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«In quel punto Alaeddin, chiuso in casa della sposa, abbandonavasi alle più crudeli riflessioni ed era in preda al più violento dolore; avendo d’improvviso udito un gran rumore alla porta di strada, sclamò: — Mia cara Zobeide, è certamente tuo padre che manda gli arcieri e le genti di giustizia per costringermi a separarmi da te! — Guardate,» disse Zobeide, «chi può essere. — «Alaeddin discese i gradini a passi lenti ed aprì tristamente la porta. Ma qual fu la sua sorpresa vedendo lo suocero a piedi, accompagnato da uno schiavo abissino che cavalcava una mula; e lo fu ancor più quando quello schiavo, la cui faccia, benchè nera, eccitava qualche simpatia, balzando leggermente a terra, venne a baciargli la mano.
«— Che vuoi tu?» gli domandò il giovane. — Signore,» rispose lo schiavo, «io sono il servo del mio padrone Alaeddin Abulschamat, figlio di Schemseddin, sindaco dei mercanti del Cairo. Suo padre mi manda da lui con questa lettera di credito.» Nello stesso tempo presentò un foglio ad Alaeddin, il quale lo ricevette con premura, ed apertolo, vi lesse ciò che segue:
««Schemseddin, sindaco dei mercanti del Cairo, al suo diletto figlio Alaeddin Abulschamat
«Salute.»
««Ho saputo adesso, mio caro figlio, la funesta novella del combattimento in cui tutti i tuoi perirono, e nel quale fosti spogliato d’ogni avere; ma consolati, ti mando cinquanta altri colli delle più belle stoffe del mio magazzino, una mula, una pelliccia di martoro zibellino ed un bacile d’oro colla sua brocca. Bandisci adunque dal tuo cuore le inquietudini che puoi aver concepite; le ricchezze che ti