Gaspara Stampa (1909)/I
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ad Arturo Farinelli.
I.
e guardo alla distanza di quattrocento anni quel secolo gaio, brillante, magnifico, che fu il Cinquecento, vedo venirmi incontro, con incesso di dèe, tutto quello stuolo femminile, che irradiò la propria grazia, la bellezza e l’ingegno su quel quadro sontuoso, e oggi ancora ne forma la principale attrattiva. Mai la donna ci appare più affascinante e più adorata; mai tenne con maggior grazia e facilità lo scettro dei cuori! Come fu diversa dalla mistica angiolella dantesca e dalla sensuale Fiammetta! e come sarà diversa da lei l’agghindata dama del Seicento, spagnolescamente bacchettona e corrotta, e l’incipriata pastorella arcadica, col suo seguito di belanti Tirsi e Alfesibei!
Certo nel Cinquecento la donna è ben lontana da quell’ideale di femminilità cosciente e libera, che noi nel ventesimo secolo sognamo; pure vi è in essa una forza, una capacità così schietta e sana, una esuberanza di vita e un ardore di godimento e di dominio, che ci riempiono di ammirazione e di stupore.
Peccato che la storia e la poesia ci abbiano tramandato quasi solo i nomi delle illustri dame e cortigiane! Ma come doveva essere pur larga, serena e conscia di se stessa quella borghesia così ricca, rotta ai commerci e alla politica, e non ancora guasta dai gesuiti e dai principi! Mancavano, è vero, le scuole popolari, vanto dell’età nostra; nè sappiamo quale e quanta fosse l’istruzione, solita a impartirsi alla donna delle classi medie (la plebe fu per lungo tempo tenuta lontana da un campo troppo pericoloso e costoso!); pure, essa non fu esclusa dai benefizi della coltura. Olimpia Morato, colei che fu chiamata pomposamente, come l’antica Saffo, la decima Musa, era una modesta popolana, e anzi di così disagiata fortuna, che ella fu spesso, nella sua prima giovinezza, costretta a alternare la lettura di un canto di Virgilio con la cura della pentola casalinga. È vero che la Morato visse alla corte di Ferrara, e gran parte del suo lustro le venne dalla brillante compagnia, con la quale passò i suoi anni più belli; tuttavia la considerazione in cui fu tenuta, gli onori di cui venne colmata questa poetessa borghese, attestano quanto profonda fosse nel Cinquecento la convinzione dell’uguaglianza della capacità intellettuale dei due sessi. E, forse, senza lo spagnolismo del servile secolo successivo, la donna italiana avrebbe potuto assurgere a una dignitosa e conveniente parità di diritti anche nel campo sociale, solo che avesse saputo conservarli nel campo letterario e scientifico.
Il nobile Castiglione, nel suo Cortegiano, esprime abbastanza nettamente quale fosse l’ideale del femminismo al suo tempo. Pure compiacendosi della donna educatrice dei propri figliuoli, saggia nel governo della casa e delle sostanze sue e del marito, egli la considera pari all’uomo, avente diritto a una istruzione profonda, alla conoscenza delle arti belle, delle scienze, delle lettere. Ma la vuol pure cortese e arguta, senza vanità, s’intende, nè leggerezza; dotta nel piacevole conversare, nel vestire con eleganza, nel ballo, nella musica.
A ciò il signor Gasparo allora ridendo risponde:
«Maravigliomi pur che poichè date alle donne e le lettere, e la continenza, e la magnanimità, e la temperanza, che non vogliate ancor che esse governino la Città, e faccian le leggi, e conducano gli eserciti; e gli uomini si stiano in cucina o a filare.
Rispose il Magnifico pur ridendo: «Forse che questo ancora non sarebbe male».
E veramente le donne attinsero allora la stessa coltura classica dall’Umanesimo che gli uomini; e la scienza, che si avviava a gran passi sulla via dello sperimentalismo, ebbe pur essa appassionate seguaci, come la famosa Cecilia Gonzaga, cui fu maestro il grande Vittorino da Feltre, come Cassandra Fedele e altre meno note.
Certo «le dolcezze del lusinghier Parnaso» attiravano anche allora le donne più volentieri che le aspre fatiche dell’erudizione; onde il numero delle rimatrici e delle poetesse è assai maggiore di quello delle scienziate.
Che folla brillante di dame e di donzelle fanno a gara per dare la scalata all’Olimpo! Ecco le principesse, le marchese e le nobildonne: Giulia Gonzaga, Isabella d’Este, Costanza d’Avalos, Vittoria Colonna, Claudia della Rovere, Ottavia degli Scaranelli, Maddalena Pallavicini, Gaspara Stampa, Veronica Gambara. Ecco lo stuolo delle borghesi non minore di numero: Chiara Matraini, Leonora Palletta, Laura Terracina, Lucia Bertana, Virginia Salvi, e altre assai...
Ed ecco finalmente le cortigiane, che come le antiche etère sapevano la musica, la danza, il canto, e coltivavano spesso le arti belle e la poesia: la bella Imperia, Veronica Franco, Camilla Pisana e specialmente Tullia d’Aragona, la quale in Ferrara contende la palma della lirica alla nobile e pudica Vittoria Colonna, e che è il tipo più spiccato di quella singolarissima schiera. Non bella, almeno a giudicare da ciò che ne dice il Giraldi, anzi, di statura troppo grande e sgraziata, con larga bocca, lungo naso e labbra sottili, come mai la cortigiana potè affascinare così stranamente i più eletti uomini fra i suoi contemporanei? Era virtù dei suoi fulgidissimi occhi, ai quali nessuno poteva resistere, o del suo vivo ingegno, che la faceva eloquente come Cicerone e soave come il Petrarca?
E che strano mondo era quello, che celebrava una cortigiana non già per la bellezza sua e per le seduzioni muliebri, ma piuttosto per le sue doti intellettuali, che la facevano non solo amare, ma sinceramente stimare, da uomini e donne di buoni costumi?
Questa donna singolare, inscritta nel 1549 nel libro della Tassa delle cortigiane, scriveva dei versi platonici. E quello che è più strano, i poeti che cantavano di lei, non si esprimevano altrimenti, che nel più puro stile petrarchesco.
«Ogni basso pensier spento in noi giacque, |
Così le parla Ercole Bentivoglio.
E il Molza, uomo di vita punto platonica, nel sonetto che comincia «Spirto gentil che riccamente,» esorta il nobile, chiaro intelletto di Tullia a che
«sempre guardando a la più bella parte |
Gli stessi inviti a un amore puro e celestiale le rivolgeva pur Girolamo Muzio nel sonetto Donna che siete in terra, ec.
Che dobbiamo noi pensarne? Ipocrisia da parte di quei signori poeti, o andazzo del tempo, che aveva risuscitato il petrarchismo, o concetto morale profondamente diverso da quello che è di moda oggi? Chi lo sa! Forse tutte queste cose insieme.
Poichè è noto che Girolamo Muzio fu per molti anni l’amante ufficiale di Tullia, e se ne vantava in prosa e in versi.
Durante il tempo che Bernardo Tasso passò a Venezia, lontano dalla sua dolce e sfortunatissima Porzia, è pur certo che egli si consolò della vedovanza corteggiando la famosa etèra; e non sappiamo fino a che punto l’autore dell’Amadigi restasse contento al platonismo.
La penna stessa dei suoi ammiratori ci narra infinite altre vergogne di Tullia, e la sua vita non è punto diversa da quella delle mondane del tempo nostro.
Eppure nel celebre Dialogo dell’infinità d’amore, la cortigiana dichiara essere infinito solo quell’amore, che non raggiunge mai compiutamente il suo scopo; ed esprime, con grande sfoggio di filosofia aristotelica e platonica, le stesse idee che appaiono già nelle sue Rime. Onde il Bongi dice:
«Per questi due libri gemelli, le Rime e il Dialogo, dove apparisce Amore scevro di carnalità, il nome di Tullia dovette parere come purificato, e forse a tal fine i migliori amici ne suggerirono a lei la pubblicazione».
Sta bene, per i suoi migliori amici; ma gli altri che pensavano di queste dichiarazioni platoniche, uscenti da tale bocca? Pure v’è di meglio.
Nel suo rifacimento in ottave del popolare romanzo Guerino detto il Meschino, Tullia deplora che la letteratura indecente corrompa gli animi; e biasima l’opera del Boccaccio, dell’Aretino e persino dell’Ariosto!
Che strane contraddizioni nella psiche di una cortigiana!
È pur vero che doveva esserci in lei un senso di vergogna per la vita, nella quale la sua stessa madre l’aveva infamemente iniziata. Nel 1543 Tullia prese marito; sposò un giovane di famiglia eccellente, che da un pezzo l’amava, e aveva persino voluto morire per lei. E forse ella tentò di essere moglie virtuosa, e di riabilitare il passato. Ma questo le restava pur attaccato addosso come la camicia di Nesso! A Firenze, nel 1547, il magistrato le intimò di uniformarsi ai decreti che stabilivano una divisa particolare per le cortigiane, e specialmente di portare in capo o sul petto la lista gialla, che le distingueva dalle oneste, e le segnava pubblicamente con marchio d’infamia!
Tullia ricorse alla duchessa Eleonora, moglie di Cosimo, pregando le fosse risparmiata quella vergogna. E il duca le concesse la grazia come poetessa; onde per riconoscenza Tullia dedicò a lui il suo Dialogo, e alla duchessa le sue Rime. E la dedica fu bene accolta, senza che nessuno pensasse a scandalizzarsene.
Nè il matrimonio, nè la maternità la salvarono. Ella tornò alla vita splendida e spensierata di prima. Nella sua casa, assai ricca, convenivano letterati e signori; amanti platonici e... altri. Ma oramai la luminosa parabola della sua vita era compiuta, e declinava rapidamente verso le tenebre.
Morì abbandonata, in casa di un oste in Trastevere. Nessuno dei suoi innumerevoli ammiratori la pianse; l’aureola si era dileguata dalla fronte della poetessa; la bella farfalla aveva perduto la polvere d’oro delle sue ali; il suo cadavere non era quello di Saffo, ma di una cortigiana volgare.
Così tramontò colei, della quale fu detto:
«Dio fece quaggiù Vittoria una luna e Tullia un sole!», ecclissando così la fama della divina Colonna.
Del resto, stando alle iperboliche lodi che signori e poeti spendevano intorno alle letterate di quel secolo, esse ci appaiono tutte come una teoria luminosa. Assai diversa è l’impressione quando leggiamo, di ciascuna in particolare, le vantate liriche, straordinariamente uniformi; tutte egualmente tinte di quel colore grigio-azzurrognolo, che dal Petrarca in qua ebbe la poesia amorosa italiana, specialmente la femminile. È anche notevole il fatto che delle innumerevoli rimatrici del Cinquecento, una quantità di nomi piuttosto scarsa sia giunta sino a noi.
Si vede sempre ricordata quella Barbara Torello, cui fu ucciso il marito pochi giorni dopo che l’ebbe sposato. Si cita di lei un sonetto con finale realmente bello, dato il tempo e il linguaggio poetico in voga. Ma se ha scritto quel sonetto, non può essersi fermata lì. Dunque realmente si è stati poco diligenti nell’accogliere, fra i tanti scrittori di versi, le scrittrici.
Perchè?
Pure il senso cavalleresco non mancò negli uomini, che le lodarono assai, anzi troppo!
Fu forse un segreto velato disprezzo maschile verso quel nugolo di poetesse, alle quali si tributavano incensi in forma di lodi letterarie, per acquistarne la grazia, ma senza che la convinzione del loro merito fosse nel cuore degli ammiratori?
Questione di moda, dunque?
Conquistarle, quelle donne, o belle o potenti, era pur necessario, come è sempre stato. E poichè le cinquecentiste non si contentavano più di sentir lodare il crin d’ebano o d’oro, e l’avorio delle guancie polite, ma volevano essere credute dotte e intelligenti e amiche delle Muse, la docilità maschile (calcolo o viltà) si piegò subito a compiacerle. Onde le iperboliche adulazioni, gli encomi senza fine, gli epiteti di immensa, di gloriosa, di divina, donati largamente all’ingegno, poichè così si voleva dal codice nuovo che le donne avevan fatto.
Ma gli uomini, io penso, ci credevano poco, e quando la poetessa era scesa nella tomba, e nessuna attrattiva più di favori incatenava la schiera dei turibolanti, ecco dileguarsi l’ammirazione, e spegnersi la gloria che pareva imperitura.
Eppure, se si legge con occhio acuto e non malevolo quella caterva di rime petrarcheggianti sgorgate dalle penne femminili del Cinquecento, qualcuna pur ve n’ha che apre l’adito a considerazioni non volgari su quelle note artificiose e scolorite. Sprazzi d’anima si rivelano qua e là; qualche piccolo brano di cuore, qualche sentimento sincero. Non osavano rompere i lacci del gusto comune, affermare una personalità spiccata, dire schiettamente quello che pensavano, e attingere alla fonte del vero.
Parole, parole, parole! anche quelle della divina Vittoria. Una sola fu grande, e sarebbe stata grandissima, se il fantasma del Petrarca non le avesse ogni tanto tenuta la mano. E questa fu Gaspara Stampa.
Nelle altre manca, in genere, la nota schiettamente personale. È vero che Francesco Flamini dice che «le rime di Vittoria Colonna non si possono confondere con quelle degli uomini, perchè hanno qualche cosa nel tono e nei sentimenti che le distinguono». Ma propria e sincera femminilità non v’è.
Amò ella veramente quel Don Ferrante d’Avalos, che dalla storia ci appare solo una losca figura di traditore, mentre ella nei suoi sonetti lo celebra come un eroe?
Chi lo sa! Certo erano giovani e belli entrambi; la fortuna li colmò delle sue dovizie; vissero insieme i primi tre anni del loro matrimonio a Napoli e ad Ischia, cioè nel paradiso del mondo. Quale meraviglia che la giovinetta sposa abbia bevuto avidamente allora alla coppa dell’amore; e quando questa le fu strappata dalle labbra, abbia conservato inconsolabilmente il cocente ricordo delle delizie perdute? La figura del giovane marito, morto lontano da lei, dovette idealizzarsi nel suo cuore di donna squisita; e ogni giorno le crebbe il rimpianto di averlo perduto. La fantasia amorosa ingigantiva in lei il ricordo delle doti morali e fisiche dell’amato; i difetti o li dimenticò o non ebbe tempo di scoprirli.
A poco a poco l’anima sua, compiaciuta in queste rievocazioni del passato, si avvezzò ai propri affetti in modo che non le fu più possibile nè pensare nè esprimersi altrimenti. Come nel Petrarca l’amore per Laura così in Vittoria Colonna il ricordo del marito diventa una forma psichica convenzionale; un dolce allacciamento, dal quale il poeta nè può nè vorrebbe districarsi.
Onde al canzoniere di Vittoria deriva quella monotonia, che, priva dell’arte onnipotente del Petrarca, stanca, a lungo andare, e ci appare fredda, talvolta vuota, nonostante i magnifici concetti.
O per pudore femminile, o per alterigia, o perchè realmente le mancassero ricordi di vera tenerezza e di passione, la poetessa non ci apre alcuno spiraglio nella intimità affettuosa del suo amore. Eppure quante care memorie di quei primi tre anni di gioia amorosa dovevano tumultuarle nel cuore! Ella parla continuamente della gloria del signor suo, scarso cibo a un animo veramente appassionato!
Anche la mestizia profonda, sconsolata, che la invase alla morte di lui, e l’avrebbe indotta a chiudersi per sempre in un convento, se il papa espressamente non glielo avesse proibito; quella mestizia di vedova cristiana ma innamorata, non è cosa convenzionale nè artificiosa. Tutta la vita successiva di Vittoria è lì a provarci la sincerità del suo rammarico; le sue caste e austere gramaglie non si rallegreranno mai più di gioie terrene.
Unico suo conforto, Dio.
Ella si rifugia ai piedi degli altari; nell’ombra mistica delle chiese immerge il suo spirito dolente, e lo ritrae refrigerato.
Ma, nonostante ciò, Vittoria non era un’asceta. Invece di dissolversi nell’adorazione della Divinità, il suo ingegno sottile va in cerca di ragionamenti; ella specula sulla fede, ella discute con se stessa e con la teologia.
Pericolosa tendenza in un secolo, che maturava in sè la Riforma!
Ma pochi anni dopo, nel 1542, quando il cattolicismo minacciato corse alle difese, e gli amici di donna Vittoria ripararono nella libera Germania, per sfuggire ai paterni ammonimenti del Santo Uffizio, la poetessa rientrando pienamente nel grembo della Chiesa, rinunciò per sempre a ogni disquisizione religiosa, accettando la fede nella sua integrità.
Vicino a questa casta figura di matrona, quella di un’altra pericolosa sirena: Veronica Franco. Nata a Venezia, da onesta e agiata famiglia, sposata giovanissima al medico Panizza, fu solo la sfrenata vanità e la leggerezza dell’animo, che la condussero al peccato. Era bella e intelligente, ebbe adoratori a schiere; la sua casa fu il convegno dei più eletti uomini di Venezia.
Ben presto ella perdette ogni ritegno, e non si vergognò punto dell’esser suo. Venezia la considerava come una delle sue glorie! Esserle presentati era l’ambizione di tutti i giovani poeti e gentiluomini; era come un battesimo di notorietà.
Lo stesso re di Francia, Enrico III, quando venne a Venezia, andò a visitarla, e Veronica ne lo ringraziò in due sonetti. Il suo volume di versi ella lo dedicò al duca di Mantova; uno di lettere lo dedicò al cardinale Luigi d’Este. E re, duca e cardinale erano orgogliosi dell’offerta della cortigiana!
La sua bellezza e la sua arte di seduzione erano tali, che fu denunziata come maga alla Santa Inquisizione! E magìa fu la sua veramente, ma non le servì a rifarle una salute e una giovinezza troppo presto sciupate in una vita folle; ella morì povera, a quarantacinque anni; povera e dimenticata, colei ch’era stata l’amica di principi e di re!
Dalla cortigiana alla sovrana; non è che un passo, in questo secolo fatto d’oro e di fango. Veramente una piccola sovrana, d’un piccolo Stato; ma grande la fecero apparire le smisurate lodi offerte al suo minuscolo trono.
Veronica Gàmbara (ella ebbe lo stesso nome della etèra veneziana), incarna in sè il tipo più squisito della gentildonna del Cinquecento. A Correggio, dove ella era donna e signora, dopo la morte del marito, il principe Gilberto, ella seppe crearsi una vita di lusso, di bellezza, ravvivata tutta dalle sue gioie materne. Il suo Casino, a Correggio, era una meraviglia d’arte e di buon gusto. Per lei Antonio Allegri dipinse le sue più belle madonne; gli arazzi del celebre Rinaldo Duro ornarono le sue stanze, che risuonavano di lieti e onesti ragionamenti, di canti, di poesia. Tutto intorno a lei era eleganza e squisitezza; la sua piccola reggia accoglieva il fiore della nobiltà dei natali e dell’ingegno; il marchese di Mantova, l’Ariosto, il Bembo, il Molza e due volte Carlo V convennero intorno a lei. Ed erano suoi corrispondenti Leone X e Francesco I!
Che giorni luminosi videro allora Correggio e la sua augusta padrona! La castellana profondeva inviti, omaggi e versi. Assai le doleva del perduto sposo, sinceramente amato, ma di lui due figliuoli cari le restavano, Ippolito e Girolamo, che la consolarono nella vedovanza; e per essi visse, per essi cercò l’amicizia di sovrani, e adulò i potenti della penna e del soglio. Per essi trovò la forza di difendere il suo staterello eroicamente contro l’assalto di Galeotto Pico; l’amore materno diede alla piccola magra bresciana il coraggio d’una leonessa.
Si spense tranquillamente come era vissuta senza altre forti passioni che l’amor materno; di retto animo, non privo del machiavellismo del suo secolo, che le faceva pur ricercare l’amicizia del terribile Aretino, usò della poesia come dolce sfogo a miti sentimenti e come arte propiziatrice di chi desiderava amico. Fu raro esempio di un perfetto meraviglioso equilibrio psichico, di un ingegno acuto, unito a una sentimentalità ferma e soave.
Più grande principessa della Gàmbara, più seducente donna e forse migliore poetessa è Isabella Gonzaga, marchesa di Mantova,
In quella corte emula in cortesia e splendore alle corti di Urbino e Ferrara, Isabella raggiò come una fulgida gemma. La sua fama fu intatta, in un secolo che facilmente insozzava i suoi propri idoli, e in una corte piena di corruttela, fra mille seduzioni e pericoli.
Così questo mondo femminile del Cinquecento ci presenta i più strani contrasti!
Elette virtù, costumi gentili e puri, in mezzo alla più sfacciata ostentazione del vizio. Ma sopratutto, in generale, uno squisito ardore di rinomanza, un desiderio di emergere non solo per le comuni grazie muliebri, ma per quelle doti che erano parse sino allora riserbate agli uomini, un’avida brama di imparare, di gustare del frutto proibito, che fu solo domata dalla controriforma e dalla paura dell’Inquisizione. Questa fu che ricondusse la donna al confessionale e al timido focolare domestico, e preparò la secentista bacchettona e ignorante, ma non certo più casta di quel che fossero state le libere gaie impudiche o virtuose ragionatrici e rimatrici del Cinquecento.
Con le quali, se il discorrere in poesia era castigato e platonico, secondo i canoni non trasgressibili del Petrarca, si parlava in prosa assai liberamente. Lo stesso Castiglione, gentiluomo perfetto, non si perita di narrare aneddoti scabrosi in presenza di dame che egli pur altamente stimava; e già vedemmo queste medesime oneste gentildonne non sdegnare l’amicizia delle cortigiane più note, e la saggia Veronica Gambara tenersi caro il fetido Aretino.
Un sensualismo ammantato di platonismo, un grande amore delle gioie della vita, questa, in fondo, è l’amabile filosofia muliebre del Cinquecento, alla quale gli uomini volentieri si acconciavano, incensando le Dèe che venivano collocando man mano sugli altari.
Ma grande scarsità di sentimento, tanto nell’amore quanto nella pietà religiosa. Rare volte un verso si scosta dalla fredda forma accademica, anche quando l’affetto che esprime è sinceramente sentito. I sonetti di Vittoria Colonna, la più gloriosa delle poetesse del Cinquecento, sono spesso perfetti come stile, impeccabili per levigatezza e trasparenza; eppure quasi sempre ci lasciano indifferenti. Vi è appena qua e là qualche timido grido del cuore, sciolto dalle pastoie convenzionali. Per esempio, nell’Epistola che Vittoria manda al marito dopo la rotta di Ravenna, congratulandosi di avere salvi il padre e lo sposo, e dolendosi di essere lontana da questi, vi sono versi meno perfetti, ma più belli, perchè rispecchiano uno stato d’animo appassionato, umile e dolente. La gloria del marito non la consola dell’assenza.
Tu vivi lieto e non hai doglia alcuna, |
E come questo astro maggiore della lirica femminile cinquecentistica, così sono le piccole stelle, che appaiono numerose su quel cielo di gloria. Luminose, ma fredde. Unica, se pur meno famosa, più sincera, più viva, più interessante è la padovana Gaspara Stampa (1523-1554).