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Alaeddin gli chiese, ponendogli in mano cinque pezze d’oro, se vi fosse una legge che lo astringesse a ripudiare al mattino la donna sposala la sera innanzi. L’usciere gli rispose non esistere alcuna legge di questa specie, e si offrì gentilmente a servirgli di difensore, nel caso in cui non fosse capace di difendersi da sè.
«Si recarono poscia alla sala d’udienza. Il cadì esigette da Alaeddin il pagamento della dote, poichè non voleva ripudiare la giovane dama. Questi, senza sgomentarsi, domandò gli si accordasse la dilazione concessa dalla legge. Il giudice gli fece osservare che quella dilazione era di soli tre giorni.
«— Tre giorni non mi bastano,» disse Alaeddin; «ne chieggo dieci.» Siccome la domanda era ragionevole, gli fu accordata, ma a patto però che, allo spirare del termine, pagherebbe la dote, o ripudierebbe la donna.
«Accettata l’alternativa, Alaeddin uscì dall’udienza, si provvide di carne, di riso, burro ed altre cose necessarie pel pranzo, e tornato a casa, raccontò alla giovane quant’era avvenuto. Zobeide gli disse che potevano accadere cose sorprendenti dalla sera al mattino, e che frattanto recavasi a dare gli ordini pel pranzo. Infatti, fece in breve imbandire una tavola coperta delle vivande più delicate e dei più squisiti liquori.
«Sulla fine del pasto, Alaeddin pregò Zobeide di cantargli un’arietta, accompagnandosi colla chitarra. La giovane si affrettò a soddisfarlo, prese lo strumento, e ne trasse suoni sì armonici e dolcissimi, che le pareti stesse dell’appartamento parvero sensibili a quegli accordi.
«D’improvviso udirono bussare fortemente alla porta di strada. Alaeddin andò ad aprire, e vide quattro dervis in atto supplichevole. Avendo chiesto cosa volessero, uno di essi rispose: