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rato una nave mercantile, montata da quarantun musulmani.» Il re ordinò che i prigionieri si facessero scendere a terra; uscirono dal vascello, incatenati a due a due, e traversata parte della città, furono condotti nella sala del consiglio. Il re li seguiva a cavallo, accompagnato dal capitano e dai principali signori della corte.

«Sedutosi sul trono, e fatto collocare al suo fianco il capitano su d’una sedia più bassa, fece avanzare i poveri musulmani, e chiese al primo che si presentò di qual luogo fosse; appena ebbe risposto ch’era di Alessandria, il carnefice, ad un segnale del principe, gli troncò la testa. Il secondo, il terzo ed i seguenti, fino al quarantesimo, avendo tutti data la medesima risposta, subirono egual sorte.

«Più non restava che Abulschamat, il quale, testimonio oculare del tristo destino dei compagni, deplorava la comune disgrazia, ed aspettava la sua volta, pregando Dio di aver pietà di lui. — Sei bell’e spacciato, povero Alaeddin,» pensava; e in qual maledetto laccio ti lasciasti cogliere?

«— Di qual paese sei tu, musulmano?» chiese il re con aria severa. — D’Alessandria,» rispos’egli. — Carnefice, fa il tuo dovere,» gridò il re.

«Già il carnefice, alzato il braccio, stava per iscagliare il colpo fatale, quando una vecchia religiosa inoltrassi d’improvviso appiè del trono, e voltasi al re, il quale si era alzato, insieme a tutta l’assemblea, per renderle onore:

«— Principe,» gli disse, «non avete voi detto di pensare al convento, quando il capitano conducesse alcuni prigionieri, e riservarne uno o due pel servizio della chiesa?

«— Veniste troppo tardi, madre,» rispose il re; «però ne resta ancor uno: voi potete disporne. —

«La religiosa, voltasi ad Alaeddin, gli domandò se