglie. — Se fosse stata una femmina,» rispos’ella, «glielo avrei già imposto; ma poichè è un maschio, a voi tocca a darglielo. —
«Allora si soleva imporre ai bambini i nomi che udivansi pronunciare per caso. Il mercante avendo inteso in quel momento qualcuno gridare nella via: «Signor Alaeddin!» disse che voleva chiamar così il figliuolo; gli diede indi il soprannome d’Abulschamat, in causa d’un segno che il fanciullo portava su ambe le gote. Il piccolo Alaeddin non conobbe per due anni e mezzo altro nutrimento fuor del latte; camminò di buon’ora e diveniva di giorno in giorno più forte e vigoroso. Più egli andava facendosi bello, più suo padre, il quale l’amava all’eccesso, ed era uomo alquanto credulo, temeva non gli accadesse qualche disgrazia; soprattutto temeva per lui i maligni sguardi degl’invidiosi. Per sottrarlo a quella funesta influenza, risolse di farlo allevare in un sotterraneo, e non lasciarnelo uscire se non quando avesse la barba. Lo mise adunque nelle mani d’una schiava, e d’un vecchio servitore, incaricandoli d’averne cura, di divertirlo, e dargli il necessario.
«Quando Alaeddin ebbe sette anni, suo padre lo fè circoncidere, facendo pur venire un uomo dotto per insegnargli a scrivere, spiegargli il Corano ed iniziarlo nelle scienze. Il giovane Alaeddin si applicò con zelo nel suo ritiromm allo studio, e fece grandissimi progressi.
«Il vecchio servitore avendo un giorno dimenticato di chiudere la porta del sotterraneo, Alaeddin, approfittando di tal occasione, salì la scala, ed entrò per caso nell’appartamento della genitrice, ove in quel giorno eravi gran circolo di dame di prima sfera.
«Alla comparsa del giovanetto, che s’avanzava come ebbro, quelle dame abbassarono prontamente il Velo, e dissero alla padrona di casa: — Come, madama, potete voi lasciar entrare quest’insolente, con disdoro della pudicizia e delle sacre leggi del profeta?
«— Signore,» essa rispose loro, «questo ragazzo è mio figlio; è il figlio di mio marito Schemseddin, sindaco dei mercanti di questa città. — Ma, signora,» replicarono le dame, «noi non abbiamo mai saputo che aveste figli!
«— Mio marito,» rispose l’altra, «temendo pel fanciullo gli sguardi funesti dell’invidia, lo fece allevare fin adesso in un sotterraneo, dal quale è fuggito non so come, perchè la nostra intenzione era di tenervelo chiuso fino all’età virile.» Le dame, soddisfatte da quella risposta, si congratularono di tutto cuore perchè avesse un sì bel ragazzo.
«Il giovanetto, uscito dall’appartamento, entrò nel cortile interno della casa, ed avendo veduto vari schiavi che conducevano una mula alla scuderia, domandò loro di chi fosse quella bestia. Uno degli schiavi rispose essere la mula di suo padre, sulla quale aveanlo condotto al magazzino, e che riconducevano alla scuderia.
«Alaeddin domandò con vivacità qual fosse la professione del padre, ed il medesimo schiavo avendogli risposto essere il sindaco dei mercanti del Cairo, il giovanetto corse dalla madre, e le volse la stessa domanda.
«— Figlio,» rispos’ella, «vostro padre è il sindaco dei mercanti del Cairo, ed il principe degli Arabi di questo paese. Alla testa del suo magazzino c’è uno schiavo, il quale non lo consulta che sul prezzo delle merci eccedenti il valore di mille pezze d’oro, ed ha la libertà di vendere a suo talento quelle di minor valore. Nessuna merce straniera, di qualunque specie sia, non può entrare in codesto paese senza passare per le mani di vostro padre; egli solo ne regola la destinazione, e nessuna balla può uscire da questa città senza il suo permesso. L’estensione del suo commercio e la fiducia che seppe ispirare, gli procurarono incalcolabili ricchezze.»
NOTTE CDXCIX
— «Dio sia lodato,» sclamò Alaeddin, «d’avermi dato per padre un uomo sì distinto! Ma, signora, perchè adunque mi faceste educare in un sotterraneo, e mi vi lasciaste chiuso sì tanto tempo?
«— Noi vi abbiamo posto colà, mio caro figlio,» rispose la madre, «per sottrarvi alla maligna influenza degli sguardi dei malvagi, imperocchè quanto si dice dei funesti effetti di tale influenza è pur troppo vero; è dessa che spinge tante persone alla tomba.
«— Madre,» riprese Alaeddin, «non v’ha alcun asilo che possa sottrarre gli uomini ai decreti della Provvidenza, e ciò che sta scritto in cielo deve necessariamente accadere. Noi siamo tutti destinati a morire, e mio padre, pieno di salute, può esserci tolto domani; se io volessi prendere il suo posto, i mercanti potranno credere alle mie parole, quando dirò loro: «Sono Alaeddin, figlie di Schemseddin?» Non potranno obbiettarmi, e con ragione, ch’essi non gli conobbero mai figliuoli? Ed il fisco non verrà egli a spogliarmi di tutti i beni paterni? Promettetemi, adunque, signora, d’indurre mio padre a condurmi con lui, a mettermi bottega, ed iniziarmi in tutti i dettagli dei commercio.
«La madre d’Alaeddin promise al figliuolo di usar l’influenza che avea sul marito, per indurlo ad accondiscendere alla sua domanda. Il mercante, entrato in quel mentre, e trovato il figlio nell’appartamento della consorte, le domandò perchè l’avesse fatto uscire dal sotterraneo.
«— Non sono stata io,» rispos’ella; lo schiavo incaricato di servirlo dimenticò di chiudere la porta, e vostro figliò è salito, da me nel momento ch’io aveva qui gran compagnia. —
«Dopo quella spiegazione, la moglie del mercante l’informò del colloquio tenuto col figlio. Schemseddin promise di condurlo l’indomani con lui, raccomandandogli di far attenzione al modo con cui si trattano gli affari, ed istudiare la gentilezza in uso fra i commercianti.
«Alaeddin, al colmo della gioia, aspettò l’indomani con impazienza. Suo padre lo condusse al bagno alla mattina, e lo rivestì d’un magnifico abito. Dopo la colazione, lo fe’ montare sur una mula, ed avviossi con lui verso il quartiere de’ mercanti.
«Vedendo passare il loro sindaco, seguito da un bel giovane cui non conoscevano, i mercanti si misero a sparlare di lui, ed a concepire cattiva opinione de’ suoi costumi.
«— Il nostro sindaco,» dicevano, «non ha vergogna, di agire così alla sua età?» Il naquib, o capo dei mercanti, il quale godeva della maggior considerazione fra essi, soggiunse tosto: — Non dobbiamo soffrire che un uomo, il quale si mostra sì pubblicamente, abbia ad essere il nostro sindaco. —
«I negozianti solevano allora riunirsi tutte le mattine nel mercato, ove il loro naquib leggeva il primo capitolo del Corano, e recarsi poi al magazzino del sindaco, al quale auguravano il buon giorno dopo avergli fatta una seconda lettura del medesimo capitolo; indi separavansi, tornando ciascuno ai propri affari.
«Schemseddin, entrato in bottega, e non vedendo venire i mercanti come al solito, chiamò il naquib, e glie ne domandò la cagione. — Tutti i negozianti,» gli rispose colui, «sono decisi a deporvi dalla vostra carica di sindaco, ed è per tal motivo che non vengono a leggervi il capitolo d’uso.
«— Qual cagione,» riprese vivamente Schemseddin, «può spingerli a farmi simile affronto?
«— Il giovane, che v’accompagna,» rispose il naquib, «ha offesi i loro sguardi; voi siete già vecchio, ed occupate il primo posto fra i mercanti; codesto giovane non è uno schiavo, e non appartiene a vostra moglie; voi fate male a dimostrargli pubblicamente tanto amore.
«— Che di’ tu, sciagurato?» sclamò Schemseddin; «osi parlar così di mio figlio? — Ma,» soggiunse il naquib, «non abbiamo mai saputo che aveste figli. «— È,» riprese Schemseddin, «perchè temeva per lui gli sguardi funesti degl’invidiosi, e lo feci perciò educare in un sotterraneo, coll’intenzione di non lasciarlo uscire prima che avesse tutta la barba; ma sua madre non ha voluto tenervelo di più, e ieri mi sollecitò ad aprirgli negozio ed insegnargli il commercio. —
«Il naquib, udite quelle parole, affrettossi di riunire i mercanti, per venire dal sindaco a leggergli il capitolo d’uso. Si congratularono tutti perchè avesse quel bel giovane, e fecero voti per la prosperità: del padre e del figlio. Uno d’essi, volgendosi poi a Schemseddin, gli disse che i poveri, quando nasceva loro un figlio, solevano invitare, in segno di tripudio, i parenti e gli amici a venir a mangiare la farinata. Schemseddin comprese che cosa voleva dire colui, e rispose esser pure sua intenzione di convitarli tutti in un suo giardino.
«Fece perciò preparare, la domane mattina, una sala terrena ed un appartamento al primo piano in codesto giardino, facendovi portare il necessario per un lauto banchetto; ordinò di ammannire due mense, una nella sala bassa e l’altra nell’appartamento al primo piano, e presa la cintura, ed imposto al figliuolo di prendere anch’egli la sua, gli disse: — Mano mano che i vecchi entreranno, li riceverò e li farò sedere alla tavola del primo piano; quanto a voi, figlio mio, abbiate cura di ricevere i giovani a misura che si presenteranno, e fateli sedere alla mensa nella sala a terreno.
«— Perchè mai, padre mio,» rispose Alaeddin, «faceste preparare due tavole, una pei genitori e l’altra pei figliuoli? — Perchè i giovani,» soggiunse Schemseddin, «saranno più liberi soli, e gli uomini ben contenti di trovarsi tutti insieme.» Alaeddin, soddisfatto di quella risposta, affrettossi ad eseguire gli ordini paterni e fare gli onori della sala ai giovani. «Il pranzo fu servito con magnificenza e profusione, ed i convitati vi si divertirono assai. Dopo i sorbetti ed arsi i profumi, i vecchi si misero a parlare su vari soggetti di storia e letteratura.
«Durante da conversazione, un negoziante, chiamato Mahmoud Albalkhy, devoto all’esterno, ma empio e libertino nel fondo dell’animo, scese nella sala dei giovani, vide Alaeddin, rimase colpito della sua avvenenza, e s’accese per lui d’un’infame passione. Pensò nello stesso tempo che non potrebbe stringere amicizia col giovane finchè questi fosse nella casa paterna, e risolse d’ispirargli il pensiero di viaggiare, divisando seguirlo, e cercar l’occasione d’amicarsi con lui.
«Obbligato Alaeddin ad escire un momento, Mahmoud Albalkhy approfittò dell’occasione, si volse ai giovani, e disse che se potevano decidere Alaeddin a viaggiare con lui, avrebbe donato a ciascuno un abito magnifico. Accettata la proposta dai giovani, li lasciò ed andò a raggiungere la compagnia.
«Rientrato Alaeddin, tutti gl’invitati andarongli incontro, e costrettolo a sedere in mezzo a loro, si misero a parlar di commercio. Uno di essi, volgendo la parola a quello che stavagli seduto accanto, gli chiese in qual modo si fosse procurato i fondi di cui era attualmente possessore.
«— Quand’io ebbi tocca la pubertà,» rispose il giovane, cui era rivolta quella domanda, «pregai mio padre di comprarmi alcune merci; ma siccome non poteva darmi nulla, mi disse di volgermi ad un negoziante suo amico, chiedergli in prestito mille pezze d’oro, ed applicarmi ad imparare tutte le cognizioni necessarie a riuscire nel commercio. Io seguii il consiglio: mi rivolsi ad un mercante che mi prestò le mille pezze d’oro, colle quali comperai molte stoffe, e partii per la Siria. Vi spacciai le mie mercanzie con molta fortuna, giacchè guadagnai il doppio. Vedendo raddoppiato il mio capitale, io presi mercanzie di Siria da vendere ad Aleppo, ove feci altri buoni affari. Ho continuato così a commerciare fine ad oggi, e pervenni, a forza di assiduità, a formarmi un capitale di dieci mila pezze d’oro. —
«Ciascuno del giovani narrò una storia quasi consimile, finchè venne la volta di Alaeddin.
«— Voi tutti, > disse loro, «conoscete la mia storia; ella non è lunga: questa settimana soltanto uscii dal sotterraneo in cui fui allevato, e non feci altro che andare e venire dal magazzino alla casa, dalla casa al magazzino.
«— Voi dovete,» gli disse uno dei giovani, «aver molta voglia di viaggiare?
«— Che bisogno ho di viaggiare?» riprese Alaeddin; «non posso restarmi cheto in casa mia senza darmi tanti fastidi? —
«I giovani si misero a ridere della sua risposta, e lo tacciarono fra loro ma abbastanza forte onde potesse udirli, di codardia e timidezza. — Ei rassomiglia,» diceva uno, «al pesce che muore fuor dell’acqua; non potrebbe vivere se abbandonasse la casa paterna. — Egli non sa,» soggiungeva un altro, «essere i viaggi che formano l’uomo, che non s’impara se non se viaggiando, e che un negoziante, il quale non abbia percorsi i paesi più lontani, non può conoscere Il commercio, nè godere di alcuna stima nella sua professione.
«Que’ motteggi punsero al vivo Alaeddin, il quale escì tosto colle lagrime agli occhi, e montato sulla mula, tornò a casa col cuore gonfio. Sua madre, vedendo che aveva mesto l’aspetto, gli domandò cosa fossegli accaduto.
«Alaeddin narrò allora la conversazione tenuta coi giovani mercanti, le beffe ch’eransi permesse contro di lui, e protestolle che voleva assolutamente viaggiare. La buona donna cercò dapprima di farlo rinunciare a quel progetto; ma vedendo di non poter riuscirvi, gli domandò ove desiderasse andare. — Io voglio,» rispose l’adolescente, «recarmi a Bagdad, dove, secondo quello che ho udito, si può facilmente raddoppiare il capitale. —
«Sebbene afflittissima di separarsi da un figlio teneramente amato, la donna gli promise di parlarne al padre, e d’indurlo a dargli un carico di merci proporzionato alla sua fortuna. Alaeddin, già impaziente di partire, scongiurò la madre di dargli ella stessa quegli oggetti di cui poteva disporre, e farli imballar subito. Essa acconsentì, fè venire alcuni schiavi, e mandò a cercar gl’imballatori, che fecero dieci balle delle stoffe che diede loro.»
NOTTE D
— Frattanto Schemseddin, essendo entrato nella sala terrena, e non vedendo il figlio, domandò ai giovani che cosa ne fosse avvenuto; udito che li aveva bruscamente lasciati ed era montato sulla mula per tornar a casa, fece tosto sellare la sua, e gli corse dietro. Avendo veduto, entrando, le dieci balle, chiese alla moglie a chi appartenessero. Questa gli raccontò i discorsi del figlio coi giovani mercanti, ed il suo progetto di viaggiare.
«Schemseddin, volgendosi allora al figliuolo, gli rappresentò le fatiche ed i pericoli del viaggio, e gli disse che i saggi consigliano di non allontanarsi neppur un miglio dalla propria casa; ma il giovane persistette nella presa risoluzione, dicendo persino che, se non lo lasciavano partire, si farebbe dervis, andando ad accattare di contrada in contrada.
«— Io non mi opporrò oltre al vostro desiderio,» riprese Schemseddin; «non sono povero, e perciò posso darvi i mezzi di viaggiare nella maniera più comoda e vantaggiosa, possedendo io ragguardevoli ricchezze.» Allora condusse il figlio in tutti i suoi magazzini, ove gli mostrò molte stoffe preziose e merci adattate ad ogni paese, rinchiuse in quaranta balle, ciascuna delle quali portava un biglietto denotante che il prezzo ascendeva a mille pezze d’oro cadauna.
«— Prendi, figliuolo,» gli disse, «queste quaranta balle e le dieci di tua madre, e parti sotto la salvaguardia e la protezione di Dio. Frattanto io non posso dissimularti i miei timori; andando a Bagdad, sarai costretto a passare per la foresta del Leone, e discendere nella valle di Benou Kelab; quei luoghi sono pericolosi, non udendosi che parlar degli assassinii, che commettono ogni giorno i Beduini, i quali infestano tutte le vie. —
«Alaeddin rispose che assoggettavasi ai divini voleri su quanto poteva accadergli. Suo padre, vedendolo assolutamente determinato, lo condusse al mercato ove si vendevano le bestie da soma.
«Essi v’incontrarono un akam, od intraprenditore pel trasporto dei bagagli, di nome Kemaleddin, il quale, appena ebbe veduto Schemseddin, discese dalla mula e venne a salutarlo. — Signore,» gli disse, «è già qualche tempo che non venite a trovarmi, e che non mi procurate l’occasione di offrirvi i miei servigi. — Ogni cosa a suo tempo,» rispose Schemseddin; «quello dei viaggi è passato per me; ma mio figlio, che qui vedete, ha intenzione di viaggiare, e sarei ben contento se voleste accompagnarlo, e servirgli di padre. —
«L’akam avendo acconsentito volentieri a quella proposizione, Schemseddin gli consegnò cento pezze d’oro da distribuire ai suoi schiavi; comperò quindi sessanta muli ed un cero per deporre sulla tomba del beato Abdalkader-Algilani (2). Raccomandò al suo figliuolo di obbedire esattamente all’akam e riguardarlo come proprio padre, e rientrato in casa, seguito dagli schiavi e dalle mule comperate, fe’ preparare un buon pranzo, e volle che si passasse allegramente la sera.
«All’indomani, di buon mattino, diede al figlio diecimila pezze d’oro, e gli disse di servirsene nel caso in cui, arrivando a Bagdad, non trovasse l’occasione di vendere vantaggiosamente le merci. Quando le mule furono cariche, Alaeddin salutò i genitori, e partì dal Cairo coll’akam.
«Mahmoud Albalkhy, il quale stava attento a tutto, aveva anch’egli disposto il necessario pel viaggio; ed il medesimo giorno della partenza di Alaeddin, aveva spediti innanzi i bagagli, e fatto piantare, le tende fuor delle mura della città. Schemseddin, il quale non ne sospettava i perfidi progetti, avevagli donata una borsa di mille pezze d’oro, appena seppe che si disponeva a recarsi a Bagdad, raccomandandogli caldamente nello stesso tempo il figliuolo.
«Alaeddin e Mahmoud incontraronsi a poca distanza dal Cairo; il malvagio vecchio aveva fatto dire destramente al cuoco di Alaeddin di non portar nulla pel padrone, ed approfittò della circostanza per offrire al giovane ed a quelli del seguito i rinfreschi ch’egli stesso aveva portati in abbondanza.
«Messasi la piccola carovana in viaggio, attraversò felicemente il deserto, e già si avvicinava a Damasco. Mahmoud, oltre la casa che possedeva al Cairo, ne teneva una a Damasco, una terza ad Aleppo ed una quarta a Bagdad.
«Essendo la carovana accampata sotto le mura di Damasco, Mahmoud mandò uno dei suoi schiavi ad Alaeddin per invitarlo a pranzo. Lo schiavo trovò il giovane che leggeva seduto nella sua tenda; inoltratosi, e salutatolo rispettosamente, gli disse che il suo padrone lo pregava di fargli l’onore di recarsi da lui. Alaeddin non volle accettare l’invito senza aver prima consultato l’akam Kemaleddin, il quale gli faceva vece di padre. Questi lo consigliò di non accettare e non interrompere il viaggio. Il docile Aiaeddin partì tosto, e giunse in breve ad Aleppo con tutto il seguito.
«Mahmoud Albalkhy avendo raggiunta la carovana, fece preparare ad Aleppo un gran banchetto, e mandò ad invitarvi Alaeddin. Il giovane consultò ancora la sua guida, ma Kemaleddin, da uomo prudente, non volle fermarsi. Partiti da Aleppo, si diressero alla volta di Bagdad, viaggiando a grandi giornate. A poca distanza da questa città, Mahmoud mandò ancora uno schiavo ad Alaeddin per invitarlo a pranzo. Il giovane ne domandò il permesso alla guida, la quale glielo ricusò positivamente.
«Alaeddin, malcontento di quel rifiuto, volle accettare un invito tante volte reiterato; cinse la scimitarra, e si recò alla tenda di Mahmoud. Il vecchio mercante lo accolse coi più cortesi ed amichevoli modi, e gli fece imbandire i più delicati cibi.
«Finito il pasto, e lavatesi le mani, Mahmoud si chinò verso Alaeddin e volle abbracciarlo. Il giovane lo respinse, chiedendogli con sorpresa la spiegazione di una simile condotta. Questi balbettò alcune parole, e volle abbracciarlo un’altra volta. Alaeddin, sdegnato, sguainò la scimitarra, e volse al vecchio i più acerbi rimproveri. — Scellerato,» gli disse, «io aveva tanta fiducia in te, che le mercanzie ch’io avrei vendute ad un altro a peso d’oro, te le avrei date a qualsiasi prezzo; ma d’or innanzi non voglio più avere alcuna relazione con te. — «Ciò detto, si allontanò dalla tenda di Mahmoud, e tornato da Kemaleddin, gli narrò quanto eragli accaduto, dicendo poscia che non voleva più viaggiare in compagnia di quell’odioso vecchio.
«— Figliuolo,» rispose Kemaleddin, «io vi aveva pur detto di non accettare il suo invito; ma la risoluzione che ora prendete di separarvi sì bruscamente da lui, non è saggia, giacchè, se lo abbandonate, la nostra carovana diventerà troppo piccola per poter recarsi a Bagdad senza pericolo.»
«— Non importa,» riprese Alaeddin, «non voglio più vederlo.» E fatti tosto caricare i bagagli, volle partire.
«Quando la piccola carovana fu discesa nella valle di Benou Kelab, Alaeddin diè l’ordine di erigere le tende. Invano Kemaleddin gli rappresentò ed il pericolo che si correva, fermandosi in quel luogo, assicurollo che avevan tempo, se si sollecitavano, di giungere a Bagdad prima che si chiudessero le porte. — Perchè,» aggiuns’egli, «esse vengono chiuse tutte le sere al tramonto del sole, e non si aprono che a giorno avanzato, temendo sempre gli abitanti che i Persiani sorprendano la città, per gettare nel Tigri tutti i libri che trattano di scienze. —
«Alaeddin volle ad ogni costo fermarsi, e rispose di non essersi recato in quelle contrade sol per commerciare, ma anche per divertirsi e vedere il paese; siccome la sua guida gli pingeva vivamente quanto avessero a temere da parte dei Beduini, il giovane rispose con fierezza: — Chi è il padrone di noi due? Io voglio entrare in Bagdad a giorno inoltrato, per farmi conoscere dagli abitanti, e mostrar loro le mie merci e le mie ricchezze.» Kemaleddin non credè insistere più oltre, e soggiunse: — Fate come volete; io vi ho detto quanto era mio dovere: temo però non abbiate a riconoscere, ma troppo tardi, la saggezza de’ miei consigli.»
NOTTE DI
— Alaeddin ordinò di scaricare le mule e di piantare le tende. A mezzanotte fu costretto ad alzarsi, e vide da lungi qualche cosa che brillava; corse tosto ad informarne la guida, domandandogli cosa potesse essere. Kemaleddin si levò, e guardando attentamente, si accorse che quella luce era prodotta dallo scintillar delle lame delle scimitarre, di cui era armata una banda di Beduini.
«Essi si videro in breve circondati dai masnadieri, i quali precipitaronsi su di loro gridando: — O fortuna! o bottino!» Kemaleddin gridò alla sua volta: — Ritiratevi, fuggite, infami ladroni, i più vili e spregevoli degli Arabi!» Nello stesso tempo mosse ad incontrarli: ma il capo della truppa, di nome Agiab Abu-Nab, gli menò un tal colpo di lancia, che il ferro lo trafisse da parte a parte, e lo rovesciò morto sulla soglia della tenda. Il sacca (3), o servo incaricato di abbeverare gli animali, essendosi poscia presentato agli assalitori, gridando similmente e dimostrando loro il disprezzo in cui li teneva, un Arabo gli spaccò il cranio colla scimitarra, e lo stese morto a’ suoi piedi.
«Alaeddin, spaventato da tale spettacolo, restò immobile in un angolo della tenda, e sfuggì in quel modo al furore dei briganti. I Beduini trucidarono barbaramente tutta la sua gente, caricarono in fretta le mule, e attaccatele alla coda l’una dell’altra, si allontanarono.
«Alaeddin, ripresi i sensi, disse fra sè: — I briganti possono tornare, e se mi vedono, non mi risparmieranno.» Levossi l’abito, tenne indosso soltanto la camicia e le mutande, e si gettò per terra in mezzo al sangue ed ai cadaveri di cui il suolo era coperto.
«Mentre i Beduini allontanavansi col bottino, Abu-Nab chiese loro se la carovana allora spogliata venisse dall’Egitto, o se usciva da Bagdad. Quando gli ebbero detto che veniva dall’Egitto, li invitò a tornare sul campo di battaglia. — Giacchè,» disse, «ho sospetto che il capo di quella carovana non sia morto. «I Beduini tornarono sul luogo, e si misero a movere e percuotere i cadaveri colla punta delle lance. Quando furono vicini ad Alaeddin, uno di essi, accortosi ch’era ancora in vita, gridò: — Ah! ah! tu fai il morto! aspetta, che ti spedirò davvero!» Ciò dicendo, si accinse ad immergere la lancia nel petto del giovane....
«In quel critico istante, Alaeddin avendo, rivolta una fervida preghiera al beato Abdalkader-Algilani, vide una mano che allontanava la lancia del Beduino dal suo petto, dirigendola invece su quello della sua guida, l’akam Kemaleddin. Il Beduino ritirò la lascia con violenza, e volle reiterar il colpo, ma la stessa mano diresse il ferro sul petto del sacca; ed il brigante, credendo aver finita la vittima, raggiunse i compagni, i quali si allontanarono frettolosamente. «Alaeddin, levata la testa e vedendo che gli Arabi erano scomparsi col bottino, si alzò, e misesi a correre a tutta possa. Abu-Nab, voltatosi in quell’istante, gridò: — Compagni, vedo qualcuno che fugge!» Uno dei briganti si staccò tosto dalla banda, dicendo: — Tu hai bel fuggire: ti avrò subito raggiunto.» Nello stesso tempo spronò il cavallo, e corse a briglia sciolta verso il misero.
«Alaeddin allora vide dinanzi a sè un serbatoio d’acqua, vicino al quale eravi una cisterna; si arrampicò sul muro della cisterna, vi si sdraiò pel lungo, e finse di dormire, raccomandandosi a Dio e supplicandolo di toglierlo agli sguardi nemici. Il Beduino, avvicinatosi, si alzò sulle staffe per afferrarlo. Alaeddin fece una seconda preghiera simile a quella di prima, e tosto uno scorpione uscì dal suo covile, e punse sì vivamente la mano del Beduino, che colui si mise a strillare, e chiamar i compagni, dicendo ch’era morto. Accorsi i briganti, e trovatolo steso al suolo, lo rimisero sul cavallo, informandosi dell’accaduto.
«All’udire ch’era stato morsicato da uno scorpione, temettero che quel luogo ne fosse pieno, e pensando a mettersi in salvo, condussero via il compagno, e raggiunsero il resto detta banda, la quale tosto scomparve. Alaeddin, sentendosi stanco, si addormentò profondamente sul muro della cisterna.
«Frattanto Mahmud Alhalkhy, dopo la brusca partenza di Alaeddin, aveva fatto caricare i bagagli, continuando la via verso Bagdad; giunto alla foresta del Leone, provò un sentimento di gioia vedendo i cadaveri ond’era sparsa la terra. Avvicinatesi al serbatoio ed alla cisterna, la sua mula, spinta dalla sete, si chinò per bere, ma vedendo nell’acqua l’ombra di Alaeddin, retrocesse tutta spaventata. Mahmoud, alzati gli occhi, vide Alaeddin in camicia e mutande. che dormiva sull’orlo della cisterna. Svegliatolo, gli chiese chi lo avesse ridotto in quella trista posizione Alaeddin avendogli detto ch’erano stati i Beduini, il vecchio mercante lo confortò, ed invitatolo a scendere, lo fece montare sur una delle sue mule. Essi presero assieme la strada di Bagdad, e giuntivi di buon’ora, Mahmoud condusse il giovane in casa sua, e lo fece entrare in un bagno. All’uscirne, lo introdusse in un appartamento rifulgente d’oro da ogni parte e magnificamente ammobigliato. — Gli Arabi vi hanno spogliato di tutto,» gli disse; «voi avete perduto ricchezze e bagagli; ma se volete esser docile, io vi farò più opulente di prima. —
«Fu imbandita una lauta cena, e Mahmouded Alaeddin si posero a tavola. Dopo il pasto, il sozzo vecchio si avvicinò al giovane, e volle abbracciarlo; ma questi lo respinse, e gli disse con fermezza:
«— Io credeva avervi fatto abbastanza conoscere l’orrore che m’ispirano tali sentimenti, per costringervi a rinunciarvi.» Mahmoud, senza sgomentarsi, credette poter approfittare della trista situazione del tapino, e gli fece comprendere che i vestiti, la mula e le mercanzie che voleva dargli, meritavano dal canto suo qualche ricompensa. — Tienti i tuoi abiti, la tua mula e le tue merci,» rispose fieramente Alaeddin, «e fammi aprire la porta, ond’io mi allontani per sempre dalla tua presenza.» Mahmoud, sconcertato dalla fermezza d’Alaeddin, affrettassi ad esaudirlo.
«Il giovane, fatti alcuni passi nella via, si trovò vicino ad una moschea, e si ritirò sotto al vestibolo. Poco dopo vide da lungi una luce che pareva dirigersi alla sua volta, e riconobbe tosto che quella luce era prodotta dalle fiaccole che si portavano davanti a due mercatanti, uno dei quali era un vecchio di maestoso aspetto e l’altro un giovane.»
NOTTE DII
— «Mio caro zio,» diceva il giovane, «per amor di Dio, rendetemi mia cugina! — Vi ho già detto le mille volte,» rispose il vecchio, «che ciò è impossibile: non avete voi stesso fatto pronunciare il divorzio? —
«Il vecchio, avendo veduto in quel punto Alaeddin, fu sorpreso della sua venustà e gentilezza, e lo salutò con benevolenza. Resogli civilmente il saluto da Alaeddin, il vecchio gli domandò chi fosse.
«— Io mi chiamo Alaeddin,» rispose, «e sono figlio di Schemseddin, sindaco dei mercanti del Cairo. Avendo dimostrata a mio padre grande volontà di commerciare, egli mi fece apparecchiar cinquanta balle di merci e stoffe preziose, dandomi inoltre diecimila pezze d’oro. Io lasciai il Cairo e diressi i miei passi verso queste contrade; ma appena fui entrato nella foresta del Leone, una masnada di Beduini venne ad assalire la mia piccola carovana, e mi rapì tutto quello che possedeva. Sono appena entrato in questa città, e non sapendo ove passar la notte, veduta codesta moschea, venni a qui ricovrarmi sotto il vestibolo.
«— Che direste voi,» soggiunse il vecchio, il quale avevalo attentamente ascoltato, «se vi regalassi un abito completo del valore di mille pezze d’oro, una mula che valesse altrettanto, ed una borsa contenente la stessa somma? «— Qual sarebbe lo scopo di questa generosità?» chiese Alaeddin.
«— Voi vedete codesto giovane,» riprese l’altro, mostrando il compagno; «è il figlio di mio fratello, di cui era l’idolo; anch’io ho una figlia che amo appassionatamente, di nome Zobeide, la quale, oltre la sua grande bellezza, possiede al massimo grado il talento musicale; l’ho data in moglie a mio nipote, che se ne innamorò all’ultimo segno: ma essa non ha potuto mai soffrirlo. Punto dalla sua indifferenza, chiese tre volte il divorzio, e l’ha lasciata. Ora vuol ripigliarla, e mi fa supplicare da tutti di rendergliela; gli ho più volte ripetuto ciò essere impossibile finchè un altro non l’abbia sposata e ripudiata, ed ho promesso di cercare uno straniero per rendergli questo servigio, acciò si ciarli meno sul suo conto. Giacchè il caso fa che qui v’incontri, e che siete straniero, venite con noi dal cadi; là stenderemo il contratto del vostro matrimonio con mia figlia, passerete la notte con lei, e domani mattina, quando l’avrete ripudiata, vi darò quanto vi ho promesso.
«Alaeddin disse fra sè: — Non val meglio passare la notte in un buon letto vicino una bella donna, che passarla nella strada sotto ad un atrio? Accettò adunque la proposta, e si recò seco loro alla casa del cadì, il quale, colpito dal suo bell’aspetto, prese tosto il più vivo interesse a ciò che lo riguardava. — Che cosa volete?» chiese il cadì al vecchio. Voglio» rispose questi, «maritare mia figlia con codesto giovane, ma a patto ch’egli la ripudierà domattina, e la renderà al suo primo marito: a tal uopo, esigo che paghi domani a mia figlia una dote di cinquantamila pezze d’oro; l’impossibilità in cui è di pagare questa somma, lo costringerà ad adempiere alla convenzione, ed allora io mi obbligo a regalargli un vestito del valore di mille pezze d’oro, una muladello stesso prezzo, ed una borsa contenente la medesima somma.—
«Intesi su questi articoli, il cadì conchiuse il contratto, e consegnò al padre della giovane l’obbligazione di Alaeddin. Il vecchio condusse seco a casa il nuovo suo genero, e gli fece indossare un abito, sfarzoso. Entrò poi da sua figlia per avvertirla, mostrandole l’obbligazione che aveva, in mano, di averla maritata ad un bel giovane, di nome Alaeddin Abulschamat. Raccomandatole quindi di ben accoglierlo, si ritirò nel suo appartamento.
«Il cugino della giovane dama aveva interessata per sè una vecchia intrigante, la quale andava spesso a visitarla; si recò da quella vecchia, e la indusse ad impiegare qualche astuzia per impedire alla cugina di ricevere Alaeddin. — Giacchè,» diceva egli; «quando avrà veduto quel bel giovane, non vorrà più esser mia. —
«La vecchia rassicurò il cugino, e gli promise di allontanare Alaeddin. Infatti, si recò tosto da lui, e gli tenne questo discorso.
«— L’interesse che m’ispirano la vostra gioventù ed il vostro bell’aspetto, m’induce, o figlio, a darvi un consiglio dei quale desidero approfittiate: la giovane signora che avete sposata ha un esteriore che può a tutta prima sedurre, ma vi consiglio di non avvicinarsele. Vi dirò inoltre che la vostra salute corre il maggior pericolo, se aveste qualche commercio con lei; lasciatela dormir sola, credetemelo, e guardatevi voler dividere con lei il talamo.
«— Perchè mai?» chiese Alaeddin sorpreso; «e qual pericolo può correre la mia salute vicino ad una giovine signora?
«— Tutto il suo corpo,» riprese la vecchia, «è coperto d’una lebbra ributtante, ch’essa vi comunicherebbe infallibilmente, se aveste l’imprudenza di toccarla soltanto. — Posso assicurarvi,» soggiunse vivamente Alaeddin, «ch’io mi terrò a tal distanza da quella vezzosa, che non potrà comunicarmi il suo male. —
«La vecchia, lasciato Alaeddin in una disposizione sì favorevole alle sue intenzioni, recossi dalla giovane, e le tenne il medesimo discorso fatto ad Alaeddin. — Siate tranquilla, mia cara,» le disse Zobeide; «approfitterò del vostro avvertimento. Questo straniero potrà dormir solo, se vuole, e domattina avrà la compiacenza di andarsene com’è venuto.» La giovine, avendo poscia chiamata una delle sue schiave, le ordinò di preparare la tavola, e dar da cena ad Alaeddin.
«Dopo aver mangiato con appetito, questi andò a sedere in un angolo dell’appartamento, e lesse ad alta voce il capitolo del Corano intitolato Yas (4). La giovane dama, avendolo attentamente ascoltato, gli trovò una bellissima voce, e pensò fra sè:
«— La vecchia, secondo ogni probabilità, fu tratta in inganno da chi le ha detto che questo giovane è lebbroso; quegli affetti di tal malattia non hanno di certo una voce sì pura ed armoniosa come la sua; ciò ch’ella mi narrò a tal soggetto, è menzogna e falsità. —
«La donna, sentendo allora minor ribrezzo per Alaeddin, volle indurlo ad avvicinarsele; prese una chitarra indiana, e, spiegando una voce sì melodiosa che gli stessi uccelli si fermavano nell’aere per ascoltarla, cantò questi due versi:
«— Io amo un cerbiatto dal tenero sguardo, dal passo leggiero, che ora mi fugge ed ora m’insegue. Qual felicità di possedere un tal cerbiatto. —
«Alaeddin, rapito all’ultimo segno, rispose tosto con questo verso:
«— Quanto io amo queste forme eleganti, e quelle rose che brillano sulle tue guance! —
«Zobeide, sensibile a quei complimenti, alzò il velo, e lasciò scorgere i lineamenti più regolari ed il viso più seducente. Siccome Alaeddin sembrava colpito dalla sua avvenenza, ella gli si avvicinò; ma il giovane la respinse dolcemente: essa scoprì allora a’ suoi occhi due braccia candide come la neve, lisce come l’avorio. Alaeddin, sempre più trasportato, volle a sua volta accostarsi alla giovane: questa lo pregò di allontanarsi, dicendogli che, siccome era affetto di lebbra, il suo contatto poteva riescirle dannoso.
«Alaeddin, sorpreso, domandò a Zobeide chi fosse la persona che avevate fatto un tale racconto. — Fu,» diss’ella, «una vecchia che viene a visitarmi di frequente. — Ebbene,» soggiunse Alaeddin,» fu senza dubbio costei, la quale mi disse, che voi eravate affetta della stessa malattia.» I due sposi riconobbero allora lo strattagemma, e non temettero più di darsi vicendevolmente le prove della reciproca loro tenerezza.»
NOTTE DIII
— La domane mattina, Alaeddin trovò che la sua felicità era passata colla celerità dell’uccello che fende l’aria, e si lagnò della necessità in cui si trovava di separarsi dalla sposa. — Io ho soltanto pochi momenti di godere della vostra presenza,» le disse colle lagrime agli occhi. La giovane avendolo pregato di spiegarsi:
«— Vostro padre, «soggiunse, «mi ha fatto firmare un’obbligazione di cinquantamila pezze d’oro per vostra dote: se non la pago, mi farà imprigionare, ed io non posseggo la menoma parte di questa somma.
«Voi avete però mezzi di difesa,» ripigliò Zobeide. — È vero,» rispose Alaeddin; «ma come fare senza denaro?
«— È meno difficile di quello ebe vi pensiate,» riprese Zobeido;» rassicuratevi, e mostrate fermezza. Prendete frattanto queste cento pezze d’oro: se ne avessi altre, ve le offrirei di buon cuore; ma mio padre, che ama suo nipote, mi ha tolto tutto quello che possedeva per costringermi a tornare presso di lui. L’usciere del tribunale verrà senza dubbio qui stamane da parte loro; se mio padre ed il cadì volessero obbligarvi a pronunciare il divorzio, domandate arditamente qual è la religione che può costringere chi si marita la sera a ripudiare la moglie all’indomani. Nel medesimo tempo fate un piccolo regalo a tutti i giudici; avvicinatevi rispettosamente al cadì, ponetegli in mano dieci pezze d’oro, e siate certo che tutti s’interesseranno per voi. Se vi domandano perchè non volete accettare le mille pezze d’oro, la mula e l’abito stipulati nel contratto di ieri, rispondete che ogni capello della testa di vostra moglie v’è più prezioso di quei doni; che avete presa la ferma risoluzione di non separarvi mai da lei, e che non volete accettare nè mula, nè abito; se mio padre poi esigesse il pagamento della dote, ditegli che vi trovate troppo ristretto in questo momento per soddisfarlo.
— «Mentre discorrevano così, udirono bussar forte alla porta della via. Alaeddin, essendo disceso ad aprire, vide l’usciere del tribunale, il quale veniva ad invitarlo, da parte dello suocero, a recarsi all’udienza.
Alaeddin gli chiese, ponendogli in mano cinque pezze d’oro, se vi fosse una legge che lo astringesse a ripudiare al mattino la donna sposala la sera innanzi. L’usciere gli rispose non esistere alcuna legge di questa specie, e si offrì gentilmente a servirgli di difensore, nel caso in cui non fosse capace di difendersi da sè.
«Si recarono poscia alla sala d’udienza. Il cadì esigette da Alaeddin il pagamento della dote, poichè non voleva ripudiare la giovane dama. Questi, senza sgomentarsi, domandò gli si accordasse la dilazione concessa dalla legge. Il giudice gli fece osservare che quella dilazione era di soli tre giorni.
«— Tre giorni non mi bastano,» disse Alaeddin; «ne chieggo dieci.» Siccome la domanda era ragionevole, gli fu accordata, ma a patto però che, allo spirare del termine, pagherebbe la dote, o ripudierebbe la donna.
«Accettata l’alternativa, Alaeddin uscì dall’udienza, si provvide di carne, di riso, burro ed altre cose necessarie pel pranzo, e tornato a casa, raccontò alla giovane quant’era avvenuto. Zobeide gli disse che potevano accadere cose sorprendenti dalla sera al mattino, e che frattanto recavasi a dare gli ordini pel pranzo. Infatti, fece in breve imbandire una tavola coperta delle vivande più delicate e dei più squisiti liquori.
«Sulla fine del pasto, Alaeddin pregò Zobeide di cantargli un’arietta, accompagnandosi colla chitarra. La giovane si affrettò a soddisfarlo, prese lo strumento, e ne trasse suoni sì armonici e dolcissimi, che le pareti stesse dell’appartamento parvero sensibili a quegli accordi.
«D’improvviso udirono bussare fortemente alla porta di strada. Alaeddin andò ad aprire, e vide quattro dervis in atto supplichevole. Avendo chiesto cosa volessero, uno di essi rispose:
«— Signore, noi siamo dervis stranieri in questa città, e desidereremmo passare la notte in casa vostra. Allo spuntar del giorno ci porremo di nuovo in viaggio. Vi meriterete le benedizioni del cielo, accordandoci questo favore, e forse non ne siamo indegni, non essendovi alcuno di noi che non sappia a memoria i poemi ed i versi più famosi, e che non sia amatore appassionato della musica e degli strumenti.
«— Io debbo prima consultare qualcheduno sulla domanda che mi fate,» soggiunse Alaeddin, e si recò tosto ad informarne Zobeide. Questa gli disse di lasciarli entrare.
«Avendoli Alaeddin introdotti, li fece sedere e li trattò con molta gentilezza. — Signore,» gli dissero essi, «la nostra situazione non c’impedisce di godere dei piaceri della società, e non bisogna che siamo origine d’interrompere i vostri divertimenti: passando dalla vostra casa, una musica deliziosa si faceva udire, e quando siamo entrati, cessò d’improvviso. Oseremmo noi domandarvi se la persona che la eseguiva fosse, una schiava bianca o nera, o qualche giovane e distinta dama?
«— È la mia sposa,» rispose Alaeddin; e narrò tosto le sue avventure, il modo con cui lo suocero gli aveva fatto soscrivere un’obbligazione di cinquantamila pezze d’oro, e l’imbarazzo in cui si trovava di pagarle, non avendo potuto ottenere che una dilazione di dieci giorni.
«— Non inquietatevi,» disse uno dei dervis; «io sono il capo di quaranta dervis sui quali esercito assoluto potere; li indurrò facilmente a procurarmi le cinquantamila pezze d’oro di cui avete bisogno: ve le rimetterò, e voi potrete così adempire al vostro impegno verso lo suocero. Ma se fosse un effetto della vostra compiacenza il farci udire la voce della giovane dama, ci procurereste un dolce favore: giacchè la musica è, per alcuni, gradita quanto le più squisite vivande, e per altri è un sollazzo, che preferiscono a tutto.»
NOTTE DIV
— Il dervis che faceva sì belle promesse, era anche in istato di mantenerle, essendo egli il califfo Aaron Alraschild in persona, accompagnato dal visir Giafar, dallo scheik Mohammed-Abu-Naouas (5), e da Mansur, esecutore delle sue sentenze. Il califfo, avendo quella sera stanco lo spirito, aveva fatto chiamare quei personaggi per distrarsi, e percorrere con essi le vie di Bagdad. Eransi travestiti da dervis, e passando presso la casa di Alaeddin, avevano udita l’arietta cantata da Zobeide. Il califfo, rapito dalla bellezza della voce, e dai suoni armonici dello strumento, era stato curioso di conoscere ed udire la persona che possedeva in sì alto grado il talento musicale.
«Alaeddin avendo acconsentito alla domanda dei dervis, essi passarono la notte a divertirsi, o conversare nella più spiritosa maniera. All’indomani mattina, il califfo mise sotto al cuscino, sul quale stava seduto, una borsa di cento pezze d’oro, e si ritirò coi compagni. Zobeide avendo veduto, levando il cuscino, la borsa che c’era sotto, la portò al marito, dicendogli che sospettava fosse stato uno dei dervis a nascondervela, a loro insaputa, prima di partire. Alaeddin la prese, ed andò a comperare la carne, ..., e le altre provvigioni necessarie a passare quella seconda sera.
«Quando furono accesi i lumi, disse alla consorte credere che i dervis volessero farsi beffe di lui, e che non gli sarebbero portate le cinquantamila pezze d’oro. Mentre così parlava, essi vennero a bussare alla porta. Zobeide gli disse di andar ad aprire, e quando li ebbe fatti salire nel suo appartamento, domandò loro se venivano ad adempire alla fatta promessa.
«— I nostri confratelli,» risposero i dervis, «non vollero aderire ad nostro desiderio; ma non temete: domattina faremo un’operazione chimica per procurarci il denaro. Lasciateci soltanto godere, stasera, del piacere d’udir cantare la vostra sposa, giacchè la compiacenza da lei avuta ieri per noi, ci fa bramare ardentemente di udirla ancora. —
«Zobeide, avendo presa la chitarra, si affrettò a soddisfarli, e li incantò colle melodie che trasse da quello strumento. Essi passarono la notte fra la gioia ed i piaceri, ed allo spuntar dell’alba il califfo, avendo messa una seconda borsa di cento pezze d’oro sotto al cuscino, tornò ai palazzo coi compagni.
«I dervis continuarono a venire così a passar la sera in casa di Alaeddin, ed il califfo non mancava di deporre sotto al cuscino la solita borsa.
«Il decimo giorno, il califfo mandò a cercare due dei più rinomati mercatanti di Bagdad, e gli ordinò di preparar subito cinquanta colli delle più preziose stoffe e mercanzie che vengono solitamente dall’Egitto, e ponte su ciascun collo un’etichetta indicante che il prezzo n’era di mille pezze d’oro. Quel principe prese poscia uno de’ suoi schiavi, al quale i consegnò un magnifico abito ed un bacino d’oro colla sua brocca. Gli affidò le cinquanta balle, e gli diede nel medesimo tempo una lettera diretta ad Alaeddin, ordinandogli di recarsi coi colli in una via che gl’indicò, e d’informarsi ove fosse la casa del sindaco dei mercanti, il quale era anche il suocero di Alaeddin. — Quando avrai trovata la casa,» aggiunse il califfo, «domanderai al sindaco ove abita il signor Alaeddin, tuo padrone.» Il califfo informò quindi lo schiavo delle altre cose da dire per sostener bene la sua parte, ed adempiere abilmente alla sua commissione
«In quello stesso giorno il cugino di Zobeide era andata a trovar il padre di quella giovane signora, e lo aveva invitato a recarsi con lui da Alaeddin per obbligarlo a ripudiare la cugina. Mentre vi andavano entrambi, videro uno schiavo montato sur una mula, il quale conduceva cinquanta altre mule cariche di colli di preziose stoffe. Avendo chiesto allo schiavo per chi fossero quelle balle; rispose che appartenevano al suo padrone Alaeddin Abulschamat, e quindi aggiunse:
«— Il padre del mio padrone gli aveva affidate molte mercanzie per condurle a Bagdad; ma una banda di ladroni arabi l’hanno assalito nella foresta del Leone, spogliandolo di quanto possedeva. Pervenuta a suo padre la funesta notizia, egli mi manda a lui con queste cinquanta mule, coll’incarico di rimettergli una somma di cinquantamila pezze d’oro, un pacco contenente un abito completo, ricco quanto quello che gli fu rubato dai ladri, una pelliccia di martora zibellino ed un bacino d’oro colla sua brocca. —
«Il padre della giovane dama, sorpreso di quell’incontro e meravigliato della descrizione di tante ricchezze, si affrettò a dire allo schiavo ch’egli era lo suocero di Alaeddin, offrendosi di condurlo alla casa che cercava.
«In quel punto Alaeddin, chiuso in casa della sposa, abbandonavasi alle più crudeli riflessioni ed era in preda al più violento dolore; avendo d’improvviso udito un gran rumore alla porta di strada, sclamò: — Mia cara Zobeide, è certamente tuo padre che manda gli arcieri e le genti di giustizia per costringermi a separarmi da te! — Guardate,» disse Zobeide, «chi può essere. — «Alaeddin discese i gradini a passi lenti ed aprì tristamente la porta. Ma qual fu la sua sorpresa vedendo lo suocero a piedi, accompagnato da uno schiavo abissino che cavalcava una mula; e lo fu ancor più quando quello schiavo, la cui faccia, benchè nera, eccitava qualche simpatia, balzando leggermente a terra, venne a baciargli la mano.
«— Che vuoi tu?» gli domandò il giovane. — Signore,» rispose lo schiavo, «io sono il servo del mio padrone Alaeddin Abulschamat, figlio di Schemseddin, sindaco dei mercanti del Cairo. Suo padre mi manda da lui con questa lettera di credito.» Nello stesso tempo presentò un foglio ad Alaeddin, il quale lo ricevette con premura, ed apertolo, vi lesse ciò che segue:
««Schemseddin, sindaco dei mercanti del Cairo, al suo diletto figlio Alaeddin Abulschamat
«Salute.»
««Ho saputo adesso, mio caro figlio, la funesta novella del combattimento in cui tutti i tuoi perirono, e nel quale fosti spogliato d’ogni avere; ma consolati, ti mando cinquanta altri colli delle più belle stoffe del mio magazzino, una mula, una pelliccia di martoro zibellino ed un bacile d’oro colla sua brocca. Bandisci adunque dal tuo cuore le inquietudini che puoi aver concepite; le ricchezze che ti
furono involate ti hanno servito di riscatto. Tua madre e tutti quelli di casa godono di perfetta salute e ti fanno i loro complimenti. Seppi inoltre, mio caro figlio, che hai sposata una giovane dama di nome Zobeide, buona suonatrice, a condizione di ripudiarla, e che col disegno soltanto di costringerviti, dovesti firmare un’obbligazione di cinquantamila pezze d’oro per la dote. Ho affidata questa somma al tuo fedele schiavo Selim, il quale deve consegnartela assieme ai cinquanta colli di mercanzie.
«Schemseddin.»
«Percorsa la lettera, Alaeddin si rivolse allo suocero, e gli disse: — Prendete le cinquantamila pezze d’oro stipulate per la dote di Zobeide, e negoziate le mercanzie a vostro profitto, dandomi conto soltanto del capitale.» Il padre di Zobeide, sensibile alla generosità del giovane, non volle però approfittarne. — Non posso accettare le vostre esibizioni,» rispose. «Quanto alla dote, essa appartiene a mia figlia, ed entrambi potete farne ciò che vorrete. —
«Mentre Alaeddin e suo suocero erano occupati a far entrare le mercanzie, Zobeide domandò al padre a chi appartenessero.
«— Mia cara figlia,» rispose il vecchio, «esse appartengono ad Alaeddin tuo sposo: suo padre glie le manda per indennizzarlo della perdita di quelle derubategli dagli Arabi. Gli ha inoltre mandata una somma di cinquantamila pezze d’oro, un pacco contenente oggetti preziosi, una pelliccia di martoro zibellino, una mula ed un bacile d’oro colla brocca del medesimo metallo. Voi potrete disporre amendue di questi oggetti a vostro talento, e la dote in ispecie è totalmente a tua disposizione. —
«Alaeddin aprì tosto la cassetta, e ne cavò fuori le cinquantamila pezze d’oro, che consegnò alla sposa.
«Il cugino della giovane dama, stupefatto e confuso da quell’avvenimento, e vedendo fallite le sue speranze, domandò con umore allo zio, se non fosse più disposto a costringere lo straniero a rendergli la consorte. — Ciò ora è impossibile,» rispose il vecchio, «giacchè la legge è tutta in favore di Alaeddin, il quale, come vedete, ha adempito a’ suoi obblighi.»
NOTTE DV
— Il cugino, abbattuto da quella risposta, tornò a casa colla disperazione in cuore, infermò gravemente, e morì di dispiacere poco dopo.
«Collocati al sicuro i colli, Alaeddin andò a fare le provvigioni necessarie per un pasto simile a quelli delle sere precedenti. Essendo di ritorno, disse a Zoheide: — Io non m’era ingannato nelle mie congetture; quei dervis sono tanti impostori che mi fecero fallaci promesse: vedete come hanno mantenuta la loro parola!
«— Cessate d’avere una sì cattiva opinione di essi,» gli rispose la moglie; voi siete il figlio del sindaco dei mercanti del Cairo, eppure ieri ancora non possedevate un centesimo; in qual imbarazzo non dovevano essere adunque questi dervis, poveri qual sono, onde procurarsi cinquantamila pezze d’oro?
«— Grazio al cielo or non abbiamo più bisogno di essi, «riprese Alaeddin;» vengano adesso: voglio chiuder loro la porta, in faccia.
«— E perchè?» soggiunse Zobeide; «sono persuasa invece, essere stata la loro presenza che ci recò fortuna; ed ogni sera non nascondevano essi, a nostra insaputa, una borsa di cento pezze d’oro sotto al cuscino? —
«Al tramonto, quando furono accesi i lumi, Alaeddin pregò la sposa di prendere il liuto, e cantargli una delle sue, ariette favorite. Zobeide, compiacente a prevenirne i menomi desiderii, affrettossi a soddisfarlo, accordò il suo strumento, e cominciò il canto. In quel punto si udì bussar con forza alla porta di strada. Zobeide pregò il marito di andar a vedere chi fosse. Quand’ebbe aperto, e veduti i dervis: — Ah! ah!» sclamò ridendo; «entrate, signori impostori, entrate. —
«Sedutisi i dervis, Alaeddin fece allestire la mensa. — Signore,» gli disse uno di quelli, «l’impossibilità in cui ci trovammo di fare ciò che volevamo, non ne toglie di prendere il più vivo interesse a tutto ciò che vi risguarda: narrateci adunque, di grazia, che cosa vi è accaduto con vostro suocero.
«— Dio,» rispose Alaeddin, «ci ha colmati di favori più che non osassimo sperare.
«Ne siamo lieti,» rispose il falso dervis, «giacchè eravamo molto inquieti a vostro riguardo, e dovete esser persuaso che se avessimo potuto raccogliere la somma da noi promessa, l’avremmo portata assai volentieri.
«— Allah m’ha procurato i mezzi di trarmi d’impaccio,» soggiunse il giovane; «mio padre mi mandò cinquantamila pezze d’oro, e cinquanta balle delle stoffe più preziose, ciascuna del valore di mille pezze, come indica il biglietto che vi sta sopra; mi ha altresì mandato un magnifico vestito, una pelliccia di martoro zibellino, una mula, uno schiavo ed un bacile d’oro colla sua coppa; inoltre, mi sono riconciliato con mio suocero, e ciò che mette il colmo alla mia felicità, è il possedere una vezzosa moglie, dalla quale sono teneramente amato. Vedete adunque che Iddio non mi abbandonò in questo critico istante. —
«Avendo finito di parlare, il califfo finse d’aver bisogno di uscire un momento; il visir Giafar, chinandosi allora verso Alaeddin, lo avvertì di non dir nulla che potesse offendere i suoi ospiti, e soprattutto colui ch’era uscito. Il giovane gli domandò la cagione di quell’avvertimento. — Mi sembra,» soggiunse, «di avervi dimostrato a tutti riguardi e cortesie quanto avrei potuto dimostrarne allo stesso califfo.
«— L’uomo uscito testè,» ripigliò Giafar, «è appunto il califfo in persona; io sono il visir Giafar, e dei personaggi che mi vedete ai fianchi, l’uno è lo scheik Mohammed Abu-Naouas, l’altro è Mansur, esecutore dei decreti di sua maestà. —
«Il giovane parve sorpreso da quell’avventura, e non sapeva che cosa pensare.
«— Signor Alaeddin,» prosegui il visir, «fatemi il piacere di riflettere un momento, e dirmi quanti giorni di viaggio vi sono fra il Cairo e Bagdad.» Alaeddin rispose esservene quarantacinque. — Come mai allora,» riprese Giafar, «le vostre merci hanno potuto fare questo tragitto in dieci giorni? Com’è possibile che vostro padre sia stato informato del vostro disastro, abbia fatto imballare le stoffe da voi ricevute, e vi siano giunte nello spazio di dieci giorni, se ne abbisognano quarantacinque per portarle soltanto dal Cairo fin qui?
«— Avete ragione, signore,» sclamò Alaeddin; «il mio errore fu grossolano; io non so ora che cosa pensare di tutto ciò, e non posso capirci nulla.
«— Ogni cosa,» ripigliò il visir, «fu opra del sovrano Commendatore dei credenti; fu egli stesso che vi fece questi doni, per la grande affezione per voi concepita. —
«Il califfo essendo rientrato in quel frattempo,
Alaeddin gli si gettò ai piedi, e gli dimostrò la sua viva riconoscenza. — Dio prolunghi i giorni di vostra maestà,» gridò, «e spanda su lei in eterno i suoi benefizi, per la generosità ch’ebbe pel suo schiavo! — «Il califfo costrinse Alaeddin a rialzarsi, e lo pregò di fargli udire un’altra volta la voce di Zobeide per ricompensarlo di ciò che aveva fatto per essi. La giovine si affrettò a rispondere ad un invito tanto lusinghiero, prese il liuto, e cantò con grazia sì incantevole, che Aaron non poteva stancarsi dall’udirla. Passò parte della notte in quel divertimento, ed invitò Alaeddin, ritirandosi, a recarsi all’indomani al divano.
«Il giovine vi andò adunque all’indomani, accompagnato da dieci schiavi che portavano ciascuno sul capo un bacile pieno dei più preziosi oggetti. Entrando, prosternossi col viso contro terra, e quindi rialzatosi, volse un complimento lusinghiero al califfo, seduto sul trono, e circondato dalla sua corte; poscia lo supplicò di accettare i doni che gli offriva.
«Il monarca gli fece la più graziosa accoglienza, e ricevette con piacere i presenti; gli fe’ indossare un abito d’onore, e lo nominò sull’atto sindaco dei mercanti di Bagdad, facendolo sedere nel divano in tale qualità.
«In quel momento, lo suocero di Alaeddin, rivestito dapprima di quella carica, essendo entrato nella sala, scorto il genero seduto al suo posto e vestito di un abito magnifico, si prese la libertà di domandare al califfo che cosa ciò significasse.
«— Ho nominato Alaeddin,» rispose il principe, «sindaco dei mercanti: le cariche e le dignità non appartengono esclusivamente e per sempre a quelli che ne sono rivestiti, ed io giudicai a proposito di destituirti.
«— Vostra maestà ha fatto assai bene,» soggiunse il vecchio; «alla fin fine l’onore da ella fatto a mio genero, riflette su me e sullo stesso Allah che diresse la sua scelta; egli innalza, quando vuole, i piccoli ai più grandi onori; quante volte si sono veduti i grandi venire a baciar la mano di chi sprezzavano il giorno prima!»
NOTTE DVI
— Il califfo avendo confermato, con espresso decreto, l’elezione di Alaeddin, rimise quell’ordine nelle mani del luogotenente di polizia per farlo eseguire, e questi lo consegnò ad uno de’ suoi ufficiali, il quale pubblicò nel divano che da quel punto si dovesse riconoscere Alaeddin Abulschamat come sindaco dei mercanti, e gli si rendessero gli onori e l’ubbidienza a lui dovuti in tale qualità.
«Sul calar della sera, quando il divano fu sciolto, il luogotenente di polizia, preceduto da un banditore, e camminando dinanzi al nostro giovane, percorse in gran pompa le vie di Bagdad; il banditore pubblicava in tutti i quartieri che il califfo aveva nominato sindaco dei mercanti il signor Alaeddin Abulsehamat, e ch’egli solo poteva allora adempiere alle funzioni di quella carica.
«All’indomani, Alaeddin aperse una magnifica bottega, a dirigere la quale mise uno de’ suoi schiavi, incaricandolo dei dettagli del commercio, mentr’egli non si occupava che di assistere regolarmente al divano. Un giorno ch’eravisi recato secondo il Storia di Abu Mohammed Alkeslan. Disp. XXIII. Rovine di Nemfi. Disp. XXIV. solito, un ufficiale del califfo venne ad annunciare a quel principe la morte improvvisa d’uno dei suoi consiglieri intimi.
«Il monarca mandò tosto a cercare Alaeddin, gli fe’ indossare un caftan o vestito d’onore, e gli accordò il posto del defunto, con una pensione di mille pezze d’oro. Alaeddin, attaccato ancor più alla persona del califfo, entrò vie maggiormente nelle sue buone grazie.
«Un giorno che stava nel divano, un emiro, colla spada in pugno, venne ad annunziare ad Aaron la morte del capo del consiglio supremo dei Sessanta. Quel principe fece tosto indossare ad Alaeddin un superbo caftan, e lo nominò capo del consiglio dei Sessanta. Siccome l’estinto non aveva moglie nè figli, Alaeddin ereditò, per ordine del califfo, tutti i suoi schiavi e tutti i tesori, a condizione soltanto che prenderebbe cura de’ funerali. Aaron avendo sventolato il fazzoletto, il divano si sciolse.
«Uscendo dalla sala, Alaeddin trovò una compagnia di quaranta uomini delle guardie del principe, che si disponevano a scortarlo per fargli onore, ed il cui capo, di nome Ahmed Aldanaf, venne a porsegli a’ fianchi. Il giovane, il quale conosceva il potere di quell’ufficiale e la fiducia che il califfo aveva in lui, approfittò dell’occasione per indurlo a legarsi seco strettamente, e volerlo riguardare come suo figlio. Ahmed Aldanaf, avendo sentito inclinazione ed attaccamento pel giovane dall’istante che l’aveva veduto comparire alla corte, fu lieto della sua domanda, e v’acconsentì volentieri; gli promise, anche per dargli un luminoso segno dell’interesse che prendeva per lui, di farlo scortare dai suoi soldati tutte le volte che si recherebbe al divano o che ne uscirebbe.
«Alaeddin, colmo d’onori alla corte del califfo, recavasi tutti i giorni dal principe, col quale viveva nella più stretta intrinsichezza. Una sera che, appena entrato in casa, dopo aver congedato i soldati di Ahmed Aldanaf, stava seduto vicino alla sposa, questa lo lasciò, dicendo che sarebbe tosto tornata. Poco dopo fu udito un acuto strido. Alaeddin uscì per vedere d’onde partisse, e trovò la sua cara Zobeide stesa al suolo. Corse per rialzarla, ma qual ne fa la sorpresa e l’orrore, quando si accorse ch’era già esanime!
«L’appartamento del padre di Zobeide trovavasi rimpetto a quello di Alaeddin; il vecchio, avendo udito il grido della figlia, aperse la porta, e domandò al genero che cosa ciò significasse. — Voi non avete più figlia!» gridò Alaeddin; «la mia cara Zobeide non è più! —
«Il vecchio, benchè profondamente afflitto della perdita di sua figlia, fu talmente sorpreso del dolore dimostrato dal genero, che cercò di consolarlo, e gli disse che l’ultimo segno ch’essi, potevano dare della propria affezione alla persona stata loro tolta in un modo tanto subitaneo e funesto, era di prender cura de’ suoi funerali. Si occuparono adunque amendue a renderle gli estremi uffizi, cercando di consolarsi a vicenda. Ma lasclamo ora dormire in pace Zobeide; forse avremo occasione di ritornare su questa catastrofe.
«Alaeddin vestì il lutto, e si abbandonò siffattamente al suo dolore, che cessò di recarsi al divano. Il califfo, sorpreso della sua assenza, chiese al visir Giafar la ragione per cui Alaeddin non si recasse più al palazzo.
«— Sovrano Commendatore dei credenti,» rispose il visir, «è il dolore della perdita della sua sposa che glielo impedisce: egli la piange di continuo giorno e notte.— Bisogna andarlo a trovare,» soggiunse Aaron.
«Il califfo e Giafar, travestitisi amendue, si recarono alla casa di Alaeddin, e lo trovarono seduto, colla testa appoggiata alle mani, immerso in tristi pensieri. Il giovane si alzò per riceverli, e riconosciuto il principe, si gettò a’ suoi piedi. Aaron lo fece rialzare con bontà, e gli disse affettuosamente che pensava sempre a lui. — Iddio prolunghi i giorni di vostra maestà!» sclamò Alaeddin, cogli occhi pregni di lagrime.
«— Perchè,» soggiunse il califfo, «avete cessato di venire a trovarci, e vi assentaste per tanto tempo dal divano? — Sire,» rispose Alaeddin, «io sono inconsolabile della perdita della mia sposa Zobeide.
«— Non bisogna abbandonarsi così al dolore,» riprese Aaron, «e dovete sottomettervi ai decreti della Provvidenza: le lagrime che versate sono inutili, e non potranno rendere la vita alla vostra sposa. — Io non cesserò di piangerla,» disse Alaeddin, traendo un profondo sospiro, «se non quando la morte ci avrà riuniti per sempre. —
«Il califfo, partendo, gli raccomandò di recarsi al divano secondo il solito, e non privarlo a lungo della sua presenza.
«Tocco della bontà del principe, Alaeddin salì all’indomani a cavallo, si recò al divano, ed entrando nella sala, si prosternò col viso a terra. Il califfo, vedendolo, scese dal trono, si avanzò per farlo rialzare, ed accoltolo nel modo più lusinghiero, gli fece riprendere il solito posto. — Io spero,» gli disse con bontà, «che voi sarete stasera dei nostri. —
«Chiuso il divano, il califfo, rientrando nel serraglio, fece venire una schiava di nome Cout Alcouloub6, e le disse: — Alaeddin ha perduta la sua sposa Zobeide, la quale, pel suo talento musicale, formava la felicità, della sua vita, e bandiva la tristezza dal di lui cuore; io desidererei che gli faceste udire questa sera, sul vostro liuto, qualche pezzo di musica che potesse distrarlo un momento. —
«Alla sera, Cout Alcouloub, nascosta dietro una cortina, avendo accordato il liuto, si accompagnò con tanta grazia, cantando con tal dolcezza, che il califfo, entusiasmato, si volse con vivacità verso Alaeddin, e gli domandò cosa pensasse del talento di quella schiava.
«— Canta assai bene,» rispose Alaeddin; «ma la sua voce non mi fa l’impressione di quella di Zobeide. — Lo credo,» soggiunse il califfo; «ma infine, la sua voce vi piace?
«— Sire,» rispos’egli con imbarazzo, «bisognerebbe che fossi ben difficile da contentare, se non mi piacesse l’udirla. — Ebbene,» riprese Aaron, «è un dono che vi fo: ve la regalo assieme a tutte le schiave che sono al suo servizio.» Alaeddin, sempre più sorpreso, s’immaginò che il califfo volesse divertirsi, e si ritirò con tale idea.
«All’indomani, il califfo recossi da Cout Alcouloub a dirle che l’aveva regalata ad Alaeddin con tutte le donne del suo servizio. La schiava ne fu lieta, giacchè, avendo avuto agio di esaminare il giovane attraverso la cortina che la nascondeva a’ suoi sguardi, trovatolo di proprio gusto, non aveva potuto a meno d’invaghirsene.
«Il califfo comandò tosto di trasportare tutti gli effetti di Cout Alcouloub nella casa di Alaeddin, e di condurvela anch’ella. La fecero salire in una lettiga, come pure tutte le sue schiave, in numero di quaranta, e fu condotta al palazzo di Alaeddin, mentre questi trovavasi al divano, che in quel giorno fu lunghissimo, giacchè il califfo non isciolse la seduta se non verso la fine del giorno, e tornò assai tardi ai serraglio. «Entrando in casa di Alaeddin, accompagnata da quaranta donne, Cout Alcouloub aveva fatto situare al due lati della porta due guardie del califfo, prescrivendo loro di annunciare il suo arrivo ad Alaeddin appena si presentasse, e pregarlo di recarsi da lei.
«Il giovane, il quale non pensava già più a Coilt Alcouloub, fu assai sorpreso, entrando in casa, di trovare sulla porta due guardie del califfo. — Che significa ciò?» disse fra sè. «Non m’inganno? È questa la mia casa?»
NOTTE DVII
— Le due guardie, avanzatesi in quel momento, e baciata rispettosamente la mano ad Alaeddin, una di esse gli disse: — Noi siamo al servizio di Cout Alcouloub, la favorita del califfo; essa c’incarica di annunciarvi che quel principe ve l’ha donata insieme a tutte le sue donne, e vi prega di recarsi da lei.
«— Andate a dire alla vostra padrona,» rispose Alaeddin, «ch’essa è la benvenuta; ma prevenitela, nello stesso tempo, che fin quando le piacerà di rimanere in casa mia, non mi prenderò la libertà d’andar a visitarla, giacchè ciò che conviene al padrone, non conviene allo schiavo. Pregatela inoltre, a mio nome, di compiacersi a dirmi qual è l’onorario che riceve ogni giorno dal califfo. —
«Le due guardie, avendo adempiuto alla loro commissione, tornarono a dire ad Alaeddin che la pensione di Cout Alcouloub era di cento pezze d’oro al giorno. — Io aveva bisogno davvero,» pensò fra sè, «che il califfo mi facesse un simile presente! —
«Cout Alcouloub rimase molto tempo in casa di Alaeddin, il quale le faceva esattamente pagare ogni mattina le cento pezze d’oro. Un giorno che, dedito intieramente al dolore ed al rammarico che gli cagionava la perdita di Zobeide, non si era recatosi al divano, il califfo disse a Giafar:
«— Visir, non ho io fatto un regalo ad Alaeddin di Cout Alcouloub, per confortarlo della perdita della sua sposa? Perchè dunque non viene a trovarci secondo il solito?
«— Sire,» rispose il visir, «si ha ben ragione di dire che un amante dimentica in breve i suoi vecchi amici vicino alla sua diletta. —
«Giafar non tardò a disingannarsi; chè, essendosi recato la domane a far visita ad Alaeddin, questi gli partecipò i suoi affanni, e gli disse: — Che cosa ho mai fatto al califfo per indurlo a regalarmi Cout Alcouloub? Sarei stato bene anche senza questo dono. —
«Il visir, avendo risposto ad Alaeddin essere la somma affezione del califfo per lui, che lo aveva indotto a cedergli quella schiava, gli domandò in confidenza se andasse qualche volta a trovarla. — In verità,» rispose il giovane, «io non l’ho ancora veduta, e vi prometto che non la vedrò giammai.» Il visir, avendolo pregato di spiegargli la ragione di tale condotta, n’ebbe in risposta: — Ciò che conviene al padrone, non conviene allo schiavo. —
«Giafar non mancò di partecipare quanto aveva udito al califfo, il quale volle tosto recarsi col visir da Alaeddin. Questi, al vederli, andò incontro al principe, si gettò a’ suoi piedi e gli baciò le mani. Il monarca, avendo osservato sul di lui viso l’impronta del più profondo dolore, gli disse, facendolo rialzare:
«— Dovrò dunque vedervi sempre tristo, mio caro Alaeddin? Cout Alcouloub non ha fatto nulla per consolarvi? — Sovrano Commendatore dei credenti,» rispose Alaeddin, «ciò che conviene al padrone, non conviene allo schiavo. Io vi giuro che non mi sono avvicinato a lei, nè che me le accosterò giammai; e se osassi chiedervi una grazia, sarebbe quella di dispensarmi dal tenerla più oltre in mia casa, — Bramerei vederla un momento,» soggiunse il califfo.
«Alaeddin si affrettò di condurre Aaron all’appartamento della donna. Quel principe, entrando, le chiese se il favorito era venuto a visitarla; la giovane, avendogli detto ch’essa aveva pregato Alaeddin di recarsi da lei, ma ch’egli non volle accettare il suo invito, il califfo ordinò tosto di ricondurla al serraglio, ed invitato Alaeddin a venir a trovarlo, rientrò poco dopo nel palazzo.
«Il nostro giovane, contento di essersi sbarazzato di Cout Alcouloub, passò la notte un po’ più tranquillamente del solito, e riprese l’indomani il suo posto al divano. Il califfo fece chiamare il tesoriere, od imposegli di rimettere diecimila pezze d’oro a Giafar. — Visir,» disse a questi, «io v’incarico di andare al bazar a comperarvi per Alaeddin una schiava del valore delle diecimila pezze.» Il visir si dispose ad eseguire l’ordine reale, ed in compagnia del favorito, si recò al mercato degli schiavi.
«Per la maggior intelligenza della continuazione di questa storia, bisogna sapere che il wali, o luogotenente di polizia di Bagdad, chiamato l’emiro Kaled, aveva avuto dalla consorte Katon un figlio estremamente brutto, di nome Abdalum Bezaza. Questo figlio, sebbene già in età di vent’anni, era ancora assai ignorante, e non aveva imparato alcuno di quegli esorcizi convenienti ai giovani del suo grado, giacchè sapeva appena stare a cavallo: ben diverso in ciò dal padre, il quale passava per uno dei migliori cavalieri del suo tempo, e ch’erasi fatto sempre distinguere pei modi gentili, le cognizioni ed il coraggio.
«Bezaza avendo raggiunto l’età di pensare al matrimonio, la madre volle dargli moglie, e partecipò al marito il suo progetto. Questi, conoscendo tutti i difetti del giovane, disse alla consorte che il loro figliuolo essendo stato sì maltrattato dalla natura sia riguardosi corpo come riguardo allo spirito, essi non potrebbero mai trovare una fanciulla che volesse sposarlo. La risposta di Katon fu: — Bisogna comperargli una schiava. —
«Il caso volle che il giorno in cui il gran visir Giafar ed Alaeddin si recavano al bagno per comperarvi una schiava, fosse precisamente quello in cui l’emiro e suo figlio vi andavano nello stesso pensiero. Al momento del loro arrivo, il banditore teneva per mano una giovane di massima bellezza, le cui forme snelle e sciolte, la freschezza e la modestia colpirono talmente il visir, che ne offrì tosto mille pezze d’oro. Quando il banditore passò vicino all’emiro Kaled, suo figlio Abdalum Bezaza, avendo veduta la schiava, se ne invaghì tosto perdutamente, e supplicò il padre di comprargliela.
«Kaled avendo fatto segno al banditore di avvicinarsi, gli domandò qual fosse il nome di quella schiava. Quand’ebbe saputo che si chiamava Gelsomina, e che se ne offrivano già mille pezze d’oro, si volse al figlio, e gli disse che se voleva acquistarla, bisognava aumentare. Abdalum Bezaza soggiunse che ne offriva una pezza di più. Alaeddin ne esibì tosto duemila, ed ogni volta che il figlio dell’emiro aumentava d’una pezza, il favorito ne offriva mille.
«Abdalum Bezaza, sdegnato di vedere che si osasse tenergli fronte, domandò al banditore, con aria altera, il nome dell’aumentatore.
«— È il gran visir Giafar,» rispose questi; «egli vuol comprare questa schiava pel signor Alaeddin Abulschamat.» In quel momento, avendo questi offerto diecimila pezze d’oro, il padrone della schiava gliela aggiudicò, e fu tosto pagato per ordine del visir. Alaeddin, appena si vide in possesso di quella gentil creatura, la dichiarò libera, e sposatala, la condusse a casa.»
NOTTE DVIII
— Il banditore, ricevuta la sua ricompensa, passò davanti all’emiro Kaled ed a suo figlio, e disse loro che Alaeddin aveva comperata la schiava per diecimila pezze d’oro, e che avevala dichiarata libera e sposata.
«Bezaza tornò a casa disperato per quella notizia. Appena vi giunse, fu assalito da una febbre violenta e costretto a starsene a letto. Sua madre, la quale non sapeva ancora l’accaduto, gli chiese qual fosse la causa del suo male. — Datemi Gelsomina,» le rispos’egli con voce fioca. Sua madre, credendolo in delirio, gli promise, per acchetarlo, di comprargli un bel mazzo di gelsomini appena passasse il mercante di fiori. — Non si tratta di fiori!» sclamò egli con impazienza; «è la schiava Gelsomina ch’io vi chiedo; senza di lei non posso più vivere. —
«La madre di Bezaza, premurosa di soddisfarlo, si recò dal marito, il quale le disse chi fosse Gelsomina, e come il figliuolo se n’era innamorato. Katon, non ascoltando che la tenerezza materna, rimproverò il consorte perchè avesse lasciato acquistare da altri una schiava che suo figlio desiderava con tanto ardore. — Ciò che conviene al padrone,» rispose l’emiro.; «non conviene allo schiavo: non mi fu possibile di comperarla, giacchè Alaeddin Abulschamat, capo del consiglio supremo dei Sessanta, desiderava averla. —
«La malattia di Abdalum Bezaza aggravandosi sempre più, sua madre, vedendo che non voleva prendere cosa alcuna, e che stava per morire d’inedia, indossò abiti lugubri, e dimostrò tutti i segni del maggior lutto, e della più profonda tristezza. Mentre si abbandonava così all’eccesso del suo dolore, ricevette la visita d’una donna ch’era madre di certo Ahmed Comacom, detto il ladro.
«Questo Ahmed Comacom dovendo rappresentare una parte importante nel seguito di questo racconto, è necessario di farlo conoscere. Esercitato al furto ed alle scroccherie fin dall’infanzia, era divenuto sì destro, che avrebbe potuto levar dalle sopracciglia il collirio che vi si applica, senza che la persona se ne avvedesse; ardito e dissimulatore, aveva saputo nascondere sì bene le sue malvage inclinazioni, e guadagnarsi la fiducia di alcune persone distinte, ch’era stato nominato comandante della guardia; ma siccome derubava e defraudava il popolo, invece di difenderlo, il wali, saputolo, lo fece arrestare e condurre dinanzi al califfo, il quale lo condannò a morte.
«Ahmed Comacom, conoscendo l’umanità del visir Giafar, e sapendo che la sua intercessione presso il califfo non era mai vana, lo fece supplicare d’interessarsi per lui.
«Quando il visir ne parlò al califfo, quel monarca gli disse: — Potrei io restituire alla società un simil flagello, e lasciar libero corso a tante bricconerie? — Sire,» rispose il visir, «condannatelo ad una prigione perpetua. L’inventore delle carceri fu un uomo saggio: sono tombe ove stanno sepolti tutti quelli che il pubblico bene prescrive di separare dalla società. —
«Il califfo si arrese alle preghiere del visir, commutò la pena di morte decretata contro Ahmed Comacom in una prigionia perpetua, e fece scrivere sulla catena: Condannato ai ferri in vita.
«Ahmed Comacom era dunque condannato pel resto de’ suoi giorni, e sua madre, avendo, per la compassione che ispirava, libero adito nella casa dell’emiro Kaled, wali di Bagdad, ne approfittava per portar da mangiare al figlio nella sua prigione, e lo rimproverava sovente perchè non avesse voluto seguire i di lei consigli.
«— Madre,» le disse questi un giorno, «niuno può evitare il proprio destino; ma voi che andate dal wali, cercate d’indurre la sua sposa a parlargli in mio favore. —
«La vecchia essendo dunque entrata nell’appartamento della moglie del wali, ed avendola trovata in abito di lutto, ed immersa nella più profonda tristezza, gliene chiese la cagione. — Ah! mia cara,» sclamò essa, «io perdo il mio diletto figlio Abdalum Bezaza!» La donna essendosi informata della causa della malattia, la moglie del wali le raccontò ciò che era avvenuto a Bezaza. Colei allora giudicò favorevole l’occasione per ottenere la libertà del figliuolo, e risolse di approfittarne.
«— Signora,» disse alla moglie del wali, «io, conosco un mezzo sicuro di rendere la vita a vostro figlio! Ahmed Comacom è capace di rapire Gelsomina, e consegnarla nelle sue mani; ma sfortunatamente egli è condannato a perpetua prigione. Cercate di fargli rendere la libertà; impiegate perciò tutta l’influenza che avete su vostro marito, e vi prometto che vostro figlio sarà soddisfatto in breve. —
«La moglie del wali ringraziò la vecchia, e le promise di far tutto il possibile per ottenere la libertà di Comacom. Infatti, ne parlò nello stesso giorno ai consorte, gli disse che Comacom era pentito, deplorò la sorte della sua infelice madre, e soggiunse: — Se voi riuscite a rendere la libertà a quel prigioniero, farete una buona azione, che, senza dubbio, attirerà su di noi le benedizioni del cielo, e restituirà la salute al mio caro Bezaza. —
«Il wali si lasciò commovere dalle preghiere e dalle lagrime di Ahmed Comacom, e gli chiese se si pentisse sinceramente della sua vita passata, e se avesse la ferma risoluzione di cambiar condotta per l’avvenire.
«L’impostore rispose, con aria ipocrita, che Iddio aveva toccato il suo cuore già da molto tempo; che se veniva restituito alla società, cercherebbe, colla regolarità della sua condotta, col suo zelo a punire i colpevoli e coll’inviolabile attaccamento ai propri doveri, di riparare i falli commessi, e cancellare la cattiva opinione concepita di lui. Dopo tale promessa, il wali lo fece uscire di prigione, e lo condusse al divano, senza però togliergli la catena.
«Entrando nella sala, il wali si prosternò, e presentò poscia al califfo Ahmed Comacom, il quale inoltrossi, facendo risuonare le catene.
«— Come, sciagurato,» gli disse il principe sdegnato, «sei ancor vivo? — Sire,» rispose Comacom, «la vita dell’infelice sembra prolungarsi coi suoi patimenti,»
NOTTE DIX
— «Emiro Kaied,» gridò il califfo, «perchè mi avete condotto dinanzi questo scellerato? — Sovrano Commendatore dei credenti,» rispose il wali, «la sua povera madre, priva d’ogni soccorso, e che ha l’unica speranza in lui, supplica vostra maestà di spezzare le catene di questo infelice, il quale si pente de’ suoi falli, e rimetterlo al posto che occupava prima della sua disgrazia.
«— Si pente sinceramente della sua condotta passata?» domandò, il califfo.
«— Sovrano monarca del mondo,» rispose Comacom, «Iddio è testimonio della sincerità del mio pentimento, e del desiderio che ho di riparare al male da me commesso. —
«Il califfo, di naturale sensibile, commosso dalla sorte della madre di quello sgraziato, fece venire un fabbro per ispezzarne le catene. Non contento di restituirgli la libertà, gli fece indossare un caftan, e lo ristabilì nella sua carica, raccomandandogli di migliorare per l’avvertire la sua condotta, e di non traviare giammai dal sentiero della rettitudine e dell’equità.
«Comacom, al colmo della gioia, si prosternò davanti al califfo, e pregò Iddio di accordargli un regno lungo e felice. Si proclamò tosto in Bagdad che Ahmed Comacom era stato ristabilito nella carica già prima già occupata.
«Erano trascorsi alcuni giorni dopo la liberazione di Comacom, quando la moglie del wali, avendo veduta la vecchia, la pregò di affrettarsi ad adempiere alle promesse che le aveva fatto per suo figlio. Questa si recò tosto da Comacom, allora occupato a bere, gli dimostrò vivamente le obbligazioni che doveva alla moglie del wali, e gli disse: — È soltanto a quella signora che tu devi la libertà, e dessa non si è interessata per te, se non quando l’assicurai che tu rapiresti la schiava attualmente posseduta da Alaeddin, per consegnarla a suo figlio, che n’è innamorato alla follia.» Ahmed promise alla madre di occuparsi di quell’affare nella medesima notte.
«Quella notte era precisamente la prima del mese, ed il califfo soleva passarla vicino alla sposa, dopo averlo santificato con un benefizio come, per esempio, col rendere la libertà ad uno schiavo dell’uno o dell’altro sesso, od a qualcuna delle sue guardie. Il califfo aveva anche l’abitudine, prima di recarsi nell’appartamento di Zobeide, di deporre sur un sofà il manto reale, la corona, il suggello dello stato e le altre gioie: aveva soprattutto un candeliere d’oro tempestato di tre grossi diamanti, cui era estremamente affezionato. In quella sera, avendo riposti quegli oggetti sotto la custodia delle sue guardie, erasi ritirato di buon’ora nell’appartamento della sultana. Comacom, aspettato che la notte fosse inoltrata, e che la stella di Canopo avesse a poco a poco perduto il suo splendore, approfittò del momento in cui tutti i mortali erano immersi nelle dolcezze del sonno, e che Iddio solo poteva essere testimonio delle sue azioni: sguainò la spada, e si diresse verso il casino ov’era l’appartamento del califfo. Appoggiata al muro una scala, salì arditamente al disopra dell’appartamento, e riuscito a sollevare una delle tavole della soffitta, trovando addormentate le guardie, discese pian piano. Avendo fatto respirare alle sentinelle una polvere soporifera, s’impadronì del manto regale, del rosario, del fazzoletto, del suggello dello stato e del candelliere d’oro, uscì felicemente com’era entrato, e volse tosto i passi verso il palazzo di Alaeddin Abutschamat.
«Alaeddin era quella notte coricato colla sua cara Gelsomina. Ahmed Comacom, essendosi furtivamente introdotto nel suo appartamento, levò un pezzo di marmo del pavimento, e fatto un buco, vi depose gli effetti rubati al califfo, dopo averli involti in un fazzoletto, serbando soltanto per sè il candelliere d’oro tempestato di diamanti. Rimesso al suo posto il pezzo di marmo come avealo prima trovato, riuscì a fuggire senza che alcuno lo scoprisse.
«Comacom si recò allora alla casa del wali. Strada facendo, guardava il candelliere, e diceva fra sè: — Quando vorrò divertirmi a bere, mi porrò questo prezioso oggetto davanti, e vedrò il liquore del bicchiere brillar di tutto lo splendore dell’oro e dei diamanti di cui è tempestato. —
«All’indomani mattina, il califfo trovò le sue guardie addormentate per l’effetto della polvere fatta lor aspirare da Comacom. Li svegliò, e volle prendere gli oggetti deposti sul sofà; ma, sorpreso di non trovarli, montò tosto in una terribil furia. Si vestì, di rosso, per mostrare a tutti la sua indignazione, e recatosi al divano, sedè sul trono, circondato da tutta la pompa della sua potenza.
«Il gran visir Giafar, entrato in quel punto, ed accortosi dello sdegno del califfo, si prosternò rispettosamente, e disse: — Che Iddio preservi vostra maestà da ogni male, ed allontani da lei tutto ciò che può dispiacerle ed eccitarne il corruccio! — Visir,» sclamò il califfo, «il male è grande! — Che cosa, è adunque accaduto, sire?» chiese Giafar.
«Mentre il califfo stava per raccontare al visir l’avvenimento che aveva eccitata la sua collera, il wali entrò nella sala, seguito da Comacom.
«— Emiro Kaled,» gli disse il principe, «in quale stato si trova oggi Bagdad? — Sire,» rispose colui, «tutto è calmo e tranquillo. — Voi m’ingannate,» ripigliò Aaron. — Sovrano Commendatore dei credenti,» soggiunse l’emiro, prosternandosi umilmente, «oserei io domandare a vostra maestà il soggetto dell’agitazione in cui la vedo? —
«Il califfo gli narrò l’avvenuto, ed aggiunse: — Vi comando di fare minute indagini per ricuperare tutti i miei effetti. La vostra testa mi risponde dell’esattezza vostra ad eseguire i miei ordini. — Sire,» rispose il wali, «prima di pronunciare la mia sentenza, non sarebbe più giusto punire di morte Ahmed Comacom? Nessuno può meglio conoscere i ladri ed i traditori, di chi è incaricato di cercarli ed inseguirli.—
«A tali parole, Comacom essendosi avanzato, disse al califfo: — Sovrano Commendatore dei credenti, voi potete dispensare l’emiro Kaled dall’incomodo di ritrovare gli oggetti che vi furono rubati; io m’incarico di eseguire questa commissione, supplicandovi però di farmi accompagnare da due giudici e da due testimoni, giacchè chi ha commessa una simile azione, non teme senza dubbio la vostra potenza, e meno ancora quella del wali o di alcun altro. —
«Il califfo approvò la domanda di Comacom, e disse volere che, nella ricerca cui stavasi per fare, si cominciasse dal visitare il suo palazzo, poscia quelli del gran visir e dei membri del consiglio supremo dei Sessanta. Ahmed Comacom avendo fatto osservare che forse il ladro aveva l’onore di stare presso la persona del sovrano, quel principe giurò sul proprio capo che farebbe morire il colpevole, quand’anche fosse suo figlio.
«Ahmed Comacom ebbe cura di munirsi dell’ordine espresso dei califfo, onde poter penetrare senza ostacolo in tutte le case e perquisirle. Armato d’un grosso bastone ferrato in cima, cominciò le sue ricerche, visitando i palazzi dei sessanta membri del consiglio supremo e quello anche del visir Giafar. Percorse poscia le case dei capi delle guardie del califfo e dei principali signori della corte, e si recò infine a quella di Alaeddin Abulschamat»
NOTTE DX
— Alaeddin, il quale trovavasi nell’appartamento della moglie, udendo un gran rumore nella via, discese, aprì la porta, e vide il wali accompagnato da tutti i suoi soldati.
«— Che cosa c’è mai di nuovo; signor Kaled?», domandò con premura. Il wali avendogli partecipato l’ordine ond’era incaricato: «Voi potete entrare,» soggiunse Alaeddin,» e fare in casa mia tutte le indagini che giudicherete opportune.
«— Vi domando mille scuse, signore,» disse il wali, un po’ imbarazzato; «voi siete superiore ad ogni sospetto, e non voglio credere che una persona pari vostra, possa rendersi rea di perfidia e di tradimento. — Eseguite la vostra commissione,» replicò Alaeddin; «nulla deve dispensarvene.—
«Il wali, i giudici ed i testimonii entrarono adunque nella casa di Alaeddin, condotti da Comacom, il quale diresse le loro ricerche verso l’appartamento in cui erasi introdotto durante la notte. Essendosi avvicinato al pezzo di marmo sotto al quale stavano nascosti gli oggetti da lui stesso rubati, lasciò appositamente cadere il pesante bastone ferrato sul marmo, che si ruppe in mille frantumi. L’emiro Kaled, avendo veduto qualche cosa di brillante, sclamò: — Signor Alaeddin, fu Iddio che diresse i nostri passi verso questo luogo; abbiamo scoperto un tesoro che vi appartiene: avvicinatevi, e venite a vedere cosa può contenere. —
«Tutto il seguito del wali essendosi riunito, si riconobbero gli oggetti derubati, e si stese un processo verbale, attestante che quegli oggetti eransi trovati nascosti nella casa di Alaeddin Abulschamat. Le guardie si precipitarono poscia su Alaeddin, gli strapparono il turbante, e legategli le mani alla schiena, posero il suggello su tutti i suoi effetti.
«Ahmed Comacom non ismarrì di vista l’esecuzione del suo progetto principale; salito rapidamente all’appartamento della bella Gelsomina, la trascinò via con violenza, sebbene fosse incinta, e la condusse alta vecchia sua madre, raccomandandole di consegnarla nelle mani di Katon, moglie del wali; il che fu tosto eseguito.
«Quando Abdalum Bezaza vide la donna che amava con tanta passione, sentì rinascere le forze, e dimostrò la più viva gioia. Volle avvicinarsele per dimostrarle la soddisfazione che provava; ma Gelsomina, sdegnata, gli disse che se non iscostavasi sul momento, non risponderebbe dei trasporti di furore che la sua presenza le inspirava. — Mi ucciderei, «sclamò, «piuttosto di appartenere ad un mostro par tuo! — Bella Gelsomina,» disse Abdalum tutto tremante, «non attentate ad una vita che mi è si preziosa. —
«La moglie del wali, volendo calmare la violenta agitazione della bella Gelsomina, le disse con dolcezza: — Permettete, o bella schiava, che mio figlio vi possa dimostrare tutto l’ardore che voi gl’inspirate; egli non può più vivere senza di voi. — Sciagurato!» sclamò la donna; «posso io appartenere in una volta a due padroni? E da quando i cani entreranno impunemente nell’antro dei leoni? «Abdalum Bezaza, disperato, cadde svenuto sopra un sofà, e diè a temere della sua vita. A tal vista, la moglie del wali si rivolse furente verso la schiava. — Scellerata!» le disse; «tu vuoi dunque privarmi del figlio mio? Ma non godrai a lungo del mio dolore; il tuo Alaeddin finirà vergognosamente in breve i suoi giorni su di un patibolo.
«— Ebbene,» sclamò Gelsomina, «mi stimerò avventurata di potergli provare il mio amore, seguendolo nella tomba. —
«Katon, a quello parole, soffocata dalla bile, si slanciò addosso alla schiava, le strappò i suoi ricchi abiti, le acconciature, i monili, e fattala rivestire d’una camicia di pelo e d’un abito grossolano, la condannò a servire nella cucina, e la mise fra le più abbiette schiave, dicendole, che d’or innanzi il suo impiego sarebbe di spaccare la legna, mondar le cipolle ed i legumi, ed attizzare il fuoco sotto le pentole.
«Gelsomina rispose tranquillamente che l’impiego più vile ed i lavori più duri le sembrerebbero sempre preferibili alla vista del suo odioso figlio. Le schiave, di cui la bella era divenuta compagna, non furono insensibili alla di lei sorte; la sua dolcezza, la sua pazienza e rassegnazione ne commossero talmente i cuori, che gareggiarono nell’aiutarla nei penosi servigi cui vedevasi costretta.
«Intanto il wali ed i suoi, carichi degli oggetti rubati, trascinavano seco loro il misero Alaeddin Abulschamat, e lo condussero al divano, dove il Califfo stava seduto sul trono, circondato da tutta la sua corte. Quando il wali gli presentò il mantello reale e gli altri suoi effetti, quel principe chiese presso di chi li avesse trovati.
«— Presso Alaeddin Abulschamat,» rispose il wali. A tali parole, il califfo, irritato, avendo aperto l’involto, e non trovandovi il candeliere d’oro fregiato di gemme, lanciò sul favorito uno sguardo furioso. — Sciagurato,» gli disse, «dov’è il mio candelliere?
«— Sire,» rispose Alaeddin con fermezza, «io vi posso protestare di non aver mai toccati gli oggetti che mi accusano d’aver rubato, e che m’è impossibile di darvi schiarimenti su alcuno d’essi.
«— Traditore,» soggiunse il califfo, «è questi dunque la ricompensa dei favori di cui ti ho colmato! Ti aveva concessa tutta la mia fiducia, e tu mi hai tradito! —
«Il califfo ordinò quindi al wali di far appiccare Alaeddin, e condurlo subito al luogo del supplizio.
«Il wali colle guardie s’avviarono verso il sito fatale, preceduti da un banditore, il quale gridava in tutte le contrade per dove passavano: — Ecco la ricompensa, di chi osa tradire i califfi della casa degli Abbassidi.» Tutto il popolo di Bagdad si portò con curiositàa verso la piazza dove si doveva eseguire da condanna.
«Intanto Ahmed Aldanàf, che amava Alaeddin come suo figlio, ignorando quanto accadeva, stava sollazzandosi in uno de’ suoi giardini, quando uno dei cantinieri del divano arrivò tutto ansante. — Signore,» gli disse, «mentre voi siete qui seduto tranquillamente, un precipizio si è aperto sotto i piedi del vostro miglior amico. — Che c’è di nuovo?» domandò Aldanaf sorpreso. — Si conduce in questo momento Alaeddin alla forca,» rispose il cantiniere. Ahmed, informatosi del delitto imputatogli, si volse verso un suo amico, il capitano Schuman, e gli domandò con inquietudine che cosa pensasse di quell’affare.— Signore,» rispose questi, «giurerei sul mio capo che Alaeddin è innocente, e che tutto ciò è qualche trama infernale de’ suoi nemici onde farlo perire. Non si deve perdere un istante per salvarlo, e se volete, io ve ne darò il mezzo. —
«In fatti, Hassan Schuman recossi alla prigione, ove ordinò al carceriere di consegnargli subito uno dei delinquenti condannati a morte, ed affidati alla sua custodia. Per fortuna, il malfattore, che il carceriere gli consegnò, aveva qualche somiglianza con Alaeddin. Copertogli il capo con un velo, Ahmed Aldanaf lo pose fra sè ed una delle guardie, chiamata Alì Alzibac Almisri, e si recò frettoloso al luogo del supplizio. Attraversata la folla, ed avvicinatosi al carnefice, gli pestò un piede. — Signore,» dissogli questi, «ritiratevi alquanto, e lasciatemi fare il mio dovere. — Sciagurato» rispose. Aldanaf, «prendi l’uomo che ti presento, e fallo morire invece di Alaeddin Abulschamat, il quale è innocente del delitto onde venne accusato; ricordati che Isacco fu riscattato da un ariete.» Il carnefice, non osando dir verbo, s’impadronì dell’uomo che gli si presentava, e lo appiccò invece di Alaeddin.
«Ahmed Aldanaf ed Alì Alzibac Almisri condussero via Alaeddin, e traversata la folla senza essere riconosciuti, recaronsi felicemente alla casa del primo. Mentre il misero attestava la propria riconoscenza al suo benefattore, questi lo interruppe, rimproverandolo acremente d’aver commessa un’azione così vile. L’altro gli protestò d’essere innocente del furto, di cui era imputato, e che non sapeva come quegli oggetti si fossero trovati nascosti in casa sua.
«— Perdonate la mia collera,» gli disse allora Ahmed; «il turbamento che il vostro pericolo m’ha cagionato è quello che solo potè dettarmi rimproveri indegni di voi o di me: io aveva pensato subito ciò non essere se non un’abbominevole insidia, opera dell’odio e della scelleraggine. Possa l’autore di questa perfidia essere un giorno punito come merita! Checchè ne sia, caro Alaeddin, per ora non potete restare a Bagdad, perchè i monarchi non amano transigere sì facilmente sui giudizi che hanno dato, ed è difficile che sfugga dallo loro mani chi cercano. Penso di condurvi ad Alessandria; è un luogo sicuro e di facile accesso, dove potrete facilmente nascondervi.
«— Io son pronto a seguirvi,» rispose Alaeddin; «m’abbandono intieramente a voi per la conservazione d’una vita che avete salvata. — «Aldanaf, volgendosi verso Hassan Schutnan, gli disse: — Se il califfo mi cerca, gli risponderete che sono andato a fare il solito giro nelle province. —
«Alaeddin ed il suo salvatore allontanaronsi subito da Bagdad. A poca distanza dalla città, trovarono due Ebrei, esattori del califfo in quella provincia, montati ciascuno sur una mula. Aldanaf avendo loro chiesto, con accento d’autorità, i danari che avevano percepito, rifiutarono in prima di consegnarglieli; ma quando disse ch’egli era il ricevitore generale della provincia, affrettaronsi a rimettergli ciascuno cento pezze d’oro.
«Egli però, temendo che i rapporti de’ due Ebrei potessero compromittere la sua sicurezza e quella di Alaeddin, non istimò opportuno di lasciarli in vita, ed uccisili, s’impadroni delle loro mule, montò su di una, e diede l’altra al suo protetto.
«Giunsero così vicino al sito ove doveano imbarcarsi, e passarono la notte in un caravanserraglio. La mattina seguente, Alaeddin vendette la mula, ed avendo confidata quella di Aldanaf al custode del luogo ove avevano dormito, si recarono amendue al porto d’Aiassa7, imbarcandosi su di un vascello che faceva vela per Alessandria, dove approdarono in poco tempo.
«Mentre percorrevano le vie di quella città, udirono un banditore che metteva all’incanto una piccola bottega unita ad un magazzino che guardava sulla strada; l’incanto in quel momento era a novecentocinquanta dramme. Alaeddin avendone offerte mille, il contratto fu subito conchiuso, perchè quella bottega apparteneva al pubblico tesoro.
«Alaeddin, ricevute le chiavi, l’aperse subito, e fu soddisfattissimo di trovarla tutta mobigliata. Trovò nel magazzino ogni sorta di armature, scudi, scimitarre, spade, vele, alberature, casse di tela di canapo, ancore, cordami, valige, sacchi pieni di conchiglie e di pietre per ornar le bardature, staffe, mazze d’armi, coltelli, cesoie ed altre cose di simil genere, giacchè il padrone della bottega, morto poco prima, faceva il barattiere.
«Avendo il giovane preso possesso della bottega e del magazzino, Aldanaf lo consigliò di occuparsi del commercio, rassegnandosi alla volontà di Dio.
«Passati tre giorni con Alaeddin, il quarto prese da lui congedo per tornare a Bagdad, e gli raccomandò di stare in quella bottega sinchè lo venisse a trovare e portargli nuove del califfo, con un salvacondotto del principe; gli promise nel medesimo tempo di occuparsi giorno e notte per iscoprire l’autore della perfida calunnia, ed avendogli dato un ultimo addio, s’imbarcò per Aiassa, dove giunse in poco tempo spinto da vento favorevole.
«Quivi ripresa la mula, si recò tosto a Bagdad, e raggiunse Hassan Schuman e la sua compagnia delle guardie. Siccome era spesso obbligato a percorrere le province più lontane dell’impero, il califfo non si maravigliò della sua assenza. Ripreso il solito servigio, s’occupò attivamente nelle ricerche che potevano fargli scoprire l’autore del furto, e metterlo in istato di provare l’innocenza del suo prediletto. Ma torniamo al califfo.
«Questo principe, trovandosi solo con Giafar, il giorno in cui Alaeddin doveva essere giustiziato, si volse così al ministro: — Che dici, visir, dell’azione di Alaeddin? È possibile concepire tanta bassezza e perfidia?
«— Sire,» rispose Giafar, «voi l’avete punito come meritava, e vostra maestà non deve più occuparsi di quello sciagurato.
«— Non importa,» soggiunse Aaron, «desidero di vederlo pendere dalla forca. — «Egli recossi dunque col visir alla pubblica piazza, ed alzati gli occhi sull’appiccato, credè accorgersi che non era Alaeddin. — Visir,» sclamò, «che vuol dir ciò? Quello non è certamente Alaeddin. — Perchè mai, sire?» domandò Giafar.
«— Alaeddin era piccolo,» riprese il califfo, «e quello che vedo è grande. — Sire,» rispose Giafar, «il corpo degli appesi s’allunga sempre un poco.
«— Ma,» prosegui il califfo, «Alaeddin aveva la pelle bianchissima, e la faccia di quest’uomo è tutta nera. — Sovrano Commendatore dei credenti,» ripigliò Giafar, «voi non ignorate che la morte sfigura gli uomini, e dà ai cadaveri una tinta livida e nerastra.—
«Malgrado tutti i ragionamenti del visir, il califfo volle che si staccasse il cadavere dalla forca; fu visitato, e si trovò scritto sul suo petto il nome dei due scheik8.
«— Ebbene! visir,» disse il califfo, «persisti ancora nel tuo parere? Tu sai che Alaeddin era sunnita, e questo disgraziato, come vedi, è settatore di Alì.
«— Dio solo,» sclamò il visir, «conosce ciò ch’è nascosto; vedo infatti essere difficile il decidere se questo cadavere sia quello di Alaeddin o di qualche altro.»
Il sultano delle Indie non potè trattenersi dal sorridere, udendo le risposte ingenue del buon Giafar al califfo. Il giorno spuntava, ed egli si alzò per andar a presiedere il consiglio; e la notte seguente, Scheherazade continuò il racconto in questi sensi:
NOTTE DXI
— Il califfo avendo ordinato di rendere gli ultimi uffizi al cadavere, rientrò nel palazzo, e la cura degli affari dell’impero cancellò in breve nella sua mente la memoria d’Alaeddin. Vediamo ora ciò che accadeva nella casa del wali.
«Abdalum Bezaza non potè approfittare del delitto che avevalo reso possessore della schiava d’Alaeddin; l’amore ed il dispiacere di veder la sua passione mal corrisposta, lo fecero discendere in poco tempo nella tomba.
«La sventurata Gelsomina, giunta al termine della sua gravidanza, sgravossi d’un fanciullo bello come il sole. Le sue compagne avendole chiesto che nome volesse imporgli: — Aimè!» rispos’ella; «se vivesse ancora suo padre, gli darebbe egli stesso il nome, ma poichè non è più, voglio che questo caro bimbo si chiami Aslan. —
«Gelsomina allattò ella medesima il piccolo Aslan, non divezzandolo se non fino ai due anni e mezzo, quando trascinavasi già da ogni parte sulle sue manine, e cominciava a camminare da sè.
«Un giorno che la schiava era occupata in cucina come al solito, il piccolo Aslan, che arrampicavasi già dappertutto, avendo scoperta la scala che conduceva alla sala, si mise a salire i gradini alla meglio possibile, e saltellando venne fino al luogo ove sedeva l’emiro Kaled.
«Il wali, sorpreso della beltà del fanciullo, ed incantato della sua gentilezza, lo prese in braccio, se lo mise a sedere sulle ginocchia, e considerandone attentamente i lineamenti, stupì della sua somiglianza con Alaeddin.
«Gelsomina, inquieta di non veder vicino il figlio, lo cercò prima nella cucina e nei cortili; ma non trovandolo, le venne il pensiero di salire nella sala, e fu estremamente sorpresa allo scorgere l’emiro che lo teneva sulle ginocchia, giuocando seco. Il bimbo, veduta la madre, volle gettarsele al collo, ma il wali lo trattenne, e domandò alla schiava a chi appartenesse il fanciullino.
«— È mio figlio, signore,» rispose Gelsomina tutta tremante. — Chi è dunque suo padre?» riprese vivamente il wali. — È lo sfortunato Alaeddin Abulschamat,» rispose la donna. «Ora questo fanciullo non ha altro padre, nè protettore fuor di voi.
«— Come!» proruppe il wali; «io dovrò interessarmi pel figlio d’uno scellerato! — Ah! signore,» sclamò Gelsomina, «giudicate meglio il mio padrone e sposo! Alaeddin non fu un iniquo; era uno dei più fedeli e zelanti servitori del califfo, e non ebbe mai il pensiero di tradire la confidenza del suo sovrano. —
«Il wali, commosso della sorte di quel ragazzino e sentendo aumentare l’amore concepito per lui, disse alla madre: — Quando vostro figlio sarà più grande, e vi domanderà chi sia suo padre, ditegli che è l’emiro Kaled, wali di Bagdad. —
«Gelsomina, lieta a tai detti, allevò il figlio colla massima cura. Quand’ebbe sette anni, il wali lo fece circoncidere, e gli diede i più dotti precettori, i quali gareggiarono nello sviluppare la sua intelligenza, od istruirlo in una maniera convenevole al figlio d’uno dei primi emiri della corte. Il wali si riservò la cura d’insegnargli in persona il modo di stare a cavallo ed il maneggio delle armi, e tutte le volte che faceva esercitare nelle evoluzioni i suoi soldati, lo conduceva con sè, formandolo così a tutti gli esercizi militari.
«All’età di diciotto anni, il giovine Aslan era un perfetto cavaliere. I principali signori della corte, riguardandolo come il figlio dell’emiro Kaled, e dilettati dalla sua aria nobile e distinta, gli facevano l’accoglienza più lusinghiera. Ahmed Comacom non fu degli ultimi a fargli la corte, e seppe così bene insinuarsi nelle sue buone grazie, che divennero in breve inseparabili.
«Un giorno che trovavansi amendue in una taverna, Ahmed Comacom trasse di seno il candelliere d’oro tanto rammaricato dal califfo, se lo mise davanti, e si divertì a considerare, attraverso il liquido, lo splendore dell’oro e dei diamanti. Ripetè più volte quel divertimento, bevve vari bicchieri e s’ubbriacò.
«Aslan, maravigliato alla vista d’un gioiello sì prezioso, pregò Comacom di fargliene dono. — È impossibile,» rispose quegli.
«— Impossibile! Perchè?» domandò Aslan con curiosità. — Non posso dartelo,» rispose Ahmed, «perchè fu già cagione della morte d’un uomo. — E di quale?» ripigliò Aslan stupito. — D’uno straniero venuto in questo paese, e dal califfo innalzato al grado di capo del consiglio supremo dei Sessanta. Costui si chiamava Alaeddin Abulschamat. — Ma come mai questo candelliere fu la cagione della morte di quell’uomo? — Tu avevi un fratello,» soggiunse Comacom, abbassando la voce, «chiamato Abdalum Bezaza; quando fu in età di ammogliarsi, tuo padre, l’emiro Kaled, volle comprargli una schiava....»
«E qui, il traditore si mise a narrare al giovine quant’era accaduto per la schiava Gelsomina, la funesta passione di Abdalum Bezaza, il furto fatto al califfo, il deposito degli oggetti rubati nella casa di Alaeddin, ed il supplizio di questi.
«Asian, sorpreso all’estremo, e cominciando a sospettare la verità, disse fra sè: — Questa schiava è la stessa che mi mise alla luce, e mio padre non può essere altri che lo sfortunato Alaeddin Abulschamat.» Pieno di tal idea, sì alzò con isdegno, e partì bruscamente.
«Nel recarsi precipitosamente a casa, trovò il capitano Ahmed Aldanaf. Colpito dall’aspetto del giovane, quegli si fermò, e disse ad atta voce: — Buon Dio, come gli somiglia! — Di chi parlate, signore?» chiese Hassan Schuman, che l’accompagnava. «Chi mai può cagionarvi una simile sorpresa? — È quel giovine,» rispose Ahmed; «è impossibile somigliare di più ad Alaeddin Abulschamat. —
«Aldanaf, essendosi avvicinato ad Aslan, lo pregò di volergli dire il nome di suo padre. — Mio padre,» rispose Aslan, «è l’emiro Kaled, wali di Bagdad.
«— E vostra madre chi è?» soggiunse il capitano con interesse. — Mia madre,» ripigliò il giovane, «è una delle schiave del wali, chiamata Gelsomina. — Oh cielo!» sclamò Ahmed; «è vostra madre! sappiate adunque invece che vostro padre è di certo Alaeddin Abulschamat. Del resto, andate da Gelsomina, ed interrogatela; vi dirà molte cose ch’è necessario sappiate. —
«Aslan, sempre più sorpreso, corse dalla madre e chiusosi in camera solo con lei, la pregò di dirgli il nome del suo genitore. — Tuo padre, figlio mio,» rispose Gelsomina con emozione,» è l’emiro Kaled, wali di Bagdad. — No, no,» sclamò Aslan, «tu m’inganni: è Alaeddin Abulschamat.»
NOTTE DXII
— A questo nome, proferito con ardore, e che le rammentava sì dolorose memorie, Gelsomina si mise a piangere amaramente, chiedendo al figlio chi mai gli avesse palesato un secreto che stavale nascosto già da tanto tempo in fondo al cuore. — Fu Ahmed Aldanaf» rispos’egli, e raccontò allora alla madre quant’eragli accaduto.
«— Figlio,» disse la donna, allorchè Aslan ebbe finito il suo racconto, «senza dubbio la verità qualche giorno verrà alla luce, e la menzogna sarà confusa. Sì, mio diletto, Alaeddin Abulschamat è tuo padre, e l’emiro Kaled, che te ne tenne luogo, e ti fece educare con tanta premura, è soltanto tuo padre adottivo.—
«Aslan, certo ormai della sua origine, affrettossi di recarsi da Aldanaf, gli baciò la mano, e disse: — Mia madre mi confermò ciò che voi mi avete annunciato pel primo; la sua bocca ha proferito il nome del vero mio padre, il nome di Alaeddin. M’è nota l’affezione che aveste per lui, e vengo a supplicarvi di aiutarmi a vendicarne la morte e punire il suo assassino. — Chi è questo scellerato?» chiese Ahmed Aldanaf meravigliato. — È l’infame Comacom,» rispose Aslan. — In qual modo, figliuol mio, faceste tale scoperta?» soggiunse Aldanaf.
«— Ho veduto,» disse Aslan con veemenza, «tra le mani di Comacom il candelliere d’oro, ornato di gemme, rubato al califfo. Sorpreso dallo splendore di quei gioiello, glie lo cercai, ma egli non volle darmelo. «Questo candelliere, disse, ha già costata la vita d’una persona.» E mi raccontò in qual modo l’avesse rubato al califfo, con altri oggetti, e come fosse andato a nasconderli nell’appartamento di mio padre.
«— Figliuolo,» soggiunse Aldanaf, «bisogna usar tutta la prudenza in questo affare, e cercar di farsi conoscere vantaggiosamente dal califfo, prima di scoprirgli la cosa. Ricordatevi bene di ciò che sono per dirvi: quando vedrete l’emiro Kaled prendere la sua divisa ed armarsi di tutto punto, pregatelo di farvi vestire come lui, e permettervi di accompagnarlo. Allorchè sarete in presenza di tutta la corte, cercate di distinguervi con qualche tratto di bravura o qualche splendida azione che attiri l’attenzione del sovrano. Se il principe vi dice: «Aslan, io sono contento di te, domandami ciò che vuoi;» supplicatelo allora di vendicare l’assassinio del vostro genitore. Ingannato dalla comune opinione, vi risponderà che vostro padre sta bene; informatelo allora, senza esitare, che voi siete il figlio di Alaeddin Abulschamat, che l’emiro Kaled non è che vostro padre adottivo, e narrategli minutamente la vostra avventura con Ahmed Comacom. Per provare che i vostri detti sono veri, supplicatelo di far subito perquisire quello scellerato. —
«Aslan, munito di tali istruzioni, andò dall’emiro Kaled, e trovatolo in atto di recarsi ad una rassegna che doveva passare, lo pregò di farlo vestire come lui, e condurlo seco. L’emiro, il quale amava il giovine Aslan come se fosse realmente suo figlio, acconsentì volentieri alla di lui domanda, ed amendue si recarono in una pianura fuor della città, dove il monarca aveva fatto innalzare tende e padiglioni magnifici; tutta la corte vi si trovava riunita, e l’esercito era disposto in ordine di battaglia.
«Durante la rivista, Aslan si tenne sempre vicino all’emiro Kaled. Dopo alcune evoluzioni militari, si volle dare al principe lo spettacolo del giuoco del maglio: si portarono le palle, ed i magli, e vari cavalieri si misero a far prova di destrezza, ribattendosi reciprocamente le palle.
«Tra questi cavalieri, si trovava un uomo mandato espressamente dai nemici del califfo per ucciderlo: questi prese una palla, e la diresse con tutta la forza contro la faccia del principe; Aslan, attento a tutto ciò che accadevagli intorno, stornò il colpo, e ribattè la palla con tal vigore contro chi l’aveva lanciata, che lo rovesciò da cavallo.
«Il califfo si accorse del pericolo incorso, e disse ad alta voce: — Benedetto colui ai quale deggio la vita!» Il giuoco cessò subito; tutti gli ufficiali scesero da cavallo, e quando furono portati i sedili, Aaron ordinò di far comparire il temerario, il quale aveva osato dirigere la palla contro di lui.
«— Cavaliere,» gli disse, «chi ti ha spinto a commettere un simile attentato? sei tu amico o nemico?
«— Nemico,» rispose fieramente il cavaliere, «ed io voleva ucciderti.
«— Per qual ragione?» domandò il prìncipe; «non sei dunque un vero musulmano?
«— Non già musulmano come tu intendi,» rispose l’altro, «ma mi glorio d’essere settatore di Alì.
«A tali parole, il califfo, sdegnato, ordinò che fosse subito appiccato. Volgendosi poscia verso Aslan:
— Bravo giovane,» gli disse, «io ti devo la vita; domandami ciò che vuoi.
«— Sovrano Commendatore dei credenti,» rispose Aslan, inchinandosi rispettosamente, «vi scongiuro di vendicare l’assassinio di mio padre. — Ma tuo padre, eccolo là,» riprese il principe, mostrando l’emiro Kaled, «e grazie a Dio, sta bene.
«— Voi siete in errore, sire,» rispose Aslan; «l’emiro Kaled non è se non mio padre adottivo: io sono il figlio dello sventurato Alaeddin Abulschamat. — Il figlio d’un traditore!» sclamò vivamente Aaron Alraschild.
«— Mio padre,» rispose il giovanetto, «non fu mai un traditore, ma il più fedele e divoto dei vostri servi.— Non mi ha forse rubato il mantello ed i più preziosi gioielli?
«— Sovrano Commendatore dei credenti,» disse Aslan con fierezza, «mio padre non fu mai un ladro. Supplico vostra maestà di dirmi se il suo candelliere d’oro, fregiato di gemme, si è trovato tra gli oggetti che gli furono portati. — Io non ho mai potuto trovarlo,» rispose il califfo, sorpreso di quella domanda.
«— Ebbene, sire,» continuò Aslan, «io l’ho veduto in mano di Ahmed Comacom. Glie lo cercai, ma ei non volle darmelo, dicendo che quel candelliere aveva già costata la vita d’un uomo. —
«Aslan allora narrò la passione di Abdalum Bezaza, figlio dell’emiro Kaled, per la giovine schiava Gelsomino, e la malattia ch’erane stata la conseguenza; in qual modo Comacom fosse uscito di prigione, e come avesse rubato il mantello reale, il candelliere d’oro e gli altri gioielli. - Sire,» aggiunse, terminando il racconto, «vi scongiuro ancora una volta, per tutto ciò che v’ha di più sacro, di vendicarmi dell’assassino di mio padre. —
«Il califfo diè subito l’ordine dell’arresto di Comacom, e lo fece condurre alla propria presenza. Allorchè scorse lo scellerato, si volse verso le sue guardie, e cercò cogli occhi Ahmed Aldanaf. Non vedendolo, mandò un messo a chiamarlo, e quando comparve, gli comandò di frugare addosso a Comacom.
«Aldanaf, posta la mano in seno al perfido, ne trasse l’aureo candeliere fregiato di gemme. A tal vista, il califfo, irritato, sclamò: — Iniquo, da chi avesti questo gioiello? — L’ho comprato,» rispose sfrontatamente Comacom. — Sei un impostore,» disse il principe con indignazione; «fu per far morire Alaeddin Abulschamat, il più fedele de’ miei servitori, che tu commettesti una simile atrocità.»
NOTTE DXIII
— Il califfo ordinò di bastonare Comacom. Dopo alcuni colpi, confessò di essere l’autore del furto, e fu condotto in prigione.
«Aaron, sospettando che Kaled fosse d’accordo col ladro, volle pur farlo arrestare. — Sovrano Commendatore dei credenti,» disse il wali, «io sono innocente del delitto di cui mi sospettate; conducendo Alaeddin alla morte, non ho fatto che eseguire i vostri ordini, e vi giuro che non ebbi cognizione alcuna della trama ordita contro di lui; Ahmed Comacom avrà immaginato questo orrendo strattagemma per impadronirsi di Gelsomina, ma io non ne so nulla. —
«Il wali, terminando tali parole, si volse verso Aslan, e gli disse: — Se siete sensibile all’amore che vi ho sempre at b btestato, ed alla cura ch’ebbi di voi sin dalla vostra infanzia, intercedete per me. —
«Il giovine, commosso dalla situazione, in cui vedeva il benefattore, affrettossi ad implorare la clemenza del califfo in di lui favore. Il principe domandò al wali che cosa fosse accaduto di Gelsomina, madre di Aslan, ed avendo saputo ch’era sempre rimasta in sua casa:
«— Ordinate,» gli disse, «a vostra moglie di farla vestire in modo convenevole al grado che occupava suo marito, e renderle subito la libertà. Voi, intanto, andate a levare i suggelli messi sul palazzo d’Alaeddin, e fate restituire a suo figlio tutti gli oggetti e le ricchezze che possedeva. —
«Il wali eseguì puntualmente gli ordini del califfo, e recatosi a casa, ingiunse alla moglie di mettere in libertà Gelsomina, e di vestirla onorevolmente; quindi andò egli stesso a levare i suggelli apposti sugli oggetti di Alaeddin, e rimise le chiavi del palazzo ad Aslan.
«Il califfo, non contento di quegli atti di giustizia, disse ad Aslan di domandargli ancora una volta che cosa desiderasse, che glie l’avrebbe tosto accordata. Il giovane avendo risposto non aver se non una cosa sola da desiderare, di rivedere, cioè, suo padre: — Ah, figliuol mio,» disse il principe cogli occhi bagnati di lagrime,» tuo padre non è più! Anch’io vorrei che fosse ancora in vita, ed accorderei volentieri tutto ciò che domanderebbe a chi m’annunciasse questa grata novella. —
«A tali parole, Ahmed Aldanaf, prosternatosi ai piedi del califfo: — Sovrano Commendator dei credenti,» disse, «posso io parlare senza timore? — Lo puoi,» rispose il principe.
«— Io oso assicurare vostra maestà,» riprese Ahmed, «che Alaeddin Abulschamat è vivo, e sta bene.
«— Che dici mai?» sclamò il califfo, arretrando per sorpresa. — Sire,» riprese Aldanaf, «giuro per la vostra sacra testa che ho detta la verità. Io salvai dalla morte Alaeddin, facendo giustiziare un delinquente in sua vece, e condottolo ad Alessandria, gli comprai una bottega. — Voglio vederlo,» disse Aaron trasportato di gioia; «parti subito per Alessandria, e conducilo qui.» Il capitano s’inchinò profondamente, dicendo ch’era pronto ad obbedire, e che non si poteva incaricarlo di una commissione più gradita, Il principe gli fece rimettere una borsa di mille pezze d’oro, ed egli si mise in via per Alessandria.
«Alaeddin Abulschamat intanto occupavasi in quella città a vendere gli oggetti trovati nella sua bottega. Ne aveva già venduto gran numero, quando scoperse, in un cantuccio oscuro, una piccola borsa di cuoio; avendola raccolta, si mise a scuoterla, e ne vide uscire una pietra preziosa grossa sì da poter contenersi nel cavo della mano, sospesa ad una catenella d’oro; questa pietra aveva cinque lati, su ciascuno dei quali stavano incisi nomi e caratteri magici, somiglianti in certa guisa alle orme che le formiche lasciano, strisciando, sulla polvere. Sorpreso di trovare in casa sua un tal gioiello, riconobbe ch’era un talismano; ma ebbe un bel strofinare le cinque faccette, nessun genio apparve ai suoi ordini. Stanco di veder vani i suoi sforzi, sospese la pietra preziosa nella bottega, e si mise a pensare alla situazione in cui si trovava.
«Un console, o negoziante franco, che passava per la via, avendo veduta la perla sospesa, s’avvicinò alla bottega, e chiese se quella pietra fosse da vendere. — Tutto quello che qui vedete è da alienare, signore,» rispose Alaeddin. — Ebbene, io ve ne offro ottantamila ducati. — Non voglio cederla a tal prezzo. — Ne volete voi centomila?
«— Accetto,» soggiunse Alaeddin, contento di quell’offerta. — Vender bene e ben consegnare, «ripigliò il console, «è tutto quello che può fare un negoziante. Ora tocca a me a pagarvi. — Sono pronto a ricevere il vostro denaro,» disse Alaeddin. — Vedete anche voi,» continuò il console, «che io non posso portar meco una tal somma; non ignorate che la città di Alessandria è piena di ladri e di soldati insolenti; ma se volete darvi la briga di venire sino al mio vascello, vi darò, di soprammercato, una pezza di cammellotto, una di raso, un’altra di velluto ed una di drappo, a vostra scelta. —
«Alaeddin avendo acconsentito alla proposta, consegnò la pietra preziosa allo straniero, e chiuse la bottega, affidandone le chiavi ad un vicino, e pregandolo di costudirle fino al suo ritorno. — Io vado,» gli disse, «ad accompagnare questo signore al suo vascello, per ricevere l’importo d’una pietra che gli ho venduta; se per caso tardassi un poco, e che il signor Ahmed Aldanaf, il quale mi ha condotto qui, e stabilito in questa bottega, arrivasse durante la mia assenza, vi prego di rimettergli le chiavi, e d’informarlo della ragione per cui sono escito. —
«Alaeddin seguì dunque il console sino al vascello; quando furono a bordo, il Franco si fece portare la sua cassetta, ne trasse la somma contenuta, e la rimise ad Alaeddin, insieme alle quattro pezze di stoffa promesse. — Vorreste ora,» gli disse poi, «farmi il favore d’accettare qualche rinfresco? — Prenderei volentieri un sorbetto, se ne avete;» rispose Alaeddin.
«Il console, o piuttosto il capitano, che si era travestito da mercante per meglio ingannare Alaeddin, fè segno ad un servo di portare il sorbetto; ma vi era stata messa prima una polvere soporifera, di cui l’altro sentì subito l’effetto, perchè non ebbe appena vuotata la tazza, che cadde rovescio sulla sedia.
«I marinai, prevenuti di ciò che dovevano fare, levarono subito l’ancora, e spiegate le vele, il vento favorevole che soffiava li spinse in breve in alto mare. Il capitano, avendo ordinato di portare Alaeddin sotto coperta, gli fece respirare una polvere, la cui virtù distrusse l’effetto della prima.
«Alaeddin, schiudendo gli occhi, chiese meravigliato dove fosse. Il capitano gli rispose con amaro sorriso:
— Voi siete ora in mio potere. — Chi siete voi? — Io sono il capitano di questo vascello,» rispose il Franco, «e sono venuto da Genova ad Alessandria per rapirvi, e condurvi alla prediletta del mio cuore. —
«Si scoperse, alcuni giorni dopo, una nave mercantile montata da quaranta negozianti di Alessandria. Il capitano ordinò subito di darle la caccia, e raggiuntala, ed avendola presa all’abbordaggio, la fece rimorchiare, continuando la sua rotta verso Genova.
«Prima d’entrare nel porto, il capitano scese solo a terra, e si avanzò verso la porta di un palazzo che guardava sul lido. Una giovine dama, coperta da un fitto velo, e di cui era impossibile distinguersi lineamenti, essendosi presentata, gli domandò se portasse la pietra preziosa e chi n’era in possesso. Il capitano rispose di aver felicemente eseguiti i di lei ordini, e le consegnò la pietra; tornato poscia al vascello entrò trionfante nel porto.»
NOTTE DXIV
— Il re del paese, informato dell’arrivo del capitano, recossi sulla nave accompagnato dalle sue guardie, e gli domandò se il suo viaggio fosse stato felice. — Felicissimo,» rispose il capitano, «perchè ho catturato una nave mercantile, montata da quarantun musulmani.» Il re ordinò che i prigionieri si facessero scendere a terra; uscirono dal vascello, incatenati a due a due, e traversata parte della città, furono condotti nella sala del consiglio. Il re li seguiva a cavallo, accompagnato dal capitano e dai principali signori della corte.
«Sedutosi sul trono, e fatto collocare al suo fianco il capitano su d’una sedia più bassa, fece avanzare i poveri musulmani, e chiese al primo che si presentò di qual luogo fosse; appena ebbe risposto ch’era di Alessandria, il carnefice, ad un segnale del principe, gli troncò la testa. Il secondo, il terzo ed i seguenti, fino al quarantesimo, avendo tutti data la medesima risposta, subirono egual sorte.
«Più non restava che Abulschamat, il quale, testimonio oculare del tristo destino dei compagni, deplorava la comune disgrazia, ed aspettava la sua volta, pregando Dio di aver pietà di lui. — Sei bell’e spacciato, povero Alaeddin,» pensava; e in qual maledetto laccio ti lasciasti cogliere?
«— Di qual paese sei tu, musulmano?» chiese il re con aria severa. — D’Alessandria,» rispos’egli. — Carnefice, fa il tuo dovere,» gridò il re.
«Già il carnefice, alzato il braccio, stava per iscagliare il colpo fatale, quando una vecchia religiosa inoltrassi d’improvviso appiè del trono, e voltasi al re, il quale si era alzato, insieme a tutta l’assemblea, per renderle onore:
«— Principe,» gli disse, «non avete voi detto di pensare al convento, quando il capitano conducesse alcuni prigionieri, e riservarne uno o due pel servizio della chiesa?
«— Veniste troppo tardi, madre,» rispose il re; «però ne resta ancor uno: voi potete disporne. —
«La religiosa, voltasi ad Alaeddin, gli domandò se volesse incaricarsi del servizio della chiesa, aggiungendo che, se non aderiva, l’avrebbe lasciato mettere a morte come i compagni. Alaeddin acconsentì a seguire la religiosa, che lo condusse subito al tempio.
«Giunto sotto il vestibolo, egli domandò alla guida qual fosse la specie di servizio che si esigeva da lui.
«— All’alba,» diss’ella, «voi prenderete cinque muli, andrete nella foresta vicina, e là, dopo aver raccolto legne secche, le caricherete, portandole poi alla cucina del convento. Bisognerà quindi raccoglierete stuoie ed i tappeti, per batterli e spazzolarli, e scopato e fregato bene il suolo della chiesa ed i gradini dell’altare, stenderete di nuovo i tappeti, mettendoli a posto; poi, crivellerete due staia di frumento, lo macinerete, e dopo aver impastata la farina, ne farete piccoli pani per le religiose del convento; netterete i vetri delle lampade, ed empitele d’olio, avrete cura di accenderle al primo suono di campana; poi, monderete ventiquattro staia di lenti, facendole cuocere. Sono da empirsi d’acqua le quattro pile, portandone inoltre nei trecentosessanta avelli di pietra, che trovansi nei cortili; ciò fatto, preparerete trecento sessantasei scodelle, mettendovi i piccoli pani tagliati a fettoline; vi verserete sopra il brodo di lenti, andando a portare una scodella a ciascuna religiosa ed a ciascun prete del convento. In seguito....
«— Ah, signora,» sclamò Alaeddin, interrompendola, «per carità, riconducetemi subito dal re, e che mi faccia morire, se vuole.
«— Rassicuratevi,» continuò la religiosa; «se farete bene il vostro dovere, vi prometto che tutto andrà per la meglio, e non ve ne pentirete; se, al contrario, foste negligente nel servizio, vi vedrò costretta di consegnarvi ancora nelle mani dei re, che vi farà tosto morire. —
«La religiosa avendolo lasciato solo, Alaeddin sedette in un canto, e si mise a meditare sulla sua trista situazione. Erano in quella chiesa dieci poveri ciechi storpi, uno dei quali avendo udito camminare Alaeddin, lo pregò di dargli il pitale, ed egli si vide obbligato di darglielo, e poscia votarlo. — Dio benedica,» disse il cieco, «il servitore di questa chiesa! —
«La vecchia religiosa, rientrata in quel mentre, chiese con umore ad Alaeddin perchè non avesse adempiuto a tutti i suoi doveri. — Eh! signora,» rispos’egli, «quand’anche avessi cento braccia, mi sarebbe impossibile di fare quanto si esige da me! — Perchè adunque, imbecille, vi ho condotto qui?» riprese la vecchia; e non è forse per fare quello che vi ho prescritto? —
«La donna allora si raddolcì alquanto, e soggiunse: — Prendete, o figlio, prendete questo bastone (era un bastone di rame, in cima al quale stava una croce), uscite dalla chiesa, e se trovate il wali di questa città, fermatelo e ditegli: «Io ti requisisco per il servizio della chiesa: prendi queste cinque mule, e va nel bosco a caricarle di legne secche.» Se oppone resistenza, uccidetelo tosto senza timore; prendo su di me le conseguenze che ne potrebbero derivare. Se voi vedete il gran visir, corretegli incontro, percuotete la terra con questo bastone davanti al suo cavallo, e ditegli: «Io v’impongo, in nome del Messia, di fare ciò che esige il servizio della chiesa.» Obbligherete così il visir a crivellare il grano, a macinarlo, a stacciare la farina, impastarla, e formarne piccoli pani; e chiunque ricuserà d’ubbidirvi, uccidetelo senza timore, giacchè io m’incarico di tutto. —
«Alaeddin non mancò, il giorno dopo, d’approfittare degli avvertimenti della vecchia. Nessuno di quelli cui si rivolse, osò rifiutarsi a quanto esigeva da essi, e si vide di tal guisa sollevato dai più faticosi lavori. Passò così diciassette anni, costringendo a suo talento, e mettendo a requisizione grandi e piccoli pel servizio del monastero. Un giorno, ch’era occupato a lavare e strofinare il pavimento della chiesa, la vecchia religiosa entrò, imponendogli bruscamente di allontanarsi.
«— Ove volete che vada?» le rispose. — Bisogna, mio caro, che andiate a passar la notte all’osteria od in easa di qualche vostro amico. — Perchè adunque,» rispose Alaeddin, «volete farmi uscire dalla chiesa? — Perchè,» rispose la vecchia, «la figliuola del re vuol venir qui stasera a far la sua preghiera, e siccome non è permesso ad alcuno di trovarsi sul di lei passaggio, mi vedo costretta a congedarvi per questa notte. —
«Quelle parole solleticarono la curiosità di Alaeddin, il quale disse fra sè, fingendo di ubbidire all’ordine della religiosa: — Io mi guarderò bene dall’uscire di questa chiesa, alla quale sono attaccato da tanto tempo, in una circostanza sì interessante; voglio vedere la principessa, e sapere se le donne di questo paese somigliano alle nostre, oppure se le superano in beltà.» Invece dunque di uscire dalla chiesa, cercò un luogo favorevole al suo disegno, e si nascose in un angolo, dal quale poteva osservare ogni cosa a suo bell’agio.»
NOTTE DXV
— La principessa non tardò a comparire: Alaeddin, abbagliato dalla sua bellezza, sospirò più volte, credendo vedere la luna, in tutto il suo splendore, uscire dal grembo delle nubi. Dopo averla lungamente considerata, diresse gli sguardi su d’una donna che l’accompagnava, ed udì la principessa dirle: — Ebbene, mia cara Zobeide, cominciate ad avvezzarvi a vivere con me?» Lo schiavo, udendo pronunciare il nome di Zobeide, guardò con maggior attenzione la giovane dama; ma qual fu la sua sorpresa, riconoscendo la sposa, la sua cara Zobeide, che credeva morta da sì lunghi anni!
«La principessa prese allora una chitarra, e, presentandola a Zobeide, la pregò di cantare accompagnandosi con quell’istrumento. — Ciò m’è impossibile, signora,» rispose colei, «se prima non abbiate adempiuto alle promesse che mi faceste già da tanto tempo. — Che vi ho adunque promesso?» rispose la principessa. — Voi mi prometteste, signora,» riprese Zobeide, «di riunirmi al mio sposo, al mio fedele Alaeddin Abulschamat. — Cessate dall’affliggervi, o Zobeide,» disse la principessa, «ed abbandonatevi alla gioia: l’istante che deve riunirvi al vostro diletto non è forse tanto lontano come pensate. Cantateci adunque un’arietta vivace ed allegra, per celebrare questa felice riunione. — Ov’è?» ehiese vivamente Zobeide. — In quell’angolo,» rispose sotto voce la principessa, la quale aveva veduto Alaeddin, «e non perde sillaba del nostro colloquio. —
«Zobeide, al colmo della gioia per quanto aveva udito, e potendo appena trattenere i suoi trasporti, cantò un’aria sì tenera, accompagnandosi con modi sì incantevoli, che Alaeddin, fuor di sè, le si slanciò incontro, e la strinse al seno. I due consorti, troppo deboli per sostenere le emozioni tumultuanti ed appassionate che destavansi nel loro animo, svennero nelle braccia l’un dell’altro.
«La principessa e le sue dame si affrettarono a soccorrerli. Quando furono rinvenuti, la real donzella li felicitò sulla loro riunione.
«— Madama,» le disse Alaeddin, «è a voi sola, ben lo veggo, che sono debitore della mia felicità.» Volgendo poscia appassionati sguardi sulla sposa: «Voi vivete ancora, mia cara Zobeide?» soggiunse.
«— Io non ho mai cessato di vivere,» rispose ella con voce fioca, «e sospirare il momento della nostra riunione. Fui rapita al vostro amore, e trasportata in questi luoghi, da uno di quei geni che ubbidiscono ai geni d’un ordine superiore. Il fantasma che prendeste per me era quello d’un altro genio, il quale, avendo preso il mio aspetto, si finse morto. Quando voi lo deponeste nella tomba, ne uscì poco dopo, e venne a trovare la sua sovrana, la principessa Husn Merim, la mia benefattrice, che voi vi vedete dinanzi. Quando aprii gli occhi, e la scorsi a me vicina, le domandai perchè mi avessero condotta qui. «Signora,» mi rispose, «la sorte mi destina a diventare la sposa di Alaeddin Abulschamat; degnatevi permettermi di dividere con voi il suo cuore. Io ho scoperto, colla potenza dell’arte mia, che una grande sciagura pende sulla sua testa, e siccome m’è impossibile di prevenirvi, volli almeno togliercene la vista, e vi feci qui trasportare per poter consolarvi a vicenda d’una separazione che avrà un termine. I vostri talenti per la musica diminuiranno le nostre noie,» aggiunse poi graziosamente. «Sono adunque rimasta vicina a quest’amabile principessa, fino al momento in cui vi ritrovo, in codesta chiesa. —
«Husn Merim, volgendosi ad Alaeddin, gli demandò se acconsentiva a riceverla in isposa. — Ah! madama,» rispos’egli, «io sono musulmano, e voi siete cristiana! — La bontà divina ha tolto questo ostacolo, o signore,» disse la principessa; «sono già diciotto anni che sono musulmana ed addottrinata ne’ principii dell’islamismo; io le riguardo come la vera religione. — Vorrei,» riprese allora Alaeddin, sospirando, «tornare a Bagdad.
«— Signore,» ripigliò la principessa, «è il decreto del destino, e fra poco i vostri voti saranno esauditi. Avendo scoperte le sciagure che vi minacciavano, ed alle quali non mi era permesso sottrarvi, io aspettai che fossero passate; ora posso dirvi cose che ignorate, e che vi colmeranno di gioia. Sappiate adunque che avete un figlio di diciott’anni, di nome Aslan, il quale è ora al posto che voi occupavate già presso il califfo. La verità apparve in tutto il suo splendore, e le trame della perfidia e della malvagità vennero scoperte. Iddio ha fatto cadere sulla testa del colpevole il castigo dovuto al suo delitto: si trovò chi aveva rubati gli oggetti del califfo. È l’infame Ahmed Comacom, ora in ceppi, e rinchiuso in oscuro carcere. Sappiate, o signore, che fui io a farvi pervenire la pietra preziosa rinchiusa nella piccola borsa di cuoio, trovata nella vostra bottega; fui io che ordinai al capitano di portarmi quella pietra preziosa e condurvi seco. Quel capitano, invaghito dello poche attrattive compartitemi dal cielo voleva sposarmi; ma, avendogli dichiarato che non gli avrei mai concessa la mia mano a meno che non mi portasse la pietra, e non me ne conducesse il possessore, gli diedi cento borse per riacquistarla, e lo feci partire, travestito da negoziante. Quando il re, mio padre, dopo la morte dei vostri quaranta compatriotti, volle farvi troncare la testa, fui ancor io che mandai la vecchia religiosa per salvarvi la vita.
«— Ah! signora,» sclamò Alaeddin, «quanto vi debbo! Il dono della vostra mano porrà il colmo a tutti i vostri benefizi. —
«Dopo che la principessa ebbe rinnovata, fra le mani di Alaeddin, la sua professione di fede e di attaccamento alla religione di Maometto, egli la pregò di fargli conoscere le virtù della pietra preziosa che possedeva, ed in qual maniera fosse venuta in sua mano.
«— Signore,» rispose Husn Merim, «quella pietra è un vero tesoro: essa è dotata di cinque proprietà che vi farò conoscere a tempo e luogo. La madre del real mio genitore, dotta in tutti i segreti dell’arte magica, sapendo deciferare perfettamente i talismani più complicati, e potendo penetrare a suo talento nei tesori di tutti i re della terra, la trovò un giorno per caso in un tesoro, ov’era conservata colla massima cura. Quand’io ebbi compito il quindicesimo anno, mi fecero studiare il Vangelo, ma avendo letto il nome di Maometto (che Iddio sparga su di lui le sue grazie e benedizioni!) nel libri sacri del Pentateuco, degli Evangeli, dei Salmi e del Corano, credetti in lui, divenni musulmana, e fui intimamente convinta che non si poteva adorare in modo convenevole l’Altissimo, se non nella religione maomettana, la sola e vera religione. Mia nonna, essendosi ammalata, mi donò questa pietra preziosa, svelandomene le cinque virtù. Aggravatasi la malattia, mio padre venne a trovarla al letto di morte, e la supplicò di scoprirgli, colla potenza dell’arte sua, gli avvenimenti che dovevangli accadere, ed in qual modo, soprattutto, terminerebbe la sua carriera.
«— Figliuolo,» rispos’ella, «sarebbe meglio per voi ignorare l’avvenire, che cercar di conoscerlo; ma giacchè mi costringete, colle vostre preghiere, a dirvi la verità, sappiate che dovete perire per mano d’uno straniero, il quale verrà d’Alessandria.»
NOTTE DXVI
— «Mio padre allora giurò di far morire tutti gli abitanti di Alessandria, che cadessero in potere de’ suoi sudditi. Mandò a chiamare il capitano che v’ha qui condotto, gli ordinò di assalire tutti i vascelli musulmani che incontrasse, d’impadronirsene, e passare a fil di spada tutti i prigionieri ch’egli riconoscesse per alessandrini. Il barbaro capitano eseguì con zelo l’ordine sanguinario, avendo già fatti perire tanti musulmani quanti capelli ha in testa. Dopo la morte di mia nonna, io volli conoscere chi fosse colui che il cielo mi destinava in isposo, e mediante i segreti della mia arte, seppi che doveva essere il signor Alaeddin Abulschamat, il confidente e l’amico del califfo Aaron Alraschid. I tempi sono compiuti, o signore, ed io stimo felice di toccare al momento che deve porre il colmo ai miei voti. —
«Alaeddin, sorpreso e commosso da quelle parole, dimostrò la propria gioia di diventare lo sposo di una principessa che avevagli reso sì grandi servigi, e dal cielo colmata di tanti favori; ma nel tempo stesso le attestò di nuovo il suo vivo desiderio di tornare a Bagdad. La donzella gli disse che avrebbe allestito il necessario per la partenza, e pregatolo di seguirla, lo condusse al palazzo per vie note a lei sola, e chiusolo in uno dei gabinetti del suo appartamento, si recò dal genitore.
«Quel principe era allora a pranzo; dimostrò molta gioia allo scorgere la figlia, e la invitò a restare per tenergli compagnia. Husn Merim avendo acconsentito, il re fece ritirare tutti gli altri, e si chiuse solo con lei. La principessa, approfittando della circostanza e del buon umore in cui lo vedeva, gli versò da bere tante volte, che riesci ad ubriacarlo. Quando fu al punto in cui essa desiderava scorgerlo, gli presentò una bevanda, nella quale aveva versato una certa dose di soporifero. Appena il re l’ebbe vuotata, cadde rovescio, privo di sensi.
«La donna corse tosto al suo appartamento, fece uscire Alaeddin dal gabinetto in cui l’aveva nascosto, e gli narrò l’operato. Egli si recò subito alle stanze del principe, gli legò strettamente le mani ed i piedi, e gli fece respirare una polvere atta a dissipare l’effetto di quella già inghiottita.
«Tornando in sè, il re fu sorpreso al trovarsi legato, e di vedere uno sconosciuto. Alaeddin, prendendo allora la parola, gli rimproverò la sua crudeltà verso i musulmani, dicendogli che il solo mezzo di espiare tanti delitti era d’abbracciare l’islamismo. Il re respinse con orrore la proposta, e proruppe in bestemmie contro Maometto. Alaeddin, non potendo allora contenere il proprio sdegno, sguainò il pugnale, glielo immerse nel cuore, e lo stese morto a’ suoi piedi.
«Scrisse poscia un biglietto, nei quale esponeva brevemente gli avvenimenti accaduti, ed il modo portentoso col quale Dio aveva punita la barbarie del re, e depostolo sulla fronte del cadavere, corse a raggiungere la principessa.
«Husn Merin, in quel frattempo, faceva fardello degli oggetti più preziosi, e non pensava che a partire. Prese la pietra preziosa che conservava accuratamente, e fatto osservare ad Alaeddin un sofà inciso sur uno dei lati, strofinò un poco quella parte: un sofà tosto comparve dinanzi a loro. Vi sedè ella per la prima, si fece sedere accanto Alaeddin e Zobeide, e pronunciò le seguenti parole: — Per la virtù dei caratteri magici, scritti su questa pietra, io desidero che codesto sofà s’innalzi nell’aere.» Sul momento il sofà s’innalzò, portandoli velocemente al disopra d’una profonda valle. La donna avendo rivolta verso terra la faccia della pietra su cui stava inciso il sofà, e le quattro altre verso il cielo, discesero con rapidità, Husn Merim strofinò allora la faccia che rappresentava una tenda, e videro innalzarsi a lor davanti un superbo padiglione, sotto il quale si posero al coperto.
«Siccome la valle in cui trovavansi era uno spaventoso deserto, ove non vedovasi una sola goccia d’acqua, la principessa volse al cielo quattro facce della pietra, lasciando sotto quella che rappresentava un fiume, e desiderò di vederlo comparire. Essi videro tosto una vasta estensione d’acqua, le cui onde cozzavansi, venendo a frangersi ai loro piedi. Dopo essersi lavati e purificati in quell’acqua maravigliosa, fecero la loro preghiera, e dissetaronsi. Poscia Husn Merim strofinò la faccia su cui stava, incisa una tavola ammannita, bramando di vederla comparire, e subito una tavola, coperta dei cibi più delicati e squisiti, si trovò dinanzi a loro; vi si avvicinarono, e si misero a mangiare e bere, parlando della felicità che avrebbero in breve gustata.
«Frattanto il figlio del re, entrato la domane nell’appartamento del padre, arretrò d’orrore trovandolo immerso nel proprio sangue; essendosi poscia avanzato, e veduto il vigliettino scritto da Alaeddin, lo raccolse e lo lesse. Pieno di stupore e di sdegno, corse dalla sorella, ma non avendola trovata, s’avviò precipitosamente alla chiesa per interrogare la vecchia religiosa, e saputone che non aveva veduto nè Alaeddin, nè la principessa fin dal giorno prima, radunato buon numero di soldati, narrò loro ciò ch’era avvenuto, e comandò che, saliti a cavallo, inseguissero i fuggitivi. Postosi alla loro testa, sollecitaronsi tanto, che giunsero in poco tempo alla valle, ove scorsero da lungi la tenda sotto cui riposavano la principessa, Alaeddin e Zobeide.
«Husn Merim avendo alzati gli occhi in quel momento, vide una densa nube di polvere, e riconobbe tosto il fratello, alla testa di una schiera di soldati, che gridavano: — Fermatevi, perfidi, voi ora siete in nostro potere!» La donna si volse ad Alaeddin, chiedendogli se fosse capace di far fronte a coloro.
«— Ahimè! madama, «rispose, «io non ho mai combattuto in vita mia; e quand’anco fossi il più valoroso degli uomini, mi sarebbe impossibile di resistere a tanta gente. —
«La principessa strofinando allora un lato della pietra preziosa che rappresentava un cavallo ed un cavaliere, si vide tosto uscire dalle viscere della terra un cavaliere armato, il quale caricò con tanto impeto il principe ed i suoi soldati, che li disperse e pose in fuga in un batter d’occhio.»
NOTTE DXVII
— Finito il pasto, la principessa chiese ad Alaeddin ove volesse recarsi. Avendole egli risposto che la sua intenzione era di andare in prima ad Alessandria, sedettero di nuovo sul sofà, che li trasportò in un attimo in una caverna nei dintorni di quella città, ove si fermarono. Alaeddin andò a cercare lunghi veli per le dame, e fattele entrare in città, le condusse alla sua bottega, ove trovarono Ahmed Aldanaf.
«Questi fu lietissimo di rivedere Alaeddin; gli raccontò dettagliatamente tutti gli avvenimenti accaduti dopochè era stato costretto ad allontanarsi da Bagdad, e gli partecipò le intenzioni del califfo a di lui riguardo, ed il desiderio che suo figlio Aslan aveva di vederlo.
«Alaeddin, dal canto proprio, sorprese molto Aldanaf col racconto delle sue avventure. Essendosi all’indomani sbarazzato della bottega, non pensò che a continuare il viaggio. Benchè avesse il più vivo desiderio di abbracciare il figlio ed acconsentire alle istanze del califfo, che lo sollecitava a tornare alla corte, pure risolse di andar prima al Cairo per trovarvi i genitori. Si collocarono perciò tutti insieme sul sofà, che li depose in un batter di ciglio in una viuzza del Cairo.
«Alaeddin, avendo bussato alla porta della casa ove aveva trascorsa l’infanzia, udì con piacere inesprimibile la voce di sua madre, che domandava, senza aprire: — Chi è? Che cosa si vuole da genitori infelici, i quali perdettero ciò che avevano di più caro al mondo? — È vostro figlio Alaeddin. — Alaeddin,» soggiunse ella con un sospiro, «è morto da gran tempo! — Madre,» continuò egli, alzando la voce, «di grazia, apritemi: io sono il vostro figlio Alaeddin. —
«A tali parole, che le produssero la più viva gioia, la povera madre aprì frettolosamente. Il figlio le si gettò nelle braccia, non istaccandosene se non per cadere in quelle del genitore. Quando i primi trasporti di tenerezza furono calmati, egli presentò ai parenti le due spose ed il suo amico Ahmed Aldanaf.
«Dopo tre giorni, Alaeddin esternò il desiderio di recarsi coi genitori a Bagdad. Essi vollero dapprima indurlo a restare al Cairo; ma avendo loro rappresentato che doveva tornare alla corte, acconsentirono a seguirlo.
«Alaeddin fece adunque preparare ogni cosa per la partenza, ed in pochi giorni si recò a Bagdad col padre e la madre, le due mogli ed Ahmed Aldanaf.
«Aaron Alraschild, informato dell’arrivo di Alaeddin, si recò da lui accompagnato da Aslan e dai principali signori della sua corte, e lo accolse a braccia aperte. Avendo poscia fatto venire Ahmed Comacom carico di catene, disse ad Alaeddin: — Io lasciai vivere finora questo scellerato, sol perchè poteste punirlo voi stesso.» Acceso d’ira alla vista di un uomo ch’era stato la causa di tutte le sue disgrazie, Alaeddin sguainò la scimitarra e gli troncò la testa.
«II califfo volle poscia udire dalla sua bocca il racconto delle avventure accadutegli dopo il fatale avvenimento che li aveva disgiunti. Alaeddin si affrettò a soddisfarlo, e quand’ebbe finito, il monarca lo felicitò perchè fosse per diventare lo sposo della principessa Husn Merim, e volle che il contratto di matrimonio si stendesse in sua presenza. Vi furono in tal occasione feste ed allegrie che durarono sette giorni; Alaeddin fu di nuovo colmato d’onori, e suo figlio divenne capo del consiglio dei Sessanta.
«Le disgrazie toccate al favorito aumentarono l’affetto del suo signore per lui, e gli accordò una fiducia illimitata che nulla potè in seguito alterare.
«Alaeddin, felice alla corte pel favore costante del califfo, non lo fu meno per quanto lo circondava Gelsomina, il cui amore erasi mostrato tanto fedele, Zobeide ed Husn Merim, vissero tutte e tre nel migliore accordo, e gli furono tutte egualmente care.»
Scheherazade, narrando l’istoria di Alaeddin Abulschamat, erasi accorta che il sultano delle Indie avevi attentamente ascoltato quanto concerneva la principessa Husn Merim, il talismano che possedeva, e le sue straordinarie virtù; essa pensò che non ascolterebbe con minor piacere le maravigliose avventure di Abu Mohammed Alkeslan, e si affrettò ad annunziargliele. Il sultano acconsentì volentieri ad udire all’indomani quel racconto, ch’ella continuò, secondo l’uso, nelle notti consecutive.
Note
- ↑ Dio è grandissimo. Il vantaggio di questi racconti essendo di far conoscere gli usi degli Orientali, si credè opportuno conservare i dettagli che qui si trovano, che invano cercherebbonsi in opere più gravi.
- ↑ Dottore musulmano, in gran fama di santità presso gli Arabi
- ↑ Porta acqua.
- ↑ È il trentesimosesto capitolo del Corano. Esso tratta principalmente della risurrezione, e chi lo legge divotamente, merita tanto, come se avesse letto ventidue volte l’intero Corano.
- ↑ Celebre poeta sotto il regno del califfo Aaron, che avevagli dato un appartamento nel proprio palazzo.
- ↑ L’alimento dei cuori.
- ↑ Volgarmente Laiassa, sul golfo del medesimo nome, altre volte il golfo d’Isso.
- ↑ Hassan ed Hussein, i due figli maggiori di Alì.