II

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I Bibliografia
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II.


«Ed io mi resto al sole ed alla luna,
piangendo sempre la sventura mia».

Sonetto XXI.


La famiglia di Gaspara era di origine milanese, cospicua per natali e per censo. Un ramo della famiglia Stampa rimase a Milano e lo ritroviamo forse ancora fiorente nel secolo decimonono, in quel conte Stefano Decio Stampa, marito di Teresa Borri, che fu poi la seconda moglie di Alessandro Manzoni.

Appena due anni or sono morì a Stresa il figlio di Teresa Borri, Stefano, il quale, come tutti sanno, pubblicò interessanti ricordi del suo illustre padrigno. Forse questo colto, ricco, intelligente gentiluomo avrà pur messo insieme qualche prezioso ricordo della famiglia del padre, come fece per quella del Manzoni.

Chi potesse a Stresa fare ricerche tra le carte del conte Stefano, troverebbe forse notizie e documenti inediti sulla famiglia di Gaspara, e dell’altro poeta, Baldassare Stampa, le cui poche rime si pubblicano sempre insieme con quelle della sua illustre parente. [p. 28 modifica]

Ma finora poco si conosce intorno ai primi anni della poetessa, e appena è noto il nome di una sua sorella, Cassandra, gentile rimatrice anche lei.

La prima e maggiore sventura nella vita di Gaspara fu certo la morte del padre, che la privò in tal modo di una guida ferma e illuminata.

La madre dovette essere di carattere o debole o leggiero, perchè da ogni atto di Gaspara appare come la fanciulla crescesse nella maggior libertà, seguendo il sogno della sua fantasia e gli impulsi di un cuore ardente e disordinato.

Altra sventura fu per lei il trasferimento della famiglia da Padova a Venezia.

La Venezia nel sedicesimo secolo!

Un turbinio giocondo, un’ebrezza di feste, una sete portentosa di piaceri, sodisfatta da un benessere materiale larghissimo, da un lusso smisurato, che avvolgeva in un nimbo d’oro la fastosa città. L’aria molle era satura di godimento; un languore di gioia si spargeva nelle vene, annebbiava i cervelli. Un profumo di lascivia, dolce, facile, pericolosa era nei festini dei ricchi, nelle conversazioni delle dame, sotto il misterioso fez delle gondole. In nessun luogo e in nessun tempo mai ci fu maggior copia di delizia, maggior desiderio e possibilità di attingere a fonti voluttuose: Amare, godere, sognare!.... questo solo era necessario! Le dolcezze della musica e della poesia, le creazioni [p. 29 modifica]divine delle arti, la raffinata educazione femminile, tutto concorreva a un solo scopo: moltiplicare gli strumenti del piacere.

Il senso morale è confuso o scomparso. È bene tutto quello che si gode; tutto è permesso, fuorchè parlare della Repubblica. I privati costumi non vengono turbati da leggi e da ricerche importune. Ciascuno faccia quello che vuole e goda come può. Il vizio ridente e dovizioso corre i ridotti e i saloni; si parla un linguaggio elegante, ma licenzioso, anche in presenza di donne, anche di fanciulle.

Da tutto il mondo i gaudenti convengono a Venezia, come al luogo che promette maggior quantità e varietà di piaceri. Si mettono in prosa e in rima le espressioni delle idee più libertine; la musica accompagna del suo fascino le blandizie delle seduzioni.

Questo il mondo nel quale la giovinetta Gaspara fu condotta dal suo destino; ed ella si lasciò prendere dall’ebrezza generale.

Era formosa e bellissima, benchè io non abbia potuto giudicare questa bellezza altro che dal ritratto che il conte Antonio Rambaldo di Collalto fece incidere in rame da un dipinto del Quercino. Lo stesso conte Antonio Rambaldo, in un sonetto a pag. 228 della edizione Piacentini, dice ch’ella aveva crine, ciglia e occhi d’ebano. Il viso è piuttosto tondo che ovale, pieno, grassoccio, con grandissimi occhi arditi e ridenti. Una piccola bocca sensuale, un naso [p. 30 modifica]corto e diritto, un po’ grosso, il mento rotondo, che s’indovina morbido e dolce, danno a tutta la fisonomia un’impronta di delizia viva e appassionata.

Folti capelli ondulati si bipartiscono sulla fronte alta e liscia, e il pittore li ha adornati di una ghirlanda di alloro. Un’ampia scollatura, secondo la moda del tempo, lascia scorgere un collo grazioso, magnifiche spalle, e il principio d’un seno rigoglioso.

È una creatura di forza e di vita, questa! e ben doveva essere violenta quella febbre d’amore che la condusse a morir consunta a trent’anni!

A Venezia Gaspara frequentò la società colta e frivola, nella quale il suo nome, le sue ricchezze e la sua bellezza le permettevano di brillare come una stella. Ella aveva studiato la musica, e suonava stupendamente il liuto; sapeva il greco e il latino, componeva versi all’improvviso. È naturale dunque che fosse la delizia dei ritrovi mondani, e che pur la sua casa fosse continuamente assediata da letterati, da artisti e da oziosi ammiratori.

Venezia pullulava allora di circoli letterari e di accademie, dove convenivano tutti i dilettanti di poesia, e passavano le ore in fanciullesche gare di sonetti petrarcheschi e madrigali. Gaspara frequentava il celebre ridotto del Venier e quello di Trifon Gabriele; ivi leggeva, e spesso le cantava, accompagnandole col liuto, le sue [p. 31 modifica]prime poesie, destando una ammirazione entusiastica. Pareva infatti un miracolo quella bella fanciulla amata dalle Muse, quando levava nel canto la dolcissima voce, volgendo al cielo gli occhi luminosi, pieni di incanti e di promesse.

Ora, quale fu il suo cuore durante questi anni di facile gloria, di successi lusinghieri per la sua vanità femminile e per il suo orgoglio di artista? È possibile credere che, in una società corrotta e sensuale come la società veneziana, una fanciulla ardente e fantasiosa passasse senza sentirsi sfiorare dall’ala di un desiderio? Non avrà sorriso a nessuno allora quella bellissima bocca?

I grandi occhi giocondi non si saranno posati con compiacenza su qualche grazioso e galante gentiluomo, fra i tanti che mostravano d’adorarla?

Se pur fu, nessuna traccia ne rimase nel suo Canzoniere, che è come lo specchio della sua vita passionale. Saranno stati brevi fuochi senza conseguenze, sguardi scambiati, strette di mano furtive, dimenticate il domani. Non era ancor giunto il tempo, e non era ancor giunto l’uomo.

Questi arrivò nella persona del conte Collaltino di Collalto, signore di Treviso.

Egli aveva allora ventisei anni; Gaspara quasi lo stesso. Egli era bello, alto, slanciato, fatale. Aveva fama di coraggio; era colto, come quasi tutti i giovani gentiluomini del suo tempo; era galante, tenero, insinuante. Messer [p. 32 modifica]Ludovico non avrebbe potuto creare un più perfetto cavaliere, e tale apparve Collaltino agli occhi abbagliati di Gaspara.

Si incontrarono forse nell’Accademia dei Pellegrini, perchè anche egli era poeta, il nobile conte, e già noto col nome accademico di Virgiliano Coridone; era poeta, e cercava due begli occhi da cantare.

Gli occhi di Gaspara gli piacquero, e gli parve che valessero qualche fatica della sua musa.

Altèri, vaghi, pargoletti Amori,
che a lei scherzando gite d’ogn’intorno,
vólto, che d’onestà sei così adorno,
quando fien spenti mai cotanti ardori?

Le stelle in cielo non staran più allora,
nè le selve averanno albori e fronde,
nè pesce alcuno asconderan più l’acque.

Allor fia il dì che di legami fuora
uscirà il core.

Giuramenti d’innamorato! Ma la povera Gaspara non domandava meglio che di credergli.

L’amore l’avvolse come una vampata. Ella non pensò neppure un momento di resistere al fascino fatale.

Erano prossime le feste natalizie, dell’anno 1548, quando Gaspara vide per la prima volta colui, che doveva essere la sua delizia e la sua tortura suprema. Ella accolse le sue dichiarazioni d’amore come un’alta fortuna. [p. 33 modifica]

Era vicino il dì che il Creatore,
che nell’altezza sua potea restarsi,
in forma umana venne a dimostrarsi,
dal ventre verginale uscendo fuore;

quando degnò l’illustre mio signore,
per cui ho tanti poi lamenti sparsi,
potendo in luogo più alto annidarsi,
farsi nido e ricetto del mio core.

Con ingenua empietà ella vede una qualche relazione tra il fatto cristiano della concezione terrena di Dio e la scelta che Collaltino fa di lei. Cristo prende a suo nido il seno dell’umile Maria; Collaltino il cuore di Gaspara.

Ond’io sì rara e sì alta ventura
accolsi lieta; e duolmi sol che tardi
mi fe’ degna di lei l’eterna cura.

Da indi in qua pensieri e speme e sguardi
volsi a lui tutti, fuor d’ogni misura
chiaro e gentil quanto il sol giri e guardi.

Rapidamente accesa d’amore, ora ella vorrebbe che l’innamorato fosse più tenero e più caldo. Lo dice in questo sonetto, dove tra ingegnose e leggiadre lodi dell’amato, v’è pure un garbato spiritello scherzoso:

Quando fu prima il mio signor concetto,
tutti i pianeti in ciel, tutte le stelle
gli diêr le grazie, e queste doti e quelle,
perch’ei fosse tra noi solo perfetto.

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Saturno diegli altezza d’intelletto;
Giove il cercar le cose degne e belle;
Marte appo lui fece ogni altr’uomo imbelle;
Febo gli empì di stile e senno il petto;

Vener gli diè bellezza e leggiadria;
eloquenza Mercurio; ma la Luna
lo fe’ gelato più ch’io non vorrìa.

Di queste tante e rare grazie ognuna
m’infiammò della chiara fiamma mia,
e per agghiacciar lui restò quell’una.


Questo impetuoso amore cessò assai presto d’essere platonico. L’eccesso della sua violenza può scusare la debolezza di Gaspara; ma non cessa di riempirci di stupore la facilità con cui una fanciulla di nobili natali, di illustre educazione, cede alle lusinghe dell’innamorato, dimenticando per lui ogni modestia, ogni ritegno. Perchè Collaltino non sposò Gaspara? Naturalmente perchè l’amava poco, e perchè il suo desiderio era sazio lo stesso, per l’imprudente arrendevolezza di lei. Ma non sono strani questi costumi che davano alle donne, non pur alle maritate, ma alle fanciulle di oneste case, così facile occasione di perdersi, e permettevano i più pericolosi convegni? Dove si vedevano con tanta libertà i due amanti? Venezia era tutta un nido d’amore. Le gondole discrete, i palchi dei teatri, le locande, i ridotti, i caffè prestavano compiacente e fuggevole riparo alle coppie amorose. [p. 35 modifica]

L’uso della maschera facilitava i ritrovi, le chiese stesse servivano assai più a convegni profani che a contemplazioni religiose. E poi vi era, sopratutto, quella rilassatezza morale che rendeva lecita ogni cosa.

Gaspara non fa punto mistero del suo amore, e pur con caste parole ne rivela la sensualità. Ciò che non farebbe, credo, una fanciulla ai giorni nostri! e allora nessuno pensava a stupirsene.

Ma la povera Gaspara, che ha fatto intero sacrificio di se stessa al suo amore, trova assai presto le spine sotto le rose. Collaltino, o fosse di carattere prepotente e capriccioso, o fosse poco innamorato, — e questo mi pare più verosimile — faceva pesare sull’amante la durezza delle sue pronte collere, dei suoi superbi fastidi.

Ella non se ne lagna. Anche il tempo non è sempre bello; ora splende il sole, ora piove...

Io assimiglio il mio signore al cielo
meco sovente. Il suo bel viso è il sole,
gli occhi le stelle, e il suon delle parole
è l’armonia che fa il signor di Delo.

Le tempeste, le pioggie, il tuono e il gelo
sono i suoi sdegni, quando irar si suole;
le bonacce e il sereno è, quando vuole
squarciar dell’ire sue benigno il velo.

La primavera e il germogliar de’ fiori
è, quando ei fa fiorir la mia speranza,
promettendo tenermi in questo stato.

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L’orrido verno è poi, quando cangiato
minaccia di mutar pensieri e stanza,
spogliata me dei miei più ricchi onori».


Donde si rileva che il conte Collaltino soleva andar in collera con la sua bella, e quando era irato minacciava semplicemente di lasciarla e d’andarsene; il che poi finalmente fece.

E l’innamorata Gaspara che non brama altro se non ch’egli la tenga in questo stato! e pensa che, se egli la lascia, ella sarà spogliata dei più ricchi onori!

Cieca, come è cieco il vero amore, nei brevi momenti di tenera pace, ella non vede che le bellezze e le virtù del suo signore, e non ha altro desiderio che di essere sempre stretta dalle catene d’amore. Or chi volesse vedere il ritratto di quel Collaltino tanto esageratamente amato, lo cerchi nel sonetto VII di lei, che lo dipinge al vivo:

Chi vuol conoscer, donne, il mio signore,
miri un signor di vago e dolce aspetto,
giovane d’anni e vecchio d’intelletto,
imagin della gloria e del valore:

di pelo biondo e di vivo colore,
di persona alta e spazioso petto,
e finalmente in ogni opra perfetto,
fuor che un poco, oimè lassa! empio in amore.

Per indicare al mondo il laccio che la legava e imprimere sulla propria arte il suggello del suo signore, ella volle chiamarsi Anassilla, dal [p. 37 modifica]fiume Anaxum (Piave), scorrente presso S. Salvatore, il castello del conte di Collalto.

D’allora, una preoccupazione nuova tiene l’animo della poetessa. L’oggetto del suo amore è così alto, così perfetto, che ella teme di non essere degna di cantarlo. È vero che l’amore stesso la inalza, le rinnova lo stile, le adombra la vena, ma ella si stima abbietta e vile per così alto foco! Qui non saprei pensare che ella sia veramente sincera. Che un poeta stimi poco se stesso è caso assai raro; ed è vecchio il gioco di dire male dei propri versi, con la speranza che altri ne dica bene. Comunque ella confessa di sentirsi il core impresso di novo stile, sempre per forza del suo amore; e questo era certamente vero; perchè un sentimento potente e sincero non può mancare di infondere nuova e potente lena all’estro. Talvolta anzi, quando troppo la cruccia la crudeltà dell’amante, ella sente tutta la forza che le viene dall’essere donna di genio, e prorompe in questa minaccia:

Se avvien che un giorno Amore a me mi renda,
e mi ritolga a questo empio signore,
di che paventa e non vorrebbe il core,
tal gioia del penar suo par che prenda;

voi chiamerete invan la mia stupenda
fede e l’immenso e smisurato amore,
di vostra crudeltà, di vostro errore
tardi pentito, ove non è chi intenda.

Ed io, cantando la mia libertade,
da così duri lacci e crudi sciolta,
passerò lieta a la futura etade.

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Ma lo sdegno poco dura, ed ella torna a vantare in iperbolico stile le lodi del suo signore, non solo, ma anche quelle del fratello di lui, il conte Vinciguerra di Collalto, e la sua esaltazione arriva sino a paragonarli ai due Scipî!

Talvolta stupisce ella stessa di essere stata vinta così presto, ma poi si giustifica agli occhi propri e agli altrui.

Che meraviglia fu, se al primo assalto,
giovane e sola, io restai presa al varco?

Sola! e che faceva dunque sua madre? Certo non poteva ignorare il pericoloso amore della figliuola. Difatti, più tardi, quando Collaltino è in Francia, e la povera Anassilla si dispera per la assenza e per l’indifferenza del suo biondo signore, la madre e la sorella tentano di consolarla, ma non lo possono perchè pur esse sono costrette dalla tema a dolersi con lei. Di quale tema? che egli l’abbandoni e non ritorni più. Ma perchè non corsero già prima al riparo, prima che il male divenisse irrimediabile?

Accecata dall’amore, Gaspara se ne vanta con smisurata allegrezza. Ella non invidia neppure le glorie e i beni degli angeli, che stanno in cielo. L’ebrezza della passione le fa anzi trovare un paragone fra la perfetta beatitudine di cui godono gli angeli alla vista di Dio, e quella che prova il suo cuore alla vista dell’amato! La similitudine sa alquanto d’eresia, ma non [p. 39 modifica]potrebbe essere più calzante! La presenza di lui ravviva tutte le sue forze; ella si sente rifiorire, rincolorire, come l’erba di maggio, quando il sole la bèa.

Quando io veggo apparire il mio bel raggio,
parmi vedere il sol quand’esce fuora;
quando fa meco poi dolce dimora,
assembra il sol che faccia suo viaggio.

E tanta nel cor gioia e vigore aggio,
tanta ne mostro nel sembiante allora,
quanta l’erba, che il sol pinge e colora
a mezzo giorno, nel più vago maggio.

Quando poi parte il mio sol finalmente,
parmi l’altro veder, che scolorita
lasci la terra andando in occidente.

Ma l’altro torna, e rende luce e vita;
e del mio chiaro e lucido oriente
è il tornar dubbio, e certa la partita.

Certo non è nuovo il vezzo degli amanti di paragonare il loro bene al sole, e larghissimamente ne abusarono i cinquecentisti. L’imagine poetica di Gaspara ci richiama analogicamente alla memoria anche quella moderna del Carducci:

Quando parto da voi, dolce signora,
grigia la terra e scuro il ciel m’appare.

È dunque imagine spontanea, naturale, anche se vecchia; ma Anassilla vi aggiunge una nota personale, profonda, con quella chiusa ansiosa: [p. 40 modifica]

è il tornar dubbio, e certa la partita!

Dunque ella già temeva che Collaltino la lasciasse. Donna intelligente e fine, non riusciva a ingannare pienamente il suo cuore, che già aveva l’amaro presentimento del distacco. Ella sapeva di amare assai più di quel che fosse amata. Aveva ragione la Sand quando scrisse che di due cuori che s’amano, v’è sempre uno che dà e l’altro che riceve. Gaspara era fatta di devozione, creatura di passione e di fantasia, il suo fuoco bastava per lei e per l’altro. E ciò che in questa storia del suo amore è più umano e commovente, è appunto questo suo presentimento affannoso del male; questa goccia di fiele, che avvelena tutte le sue gioie, e non la lascia mai interamente lieta. Il carattere del suo cuore, del suo amore, e quindi dell’opera sua poetica, è l’inquietudine.

Era una di quelle donne, che non possono essere felici mai, nè rendere felice chi amano. Nell’assolutismo egoista del suo amore, ella pretendeva tutto; cioè pretendeva troppo. È probabile che se ella non avesse amato Collaltino con tanta esclusiva passione, egli si sarebbe stancato meno presto. Ma quella vampa amorosa che lo circondava sempre, e che lo perseguitava anche lontano, con continue dichiarazioni in prosa e in versi, non potè a meno di venirgli a noia. [p. 41 modifica]

Ella era una vera maniaca dell’amore; lui, più freddo, più volubile, avvezzo a facili trionfi, potè compiacersi sul principio di una passione così straordinaria, che dovette lusingare la sua vanità; di quelle lodi esagerate, che Gaspara andava facendo di tutte le doti vere e imaginate di lui, e specialmente della sua bellezza, (perchè su questo punto gli uomini — almeno i giovani! — non la cedono affatto alle donne,) ma infine era sempre la stessa cosa; e finì con stancarlo. Assai presto egli non si curò più di nasconderle la sua crescente freddezza; ed ella fece come tutti gli amanti sinceri: pregò, pianse, tentò di commuoverlo; senza punto accorgersi che faceva peggio.

Come rimovere quel saldo ghiaccio, che copre il cuore del crudele amante? L’Amore non sa darle altro consiglio che questo:

Ti bisogna aspettar tempo o fortuna,
che ti guidino a questo; ed altra via
non ti posso mostrar, se non quest’una.

Così mi dice, e poi si vola via;
ed io mi resto al sole ed alla luna,
piangendo sempre la sventura mia.

Se vecchia e artifiziosa è ormai la figurazione d’Amore, è certo che pur qui la sincerità del sentimento la rinnova e la rafforza. Gli ultimi due versi di questo sonetto sono meravigliosi, e densi di commozione.

Non sempre i versi le riescono belli. [p. 42 modifica]Frequenti sono le imagini stentate, le metafore gonfie; spesso lo stile è duro, involuto, arcaico; e come cito le sue cose più lodevoli, potrei con più abbondanza spigolare tra quelle pedestri e difettose. Anassilla usò poco la lima. Francesco Flamini, in quel suo poderoso Cinquecento, la giudica perciò severamente:

«La sincerità non basta dove occorre vivace il fantasma poetico, squisito il magistero dello stile. Gaspara conosceva le lingue classiche, era intendente di musica; eppure nelle rime difetta di forbitezza e d’armonia».

Di forbitezza, sì; d’armonia non mi pare, nonostante il parere dell’illustre critico.

Io lo prego di rileggere quelle due terzine che ho citato sopra. Un’onda di malinconica armonia li pervade, e mi fa salire le lagrime agli occhi.

Ed io mi resto al sole ed alla luna
piangendo sempre la sventura mia.

Nè sono i soli armoniosi. Ma in tutti i sonetti di Gaspara, e così pure nei madrigali e nelle sestine, vi è, tra qualche verso grezzo e frettoloso, un tesoro di suoni dolcissimi e spontanei, che ti cullano in una soavità infinita.

Questi, per esempio, come facili motivi musicali, mi tornano spesso alla memoria:

la forza insieme e l’anima m’invola,
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
del canto la dolcissima armonia.

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Giusta è l’accusa del Flamini e di altri critici che ella fu troppo imbevuta di petrarchismo, perchè potesse dare ai suoi affetti forma diversa dalla tradizionale. Ma Gaspara non era una donna cerebrale; ella visse di passione. Il Varchi la paragonò giustamente a Saffo, e quel che Orazio disse della poetessa di Lesbo ben può applicarsi ad Anassilla:

....... «Spirat adhuc amor
vivuntque commissi calores
Aeoliae fidibus puellae».

La poesia era per lei un linguaggio naturale dell’amore, e se ella non condusse la forma a maggior perfezione, fu perchè in lei il sentimento e il senso soverchiarono il ragionamento. Assorbita dalla sua idea fissa, ella non ebbe la calma necessaria a rifare, a limare, a correggere. Aveva fretta. Subiva le successive vicende del suo amore: liti, paci, ansie, speranze, gelosie, disperazioni, esultanze.... e si lasciava a volta a volta conquidere dall’impressione del momento, e a questa s’abbandonava e prestava le sue rime.

Certo ella fu avida di gloria. E perchè era donna, e le lodi la lusingavano; e anche perchè la gloria, cingendola di un’aureola di luce, doveva renderla più cara al suo amante. Questa almeno fu la sua speranza.

Poi, l’amore è sottile, e quasi inconscientemente astuto. Gaspara sicuramente sperò che [p. 44 modifica]le lodi largite all’amato, in versi che il mondo conosceva, dovessero incatenarlo non solo per vanità lusingata, ma anche perchè noblesse oblige, ed egli non avrebbe voluto parer minore dell’eroe che ella andava dipingendo.

Così pensa una donna. Ma ella non sapeva che nessuna cosa vince la sazietà dell’amore, e che quelle iperboliche adulazioni dovevano rendere il bel conte di Collalto sempre più orgoglioso di se stesso, e sicuro della sua forza di conquistatore di cuori femminei.

Questa irruenza di sentimenti impediva all’infelice Anassilla di occuparsi ponderatamente della forma con cui li rivestiva.

Purchè commovessero l’amato, purchè piacessero a lui, ella sarebbe stata paga.

Divorata dalla passione, non ebbe tempo ad altro. Visse in una continua febbre gli ultimi anni della sua vita, quelli cioè che avrebbero potuto darle la vera maturità dell’ingegno, la perfezione dello stile, il dominio della forma; e l’avrebbero fatta grande poetessa. E visse troppo poco.

Il Gaspary dice che se, come Veronica Gàmbara, fosse vissuta più a lungo, avrebbe certo fatto sparire una parte delle sue poesie.

Io non lo credo. Ella non pensò mai che il suo amore fosse un male, non se ne vergognò mai; e se si dice pentita dei suoi gravi errori, è a Dio che parla, non agli uomini.

Verso la religione poteva sentirsi colpevole, [p. 45 modifica](è colpa amare troppo, e più che Dio, una creatura umana) verso la morale, no.

Distinzioni assai comuni in quel secolo, e facilmente accolte da una tempra come quella di Gaspara!

Come tutti i malati d’amore, ella ama il suo male, e non vorrebbe guarirne.

Voi, che ad amar per grazia siete eletti,
non vi dolete dunque di patire,
perchè i martir d’amor son benedetti.

E poi, che vale ribellarsi al destino? Ella era fatta così, tutta fuoco, impeto, esaltazione, e lo sa benissimo.

Arsi, piansi, cantai; piango, ardo e canto;
piangerò, arderò, canterò sempre,

dice in un sonetto (XXVI) non bello, ma sincero, al solito. Il bel Collaltino aveva, fra l’altre sue doti, pur quella d’esser musico eccellente, e di cantare molto bene. Quando egli, pregato da lei, modulava qualche canzone amorosa, che a Gaspara pareva la voce della sua propria passione, ella dimenticava nell’estasi ogni passato affanno.

Chi non sa come dolce il cor si fura,
come dolce s’oblia ogni martire,
come dolce s’acqueta ogni desire,
sì che di nulla più l’alma si cura;

venga, per sua rarissima ventura,
solo una volta voi, Conte, ad udire....

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Troppo brevi momenti! Il biondo amatore, sempre più stanco di quelle fiamme, si allontana spesso, e ritorna al suo castello di S. Salvatore, sordo alle preghiere di Anassilla, che invano si lamenta e si rivolge alle luci di lui:

Quando fia che vi vegga un dì pietose
e duri la pietà vostra, e non manchi
tosto, come le lievi e frali cose?

O non fia, lassa! mai; o saran bianchi
questi crin prima; e quei sensi amorosi,
accesi or sì, saranno freddi e stanchi.

Ma egli la invita nel suo castello di S. Salvatore, (doveva essere nella primavera del 1549) e là, nella presenza dolce e continua dell’amante, fra le lusinghe della bella natura, e la libertà della campagna, Gaspara è nuovamente felice! Ella lascerà incisa in qualche scorza d’albero la memoria di tanta cortesia, quando sarà costretta a partirsi da quel luogo di delizie, e sente che la sua fiamma cresce ancor più e che

E ahimè! ella è pur costretta a ritornare a Venezia, dopo il breve soggiorno a Collalto, e a lasciarvi l’amante, il quale non ha potuto o voluto seguirla. Ella, in un sonetto, lo supplica almeno di esserle pietoso; ma non lo spera, dice, perchè troppo è avvezza a essere trattata con crudeltà. Egli le risponde, invitandola a [p. 47 modifica]darsi a un lavoro poetico serio e di gran mole, a un poema forse... Strano capriccio! Voleva egli forse così distrarre la mente di lei dal pensiero fisso di quell’amore che lo annoiava? La poveretta risponde: Se con tutto lo studio e tutta l’arte non posso neppure accennare quanto e quale sia il foco mio per voi, come potrei narrare in versi l’altrui voglie amorose e le altrui pene? E lo esorta a farsi egli stesso autore dell’opera che desidera; egli che ha stile, vena ed ingegno uguale al suo dire.

Intanto egli non ritorna. Perchè? Forse egli già ne preferisce un’altra; forse, mentre ella si strugge per lui, egli vagheggia una bellezza nuova, più gioconda, meno esigente della languida e ardente Anassilla. Ella lo sospetta; la gelosia turba il suo cuore, come le onde turbano quel mare, presso il quale essa porta i suoi lamenti (sonetto XL). Il bel conte, prepotente e tiranno con lei, che trova così remissiva, non contento di torturarla con la sua freddezza, le impone un modo di vivere riservato e solitario; pur amandola poco, egli prende ombra di tutto, e non vuole che nessun altro ammiri e lodi la donna che è sua. Ella sente l’ingiustizia di queste pretese; e si arrende, non senza amarezza.

Ma, perch’io son di foco e voi di ghiaccio,
voi siete in libertate, ed io in catena,
io son di stanca, voi di franca lena,
voi vivete contento, ed io mi sfaccio;

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voi mi ponete leggi, che a portarle
non basterian le spalle di Milone,
non ch’io, debole e fral, possa osservarle.

Seguite, poi che il ciel così dispone;
forse che un giorno Amor potrìa mutarle,
forse che un dì farà la mia ragione.


È una minaccia? Quell’essere di continuo disprezzata, quel vedersi in pericolo sempre nella sicurtà del proprio amore, insieme con la tirannica e fredda gelosia del Conte, non poteva non risvegliare in lei i sensi della sua dignità femminile oltraggiata. Già nel core incomincia a sorgerle un oscuro rammarico di ciò che ha fatto! Ella aveva sperato un’amica pace, ed ora si duole con Amore di non avere raccolto che affanni.

E mi trafiggi e mi consumi il core
col mezzo dell’orgoglio di colui,
che tanto gode, quanto altri si more.

Così, misera me, tradita fui,
giovane incauta, sotto fè d’amore;
e doler mi vorrei, nè so di cui.

Questa amaritudine, questo malcontento, che andava sempre più in lei soverchiando la felicità spasmodica dei primi tempi, ora le faceva notare, non senza rimpianto, che v’erano pur tanti ai quali ella piaceva, dai quali avrebbe potuto essere amata, e forse con uno di quelli [p. 49 modifica]avrebbe avuto maggior fortuna che col suo incostante signore. Amare un altro che lui ella non può più; ma questo ora l’affanna. Prossima ai trent’anni, l’età in cui le altre, le amiche sue, erano spose e madri, forse le sorgeva nel cuore il pensiero angoscioso che ella aveva mal collocato l’amor suo, che si era creata una vita di dolore, e aveva negata a se stessa la felicità vera, per sempre.

. . . . . . . . . . Egli mi fugge,
io seguo lui; altri per me si strugge,
io non posso mirare altra bellezza.

Odio chi m’ama, ed amo chi mi sprezza;
e verso chi m’è umíle il mio cor rugge.
Io sono umíl con chi mia speme adugge;
a così strano cibo ho l’alma avvezza!

Egli ognor dà cagione a nuovo sdegno,
essi mi cercan dar conforto e pace;
io lascio questi, ed a quell’un m’attegno.

Forse anche ingenua astuzia femminile, per eccitare la gelosia dell’innamorato? Poichè ella lo sa geloso, per puntiglio, per orgoglio, se non per amore. Ma le settimane e i mesi passano in queste alternative di gioia e di sconforto, facendosi però le gioie sempre più rare; e la povera Anassilla già sente i prodromi del male che doveva, pochi anni dopo, portarla alla tomba. Ella non può fare a meno di lagnarsene con lui, che la faceva tanto soffrire. [p. 50 modifica]

Mi converrà (e chi noi crede s’erra)
o viver sempre in guerra aspra e tenace,
o tosto tosto l’anima fugace,
lasciato il corpo, se n’andrà sotterra.

Voi, dice all’amato, rimarrete così senza un soggetto sul quale esercitare la vostra crudeltà, io invece ne verrò al fine a guadagnare,

chè, morendo un senza peccati suoi,
felicemente suole al ciel poggiare.

Era dunque persuasa di non commettere peccato amando! Forse pensava che le sue stesse sofferenze le sarebbero contate, per meritarle il paradiso. E qualunque cosa egli facesse per stancarla, ella non cessava mai quel suo amore sconfinato e doloroso; senonchè un nuovo tormento venne ad aggiungersi agli antichi; un dubbio così insopportabile, che non osa accoglierlo interamente in cuore. Corrono voci di guerra tra Francia e Inghilterra e si riattizza più violenta tra Francia e Impero; il bellicoso Enrico II, non contento di aizzare l’Europa contro l’antico nemico di suo padre, Carlo V, si ostina a rivolere Boulogne detenuta dagli Inglesi. Molti cavalieri italiani corrono in aiuto del re francese; l’ardore di guerra infiamma tutti gli animi avidi di novità e di gloria. Il bel Collaltino, che non è un pauroso, e si ripromette chi sa quali piaceri di valore e di galanteria, [p. 51 modifica]già parla anch’egli della possibilità di partire. Non è che una voce buttata là, per ora; ma la trepida anima della innamorata corre all’armi. Ella intuisce la sventura che la minaccia, e si turba per questa nuova angoscia.

Nel mezzo del mio cor spesso mi dice
un’incognita tèma: O miserella,
non fia il tuo stato gran tempo felice;

chè fra non molto potria sparir quella
luce degli occhi tuoi vera beatrice,
ed ogni gioia tua sparir con ella.

Solo in virtù delle lagrime che versa ella vive ancora. Se non avesse quello sfogo al suo dolore, il fuoco interno già l’avrebbe arsa e distrutta. Non ha più pace, la povera Anassilla; ella sente avvicinarsi il fine delle sue poche gioie. Il suo cuore tormentato non vive più che di pena; ella va volgendo e rivolgendo nella mente l’imagine del suo crudele signore, e con quella dolce esca mantiene vivo il suo affanno. Oramai la terribile cosa sta per accadere. Collarino partirà; è deciso; e in quei giorni crudeli ella non fa che piangere. Ma a che possono servirle, misera, le lagrime? Ella supplica disperatamente l’amante di rimanere ancora. Come il condannato a morte, ella implora la grazia di poche ore....

Deh, prolungate almen per alcune ore
questa vostra ostinata dipartita,
fin che m’usi a portar tanto dolore;

[p. 52 modifica]


perciò che a così subita sparita
io potrei della vita restar fuore,
sol per servire a voi da me gradita.


È inutile; il suo amaro destino non muta per i suoi pianti; l’ora si appressa, ed ella invoca disperata la morte. Le sarà meno acerbo il distacco; ella paventa più d’ogni cosa al mondo quel terribile momento.

Come potrà ella sopportare la partenza di lui, che è tutta l’anima sua? Quale ragione avrà ella di vivere, quando l’amor suo sarà lontano?

Chi mi darà soccorso all’ora estrema
che verrà morte a trarmi fuor di vita
tosto dopo l’acerba dipartita,
onde sin d’ora il cor paventa e trema?

Madre e sorella no, perchè la tèma
questa e quella a dolersi meco invita;
e poi per prova omai la loro aita
non giova a questa doglia alta e suprema.

Dunque non affetto di sorella o di madre potevano consolare l’afflitta donna! Certo dovevano essere poveri affetti. La figura di quella madre ci appare sempre più incolore, fredda; una donna che non seppe salvare sua figlia dal male, e non sapeva neppur sollevare ora l’anima sua dalla disperazione.

Poichè dunque la misera è senza conforto, che farà ella nella imminente sciagura? [p. 53 modifica]

Dunque io porrò queste terrene some
senza conforto alcun, se non di morte,
sospirando e chiamando il vostro nome.

È tornata la primavera, la stagione così dolce agli amanti; ma alla infelice Anassilla essa rinnova il lutto nel cuore. Oramai la guerra è scoppiata, Enrico muove contro il suo formidabile rivale; i campi, che la lieta stagione adorna di fior bianchi e vermigli, saranno, ahimè, tra poco inaffiati di sangue valoroso. Il conte di Collalto sta per partire.

O troppo iniquo e troppo ingiusto Amore,
a comportar che degli amanti stia
sì lontano l’un l’altro il corpo e il core!

Almeno l’amante si mostrasse più premuroso e gentile in quegli ultimi giorni! Egli potrebbe pur starle un po’ da canto,

perchè, se vi partite, ed io non prenda
prima vigor da voi, converrà certo
che a morte l’alma subito si renda.

Ella lo minaccia, che l’averla fatta morire sarà una macchia al candore dell’onore suo. Ma egli certo dovette sorridere di questa ingenua paura, e calmare le ansie di lei con giuramenti e promesse. Venne il giorno doloroso della partenza, e noi solo possiamo imaginare quanto fosse lo strazio, perchè la sventurata Anassilla tace su quei tormentosi istanti. La sua [p. 54 modifica]musa si acqueta in uno stupore doloroso. Ella non trova accenti per lagnarsi; i versi le sembreranno troppo freddi, indegni di esprimere un così alto dolore.

Dopo quei primi giorni di profondo sconforto si fa nell’anima sua una specie di reazione. Dunque davvero egli è partito. L’amor suo non valse a trattenerlo; è lontano, forse infedele. A che le serve tutto ciò che ha patito? a che la menerà quella sua passione? Gaspara fa delle riflessioni malinconiche sui casi suoi, e le pare opportuno ammonire le altre donne, che non si lascino, come lei, inveschiare così perdutamente d’amore.

Voi che novellamente, donne, entrate
in questo pien di tèma e pien d’errore
largo e profondo pelago d’amore,
ove già tante navi son spezzate;

siate accorte, e tant’oltra non passate,
che non possiate infine uscirne fuore,
nè fidate in bonacce o in seconde ôre,
che come a me vi fian tosto cangiate.

Sia dal mio esempio il vostro legno scòrto,
cui ria fortuna allor diede di piglio,
che più sperai esser vicina al porto.

Sovra tutto vi do questo consiglio:
Prendete amanti nobili; e conforto
questo vi fia in ogni aspro periglio.

Il sonetto è brutto; ma ha alcuni punti misteriosi, che lo rendono interessante. Che vuol [p. 55 modifica]dir Gaspara con quelle parole: che più sperai esser vicina al porto? Quale poteva essere questa speranza? In qualche promessa di lui di sposarla forse? È possibile. Ma nell’ultima terzina il consiglio: prendete amanti nobili, ha da esser preso sul serio? o non racchiude esso una profonda ironia? Non lo so, ma sono tentata di crederlo.

Intanto l’ingrato e oblioso amante lontano non scrive. La povera giovane gli manda la raccolta dei suoi versi, con una commovente lettera dedicatoria, piena di umile passione. Nulla ella vuole in compenso, se non un solo sospiro di lui; e piuttosto di consolarsi con un altro amore, ella preferisce morire per lui. Chi non s’intenerisce leggendo il sonetto, che accompagna quelle sue rime dolenti?

Deh, se vi fu giammai dolce e soave
la vostra fedelissima Anassilla,
mentre serrata sì che nullo aprilla,
teneste del suo cor, Conte, la chiave;

leggendo in queste carte il lungo e grave
pianto, a che Amor per voi, lasso, sortilla,
mostrare almen di pietà una scintilla,
in premio di sua fè non vi sia grave.

Ma Collaltino, tutto intento in Francia a faccende di guerra e di galanteria, non si cura punto di risponderle, onde Gaspara torna a disperare, a lamentarsi. Ella affida alle aure la sua pena infinita; esse la portino al suo signore [p. 56 modifica]

e ditegli con tristi e mesti accenti
che s’ei non move a dar soccorso al core,
o tornando o scrivendo, fra poche ore
resteran gli occhi miei di luce spenti.

Le pare che il mare, il lido, la campagna possano intendere le sue querele, e il suono degli acerbi suoi lamenti:

Io dico che dal giorno
che fece dipartita
l’idolo, onde avean pace i miei sospiri,
tolti mi fur d’attorno
tutti i ben d’esta vita,
e restai preda eterna de’ martiri.

L’idea della morte le si affaccia sempre più frequente; anzi il pensiero che potrà ritrovare in essa la pace perduta le fa invocare il sempiterno sonno. Mai, mai ella non s’acqueta; il suo piangere e il suo gridare non giunge là dove l’oblioso amante s’indugia.

In certi momenti se non di calma almeno di stanchezza, ella si contenterebbe pur di poco.

Deh, foss’io certa almen che alcuna volta
voi rivolgeste a me l’alto pensiero,
Conte, a cui per mio danno i cieli diero
sì da’ lacci d’amor l’anima sciolta;

l’acerba pena mia nel petto accolta,
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
i sospir, che in amor sola mi fero,
avrian tregua talora o poca o molta.

[p. 57 modifica]

Ma poi le sopravviene uno scoramento infinito, e un desiderio mesto:

Fa’ ch’io rivegga, Amore, anzi ch’io moia,
gli occhi, che di lontan chiamo e sospiro,
fuor de’ quai ciò ch’io veggo e ciò ch’io miro
con questi miei, mi par tenebre e noia.

E da lui non una parola! dopo tanti giuramenti, dopo tante promesse!

Questa è la gioia mia da voi sperata?
e questo è quel che voi m’avete detto?
questa è la fè che voi m’avete data? —

La fè, Conte, il più caro e ricco pegno
che possa avere illustre cavaliero,
come cangiaste voi presto e leggero?
. . . . . . . . . . . . . . . . .

Almeno gli occhi di lui non vedessero le bellezze femminili onde la Francia è piena!

Piuttosto la morte che questa certezza! Sommerso in alto pelago d’oblivione, alla sua Anassilla egli non ha degnato mai scrivere un verso! Ella è qui, «colma di desio», e non può che commettere all’aurora i suoi lamenti;

Qui, dove avvien che il nostro mar ristagne,
Conte, la vostra misera Anassilla,
quando la luna agghiaccia e il sol sfavilla,
pur voi chiamando si lamenta e piagne.
          
Voi, dove avvien che l’Oceàno bagne,
la notte, il giorno, all’alba ed alla squilla,
menando vita libera e tranquilla,
mirate lieto il mare e le campagne.

[p. 58 modifica]


E sì l’assenza e il poco amor v’invola
la memoria di lei, la vostra fede,
che pur non le scrivete una parola!


I ricordi delle gioie trascorse le fanno apparire più amaro il dolore presente.

Oimè, le notti mie colme di gioia,
i dì tranquilli e la serena vita
come mi tolse amara dipartita,
e converse il mio stato tutto in noia!

Quando il soverchio ardore la stringe, ella si sente tentata di usare contro se stessa la propria mano, per finire tanti lamenti con un unico dolore. E quando sarà morta, la compiangano almeno le donne, che conobbero la sua dolorosa passione:

E, poichè io sarò cenere e favilla,
dica alcuna di voi mesta e pietosa,
sentita del mio foco una scintilla;

Sotto quest’aspra pietra giace ascosa
l’infelice e fidissima Anassilla,
raro esempio di fede alta amorosa.

Infine la misera donna, stanca di pregare invano, si rivolge a Vinciguerra, fratello del conte di Collalto, che le si era mostrato sempre affettuoso e benigno. Oh, che egli le ottenga solo una parola del duro suo amante! Ed ecco il sonetto così commovente nella sua semplicità: [p. 59 modifica]

Signor, dappoi che l’acqua del mio pianto,
che sì larga e sì spesso versar soglio,
non può rompere il saldo e duro scoglio
del cor del fratel vostro, tanto o quanto,

vedete voi, cui so ch’egli ama tanto,
se, scrivendogli umíle un mezzo foglio,
per vincer l’ostinato e fiero orgoglio
di quel petto poteste avere il vanto.

Illustre Vinciguerra, io non desio
da lui, se non che mi dica in due versi:
Pena, spera ed aspetta il tornar mio.

Se ciò m’avviene, i miei sensi dispersi,
come pianta piantata appresso il rio,
voi vedrete in un punto riaversi.

E in un Capitolo deliziosamente elegiaco, ella prega ancora l’amante così:

Deh, dolce Conte mio, per quelle e queste
fra noi ore lietissime passate,
ond’io mi piacqui e voi vi compiaceste,

più lungamente omai non indugiate
a scrivermi due versi solamente,
se il mio diletto e la mia vita amate;

chè, non potendo veder voi presente,
il veder vostre carte darà certo
qualche soccorso all’affannata mente.

Infine — è forse per i buoni uffici del fratello, — l’ingrato Collaltino si decide a scrivere, e promette che tornerà presto. Ma la [p. 60 modifica]sorella, le amiche, che vorrebbero toglierle dal cuore quell’infelicissimo amore, la ammoniscono a non credere a quelle fallaci promesse. Ella è come una quercia urtata da contrari venti; non sa più che credere:

Or m’affidan le carte del mio bene,
or mi disperan poi le altrui parole.
Ei mi dice: Io pur vengo; altri: Non viene.

È in questi versi così spontanei che ella è più cara. Nei momenti di speranza, di fede rinata, quando dice con infinita tenerezza:

Egli è ’l dittamo mio, egli risana
la piaga mia, e può far la mia sorte,
d’aspra e noiosa, dilettosa e piana.

Son quasi sei mesi ch’egli è lontano. Nell’ultima lettera egli promise di tornare, o almeno di mandarle un messo con notizie certe di lui. Anassilla aspetta e non vede giungere nè il signore nè il messo. Nuova temenza le punge il cuore; che sarà accaduto? quale intoppo? Ah, forse egli non pensa a lei, l’assenza disgiunge il cuore di lui dal suo!

Poichè egli non viene, venga dunque la morte, a trarla fuori della vita amara!

Ma, ecco, quando più ella s’impazienta e si dispera, ecco finalmente l’annuncio del prossimo certo ritorno dell’amante. Ella non trova più sufficienti parole a dare sfogo alla sua gioia. [p. 61 modifica]

O beata e dolcissima novella,
o caro annunzio, che mi promettete
che tosto rivedrò le care e liete
luci e la faccia graziosa e bella;

o mia ventura, o mia propizia stella,
che a tanto ben serbata ancor m’avete,
o fede, o speme, che a me sempre siete
state compagne in dura, aspra procella!

Già ella pregusta nell’ardente fantasia il momento beato:

Con quai degne accoglienze, o quai parole
raccorrò io il mio gradito amante?
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Qual colore or di rose, or di viole
fia il mio? qual core or saldo ed or tremante,
condotta innanzi a quel divin sembiante,
che ardire e tèma insieme dar mi suole?

Oserò io con queste fide braccia
cingergli il caro collo, ed accostare
la mia tremante alla sua viva faccia?

Egli è tornato. L’esultanza della donna innamorata è immensa, e per la prima volta scevra d’ogni goccia di amaro.

Io benedico. Amor, tutti gli affanni,
tutte le ingiurie e tutte le fatiche,
tutte le noie novelle ed antiche,
che m’ai fatto provar tanti e tanti anni.

[p. 62 modifica]


Benedico le frodi e i tanti inganni,
con che convien che i tuoi seguaci intriche;
poichè tornando le due stelle amiche
m’hanno in un tratto ristorati i danni.


È l’amore che trionfa; anche il bel Collaltino è commosso, è vinto da tanta passione, da tanta fede. Egli si mostra nuovamente tenero, ardente; forse gli pare d’amarla ancora, di averla sempre amata. E Gaspara non si vergogna punto di rivelare al mondo la sua piena felicità. Il sonetto alla notte è certo dei più veri, dei più arditamente belli, che la poesia femminile abbia plasmato. È come un inno superbo all’amore:

O notte, a me più chiara e più beata
che i più beati giorni ed i più chiari,
notte, degna da’ primi e da’ più rari
ingegni esser, non pur da me, lodata;

tu, delle gioie mie, sola sei stata
fida ministra, tu tutti gli amari
della mia vita hai fatto dolci e cari,
resomi in braccio lui che m’ha legata.

Sol mi mancò che non divenni allora
la fortunata Alcmena, a cui ste’ tanto
più dell’usato a ritornar l’aurora.

Pur così bene io non potrò mai tanto
dir di te, notte candida, che ancora
dalla materia non sia vinto il canto.

[p. 63 modifica]

È un’ebrezza di gioia troppo grande, troppo pura perchè abbia a durare non turbata. Quale inquietudine nuova si viene a meschiare in queste sue rinnovate delizie? È pur vicina a lui, fonte di tutte le sue beatitudini;

tuttavia son si pronte all’affanno
le voglie mie ed a’ tormenti avvezze
di tanta assenza omai, che le allegrezze
ritornare a star meco più non sanno.

Ah, ora che egli è vicino si accorge di quanto è mutato, e come, cessato il primo fuoco, egli sia estraneo al suo cuore, freddo più di prima, e prorompe in un doloroso lamento:

Oh diletti d’amor dubbi e fugaci,
oh speranza che s’alza e cade spesso,
e nasce e more in un momento stesso;
oh poca fede, oh poco lunghe paci!

Quegli, a cui io dissi: Tu solo mi piaci,
è pur tornato, io l’ho pur sempre presso,
io pur mi specchio e mi compiaccio in esso,
e ne’ begli occhi suoi chiari e vivaci.

E tuttavia nel cor mi rode un verme
di fredda gelosia, freddo timore
di tosto tosto senza lui vederme.

Rendi tu vana la mia tèma, Amore!

È di nuovo primavera, quella, del 1550; quella che la giovane donna ha aspettato tanto, e [p. 64 modifica]

l’amoroso desir mio si rinfresca,
e la mia dolce pena e il dolce affanno.

Ella vuole amare ed essere felice. Collaltino è con lei, il bellissimo, amabile signore; è lui la sua primavera. Perchè dunque ella non godrebbe? Oh, pur non giunga a sì bel giorno sera! Purchè il bel tempo non si cangi in orrore! Egli parla già di partire ancora... Senza il crudele sospetto di rimanere nuovamente priva di lui, gioia somma, infinito, alto piacere le ingombrerebbe il petto, ora che parla col suo tesoro, ora che spesso lo vede.

Oh, se egli deve nuovamente lasciarla, ella vuol finire in un momento la sua misera vita, anzichè provare ancora un così aspro martire!

Oh, che giorni felici sarebbero quelli senza l’importuno sospetto! Ella sta sempre allato al suo signore, gode il lampo dei suoi occhi e il suono delle sue parole; le cose che dice lui sono divine:

Io mi miro sovente il suo bel viso,
e mirando mi par vedere insieme
tutta la gloria e il ben del paradiso.

Quel che sol turba in parte la mia speme
è il timor che da me non sia diviso;
che il vorrei meco fino all’ore estreme.

Il Conte, che pur fu lontano sei mesi dall’amata, senza curarsi di mandarle sue notizie, ora ricomincia a entrare in qualche sospetto [p. 65 modifica]di gelosia. Troppa gente conosce ella, a troppi scrive, troppo è ammirata... Ella protesta altamente. Oh, se egli le leggesse in cuore!

Voi più sicuro, e queta io più sarei;
voi senza gelosia, senza timore;
io di due sarei scema d’un dolore,
e più felicemente ardendo andrei.

I più dei critici pensano che egli fingesse gelosia per liberarsi di lei. Io non lo credo. Esiste benissimo la gelosia anche con poco o nullo amore. Collaltino voleva tutto dall’amante e nulla dare in cambio; ella doveva essere legata a lui; lui libero. Ma poichè egli vede che altri sorgono a cantare, celebrando l’ingegno e la bellezza di Anassilla, anch’egli si prova, e scrive un paio di sonettucci che sono ben misera cosa. Alla innamorata donna parvero mirabili, ed ella non rifinisce di ringraziarlo. Però, gli dice, io non son degna di essere cantata da voi, fuor che per l’amore smisurato che vi porto.

Ma perchè si compiace egli di tormentarla tuttavia? Ella potrebbe essere ora tanto felice, se il signore che ella ama e teme non turbasse la sua pace con qualche nuova e strana fantasia! Egli è crudele veramente; non ha un giorno il coraggio di confessarle che l’ama solo quando le è vicino, e quando è poi lontano non pensa più a lei?

[p. 66 modifica]prorompe allora la poveretta,

o tanti indarno miei sparsi sospiri!

Tutte ad un tratto ve ne porta il vento,
poichè dall’empio mio signore stesso
con queste proprie orecchie dir mi sento

che tanto pensa a me quando m’è presso,
e, partendo, si parte in un momento
ogni memoria del mio amor da esso.

Pure nessun disprezzo, nessun’offesa bastano a cancellarle dal cuore quello sciagurato amore. I tentativi di ribellione sono deboli e brevi. Si contenta di vivere temendo, in amara gelosia, purchè a lui non spiaccia la sua pena. Stentare per lui è più dolce che gioire per altri. Quando la gelosia la preme troppo, ella chiama a sè la speranza e la fede, per vincere la crudele nemica. Ma il suo bisbetico signore l’accusa di avere detto non so quali parole contro di lui.

Ella che lo ama tanto! Per convincerlo, Gaspara fa i giuramenti più solenni. Le sia per sempre tolto d’amare; non veda mai più l’adorato volto di lui; e gli uomini e la fortuna le siano avversi! No, ella non fece e non disse mai cosa meritevole dello sdegno di lui!

Il suo tiranno invece non vuole ascoltare giustificazioni nè a voce nè per iscritto; le proibisce anzi di scrivere; ciò le sembra strazio nuovo e non usato.

Intanto, dopo questi sdegni finti o veri, dopo [p. 67 modifica]tanti bisticci e gelosie, il signore ha lasciato Venezia, ed è ritornato al suo castello.

Gaspara lo segue col suo pensiero ardente, invidia il luogo dove egli si trattiene, e sopratutto si lagna, che, appena egli si è dipartito da lei, tosto cangi pensiero. Le aveva detto: ti scriverò subito, appena io sia giunto; e poi le ha mancato di parola.

Oh, i cari luoghi dove già furono felici insieme! ed egli non pensa di ritornare ancora!

Son passati otto giorni, a me un anno
ch’io non ho vostre lettre, od imbasciate,
centra le fe’ che voi m’avete date.......

Ella è pur talvolta stanca di tanti tormenti, e anela alla liberazione. Quando sarà il tempo in cui potrà dire a se stessa:

Or ti conforta, anima cara, or ridi,
or tempo è ben che godi e che riposi?

Ma quel giorno è ancora ben lontano! Ella implora le campagne, i colli, i prati, le selve, che le rendano colui ch’ella chiama.

Ditegli che la vita mia tramonta,
se omai fra pochi giorni, anzi poche ore,
il suo raggio a questi occhi non sormonta.

Ella è sempre con l’anima là dove è lui. Ora, pensa ella, caccerà, a cavallo, lepre o cervo per i boschi, o lo sparviero o il cinghiale; ora sarà [p. 68 modifica]intento allo studio; or mangia, or dorme, ora s’intrattiene piacevolmente con qualcuno. Benchè lontana, ogni azione di lui le è presente. Egli non la cura! Ebbene; tale è il destino.

A lui convien regnare, a me servire.

Egli è nobile e bel, tu brutta e vile.

I continui strazi l’hanno fiaccata. Ella è ridotta magra e fioca come l’eco. Oh, se egli potesse penetrare in lei, vedrebbe

. . . . . . . le pene dell’inferno,
un abisso infinito di dolore,
quanta mai gelosia, quanto timore
Amore ha dato o può dare in eterno.

Ella sente che la sua forza, la sua salute sono distrutte per sempre. Ha un breve intervallo alle sue torture, quando egli la chiama presso di sè. E Anassilla allora è presa da uno sconsolato desiderio di vivere con lui, sempre, in quella bella campagna, presso quei colli. A che andar procurandosi onori con stenti e fatiche? Sarebbe così dolce la vita là, loro due insieme, soli! Ma poco dura la sua dimora presso all’amato, e Gaspara ritorna a Venezia. Si ammala; sente la febbre arderle le vene; ripensa il bel nido, ove restò partendo, ove vive di lei la miglior parte, e stende sempre verso di esso l’ale del suo desiderio. E continua a effondere in [p. 69 modifica]malinconici sonetti l’amoroso affanno, e lo struggimento di vedere l’amato.

Così, in alternative di liti e di paci, di ritrovi e di abbandoni, passa tutto quell’anno. Quanto è stanca la poverina! Oramai ella non desidera altro se non o cessar di temere, o restar sciolta da quel faticoso amore, o quietare il corpo, sepolto in un bel marmo. I suoi timori vanno prendendo sempre più seria consistenza; non sono più vane imaginazioni, create dall’amor suo. Collaltino non si cura di nasconderle il nuovo pensiero che gli è venuto di prender moglie. A quella rivelazione la poesia di Anassilla prende ad un tratto una dignità nuova. Ella non smania più, non piange. Dice solamente sdegnosa all’infido:

Maraviglia non è, se in un istante
ritraeste da me pensieri e voglie,
che vi venne cagion di prender moglie,
e divenir marito, ov’eri amante.

Nodo e fè, che non è stretto e costante,
per piccola ragion si rompe e scioglie;
la mia fede, il mio nodo il vanto toglie
al nodo gordiano e al diamante.

Però non fia giammai che scioglia questo
e rompa quella, se non cruda Morte,
la qual prego, signor, che venga presto;

sì ch’io non vegga con le luci scorte
quello ch’or col pensiero atro e funesto
mi fa veder la mia spietata sorte.

[p. 70 modifica]

Del resto, la lena poetica di Gaspara si è fatta languida e stanca come il suo amore. In questo periodo risolutivo della sua vita le sue rime non vibrano più di quella disperata e dolce febbre d’una volta. Non si può sempre smaniare; alle più grandi scosse dell’animo segue necessariamente una calma, piena di amarezza e di stordimento. Ella sa che egli vuole partire ancora; noncurante altro che del piacer proprio e della propria gloria, egli correrà all’impresa di Parma, e non tornerà più presso Anassilla; ella lo prega solo di rimanere presso di lei quegli ultimi giorni. La primavera è ritornata ancora una volta; è l’ultima che Gaspara passerà col suo amante. Ella gli dichiara che non vedrà la sua partenza con occhi asciutti; non ha rinunciato ad amare e a soffrire; non vi rinuncierà mai. Il bel sire è a volta a volta nuovamente tenero con lei; è l’ultima elemosina d’amore che le dispensa. Gaspara l’accetta con riconoscenza, ma senza illusioni. Un orribile timore l’agghiaccia anche in mezzo a quelle ultime gioie, e le fa sempre desiderare la morte.

Che per certo io morrò lieta e contenta,
morendo sua, pur che non vegga io
ch’egli sia fatto d’altra donna, o senta.

Questa sol tèma turba il piacer mio,
questa fa che ai miei danni non consenta
e fa la speme ritrosa al desio.

[p. 71 modifica]

Con quella dignità accorata, che getta una luce così simpatica sulla sua dolorosa figura, Gaspara rappresenta all’amante ancora una volta il candore della propria fede, la sincerità del cuore, la gran riverenza, l’infinita voglia di servirlo, che sempre ella ebbe; ma poichè a torto egli prende a schivo il suo servire

ciò ch’a voi piace, paziente porto,
sperando pur che Dio, che tutto intende,
vi faccia un dì della mia fede accorto.

Or via! il momento della seconda partenza di Collaltino s’appressa. Gaspara sente che stavolta ella non deve più sperare nel ritorno. Apparecchia la sua anima a sostenere la perigliosa guerra di quel momento. L’altra volta, quand’egli partì, contro il dolore pur la faceva ardita un poco di virtù, che le veniva da una tenera speranza; ora anche questa le manca. Conviene dunque ch’ella mora.

Questo costante pensiero della morte che ritorna, lugubre ritornello, fra i suoi versi, potrebbe parere una affettazione, se non fosse suggellato dalla tragica realtà. Io penso che la debolezza fisica, in cui Collaltino partendo la lasciò, abbia domato la esaltazione di lei, così che ella non ricorse al suicidio.

Appena egli è lontano, eccola rinascere a una folle speranza. Egli l’ama forse ancora, egli tornerà. È necessario che egli sappia quanto ella sofferse alla sua partenza, benchè in quel [p. 72 modifica]momento gli occhi le negassero le lagrime. Egli non mancò di accorgersene e di moverle rimprovero

Signor, per cortesìa,
non mi dite che, quando andaste via,
Amor mi negò il pianto;
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
anzi, dite più tosto che fu tanto
in quel punto l’ardore,
che disseccò l’umore;
e non potei mostrare
l’acerba pena mia col lagrimare...

In altri madrigali dolcissimi ella spiega ancora, con commovente insistenza, quale sia la sua pena; quelle dell’inferno tutte insieme son nulla o poco, rispetto alla sua; e in un momento di tenerezza più tranquilla ella scrive per lui quel madrigale, che è un piccolo poema di grazia e d’amore.

Il cor verrebbe teco,
nel tuo partir, signore,
s’egli fosse più meco,
poichè con gli occhi tuoi mi prese Amore.

Dunque verranno teco i sospir miei,
che sol mi son restati
fidi compagni e grati,
e le voci e gli omei;
e, se vedi mancarti la lor scorta,
pensa ch’io sarò morta.

Ma dove, come dice il Gaspary, si manifesta in maniera ancor più perfetta la malinconica [p. 73 modifica]soavità dell’elegia, è nei Capitoli, specialmente in quei due rivolti all’amante, che guerreggia sotto Bologna, e nel primo, in cui descrive lo stato d’un cuore amante. Che cosa è dunque Amore?

Un cercar suo malgrado con affanno
quel che, o mai non si trova, o, se pur viene,
avuto, arreca penitenza e danno;

un nutrir la sua vita sol di spene,
un aver sempremai pensieri e voglie
di fredda gelosia, di dubbi piene;

un laccio che s’allaccia e non si scioglie
quando altrui piace; un gir spargendo seme
di cui buon frutto mai non si ricoglie;

una cura mordace, che il cor preme,
un la sua libertade e la sua gioia
e la sua pace andar perdendo insieme;

un morir, nè sentir perchè si muoia,
un arder dentro d’un vivace ardore,
un esser mesta e non sentir la noia;

un mostrar quei ch’uom chiude dentro e fuore,
un esser sempre pallido e tremante,
un errar sempre e non veder l’errore;

un avvilirsi al viso amato innante,
un esser fuor di lui franca ed ardita,
un non saper tener ferme le piante;

un aver sempre in odio la sua vita
ed amar più l’altrui, un esser spesso
or mesta or fosca, or lieta e colorita....

[p. 74 modifica]

Nel Capitolo mandato all’amante, a Bologna, ella si lagna mestamente dell’ambizione che lo induce a cercar in guerra onori, mentre avrebbe potuto rimanere con lei, e farla contenta.

Felice è quella donna, a cui gli dei
han dato amante meno illustre in sorte,
e men vago di spoglie e di trofei!

Ancora ella lo va richiamando notte e giorno; ancora egli è in cima di tutti i suoi pensieri. Anche stavolta egli ha promesso di scrivere presto, e anche stavolta l’ha dimenticato! Ella allora si rimprovera di non aver saputo impedire all’amante che partisse; o avrebbe dovuto partire con lui...

Oh, che vani lamenti! Nessuna preghiera più non farebbe che tornasse quel cuor ormai sazio di lei e pieno d’un’altra. Mentre ella si dispera e si sente morire di angoscia, Collaltino, in versi selvaticamente petrarcheschi, invoca l’amore di un’altra. Mentre Gaspara piange per lui, Collaltino piange, almeno in rima, per Elena, e la supplica di avere pietà del suo ardore. E per la sventurata Anassilla? Egli non ha più nemmeno un pensiero; o sono pensieri d’odio, di dispetto.

Certo egli parla di Gaspara nel Sonetto X, nel quale narra una sua visione, o un sogno. Gli par d’essere in amoroso e florido giardino, ove stanno le Grazie e gli Amori, ed egli è [p. 75 modifica]vicino al paradiso. Ma nel mezzo del cammino egli vede un serpe divorare i fiori! «Non so s’era sua colpa o di destino».

Quella visione gli fa temere che possa avverarsi,

sì ch’una donna instabile ed avara,
la qual non tenne mai dritto sentiero,
al fin non faccia la mia vita amara.

La povera Gaspara non può più a lungo ignorare l’infedeltà dell’amante, e se ne strugge. Ma ciò che è mirabile in un temperamento così ardente e appassionato, è la moderazione con cui continua a parlare del traditore; la mestizia rassegnata, che pervade ora tutti i suoi versi. Ella non impreca, non maledice, non accusa nessuno. Fu suo destino l’amare; non è colpa d’alcuno se l’amore le arrecò qualche gioia e e infinito dolore.

Così trascorrono i primi mesi di quell’anno (1551), il terzo e ultimo del suo sventurato amore, ed ella, abbattuta e vinta, giura a se stessa di non amar più, e si rivolge a Dio, sperando con fede sincera di trovare qualche conforto nella religione, ora che ogni consolazione terrena le manca.

Il Pèrcopo, nella «Storia della letteratura italiana dalle origini ai giorni nostri (Wiese e Pèrcopo)» dice a questo proposito che Gaspara Stampa «finisce poi come tutti i petrarchisti, col darsi all’ascetismo». [p. 76 modifica]Il giudizio mi pare severo. Chi muore a trent’anni non finisce col darsi all’ascetismo! Era in Gaspara un bisogno innato di amare fortemente, di esaltarsi, di patire. Esaurito l’amore, per mancanza di nutrimento, ella cerca affannosa in Dio, sperando di trovare sfogo non pericoloso all’ardore che pur la consumava. Perchè ora diffida dell’amore; è come il naufrago, che, uscito fuor dal pelago, teme l’onda, e non osa avvicinarsi.

Poichè m’hai resa, Amor, la libertade,
mantienmi in questo dolce e lieto stato!

Nei sonetti religiosi l’imitazione petrarchesca è sensibile, pure v’è uno spirito nuovo in essi; un doloroso ardore, un impeto supplichevole di umiltà desolata.

Cancella queste piaghe d’amor vano,
che m’hanno quasi già condotta a morte,
pur rimirando un bel sembiante umano.

Aprimi ornai del regno tuo le porte,
e per salire a lui dammi la mano,
perchè a ciò far non giovano altre scorte.

Parecchi di questi sonetti hanno una chiusa altissimamente poetica, come quello tenerissimo che finisce:

Tu volesti per noi, Signor, morire,
tu ricomprasti tutto il seme umano;
dolce Signor, non mi lasciar perire!

[p. 77 modifica]Nel quale la misera si rivolge a Dio con una fiducia quasi infantile, che ci fa fremere di commozione.

E quale terzina fu mai più perfetta di questa, che chiude il LVI sonetto, dove l’altezza del concetto si fonde in un appassionato appello, in un cupido desiderio di dissolversi, di bruciare solo in Dio? Sono versi fatti di fiamma:

Nel petto mio, ricetto d’ogni errore,
entra col foco tuo vivo ed ardente,
e, spento ogni altro, accendivi il tuo amore.

Forse alle anime sentimentali piacerebbe più, che ella, tutta assorta in quel suo primo fatale amore, passasse così, ombra dolente, senza provare più altro sentimento umano. Invece dai suoi versi appare che un secondo amore le tenne l’anima occupata un’altra volta, poco tempo dopo l’abbandono crudele di Collaltino. Dobbiamo meravigliarcene? Oltre ad essere un fatto abbastanza comune ed umano, esso è spiegabilissimo, dato il temperamento di Gaspara e il mondo nel quale viveva. La sua fama era negli ultimi anni cresciuta altissima; ella era lodata e ammirata; il suo amore infelice le aveva cinto la fronte di nuova aureola. Aveva amici e adulatori, ognuno dei quali avrebbe voluto essere scelto per consolare l’abbandonata. I più chiari ingegni avevano con lei corrispondenza, come appare da molti suoi sonetti dedicati [p. 78 modifica]familiarmente all’Alamanni, a Venier, a Sperone Speroni, allo Zanni, al Molino, al Bonetto, al Micheli, al Balbi, al Priuli, al Soranzo, che le erano tutti larghi di lodi in prosa e in versi e di affettuosa amicizia.

Un certo Guiscardo, nobile e dotto, le manifestò allora insistentemente il suo amore. Chi era costui? Giulio Reichenbach, in un dotto e geniale suo studio, afferma con buoni argomenti essere egli stato Giovanni Andrea Viscardo, bergamasco, amico di Torquato Bembo, elegante poeta in latino e volgare, cortigiano e filosofo; uomo di principi austeri e di casta vita, e morto nel 1607, più di cinquant’anni dopo che la povera Anassilla riposava nella sua tomba. È assai probabile, se non certo, che il Viscardo, o Guiscardo, abbia conosciuto Gaspara a Venezia, nel ridotto di Domenico Veniero, ch’egli frequentò assiduamente e di cui Gaspara era la più fulgida stella. Certo egli la conobbe prima ancora che ella amasse Collaltino; forse egli l’amò allora in silenzio, e nulla ne seppe Anassilla. Fu necessaria la tempesta e la rovina perchè ella si accorgesse del modesto, serio e pacato amatore.

Il pensiero di amare ancora, dapprima la spaventa, poi la stupisce; infine le pare cosa possibile, ed ella si lascia un’altra volta cullare nella dolce musica delle proprie parole, e saziare dalle proprie fantasie. «Vi amerei», ella dice, «se non avessi al cor già fatto un callo». Le pare anzi che questo secondo amore sia per [p. 79 modifica]essere più forte del primo. Ma, ahimè, povera Gaspara! come amò lei, non si ama che una volta sola, con quella forza, con quella foga impetuosa, con quell’onda tutto travolgente!

Questo secondo amore non è che un pallido riflesso del primo; è un’illusione della sua fantasia, un mobile e lucido fantasma creato dalla imaginazione, ma non avvivato nè dal cuore nè dal senso. L’anima sua oziosa, cui non davan pascolo bastante nè le esaltazioni religiose nè le glorie poetiche, si sforzò a foggiarsi un nuovo obbietto, da contemplare e da adorare.

Ma come sono fredde le espressioni con le quali accenna, prima la possibilità, poi la certezza di amare ancora! come sbiadita la figurazione ch’ella ci dà del suo nuovo innamorato! Che differenza tra i sonetti che dedica a lui, e quelli che furono per il conte Collaltino! Questi aveva vita, riso, imperio, bellezza; quello nuovo non è che un fantoccio inanimato.

Povera Anassilla! ella si affanna a ricercare le parole e le rime, che diranno il suo nuovo fuoco, più vivo e maggiore dell’ardore estinto; il qual risorge dalle ceneri come la fenice arsa; e a lodare le molte virtù di questo secondo innamorato, che è sì perfetto, pieno di grazie, di cortesia e di beltà.... Come riesce artificiosa e stentata! come è penoso questo sforzo della povera anima! Ella non ama più, no; e non sarebbe possibile amar come prima.

Se non fosse morta, consunta da quel foco [p. 80 modifica]implacabile, può ben darsi che, unita a questo Guiscardo o ad un altro uomo serio e calmo, che veramente le avesse voluto bene, Gaspara avrebbe trovato, con l’età matura, la pace e l’affetto sereno. Ma l’amore che le dettò le folli e dolci rime, quel sentimento giovanile, prodigo di se stesso, dolcissimo, ardente, inquieto, tenero, vibrante, che scaturisce ancora nella prima parte dei suoi versi, chi potrà più ridarglielo, misera Anassilla? Essa l’ha speso tutto, regalmente, in una volta sola; non le rimane più a donare che un tiepido affetto, col quale tenta trastullare la sua anima malata.

Si dice, un po’ brutalmente, da qualche suo biografo: Gaspara Stampa si diede ad un altro amante.... Ebbene, ciò non è esatto; non risulta punto dai suoi versi, e non sarebbe psicologicamente giusto.

La prima volta ella ama con tutta se stessa, con l’interezza di una giovane donna, che crede di darsi per sempre, e non misura il suo dono. E si vanta anzi, davanti al mondo e davanti a Dio, di appartenere a colui che ama. Questa volta ella è piena di scrupoli e di restrizioni. Ella si affretta ad avvertire subito il nuovo innamorato.

Tanto ho di voi non più le voglie accese,
quanto permette onore ed onestade.

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Prima ella non si curò mai dell’onore e dell’onestà; e non le parve di perderli quando si abbandonò a Collaltino!

Ma in questa nuova artifiziosa ebrezza dell’anima, ella non dimentica mai quel primo terribile e soave amore, che ancora vive in lei, e che morrà, fra non molto, con lei.

Si avvicina il Natale; è il tempo in cui ella conobbe Collaltino; in cui balzò di amore, al primo suo sguardo. Ed ecco riaprirsi l’antica ferita; ecco riapparirle il passato, con tutta la sua forza e trascinarla agli antichi pensieri.

Io non veggo giammai giunger quel giorno,
ove nacque Colui che carne prese,
.     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     
.     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     

che non mi risovvenga il modo adomo,
col quale, avendo Amor le reti tese
fra due begli occhi ed un riso, mi prese,
occhi, che or fan da me lunge soggiorno,

e delle antiche ancor qualche puntura
io non senta al desire ed al cor darmi;
sì fu la piaga mia profonda e dura.

E, se non che ragion pur prende l’armi
e vince il senso, quest’acerba cura
sarebbe or tal che non potrebbe aitarmi.

Seguono poi altri sonetti, nei quali Gaspara cerca di convincersi che ella sta per nuovamente innamorarsi, anzi che è già innamorata. [p. 82 modifica]Non sono che schermaglie di parole, che nascondono l’indifferenza del cuore. Di tanto in tanto, ella è ricondotta a parlare di quello che fu e sarà il suo pensiero dominante, e allora ritrova accenti di una sincerità profonda.

La piaga, ch’io credea che fosse salda
per la omai molta assenza e poco amore
di quell’alpestre ed indurato core,
freddo, più che di neve fredda falda,

si desta ad ora ad ora e si riscalda,
e gitta ad ora ad or sangue ed umore,
sì che l’alma si vive anco in timore,
ch’esser dovrebbe omai sicura e balda.

Nè, perchè cerchi aggiunger nuovi lacci
al collo mio, so far che molto o poco
quell’antico mio nodo non m'impacci.

Si suol pur dir che foco scaccia foco;
ma tu, Amor, che il mio martír procacci,
fai che questo in me, lassa! or non ha loco.

Potrebbe rivelare più chiaramente il suo cuore? Ma il nuovo innamorato incalza, ed ella pure sarebbe lieta di amare, ella si sforza sinceramente di amare! Ma come si può comandare al cuore? e a un cuore come il suo? Difatti ella parla del nuovo amante, e ripete a lui e a se stessa tutte le espressioni d’amore, che le sembrano corrispondere al sentimento che desidera avere, ma non può stare mai senza richiamarsi alla memoria il primo amato, non fosse che per dirsi che non l’ama più! [p. 83 modifica]

Il vivo foco, ond’io arsi e cantai
molti anni, appena è spento....

Esser nel laccio avviluppato e preso
ov’io sì stretta ancor legata fui....

A mezzo il mare, ch’io varcai tre anni
fra dubbi venti, ed ero quasi in porto,
mi ha ricondotta Amor....

L’innamorato Guiscardo si affanna a dichiararle in versi l’amor suo, come era uso tra i raffinati ingegni del tempo, e Anassilla non è indifferente a questi poetici omaggi, che dovevano lusingare per tante ragioni la sua vanità femminile. Ella lo ringrazia e lo loda di ciò, e lo assicura che è volta ad amarlo e ad onorarlo per la sua cortesia; ma subito, per tema ch’egli pretenda troppo, aggiunge prudente:

Ma con quel solo e non altro desìo,
che prescrive onestade, e che conviensi
al voler vostro (?) ed allo stato mio;

perchè l’amar con questi frali sensi
è amor breve, e spesse volte è rio,
che n’ancide la strada, onde al ciel viensi.

Ah, quando amava Collaltino, Gaspara non ragionava così! non ragionava nè punto nè poco; amava. Ora quello che le era stato già così dolce, le ripugna; e cela la sua ripulsione sotto argomentazioni sottili. [p. 84 modifica]

Così nel sonetto XXXVIII, nel quale cerca di far apparire tutte le qualità di Guiscardo, vantandone il felice ingegno, il raro valore, il vago stile, la cortese cura che ha di lodar lei, e sopratutto quell’amor, che tanto egli mostrava di averle, e che move l’amato, (e doveva essere cosa nuova quasi per lei, avvezza alla noncuranza di Collaltino!) «Son, dice ella, tutte cagioni che inducono una donna ad amare,

La si direbbe ipocrisia in altra donna, ma Gaspara sappiamo che non è ipocrita! Se ella avesse di nuovo amato, come la prima volta, lo avrebbe gridato trionfante al mondo; ne sarebbe lei stata per la prima felice! Ma è inutile! non può più. Quello era un tessuto magnifico, ordito dal senso, dalla fantasia e dall’affetto; questa è una misera ragnatela, messa insieme dal desiderio di illudersi, dal bisogno di vivere e dalla imaginazione!

Sentite come risponde sempre alle infiammate dichiarazioni di lui:

con quel desio, che sì fervidamente
spiegate in carte, che di me vi prende,
si viva fiamma nel mio core accende
che alla vostra è minor o poco o niente.

È ben ver che il desio, con che amo voi,
è tutto d’onestà pieno e d’amore,
perchè altramente non convien tra noi.

[p. 85 modifica]

Il povero innamorato non doveva farsi nessuna illusione! ed è forse per questo che egli accettò di andare a Monaco, alla cui corte era stato proposto dal gravissimo Fortunio Spira. Continuò la corrispondenza fra Guiscardo e Gaspara? Non credo; almeno non ne ho trovato alcnna traccia.

Ma oramai della bella, brillante, decantata Anassilla non rimaneva più che l’ombra! Il suo infelice amore aveva consumato ogni sua forza; la sventurata si moriva di languore,

come tenero fior tocco dal gelo.

Si sparse la voce allora, e durò il sospetto anche dopo, che il perfido Collaltino, per sbarazzarvi definitivamente di lei, l’abbia fatta avvelenare. Ma nessun documento prova l’orribile accusa, onde, per onore dell’umanità, è meglio non credervi. Il veleno c’era, sì, e propinato da lui: l’inguaribile amore, che le intossicò le vene, e le prostrò le forze dell’anima e del corpo. Veniva, finalmente, la morte già tanto invocata!

Le apparve ancora una volta, nelle tristi fantasie della febbre, l’imagine viva del suo bel signore, così come l’aveva tanto ardentemente ammirata, e cantata nei brevi giorni felici? Tornò con la fantasia al lieto colle, ai campi, alle selve, al fiume, donde aveva tolto il suo poetico nome; ai luoghi dove era stata ebra d’amore, con lui? Il terribile ritornello mai più, [p. 86 modifica]mai più, doveva suonarle lugubre nella mente; il disperato pensiero che tutto quello era stato e più non sarebbe!

O piuttosto le scese nel petto martoriato un blando soffio di misericordia, da quel Crocefisso che implorava con così tenera pietà?

Aveva trentun anni quando chiuse finalmente la sua travagliata esistenza. Aveva conosciuto Collaltino nell’inverno del 1548; ne era stata abbandonata nella primavera del 1551; e nel 1554 era morta.

Sulla sua tomba avrebbero dovuto porre il commovente epitaffio, che ella aveva scritto durante il tempo del suo dolce e tempestoso amore:

Per amar molto ed esser poco amata
visse e morì infelice, ed or qui giace
la più fedele amante che sia stata.

Pregale, viator, riposo e pace,
ed impara da lei sì mal trattata
a non seguire un cor crudo e fugace.