La mia cara Italia
Questo testo è completo, ma ancora da rileggere. |
F. DE AMICIS
LA MIA CARA ITALIA
MILANO, 1894.
Libr. Editr. Galli di C. CHIESA & F. GUINDANI
Galleria Vittorio Emanuele, 17-80
Diritti di traduzione riservati.
Augusto Conti all’Autore
Firenze, Pasqua di Risurrezione del 1894.
- Carissimo Signore,
Il mio nome sarà onorato da Lei, anzichè recare onore al suo scritto.
Se per giudizio suo non sono indegno d’essere così trascelto da Lei fra tanti nomi più meritevoli, lo faccia pure, che io per parte mia intendo di essere, su quel libro, nominato in attestazione del mio consenso ai concetti espressi nell’altro libro Salviamo l’Italia, e continuati, ne son certo, nel prossimo suo volume.
Affez. grat. A. Conti.1
⁂
Dopo aver dato allo stampe il mio libro Salviamo l’Italia, mi era proposto non avere più a che fare con gli editori.
Non già sia dispiaciuta la mia opera, o che gli editori mi abbiano dissanguato; chè anzi il mio scritto mi portò moltissimi incoraggiamenti e chè gli editori mi furono misericordiosi. Ma conoscendo quanto sia difficile il compito di scrivere e difficilissimo il segreto di farsi comprendere, mi era fermato a quella determinazione.
Però a certi ammiratori non piacque il mio proposito e senz’altro cominciarono ad impegnare contro di me una vera battaglia.
Biglietti, lettere, visite furono le armi usate per spronarmi a riprender la penna, di modo che oggi essi sono i vincitori ed io il vinto.
E come può essere diversamente?
In qual maniera sottrarmi dai chiari ingegni che porgendomi la mano, mi traggono a forza alla ribalta del teatro letterario perchè reciti la mia parte? Non dovrò giovare alla terra che custodisce le ceneri della mia Madre dolcissima e che con le tiepide aure del suo Cielo, conserva ancora forte e sano nella vecchiaia il venerato mio Padre?
Come non contribuire, alla prosperità di questa nostra penisola che fu tanto diletta agli spiriti i più puri, ai genii i più grandi, agli uomini i più illustri?
Perchè dopo aver dedicato il giorno alla pittura, non impiegherò la sera, qualche ora della notte per elevare nella tranquillità lo spirito, in cerca di ideali che migliorando me, giovino pure ai miei fratelli?
Ragionava in tal modo, quando un autografo inviatomi da Augusto Conti, così mi commosse che di buona lena mi rimisi al lavoro.
Il mio pensiero però prima corse dai lidi di Genova alle sponde dell’Arno, e là ebbe la benedizione del grande Filosofo.
Augusto Conti, vecchio negli anni, io lo ritrovai a Firenze giovane nello spirito, nella sua fronte vidi fermata la stella del Vero, nei suoi occhi scorsi la dolcezza del Buono, le sue labbra dischiuse a sorriso mi fecero comprendere che Egli avea avuti i baci del Bello.
Iddio lo accarezzava, il male sotto i suoi piedi fremeva.
Vidi, le scienze, le lettere, le arti, coronarlo di alloro mentre gli amori del Cielo si stringevano attorno a Lui per rendere omaggio al Cantore degli amori terreni.
Io avrei voluto in quel momento che un turbine improvviso avesse divelti tutti i fiori dei giardini italiani, per deporli allato del sommo Scrittore.
Avrei desiderato avere la potenza di innalzare presso la porta della sua casa, due nuove colonne, sulle quali la morte leggendovi scolpito il celebre motto delle colonne di Ercole, avesse potuto un giorno retrocedere.
Lo avrei ardentemente bramato, perchè, se vi è anima che con le sue opere abbia saputo ingentilire i cuori è certo quella, dirò con poesia, che Dio quasi togliendola da uno dei suoi Angeli, la volle infondere nel corpo di Augusto Conti.
Tutto questo mi passava per la mente e forse più a lungo sarei rimasto in quell’estasi, se il dovere di cominciare queste pagine non avesse imposto al mio spirito di ritornare alla sua tranquillità.
⁂
Oh quanto è cara la terra che ci ha dati i natali, quanto è dolce al cuore di chi la ama immedesimarsi della stessa sua vita!
Le sue gioie addivengono il sorriso di lui, i suoi dolori, ne contristano il suo spirito, ed egli ha per la sua patria quella fiamma pura d’amore che uguale sente uno sposo per la sua sposa.
Anch’io mi affanno e mi consolo al ricordo della mia Italia e per Essa il cuore mi batte forte.
Penso all’Italia e vedendo intorno a Lei, che si fa notte innanzi sera, provo presentimento angoscioso.
Spaziandomi dalle specole più attraenti del mio Paese, quali il piazzale di Michelangelo a Firenze, il terrazzo del Pincio a Roma, la cupola del Duomo a Milano, il lido della Salute a Venezia, il nostro cielo mi appare non essere più quell’incantevole padiglione che copriva la terra ai tempi di Agostino, di Dante e di Raffaello.
Quelli erano giorni nei quali l’Italia grande nella virtù, nelle scienze, nelle lettere e nelle arti era riconosciuta maestra e regina del mondo.
Ma Essa di quelle epoche auree si dimenticò e presumendo poter fare senza Dio, prova al presente il danno e la vergogna.
Dio dovea essere il nostro principio, il nostro fine; la croce, che col battesimo ci fu segnata sulla fronte e quella che è riservata a custodire le nostre ceneri avrebbero dovuto tracciare la nostra via.
Ma ohimè, che l’indirizzo avuto fu errato!
La fiamma della Fede, si affievolì, la fiamma della Speranza oscillò, la fiamma della Carità quasi si spense.
Messa a parte l’idea di Dio, che ci crea, che ci toglie la vita, che ci consola e ci addolora, che ci parla dei suoi premii, dei suoi castighi, a questa santa idea si cercò sostituire la Dea Ragione, non per leggiero desiderio di novità, ma con la premeditazione di pervertimento.
Quando considero questo stato deplorevole della mia cara Italia io mi sento intontire e più ci medito e più resto meravigliato come questo si sia fatto in nome della scienza e della libertà di pensiero.
Ed ora godiamo di questa scienza ed abbiamo i frutti del libero pensiero!
Le carceri non bastano ai numerosi ospiti, la fame minaccia la rivolta, la distruzione, la morte.
Questi sono i benefizii che ci apportarono gli uomini che ci tolsero l’idea di Dio.
Se la sventura è grande e se vi è da affliggerci, ritengo però non vi sia da disperarci perchè ritornando a tutta carriera al faro della verità, della giustizia e della carità, che è Dio, potremo salvarci.
Lo so; i Governanti sono quasi tutti uomini venduti alla Massoneria, che mina contro l’altare ed il trono, ma questi uomini d’oggi saranno poi necessarii domani?
Lo so; l’intrigo nelle elezioni fa sì che difficilmente cambi la scena, perchè essi ci vengono imposti, quali i prescelti dalla volontà nazionale; ma non può anche accadere, che il malcontento che si manifesta qua e là verso del Governo, riesca a fare giustizia e che finalmente possano siedere alla Camera uomini degni dell’universale rispetto?
Lo so; la nobiltà o è guasta o è indifferente; ma non può essere che sorga dal patriziato, un nucleo di baldi giovani che siano più nobili per le virtù che per la stessa loro nascita?
Lo so; il popolo mistificato, offuscato, nei suoi principii è scosso e, diciamolo, è sfiduciato; ma portandolo esso di nuovo al vero, allontanandolo dai suoi tiranni, accordandogli quel lavoro onorato e necessario alla vita, credete forse, che non possa riprendere la calma perduta?
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Ritorniamo a Dio, mi diceva testè un illustre tedesco, questa è l’unica àncora di salvezza alla quale dobbiamo aggrapparci.
Dio esiste, e un popolo civile mai si deve discostare da Lui, perchè rifiutare la sua legge equivale a voler perire.
La fede, le scienze, le lettere, le arti e la natura, con i loro differenti linguaggi ci parlano di questo Essere a tutti gli altri esseri superiore.
Le invocazioni di innocenti creature che nei mali della vita, con le manine congiunte e gli occhi bagnati dalle lacrime, implorano pietoso aiuto per il padre, salute per la madre non sono una conferma che noi abbiamo il bisogno di un Dio che ci assista e ci consoli?
Quel mesto a rivederci che là al cancello di un cimitero rivolgiamo, straziati, a una bara che sta per scendere nella fossa; non vuol dire che siamo sicuri che vi è un Dio che separandoci dai nostri cari a loro ci ricongiungerà un giorno?
Un Agostino che dopo una lotta fra lo spirito del bene e lo spirito del male, scrive mirabilmente della Città di Dio, non dimostra che Dio esiste?
Il Divino Poeta, col suo Paradiso non ci presenta il Dio buono, col suo Purgatorio non ci fa conoscere il Dio misericordioso, col suo Inferno non c’indica il Dio giusto?
Raffaello non ci entusiasta col suo Dio trasfigurato, Michelangiolo con la sua cupola non spinge il suo genio fra le nuvole, per far sì che il piú grande architetto della terra renda omaggio all’Architetto supremo?
La natura con i suoi incanti, dal cedro del Libano, alla mammola odorosa che riflette il suo cilestro nel ruscelletto, dal leone fra gli animali, al piú piccolo fra i vaghi augelli, dalla balena che assomiglia a un’isola vagante sul mare, al più piccolo pesce che guizza in un vaso di cristallo, tutto questo non ci manifesta l’onnipotenza di Dio?
Le aride e altissime montagne, meta di arditi esploratori, le verdeggianti colline, dove ci ritiriamo per i calori estivi, i prati indorati dal frumento, il mare che ci unisce alle più remote terre, che ci accoglie alle sue spiaggie o per sollazzo o per rinfrancarci nella salute esile, non formano essi come il suolo sul quale Dio passeggia sovrano?
Dovremo noi, in modo particolare, disconoscere Dio, mentre è Lui che fece dell’Italia una terra invidiata, e quasi sorella del Paradiso?
Noi siamo di Dio, da Dio, per Dio, così leggo sfogliando il trattato sopra l’educazione pubblica di Diderot.
L’autore dell’armonia delle cose scrive
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A Dio sospira il cuore; in Dio respira. |
Augusto Conti in questi versi cantando così mirabilmente l’esistenza di Dio non ci dice che fu inspirato da Dio?
Dio esiste ed è tempo a tutta carriera di ritornare a Lui.
Lo proclama il Pontefice, lo comprendono i monarchi, gli uomini di Governo lo riconoscono, le popolazioni lo vogliono!
Jules Simon, accennando appunto a questa necessità scriveva testè nel Figaro:
«Parve or sono alcuni anni che la Francia abbandonasse Iddio; è necessario che essa ritorni a Lui. In questa via solamente vi è la salute.
La forza esterna può molto, è vero, ma non v’è che l’obbligazione interna che possa tutto.
Nella prima riunione del Congresso tenuto l’anno scorso a Parigi per il patronato degli scarcerati, Carlo Petit con molta scienza e competenza avea enumerato le diverse opere di carità dirette a combattere l’armata del delitto.
Io presi la parola dopo di lui, e con tutto il rispetto che m’inspirano maestri di carità quali i Giorgio Picot, i Bonjean, i Voisin, i Monod, dissi loro che vi sono tre ausiliari dei quali la morale non può fare a meno; che la neutralità del maestro è la negazione della morale; che l’impotenza del sacerdote è l’esclusione della religione; e che è un grande inganno il credere di elevare la condizione della donna portandola fuori della famiglia. È nella famiglia e per la famiglia che bisogna sviluppare l’influenza e fortificare l’autorità. La madre è la famiglia e la famiglia è la morale. Dite pure fin che volete che nell’anno 1880 non si volle lare una legge atea, che si trattava unicamente di sottrarre la politica dall’azione dei clericali. Io vi credo; voglio credervi; non faccio la guerra ad alcuno. Ma il fatto brutale è il giovane ventenne che getta una bomba di dinamite tra la folla. Voi lo uccidete. Ma la morte non è tanto efficace quanto vi immaginate.
Vi sono momenti nella storia in cui si rise della morte; sotto il terrore la morte è trionfante e impotente. I nichilisti la sfidano del continuo. Non so quello che pensino gli anarchici: su per giù valgono lo stesso. Povera società ammalata, t’indirizzano alla mannaia; è a Dio che è necessario far ritorno.»
Questa forza irresistibile di ritornare a Dio la sentiamo tutti, è il bisogno di stringerci a un punto che non crolli, perchè sotto di noi la terra trema e siamo avvolti da un turbine che ci toglie il respiro.
A me pare essere sopra una sdruscita nave, in una notte procellosa, mentre fischiano i venti, gli alberi si rompono, le ondate furiose minacciano ingoiarci nel mare.
Mi sembra imminente il naufragio, il cuore mi si stringe, mi battono i denti, mi si oscura la vista, sento piegarmi le ginocchia, provo un ronzio nelle orecchie, vacillo e cado....
La natura dell’uomo affranta dalle ambascie della vita ha vinto sopra lo spirito dell’uomo, perchè esso nella sua audacia si cimentò a volere far senza di Dio e allora Dio lo atterrò, non per darle la morte ma per farle conoscere essere in Lui solo, la via, la verità e la vita che apporta felicità.
Sia dunque questo Dio la via che noi abbiamo a fare di mezzo ai fiori delle sue grazie; che se anche avessimo tratto tratto a sentire le spine dei suoi castighi, ricordiamoci di non volere cambiare la strada.
Godiamo dei benefizii della salute, dei benefizii del lavoro, dei benefizii della famiglia o della prosperità della nostra patria, soffriamo per le nostre avversità o pei mali del nostro Paese, a noi non è dato abbandonare sì fatto cammino.
Dio, sia per noi la verità alla quale aspiriamo; i nostri bambini apprendano la Religione di Dio, quale unico codice del vero; procuriamo nelle loro menti di non volere alla Religione di Dio far sottentrare la Religione del cuore, perchè come scriveva assai bene un collaboratore del giornale il Popolo Romano:
— La Religione del cuore non vale la Religione di Dio. —
Ricordiamoci che i baci dei nostri vispi figlioletti, avranno breve durata, se noi da quelle innocenti labbra non avremo sovente fatto innalzare un saluto a Dio. A Dio il più affettuoso dei padri, a Dio il più fedele degli amici, a Dio il più caritatevole dogli uomini.
Non lasciamoci ingannare da questa effeminata scuola della Religione del cuore, perchè altrimenti, noi padri saremo disprezzati e soprafatti, noi amici saremo abbandonati e traditi, noi poveri saremo discacciati come esseri abbietti.
La nostra Religione, sia la Religione di Dio.
I nostri figli ci rispetteranno e saranno obbidienti.
I nostri amici, mai ci volgeranno le spalle e ci circonderanno di premure.
I nostri poveri troveranno un aiuto che non umilia nessuno e che fa del beneficato e del benefattore due sinceri fratelli.
Seguiamo Dio nelle sue verità e non accettando quanto è contrario alle sue leggi avremo meritato della famiglia e della società.
Dio sia per noi la vita vera della giustizia.
Ove l’uomo non trova giustizia ivi è tirannia, perchè la giustizia non ammette strappi alle sue leggi. Essa esalta la virtù, calpesta il vizio, essa vuole che i fratelli amino i fratelli, essa insegna la reciproca carità, essa esige un codice morale e civile uguale per tutti, essa dice ai re di governare saggiamente, inculca ai sudditi di obbedire prontamente, essa assolve l’innocente e condanna il reo, essa arride alle scienze, alle lettere, alle arti buone, sprezza le cattive, nulla essa teme perchè la giustizia risiede in Dio medesimo e perciò con Lui vince, regna e trionfa.
È suonata l’ora di aprire gli occhi.
Io non giungo a persuadermi come noi Italiani dotati di buon senso, desiderosi di libertà, possiamo essere pervenuti a condizioni sì deplorevoli. Noi ci troviamo, sia detto fra noi, come la gente del villaggio, la quale, attratta dalle trombe dei ciarlatani, crede ai loro paroloni, e si accorge troppo tardi di essere stata ingannata.
Ci parlarono di Libertà, di Uguaglianza, di Fratellanza, e noi, fiduciosi di veder migliorate le nostre sorti, abbiamo prestata fede a chi era al potere ed ora ne deploriamo le conseguenze.
Ci parlarono di Libertà e giunsero a metterci le catene.
Ci parlarono di Uguaglianza, e ci fecero vittima delle parzialità più vergognose.
Ci parlarono di Fratellanza, ma ci portarono la guerra nella nazione, la discordia nelle famiglie.
Io non comprendo come siamo giunti a tanta insipienza o meglio a tanta audacia.
Eppure l'acciecamento è così completo fra noi che c’è da fremere.
Pazienza esso si limitasse a persone che non hanno studii o che stanno fuori della direzione della cosa pubblica, ma quando si pensa clic il più impudente materialismo si riscontra appunto in uomini che volere o no frequentarono le Università e che sono a capo dello Stato vi è da sperare sinistramente per il nostro avvenire.
Non è molto, un senatore mi diceva: Io ogni sera mi corico con ansietà per il domani, perchè, dove andremo se così si regge l’Italia?
Infatti che cosa si può attendere da governanti che calpestano tutto quanto vi è di più venerato per una nazione, la sua religione?
Facciano pure questi uomini!... ma si ricordino che scristianizzate le masse, queste, con la ferocia delle belve sapranno finire i responsabili della loro rovina.
A questi uomini che stanno in alto, sapendo che la mia voce vi arriva senza autorità, dedico le seguenti righe dovute a un ingegno del foro italiano, a una illustrazione della città di Genova, l’avvocato Vincenzo Capellini.
«Mano alla scure», egli dice, «per distruggere, e mente e coscienza per riedificare.
«Avete all’operaio tolta la Fede e la Religione — il razionalismo incredulo, coll’Autorità di Dio ha fatto crollare ogni sanzione e guarentigia dell’Autorità umana. E voi, Governanti, dovrete bensì ripristinare la prima per riacquistare il prestigio e la forza che ha oramai perduta l’altra. E voi, giornalisti liberali non potete, a fil di logica, ripudiare gli effetti da voi deplorati senza deplorare ed abbandonare le cause che li hanno prodotti.
Una santa Crociata bisognerebbe bandire nell’Italia, la Crociata per l’abolizione di tutte quelle leggi malvagie che hanno insozzato e pervertito tutto, persino il senso morale del popolo.
Macchina indietro a tutto vapore! — Una instauratio ab imis.
Ristaurazione della moralità nel Parlamento, nella legislazione, nelle pubbliche amministrazioni, ripristinamento del principio Religioso, negli ordinamenti scolastici, a far sì che le scuole sieno centro d’educazione, non solo intellettuale, ma anche morale, e che ivi si coltivi e si insegni il rispetto al sentimento dell’Autorità divina ed umana — a vece di farvi pubblica professione di Razionalismo e di Socialismo, come fra noi, pur troppo avviene.
Freno alle libertà eccessive, a cominciare da quella della stampa, la quale, per l’abuso fattone, è la precipua responsabile delle odierne rovine, che essa indarno deplora.»
Si, se vogliamo avere la vittoria dobbiamo mettere la macchina indietro a tutta forza e solo questo precipitoso regresso, ci risparmierà la desolazione che sta per portarci un progresso falsato.
Dobbiamo ritornare all’antico. S.E. Rev.ma Monsignor Filippo Allegro, Vescovo di Albenga, così opportunamente scriveva:
«A forza di declamare, i falsi amici del popolo hanno ormai sbandito dalle famiglie e dalla società il riposato vivere de’ tempi andati, la rassegnazione nel lavoro, l’accontentamento nel poco, la pace, anzi la gioia nelle stesse privazioni. Lavorar poco, arricchire presto, godere molto, ecco il programma dei falsi filantropi: ecco le teorie che predicate in cento forme, pubblicate nei giornali, declamate nei comizii, abbellite nei romanzi hanno stuzzicato gli operai ed i popolani, ne han sobillato le passioni, deponendo nei loro cuori un fuoco secreto di invidie, d’odio e di fremito incessante. Donde l’odio fra classe e classe, i tentativi del socialismo e del comunismo, fino agli orrori dell’anarchia.
A che siamo riusciti? A progresso innegabile d’arti ed industrie, a parziale miglioramento di fortunati individui, anche a più equa distribuzione della ricchezza sociale: ma messo a confronto il poco bene materiale coll’immenso scontentamento universale, c’è da rimanere umiliati e impauriti.
Or siffatto stato irrequieto e scontento del mondo è conseguenza del falsamento delle idee e degli esempli: è frutto dell’abbandono di quella religione, che mentre benedice e santifica la ricchezza e il lavoro, modera i desiderii e governa le passioni.
.... Ma che vanno dicendo ai popoli i falsi maestri del nuovo Paganesimo? — La felicità, la ricchezza è di tutti: tutti ci avete eguale diritto: arricchitevi e godete, questo è lo scopo della vostra vita. — E la tentatrice parola, la lusinghiera dottrina fu presto intesa, e tal si diffuse e va diffondendosi uno spirito d’epicureismo nel mondo, che la idea sola del patire, del dolore, della mortificazione spaventa e rivolta e mette in iscompiglio tutte le potenze dell’anima. Non il coraggio del sacrifizio, non la rassegnazione nel lavoro, non mortificazione di spirito o di corpo, una sfrenata brama di godimenti anche indegni, e soddisfacimento delle passioni a qualunque costo: e sollazzi e spettacoli e piaceri d'ogni fatta, quando si può; e furori e maledizioni quando alla brama smodata difettano i mezzi ed il potere. L'effeminatezza e la corruzione della moderna società, deplorata da tutti i saggi non trova, non troverà dunque un ritegno e una medicina?
Un solo, o dilettissimi. Lo spirito del Vangelo trasfuso un’altra volta nelle vene della società. Quella religione che riuscì appena nata a lavare le contaminazioni del mondo, a infondere nuovo sangue nel marcio colosso della romana società, essa sola può rinnovare gli antichi prodigi, e guarire il mondo malato e i sangui corrotti degli ultimi tempi. Che se il rimedio è amaro, tanto più è efficace e necessario; o questo o lo sfacelo morale.»
L’eloquente Prelato, esempio di spirito puro, di mente elevata, di cuore perfetto, ci presenta la diagnosi della nostra malattia.
Ma non solo un uomo della pace, ci addita il rimedio per accelerare la nostra guarigione, ma anche un uomo della guerra ci consiglia lo stesso farmaco.
L’uno è vescovo, l’altro è maresciallo, l'uno è cattolico l’altro è protestante, ma Dio che sa unire anche nelle cose più disparate il cuore degli uomini, ci regalò per bocca del vincitore dei Francesi un prezioso documento, che appunto inculca l'obbligo che noi abbiamo di ritornare a Dio e alla sua Chiesa.
La Chiesa Cattolica è ad ogni altra Chiesa superiore: essa soffoca ogni germe di dubbio ed ogni movimento d’indipendenza. Gli è soltanto nelle leggi sue che si trova la certezza.
Così il più grande soldato dei giorni nostri, il maresciallo Moltke.
⁂
Ma a che giova il mio parere?
In Italia, il Governo non accetta nè le lezioni dei grandi, nè il parere dei piccoli; egli percorre la sua strada rovinosa perchè all’abisso conduce l’abisso.
Il Governo opprime il Capo della Religione, opprime i suoi ministri, opprime i cittadini zelatori dei dettàmi di lei.
Il Capo della Religione è stato privato di tutto e perfino a Lui sono negate quelle garanzie di libertà che secondo i primi statisti del mondo sono a Lui dovute e necessarie.
I Vescovi ritenuti quali servitori del Governo devono disputare per avere il regio beneplacito.
Al clero, con una legge fuori della legge, si mise il bavaglio e i Cattolici furono ridotti ad essere riguardati come erano sorvegliati ingiustamente i Polacchi, gli Irlandesi, gli Ungaresi dai loro oppressori.
Come è possibile che non si vada incontro alla perdizione?
⁂
Io avessi ad essere ministro, non incepperei mai li atti del Capo della Chiesa, perché il posto che occupa, per la autorità che lo riveste, dovrei intendere come testè ebbe a dire lo Spuller, alla Camera Francese che «Il Papa è una grande autorità degna di rispetto.»
Se fossi ministro, affretterei la concessione dell’exequatur ai Vescovi,2 perchè essi sono gli angeli della pace e della carità per le loro diocesi.
Chi a Napoli, a Palermo, a Catania e in molte altre delle nostre città, si presentò con parole di pace alle turbe che minacciavano, e riuscì a portarle ad obbedienza alle leggi?
Viva il nostro Arcivescovo Sanfelice, intesi gridare a Napoli; viva il nostro Arcivescovo Celesia, ascoltai a Palermo; viva il nostro Arcivescovo Dusmet, udii ripetere a Catania.3
Questi applausi che spontanei uscivano dal popolo non erano prova che i Vescovi sono i veri benefattori della patria?
Se fossi ministro, innanzi a certi denigratori dei vescovi inviterei il Dottor Luigi Pastro, un noto patriota emigrato se volete, anche reduce delle galere di una volta, già stato condannato a morte, amico dei clericali, come il diavolo è amico dell'acqua santa.
E quest’uomo anticlericale, vi direbbe che la sua opinione intorno ai Vescovi è benevola. Vi racconterebbe che egli, Luigi Pastro, constatò come il Patriarca di Venezia Domenico Agostini, per dare tutto ai poveri si era indotto a mangiare fagioli riscaldati e semplice pane.
Paolo Fambri, vi aggiungerebbe che questo pane non era già il pane intatto venuto dal forno, ma bensì erano i tozzi di pane che restavano sulle tavole dei seminaristi.
Di più vi assicurerebbe, che Chioggia vedeva quel Vescovo di notte fra intemperie, i geli, i venti acuti del mare girare di contrada in contrada, spesso con un materasso sulle spalle accompagnato da un servo, per recare, di tugurio in tugurio a quei miseri pescatori, a quelle famiglie di Sottomarina, lembo infelice se ve n'è sulla terra, un soccorso insieme alla dolce parola dell’angelo della carità.
Io che ebbi la grazia di essere fra gli intimi del Cardinale Agostini ricordo qui quanto presenziai nel 1888 a Roma.
Il Patriarca avea preso alloggio presso le figlie di Sant’Anna in via Merulana.
Sebbene moltissime fossero le persone che desideravano parlare con sua Eminenza, tuttavia essendomi un giorno recato a vederlo non feci anticamera.
Entrato nel modesto studio, veduto il Prelato sconvolto e piangere dirottamente, credetti soffrisse pei suoi dolori di stomaco.
In quello stato angoscioso perdurò alcuni minuti e non osando chiederle il perchè di tanto affanno, attesi si fosse quetato.
— Perdonatemi, egli poi mi soggiunse; — sempre non si può comandare al cuore, quando voi entravate qui, un’altra persona mi avea voluto prima visitare, era un uomo come voi, ma un uomo che avea perduta la Fede e odiava la patria. A lui parlai di Dio, ricordai a lui il dovere di amare l’Italia, ed egli prostrato ai pie’ del Crocifisso mi promise di mutarsi in buon cristiano e in buon cittadino.
Chi era quell’uomo?
Mai potei conoscerlo, so solo che a quel monastero si era presentato con un altro nome e che la sua identità la manifestò segretamente al Cardinale.
Una sera di estate mentre i miei fratelli ed io eravamo alla campagna, un prete, con pochi peli di barba, sul mento, pallido come un cadavere, andò alla casa di mio padre a Genova.
Le persone che vi erano a custodia, avendo avuto ordine di non ricevere alcuno, rimandarono il visitatore con la scusa che i loro padroni erano a Pontedecimo.
Due giorni dopo il mistero era chiarito.
Il sacerdote Paolo Maria Barone, per sette anni missionario nella Cina, affranto dalle fatiche era stato costretto a ritornare alla terra nativa.
Amicissimo del nostro istitutore4, appena sceso dal vapore di mare, avea voluto rivedere il vecchio amico e per questo si era recato dove poteva trovarlo.
Riavutosi nella salute, quell’eroe della fede e della civiltà, oggi, per avere glorificato Dio, onorata la patria, siede amato Pastore della Diocesi di Casale Monferrato.
Questi come molti altri sono i Vescovi che abbiamo in Italia, perchè dunque impedire che altre sentinelle avanzate del Vangelo, ottime come queste, possano godere il più presto che sia possibile dei benefizii che a loro competono?
Si va ripetendo che i Vescovi sono avversari delle istituzioni.
Ma, scrive ottimamente l'Osservatore Romano, «è agevole provare che i nemici e violatori delle istituzioni si trovano invece esclusivamente nel campo officiale.
Il potere politico è quello che viola le disposizioni dello Statuto, fondamento primo delle istituzioni attuali. Esso che ha col fatto cancellato l'articolo che proclama la Religione Cattolica Religione dello Stato; esso che manomette la proprietà dalle istituzioni dichiarata inviolabile; esso che la libertà di stampa, guarentita dalle stesse istituzioni, tollera soltanto in chi ne abusa ad offesa della Religione e della onestà; esso che vincola contro lo spirito e la lettera delle istituzioni il diritto di pubblica associazione; esso che dandone per il primo l’esempio, suscita antagonismo ed odio fra le varie classi sociali.
Contro questi abusi e violazioni sistematiche, permanenti i Vescovi vivamente protestano e con fermezza irremovibile le condannano. E ciò prova che essi soli sono gli amici delle istituzioni, essi soli che amano la nazionale indipendenza, essi solo che reclamano pel proprio Paese un regime di pubblica onestà, di giusto progresso, di vera libertà.»
La calunnia lanciata contro i Vescovi si ritorce a carico dei suoi avversarii, ed il popolo comincia a dimostrare coi fatti che il suo malcontento è contro il Governo e contro esosi Municipi, ma giammai contro l’Episcopato.
⁂
E veniamo al semplice clero: Se fossi ministro, mai mi sognerei di stabilire, solo per principio irreligioso, una legge eccezionale contro di esso.
Vorrei che il prete cittadino come qualsiasi altro, rispettasse la legge, ma prima di tutto esigerei che le leggi emanate, promulgate, non calpestassero nè la verità, nè la giustizia, nè la carità. Che se dopo questo anche fra i preti alcuno volesse uscire fuori della legge, disconoscere cioè la verità, la giustizia e la carità, presterei allora man forte ai Vescovi, perchè questi disgraziati si avessero inesorabile castigo.
La legge deve essere imparziale, volerla deturpare, smembrare nella sua essenziale imparzialità è costituire un vero reato contro la libertà, è annientare la giustizia.
Ma è questa la civiltà, la tolleranza, che ci s’impone al presente?
In questo caso potrò chiamare fortunato quel sacerdote che attraversa la Turchia, fortunatissimo quell’altro che vive negli Stati Uniti d’America.
Mi si dice, che il prete in Italia è irrequieto e intollerante e che bisogna frenarlo!
Ma come mai, gli stessi protestanti affermano, al contrario, essere il nostro prete tranquillo e paziente?
Lo comprendo, vi furono, vi sono, vi saranno nei preti dei miserabili uomini, come sono in tutte le classi dei cittadini, ma persuadetevi che per costoro non abbisognano leggi speciali, perchè i Vescovi saggiamente ne colpiscono i loro abusi con severe censure, e se il fallo è grave, non impediscono alla legge comune di fare il suo corso.
Ma per una così minima parte di sacerdoti infedeli intenderete voi di rendere a schiavitù la falange venerata del clero italiano?
In nome della libertà retrocedete, la vostra legge è fuori della legge.
Mi si dice, che il prete in Italia è ignorante e che bisogna impedire ottenebri le menti rozze del popolo!
Per rispondere a questa seconda accusa, non mi fermerò a citare i nomi degli ecclesiastici che furono l’ammirazione dei loro tempi, ma restringendomi a noi vi dirò che il P. Angelo Secchi, il più famoso astronomo del mondo, apparteneva ai Gesuiti, ed il P. Alberto Guglielmotti, celebratissimo tra tutti gli scrittori di nautica, vestiva l’abito di San Domenico.
Che se volete di più e se vi basta l’animo andate alle porte delle Università nostre e cimentatevi a gridare contro i preti giovani che frequentano i corsi e là vedrete che i loro compagni anche i più scapati vi faranno correre senza posa.
E questa rivolta giusta, non sarà soltanto per la solidarietà che è naturale fra i compagni di studio, ma perchè risulta dalle ispezioni governative che i preti giovani sono fra i frequentatori i più colti e diligenti degli Atenei patrii.
Mi si dice che il prete in Italia è egoista e che perciò merita disprezzo!
Quando le avversità ci seguono per ogni dove, quando tutto ci viene a mancare, quando il mondo ci lascia nell’abbandono, chi ci parla di fortezza di animo, chi supplisce al necessario, chi ci attornia con cure disinteressate?
Nostro padre, nostra madre, i nostri fratelli, i nostri amici si trovano in un letto di dolore, vittime della battaglia tremenda che la vita impegna colla morte, chi porta il conforto dei morenti a quelli infelici?
In un paese di montagna dove il freddo è rigidissimo parecchi anni or sono, alcuni dei nostri bravi Alpini facevano una esplorazione.
Era un giorno che il tempo minacciava e che per l'aria si sentiva un forte uragano.
Sopravvenuta la notte quei giovani gagliardi si rifuggiarono in una cascina.
Era freddo, la neve cadeva così furiosamente che penetrava per ogni parte.
Trascorse di pochi minuti le ore due antimeridiane, quei soldati, desti da voci umane, videro passare da un ripido sentiero due uomini con una lanterna.
Erano preceduti da un bellissimo cane lupetto5, che avea fermato al collare un campanello.
L’uno era un montanaro robusto, l’altro un prete curvo e tremante che recitava dei salmi.
Il vecchio curato, portava il viatico ad un infermo colpito da malore improvviso.
Venti giorni dopo gli stessi Alpini in una mattinata fredda sì, ma splendidissima ebbero a ripassare da quel medesimo villaggio e fermatisi dinanzi al Cimiterio, osservarono che un cane lupetto col muso fra le sue zampetto sdrajato appiè del cancello ne impediva l’ingresso.
Che sarà mai?
Una donna commossa raccontò..... come il loro curato settantacinquenne dopo aver assistito un ammalato in una notte fredda e che nevicava, ritornato a casa, preso da un insulto apopletico, era morto compianto da tutti.
Il suo fedele cane lupetto dal momento che aveano nella fossa scesa la bara più si era mosso dal cancello del Cimiterio e solo viveva perchè i contadini, per compassione, a lui portavano ogni giorno qualche cibo.
La donna avvicinatasi al bestiuolo, profferì il nome del curato e il cane alzata la testa melanconicamente, poi ripiegandola fece suonare un campanello che avea al collare; al che gli Alpini esclamarono:
— Sì questo è il campanello che abbiamo udito in quella notte fredda che la neve cadeva furiosamente e che penetrava per ogni parte.....
Se abbiamo cuore, possiamo dire che quel prete fosse egoista?
Non vogliamo riconoscere il vero. Ebbene fermando il nostro sguardo a quel cane lupetto, la coscienza ci dirà che noi mentiamo perchè vogliamo mentire!
Una malattia fiera lasciò in condizioni deplorevoli nostro nonno, gli anni lo hanno istupidito, egli è privo della vista, egli riportò alla guerra delle ferite che minacciano d’impiagare tutto il corpo, ma per improvvide disposizioni degli ospedali non può essere ricoverato.
Dove rivolgerci?
Rechiamoci a Torino e suonando alla porta della piccola Casa della Provvidenza, preti seguaci di un prete, ci diranno che al nostro nonno non mancherà più nulla.
Non possiamo giungere col guadagno del lavoro a mantenere i nostri figliuoli?
Andiamo agli ospizii dei Salesiani, e preti seguaci di un prete, ci assicureranno l’ospitalità e l’istruzione delle nostre creature.
Se abbiamo cuore, potremo dire che il Can. Cottolengo e Don Bosco siano stati con i loro seguaci uomini egoisti?
Chi nei momenti delle nostre guerre, portò ai soldati caduti nella terribilità della strage, la sovrana pietà dell’amore?
Il prete nelle pubbliche epidemie forse si vide abbandonare il suo posto, come per viltà lo disertarono certi impiegati dello Stato?
Nel 1884 anno doloroso per la ricomparsa del morbo asiatico. La incantevole parrocchia di San Francesco d’Albaro in Genova non fu risparmiata. In mezzo a tanta sventura, un uomo che si vedeva per ogni dove, dai ricchi era ritenuto quale il loro consolatore, i poveri lo provavano quale infermiere, gli orfani lo chiamavano col dolce nome di padre.
Il Parroco Pietro Balestra dei Minori Conventuali fu così ammirato che oggi voi vedete alla sua chiesa accorrere per consiglio ed aiuto, il vescovo come il giovane chierico, il generale come il semplice soldato, il magistrato come il figlio del popolo, la dama come la moglie dell’operajo. Se abbiamo cuore, potremo dire che questo prete sia egoista?
⁂
Chi fa conoscere il nome di Dio e della patria nostra, il nostro linguaggio, in tante contrade barbare del mondo?
Perché passando innanzi alle Chiese dei Missionari ben di frequente si odono sospiri e pianti?
Sono padri, sono madri, sono fratelli, sono amici, sono ammiratori che con l’anima straziata, ai loro cari figliuoli, ai loro cari fratelli, ai loro cari amici, ai loro cari concittadini rivolgono forse l’ultimo mortale saluto.
Guardiamoli questi missionari: essi appartengono a illustri e a povere famiglie, ma nei loro petti è così viva la fede, è così vivo l’amore per la civiltà e per la patria, che tutti ugualmente sono ricchi di eroismo.
Io vi saluto, o eroi, io vi saluto, o fratelli degli Angeli, io vi saluto, fiori elettissimi dei giardini nostri.
I giovani Italiani si entusiasmino per voi e pronunzino con venerazione il nome vostro.
Gli Angeli vi seguano nel viaggio, vi confortino nel periodo della prova; nelle ore del sacrificio e dell’abbandono, vi ripetano il dolce nome dell’Italia; nei momenti che scellerati attentassero alla vita vostra disperdano i nemici vostri; negli istanti della agonia, quando sarete privi dei baci della madre vostra essi vi anticipino, quel bacio che vi è riservato da Dio.
Essi accostando il loro cuore, vicino al cuor vostro che sarà già quasi freddo, lo riscaldino con le loro ali soffici.
Essi vi chiudano gli occhi dinanzi ad una terra di lacrime ve li riaprano in una terra di sorrisi.
Essi trasportino velocemente lo spirito vostro in Paradiso fra la musica dei Cherubini e i canti dei Serafini.
Gli Angeli vi consegnino a Dio perchè con Lui abbiate a restare per sempre.
Gli Angeli discendano poi a comporre la salma vostra e mettendovi fra le mani il segno della redenzione, sollevandovi dal giaciglio pianamente vi depongono nella terra.
Gli Angeli prima che questa terra vi ricopra, vi mandino un ultimo saluto in nome dell'Italia, in nome della civiltà, in nome della famiglia vostra.
E vero le vostre ceneri rimarranno in terre barbare e straniere..... ma credete voi per questo saranno esse dimenticate?
I cuori degli Italiani, i cuori dei cari vostri colla velocità del fulmine al mattino passeranno i mari, i deserti infocati, le foreste vergini e verranno a dirvi che nella giornata della vita sono con voi, alla sera ripeteranno la loro peregrinazione e vi assicureranno che per loro non muore chi vive nel Signore.
Le ossa vostra si scuoteranno, il cuore vostro, mosso dal vostro spirito che sarà in Cielo, uscirà dalla terra, e voi conoscerete allora che la morte può allontanare la persona amata, ma non la può distruggere.
O cari i nostri Missionari! Siate voi giovani, siate voi vecchi, voi avrete sui sepolcri vostri delle sentinelle vigili, che saranno gli spiriti del Cielo. Saremo noi tutti che veglieremmo perchè siano rispettati gli avanzi di coloro che amarono Dio e la patria loro.
O cari i nostri Missionari! I fiori di ogni grazia allietino la vostra carriera mortale e i fiori celesti vi siano riservati.
Io vi saluto, o Missionari, e onesto saluto che mi parte dal cuore, sia accompagnato dal voto che gli Italiani si muovano in favore vostro.
Se fossi ministro, vorrei che le Missioni cattoliche fossero largamente aiutate, vorrei incoraggiare i comitati lodevolissimi sorti a vantaggio dei Missionarj, perchè un buon Governo deve in questi suoi sudditi riconoscere li intrepidi soldati del progresso.
Come il soldato Italiano sa morire con coraggio pensando alla libertà della patria, così il missionario Italiano sa morire con pari fortezza pensando alla fede e alla civiltà della patria.
È lo stesso Dio che li anima, è lo stesso Dio che li fa combattere da prodi, è lo stesso Dio che a loro serba la palma della vittoria.
È vero le Dame Italiane che furono sempre le prime a rispondere alla voce della carità adempiono premurose a questa opera santa; è vero uomini di rispettabilità somma coadiuvano le nostre Dame, ma questa alleanza benevola mi piacerebbe vederla crescere nei suoi aderenti, vorrei che in essa potessero sorgere campioni fervorosi, come il Tenente Generale Conte Genova Thaon de Revel, comandante di corpo d’annata in posizione ausiliaria.6
Quest’uomo che la storia ci addita come un valoroso soldato, quest’uomo che il suo Re lo stima e lo ama, quest’uomo che Milano lo proclama esemplare, che la nobiltà tutta lo dice cavaliere perfetto, quest’uomo che la Carità fece d’oro il suo cuore, non potrebbe avere più numerosi seguaci?
Nel 1893 il figlio del Generale, tenente di cavalleria, morì e nella chiesa di San Marco a Milano si celebrava l’ufficio funebre per l’anima sua.
Recatomi in quella chiesa osservai il desolato padre che mi commosse alle lagrime.
Tolta la bara dal tumulo fu portata sul carro e due signori avvicinatisi al Generale lo abbracciarono.
La sua fisonomia esile era bianca come la neve, gli occhi suoi erano annerati per il forte dolore, il Conte Genova mi passò accanto e poi spari nella moltitudine.
Una vecchierella che con me avea assistito alla scena pietosa mi soggiunse: — quello è il padre dei poveri, è il protettore dei nostri Missionari, ci fossero molti che l'imitassero quel bravo Generale, — e facendo la strada mi raccontava aneddoti che mi intenerivano.
È passato quasi un anno da quella data, ma la figura del valoroso soldato più che scolpita nell’anima di artista, la tengo presento al cuore, è passato quasi un anno da quella data! ma la vecchierella ammiratrice del protettore dei nostri Missionari mi pare sempre lasciarla con una stretta di mano all’angolo del Palazzo di Brera.
Voglia Dio che il desiderio di quella vecchia si avveri, a far paga la brama ardentissima di me giovane.
Dinanzi ai nostri Missionari la gioventù e la vecchiaia, sentono uguali i palpiti dei loro cuori.
Gli Italiani giovani salutano con entusiasmo chi aiuta le missioni, perché si allietano nel pensare che altri giovani addivenuti Missionari avranno un meritato sollievo.
I vecchi Italiani salutano con uguale entusiasmo chi aiuta le Missioni, perché si consolano nella certezza che altri vecchi si rallegreranno nel vedere i sacrifizi dei loro figliuoli apprezzati e da altri condivisi.
Giovani e vecchi dobbiamo assieme formare una interminabile catena, dobbiamo dalle une alle altre mani nostre far passare il soccorso nostro finché giunga a coloro che ci hanno abbandonati per fermare in terre lontane il vessillo della Religione, la bandiera della patria.
Tutte le nostre mani, tramite di questa opera buona saranno benedette, tutti, vecchi e giovani potranno guardare fiduciosi alla Croce, tutti potranno vantare di avere cooperato a tenere in alto la bandiera dell’Italia.
Essa irradiata dai raggi infocati di un sole tropicale o risparmiata da un freddo glaciale, sarà sempre rispettata perché apportatrice di ogni bene.
Essa nelle sue pieghe bianche parlerà della Creatura più pura.
Essa sventolerà verdeggiante del colore della speranza.
Essa col suo rosso vivissimo indicherà l’amore caritatevole.
La Fede, la Speranza, la Carità avranno fatta grande l’Italia e noi potremo asseverare di esserne stati compartecipi orgoliosi.
Destiamoci tutti a questo ideale che ci commuove e voi, Dame generose, che voleste farvi iniziatrici di opera così fiorita, inculcate nei cuori dei vostri figliuoli sentimenti nobili come i vostri.
Oh i bambini vostri che godono i vezzi vostri, potranno dire di avere salvati altri bambini che i genitori abbandonavano.
Or sono ventisei anni, la mia dolcissima Madre, già aggravata da malore fiero, assieme ai miei fratelli mi volle accanto a lei, e con quella amabilità che era in lei naturale, — figliuoli, ci disse; — il missionario Nicoló Olivieri, vi domanda la carità per riscattare dei fanciulli Mori, che sono poveri, siete contenti? Io sono soddisfatta di aiutarlo quel bravo missionario dunque facciamo assieme una offerta.
La risposta come potete intendere fu affermativa e il liberatore dei piccoli Mori ebbe un soccorso discreto.
La Madre mia, dopo tempo breve morì e si può attestare che quell’atto suo di affezione verso i Missionari sia stato il suo testamento morale.
O madri Italiane, per il bene morale e per la gioja dei figliuoli vostri non lasciateli privi di Voi, in questa terra.
Ma Voi, madri, vivete per molti anni ancora al loro amore e per parlare loro dei nostri Missionari.
Il linguaggio vostro, è una freccia che non conosce ostacoli, è un dardo di amore che penetra senza ferire.
Il linguaggio vostro è come una rugiada benefica che leggermente cade per migliorare i fiori e i frutti che profumano ed arricchiscono la terra.
I fiori profumati li avremo nei figliuoli vostri che cresceranno puri come il giglio, robusti come la rosa, simpatici come la mammola; i frutti gli avremo nei vostri figliuoli che apporteranno esempio di Religione e di patriotismo.
Ma Voi, madri, vivete per molti anni ancora, e all’amore dei vostri figliuoli e per parlare loro della Carità.
II linguaggio vostro, è una fiamma benefica che si presenta per ogni dove, che s’insinua per ogni parte, che giunge nel più recondito dei cuori.
In nome della Carità i figliuoli vostri incaloriti da questo fuoco, non si abbandoneranno all’indifferenza del mondo, ma sapendo ben distinguere la virtù dal vizio, il sacrifizio dall’egoismo si faranno altri paladini energici del bene comune.
I vostri cuori di madre, pensino ad altre madri, che non possono più avere vicini i frutti del loro amore.
I vostri cuori di madre, pensino a molti altri figliuoli che per la Fede e la civiltà soffrirono nel lasciare i loro genitori.
I vostri cuori di madre, pensino che qualcuno dei stessi vostri figliuoli, può essere chiamato ad accrescere il numero di quelli apportatori invitti di pace che oggi Voi stesse soccorrete.
I vostri cuori di madre, pensino che le preghiere dei Missionari che avrete aiutati, si riverseranno sui vostri cari e saranno per loro di conforto valido per vivere bene e per sapere combattere le battaglie della vita con senno e con fortezza.
A Voi, o Dame Italiane, lascio il mandato di sovvenire le Missioni Cattoliche, a Voi, o Cavalieri della civiltà, l’incarico di coadiuvarle. Sollecitate i parenti vostri, i vostri conoscenti, gli amici vostri, non risparmiale neppure il Governo, perchè il Governo in nome della stessa civiltà non vi può e non vi deve negare il suo appoggio.
⁂
Ma voi mi domanderete....
Che cosa fareste riguardo ai cattolici se voi foste ministro?
Se fossi ministro ragionerei così:
Il primo articolo del nostro Statuto proclama;
La Religione Cattolica, Apostolica, Romana essere la sola Religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti essere tollerati conformemente alle leggi.
Ora interprete fedele dello spirito della legge, non potrei che vedere di buon occhio, i seguaci di questa Religione, perchè essi non dovrebbero essere altro che i zelatori del principio morale riconosciuto necessario per il bene nazionale.
Infatti come potrei agire diversamente quando questi sudditi, che sono la maggioranza del Paese seguono le leggi divine?
Gli uomini più grandi di Stato riconobbero tutti il Vangelo quale il codice primo dell’Umanità e molti di loro affermarono che ai popoli incolse male ogni qualvolta essi si allontanarono da Dio che è il fondamento sul quale si basa la Religione Cattolica.
Se fossi ministro, non potrei disconoscere che solo si può far sentire una mano di ferro sopra i sudditi quando questi disconoscono le autorità regolarmente costituite o si ribellino alle loro leggi.
Ma la Religione Cattolica inculca ai suoi seguaci riconoscere le autorità regolarmente costituite e raccomanda di obbedire alle loro leggi, dunque io se fossi ministro non potrei ritenere di avere nei cattolici dei sovvertitori.
La Religione dello Stato è la Cattolica, dunque metterei ogni studio perchè le leggi si inspirassero a quanto essa insegna e mai contro di essa.
Giacché non è ammissibile che gli uomini di Stato abbiano pensato, voluto, formulato, proclamato quale una legge il primo articolo dello Statuto o per semplice burla o per vile ipocrisia.
Questo sarebbe il programma ministeriale che avrei per i cattolici.
Che se in questi sudditi ve ne fossero anche di coloro che pure usufruttando delle buone leggi, volessero turbare la quiete della Nazione, saprei colpirli senza pietà perchè prima di essere ribelli alle leggi dello Stato, essi sarebbero ribelli alle leggi di Dio e chi è contro Dio è contro lo Stato.
Ma mi chiederete:
La Religione di Dio, come tutte le altre Religioni, al culto interno ha unito il culto esterno e perchè questo sia perfetto, vuole atti pubblici, manifestazioni pubbliche, pubblici segni di gioia, pubblici segni di dolore.
Voi accettereste, la Religione dello Stato con tutte queste esteriorità?
Vi rispondo:
Siccome non si può fare una legge in favore di un dato principio o di una data cosa, senza accettarne le sue sostanziali indivisibili parti, così essendo il culto esterno una sostanziale indivisibile parte della Religione dello Stato, legalmente proclamata, io non potrei accettare in questa Religione dello Stato, una Religione con restrizioni vezzatorie al pubblico esercizio di tutto il suo culto, a norma delle sue dottrine e secondo le sue proprie leggi.
Se i sudditi cattolici, liberi cittadini come gli altri devono sottostare alle leggi nè più nè meno degli altri sudditi, altresì però giustizia e libertà vogliono che essi godano anche dei vantaggi e dei diritti di queste leggi e perciò le loro manifestazioni esterne del proprio culto non possono impedirsi, tanto è vero che a diverse riprese la Corte di Cassazione di Torino, di Firenze, di Palermo e di Napoli, chiamarono abuso di potere certi provvedimenti emanati dai prefetti in forza della circolare Nicotera 28 luglio 1870, colla quale per le processioni fuori di chiesa si pretendeva imporre la preventiva autorizzazione.
Comprendo, vi possono essere dei casi che l’Autorità possa per ragioni di sicurezza pubblica proibire queste pubbliche manifestazioni, ma solo essa lo può lare e lo deve fare quando vi sia giustificata necessità.
Il celebre ministro Conte Gallina ai tempi di Carlo Alberto informato che un Vice Intendente avea proibito una processione perchè temeva disordini, non ne volle di più e destituiva immediatamente il Vice Intendente, mandandogli a dire — che i pubblici funzionarii sono posti appunto per contenere i disordini, e non perchè inceppino i diritti e la libertà dei cittadini7.
Se i ministri di re Carlo Alberto in omaggio alla giustizia e alla libertà facevano questo, perchè i ministri di re Umberto si credono autorizzati a cambiare sistema?
Per altro anche a quei tempi esistevano mestatori, come ai nostri giorni; le processioni di allora che forse in qualche cosa avevano del teatrale, anzi in oggi si sono modificate, perchè rendersi ministri dell’arbitrio?
La maggioranza del popolo, come a quell’epoca desiderava assistere nelle città a questo sfilate e non solo per principio di Religione, ma perchè quelle feste attraevano gran gente dalle campagne con commercio per tutti.
Si dirà: ma se per avere accordato il permesso a una manifestazione pubblica religiosa, accadessero dei guaj, di chi la colpa?
La colpa sarebbe tutta del Governo non già per avere lasciato fare quella manifestazione, ma bensì per la sua debolezza nel non essere stalo capace a tutelarla.
Via, quando un Governo non sa tener fronte alle grida della piazza o è debole o è complice.
Nel visitare l’Italia, io vidi di frequente tumulti per manifestazioni politiche, di rado per manifestazioni religiose.
Che se a discolpa si accenna a proibire certi atti del culto esterno per prevenire gravissimi disordini io dirò che questi gravissimi disordini non esistono se non nella fantasia di alcuni pubblici funzionarii che nei cattolici vedono sempre degli uomini pericolosi alle istituzioni, mentre gli stessi pubblici funzionarii poi lasciano i veri nemici della patria agire a loro talento.
Io era giovane e ospite a Legino presso Savona di una nobilissima Famiglia8.
In quella Casa ove con ogni squisitezza di cuore e di educazione regnava pure il più grande rispetto per la Religione e per la patria, mai si trascurava di prender parte a quelle feste che sono care ai cuori dei buoni cittadini.
È celebre in Italia il Santuario di N. D. della Misericordia.
Ogni anno la città di Savona che lo ha nel suo circondario, festeggia la festa della Madonna il 18 marzo con una processione solenne.
A chi rappresentava il Governo in quei giorni venne in mente di discutere sulla opportunità di quella manifestazione, appunto invocando a sua scusa la possibilità di gravissimi disordini.
Prevalse il volere giusto dei Savonesi cattolici ed io che potei assistere a quella imponente processione, dovetti constatare che non avvennero disordini di sorta e che il sotto-prefetto era egli il disordinato giacché governava senza giustizia e contro il principio della libertà.
Quello che vidi a Savona si ripete di frequente in altre città italiane, prova che i pericoli di questi gravissimi disordini sono volontariamente, sistematicamente immaginati e dichiarati allo scopo d’impedire ai cattolici le manifestazioni esterne del loro culto.
Se io fossi ministro a questo procedere illegale del Governo, metterei il riparo non solo per ossequio alla giustizia e alla libertà, ma anche perché non potrei mai dimenticare le parole di Giuseppe Mazzini che al riguardo così si esprimono:
..... Male si tenta spegnere il sentimento religioso dei popoli, inserito in essi dal murmure della coscienza e dall’istinto di fratellanza che li affatica.....
Un Governo che calpesta il sentimento religioso di un popolo è il peggiore dei Governi, perchè il privare i sudditi a qualsiasi Religione appartengano degli atti esterni riguardanti il loro culto è cosa da Governo che non è liberale; il negare ai sudditi che seguono la Religione dello Stato le manifestazioni pubbliche di questa Religione è poi da Governo tiranno.
Se io fossi ministro, ripeterei alle Camere quello che il giorno 8 marzo di quest’anno Casimiro Perier, capo del Ministero francese, disse a voce alta a quel Parlamento:
— Una politica gretta e vezzatoria verso i cattolici sarebbe indegna.
Alla fine di questi paragrafi riguardante la Religione, il suo capo, i suoi vescovi, il suo clero, i suoi seguaci io avrò forse da non pochi lettori, una critica assai severa.
Ma se essi saranno imparziali, dovranno riconoscere che io non sono schiavo ad alcuno.
⁂
Passando ora all’Istruzione Pubblica, ecco quanto vorrei se fossi ministro.
Sano e chiaro insegnamento religioso obbligatorio per i fanciulli.
Sano e chiaro insegnamento filosofico per i giovani.
Sano e chiaro insegnamento storico, geografico, scientifico letterario per tutti.
E comincio dall’insegnamento religioso obbligatorio per i fanciulli, perché lo ritengo la base del bene individuale dell'uomo e per conseguenza della nazione.
Io non mi diffonderò molto in questa materia, perché credo che questa mia idea che avea per il passato molti accaniti avversarii, ora invece ha molti aderenti, giacché tolta dal cuore del fanciullo la Religione non si avrebbero più dei buoni sudditi, ma dei pessimi sudditi.
E qui citerò una bellissima lettera del celebre Conte Federico Sclopis, Senatore del Regno, la quale è sufficiente a mettere ogni cosa al suo posto.Torino, 2 settembre 1874.9
«Non esito a manifestare alla S. V. la ferma mia opinione sopra la questione dell’istruzione religiosa che ebbi già più d'una volta ad emettere segnatamente nel seno del Consiglio Comunale di Torino, di cui son membro.
L’opinione mia è adunque, che, non solamente utile, ma necessario sia l’impartire l’istruzione religiosa ai. giovani nelle scuole elementari e nelle secondarie, e che corra obbligo ai maestri di darla con grande attenzione e decoroso contegno, e agli allievi di riceverla ed esporla come parte degli esami.
Tale obbligo, a mio credere, debb’essere generale, e solo possono andarne esenti i giovani appartenenti a famiglie non cattoliche, o quelli che, con espressa dichiarazione, i parenti che li hanno in cura, voglian sottrarre al medesimo.
Non istarò a discutere con lunghe parole la necessità di questa prescrizione; ma anzitutto avvertirò non sussistere quella solita riserva, con che si cerca da taluni di rendere accettabile la soppressione dell’istruzione religiosa in iscuola, cioè che essa debba procurarsi dalle famiglie. Ora è evidente che nel massimo numero delle famiglie non si ha il mezzo di attendere diligentemente a siffatto dovere; e pur troppo in molte case i parenti che meno si curano di mandare i figli alla Chiesa avrebbero bisogno al paro di essi di apprendere il Catechismo.
Egli è un funesto errore il sostenere, che quella, che chiamano ora morale indipendente, vale a dire, senza principio di sanzione religiosa, valga a frenare nella massima parte degli uomini l’impeto delle passioni, e a mantenerli sulla via del dovere. Tolta, o negletta l’idea fondamentale dell’obbligo dell’uomo di rendere conto delle sue azioni a Dio, la coscienza si svia ed ammutisce, e la spinta a darsi in braccio alle passioni, ed a godersela a suo talento in questo mondo si fa più e più violenta, e diviene irresistibile. Di qui nascono le terribili perturbazioni, che traggono a rovina intiere popolazioni. Questa è la strada che conduce l’uomo alla servitù; per essere liberi davvero conviene avere un’idea retta dello scopo della libertà, il quale consiste nel mantenere la giustizia e l’equità per tutti. Chi è dominato dalle sue sregolate passioni, ne subisce la schiavitù e non rispetta i diritti altrui. La Religione è la chiave dell’edifizio sociale. Questa verità la sentiamo in noi stessi, se discendiamo nell’intimo della nostra coscienza; la filosofia ce l’addita, la storia la conferma. Cercate ciò che si pratica nelle scuole dei popoli i più potenti, i più progressivi in materia di civiltà, come, ad esempio, l'Inghilterra e l’America settentrionale, e troverete che colà si alimenta nelle scuole il sentimento religioso10.
Com’ella vede, riveritissimo Signore, io mi astengo dagli argomenti prettamente religiosi, che sono pure rilevantissimi, ma che torse non si apprezzerebbero bene dagli oppositori dell’istruzione religiosa, e chiudendo questa mia lettera.... mi limiterò a riferire alcune parole di un grande ingegno, di un nostro contemporaneo, cui nessuno contesterà il titolo di vero e schietto liberale, il Villemain. Egli scrisse «Toutes les forces morales se tiennent dans ce monde: la fermeté de la conscience religieuse est un appui pour la fermeté de la conscience civique; les croyances à l’ordre spirituel sont d’autant plus capables de convinctions et de sacrifices dans l’ordre temporel, et le sentiment du devoir et de la dignité morale est une des choses qui garantissent le mieux la probité politique.11»
Egli è nelle scuole che si hanno, per così dire, a succhiare questi principii, perchè durino poi per tutta la vita.
Mi pregio di essere
Suo devotissimo
Federico Sclopis.»
E questa lettera potrebbe bastare, perchè se io fossi ministro, avessi a stabilire obbligatorio l’insegnamento religioso nelle scuole.
Che se nella attuazione di questa legge trovassi nel Parlamento e nel Senato delle difficoltà, allora vorrei un appello alla volontà dei padri di famiglia, giacché ad essi solo compete il dovere ed il diritto di tutelare gli interessi dei propri figliuoli.
Quale sarebbe il responso di questo appello?
Io lo conosco, perché questo appello medesimo, già stato fatto per il passato per volere di alcuni importanti Municipi, confermò replicatamente, che il popolo vuole Dio nelle scuole perchè vi dirò con il Senatore Edoardo Porro, valoroso soldato, medico celebre che non bisognerebbe aver cuore per privare le tenere menti dei fanciulli di quella idea che un giorno loro sarà forse l’unico conforto nella sventura.12
Posto dunque a base generale l'insegnamento religioso obbligatorio nelle scuole, non mi crederei però esonerato dall’ordinare ai singoli Municipi di dispensare da questo insegnamento tutti quelli fanciulli che per mezzo dei loro genitori avessero dichiarato di non volerlo.
Perchè sel sappiano, certa gente a qualsiasi partito appartengano, se si vuole rispetto per le individuali opinioni bisogna prima saper rispettare quelle degli altri.
E andiamo innanzi.
L’istruzione elementare, per il vero, in Italia, nel suo complesso, è buona, ma si dovrebbe in essa evitare il cambiamento, troppo frequente, dei libri detti di testo, e per meno confusione delle teneri menti dei fanciulli e per economia delle loro famiglie.
Se fossi ministro, invigilerei perchè i locali delle scuole pubbliche e private avessero luce, aria, pulizia, essendo queste doti reclamate dall’igiene.
E perchè questi nostri cari figliuoli trovassero nei loro maestri non solo istitutori colti ma anche uomini di buona maniera, darei maggiore incremento alla pedagogia, col richiedere in essi l’attitudine voluta e incoraggiandoli con stipendi sufficenti e con pensioni meno ridicole.
Se fossi ministro, vorrei che i giovani avessero un sano e chiaro insegnamento filosofico e perciò riguardo alla filosofia terrei una linea di condotta ben distinta.
Inutile vociare che i principi Tomistici, siano da seminario; io, lieto d’averli appresi, volendo avere pure cognizione di altri sistemi, mi sono convinto con il celebre Ausonio Franchi, che la critica imparziale finisce col condannare in gran parte antichi e moderni filosofi, lasciando solo vincitore il sommo Aquinate.
E per questo attorniandomi dei filosofi i più specchiati, darei loro incarico di formulare un compendio di sana filosofia che non dipartendosi dal vero, accettasse però tutto quanto il progresso del pensiero, il progresso della scienza, il progresso dello studio e la evoluzione naturale del mondo possono aver trovato atto a portare sviluppo intellettuale nell’uomo.
Se fossi ministro, vorrei altresì che i giovani avessero un sano e chiaro insegnamento, storico, geografico, scentifico e letterario.
E cominciamo dalla storia:
Desiderando che gli Italiani conoscessero bene i fatti del proprio paese, senza riguardi per nessuno, ordinerei un estratto fedele della Storia Universale di Cesare Cantù e non mi dipartirei di qui perchè, come mi diceva un illustre storico tedesco:
— Nella storia del vostro Cantù avete quello che nessuna nazione ha nelle sue storie; il segreto cioè della verità.
Nei volumi, di questo vostro scrittore, voi avete una imparzialità che alcune volte si giungerebbe a credere quest’uomo che parla dell’Italia non fosse italiano.
Le vostre glorie italiche, le sconfitte vostre, le vostre gioie, i dolori vostri, i vostri meriti, i vostri demeriti, sono là per dire che un popolo per essere grande, deve conoscere se stesso.
La storia per un popolo è come uno specchio, affissandosi al quale non si possono nascondere nè le proprie bellezze, nè le proprie deformità.
Ma la storia al presente non si vuole più imparziale, ed a ogni persona piacerebbe raffazzonarla a proprio comodo.
Certi storiografi, servitori di un partito, mi ricordano uno scultore germanico, del quale i giornali parlavano in questi mesi.
A costui si era dato incarico di fare il progetto del monumento a Guglielmo il vittorioso.
Egli attorno al protagonista avea collocato le statue di tutti coloro che con il vecchio sovrano cooperarono all'unità germanica, ma la persona di Bismark non figurava fra queste.
Perchè?... una dimenticanza?... forse una vendetta?... nulla di tulio questo: l’artista per semplice servilismo voleva distruggere la storia.
Egli conosceva che tra l’attuale Imperatore di Germania e l’ex Cancelliere di ferro, i rapporti erano tesi e perciò sperando ingraziarsi il monarca pensò lasciare in disparte il ritratto del principe di Bismark.
Ma lo scultore disgraziato avea fatto male i suoi conti, giacché mentre si dovea decidere le ultime modalità ili quel monumento, appunto in quei giorni, il biondo Sovrano volle far la pace con l’antico ministro della sua Casa e la famosa bottiglia di vino inviata dall’Imperatore a Bismark, con felicitazioni per la sua convalescenza, confermò allo scultore, che la storia si può falsare ma mai distruggere.
Lo comprendo, vi sono dei fatti che sono poco onorevoli per qualsiasi partito; ma per questo si dovranno annientare?
Lasciate alla storia l’aureola della imparzialità, non ne avranno male nè i bianchi, nè i neri, nè i rossi.
Questo è il mio consiglio!
Se fossi ministro, dopo gli studi storici, vorrei altresì che l’insegnamento geografico tanto necessario per una nazione, fosse impartito col validissimo aiuto delle carte in alto rilievo; essendo questo pratico sistema il più rapido perchè nei giovani resti un concetto esatto della planimetria della terra e perché nelle loro menti ogni sua particolarità rimanga più distinta.
Riguardo alle scienze fisiche e matematiche esse dovrebbero ridursi alla massima chiarezza nella loro esposizione, convenendo tutti, che il più delle volte, per sistemi d’insegnamenti troppo tecnici e poco pratici, gli studenti escono dalle scuole della fisica e della matematica che compresero poco o non compresero.
Che dire poi della lingua greca e del latino?
Quanto alla lingua greca io sarei per ridurre a una sola nozione generale questo spauracchio dei giovani e invece aumenterei la severità per il latino.
Cicerone, Virgilio, Orazio, Tito Livio, vorrei più studiati perchè chi non s’intenerisce e si migliora nel sentire le lamentazioni del Poeta mantovano? chi non s’ingentilisce per gli scritti di Orazio o di Tito Livio?
Dopo la lingua greca e la lingua latina, ordinerei si dovesse propagare l’idioma francese, perchè essendo esso come il linguaggio internazionale e per l'istruzione e per il commercio è di assoluta necessità.
Venendo a parlare della letteratura patria vorrei che il suo insegnamento fosse perfezionato.
Se fossi ministro, io per il primo non vorrei mancare a questo dovere e cercherei ogni mezzo affine di migliorare i nostri studii classici.
Saremmo da scusare se non avessimo dei maestri che ci potessero dare tutti i lumi possibili, ma quando noi abbiamo i più grandi letterati e poeti del mondo, perché non volere progredire nella istruzione delle lettere nostre?
Io penso alle quattro auree colonne che sostengono la corona immortale della poesia italiana, perchè a quella corona non aggiungiamo nuovi allori?
Ma ohimè, che al bello ideale della letteratura e della nostra poesia abbiamo voluto far seguire un verismo che ci ha allontanati e dalla morale e dal bel parlare.....
Si è voluto seguire la moda, o meglio abbiamo con la decadenza morale trascinate quasi nel fango le nostre rispettale e gentili tradizioni letterarie. Ci siamo ingannati, o ci hanno ingannati; e così il Vero, il Bello, il Buono è discusso; diciamolo non si vuol più.
E pazienza si fosse cercato di voler cose meno pure, ma a questa mania si pretese che anche le lettere e la poesia avessero da seguire l’influsso della politica.
Ma qui il gravissimo male della politica nei nostri studi non si arresta a manifestazioni più o meno platoniche, ma nelle frequenti agitazioni universitarie si scese e si scende perfino alle vie di fatto.
Ricordo con vera compiacenza che frequentando io l'Università di Genova dove tenea cattedra di Matematiche l'illustre Canonico Antonio Costa, un giorno, in momenti di urli e di fischi, che da molti studenti si facevano a un professore, egli, amatissimo da tutti, adunò quella turba agitata e disse loro:
— Cari giovani, potrete avere oggi ragione; ma se vorrete fare grande la Patria, mai portate nelle scuole la politica, studiate e quando uscirete da questa Università, con i vostri diplomi di laurea, potrete allora essere utili cittadini nella politica, ma per giungere a questo, bisogna avere un buon fondo di sapere acquistato con ordine e tranquillità, addivenuti uomini conoscerete la verità di questo mio avviso e mi ricorderete se non con affetto almeno con benevolenza.
Dopo vent’anni che egli pronunciò queste sue parole è veramente con grande affetto che ricordo il chiarissimo maestro e pubblicando il suo prezioso avviso, rendo omaggio a uno dei miei più cari amici che sparirono dalla terra.
Potessero queste sue parole essere comprese da chi ci governa, fossero accettate in buona parte dai giovani, e il nostro avvanzamento morale, filosofico, scientifico, letterario sarebbe assicurato.
⁂
Se fossi Ministro, vorrei giovare alle arti belle.
Esse sono tre mie buone amiche, che quasi appena nato mi baciarono in fronte.
La pittura, la scultura, l’architettura, mi furono fedeli nei loro amori, ed io queste tre care amiche le amai, le amo e le amerò sempre di tenerissimo affetto.
Mi piacerebbe di vedere la pittura, gentile come era gentile nella chioma della Fornarina di Raffaello, imponente come nel giudizio di Michelangelo, divina come nel Paradiso dell’Angelico.
La scultura vorrei mi presentasse dei nuovi seguaci del Donatello, nuovi imitatori del Canova, dei nuovi discepoli del Duprè, e del vivente Monteverde.
L’architettura mi piacerebbe facesse rivivere in Italia dei Bramanti, dei Paladii, degli Alessi, dei Rernini.
Questi sono i miei desiderii, i quali se da idealità passassero a realtà l’Italia avvantaggerebbe nelle sue arti e rivedrebbe i felici tempi di Leone X e di Giulio II.
Che si possa giungere a tanto temo assai, ritengo però che si potrà giungere a un indiscutibile miglioramento se il Governo vorrà fare alcunché in lavoro di queste nostre care arti.
In Italia abbiamo, è vero, dei buoni maestri, ma essi sono pochi.
In Italia abbiamo dei giovani di grande ingegno, abbiamo dei giovani che studiano, abbiamo dei giovani che pazientemente lavorano.
Perchè non si pensa a incoraggiarli con delle gare a premio, dove essi possano concorrere con entusiasmo, non solo per la materialità del benefizio, ma più ancora per l’amore e la gloria dell’arte?
Lo comprendo, il Governo è male in finanze, non può e non deve spendere, ma se un ammalato è grave, dunque per il risparmio di una medicina si deve lasciar andare al Cimitero?
Si muova il Governo, pensi e faccia un po’ più per le arti belle e per quanto possiamo tutti diamoci la mano, affinchè queste arti risorgano.
Scrivo questi pensieri nel giorno di Pasqua. Gli Angeli della Risurrezione, partano dalla mia cameretta, vadano a bussare agli usci profani dei Ministri e loro consegnino il voto mio, di vedere cioè risorgere la pittura, la scultura, l’architettura.
Se le Loro Eccellenze non volessero riceverli, si giovino Essi delle loro qualità incorporee, penetrino allo stesso modo nei loro gabinetti, sconvolgano il loro studio, facciano come fanno i dimostranti della piazza, che con le loro prepotenze riescono alcune volte vincitori, perchè i vinti se non fosse per altro vogliono avere la pace.
Se fossi ministro, quante cose farei per far risorgere le arti?
E anzitutto:
Vorrei che la Commissione governativa per la conservazione dei Monumenti non avesse a vivere di una vita rachitica.
Constatai che dai membri di questa istituzione si lavorò, ma si poteva fare di più se ci fosse stata maggiore unità di direzione, più studio teorico, più coraggio pratico.
E mi faccio questa domanda: Esistono davvero al Ministero le note e le copie a disegno di tutto quello che vi ha fra noi di buono e di bello, così antico come moderno?
Io credo di no; giacché se ciò fosse non si vedrebbero di qua e di là certi quadri, certe statue, certi edifici lasciati in modo da fare pietà.
So benissimo, il Governo non può stanziare somme ragguardevoli allo scopo; ma se non può spendere per la conservazione di tanti Monumenti, almeno trovi maniera rimangano le memorie o i disegni di essi, altrimenti la sua non sarà impotenza, ma deplorevole trascuratezza.
I celebri architetti Heinrich Halmhuber e A. Widmann di Stuttgard nel 1880 mi dicevano:
— Quanti gioielli artistici avete voi Italiani lasciati in dimenticanza, o trascurati! Se fossero in Germania sarebbero guardati come tesori!
Come si fa, mi sento ripetere, come si può rintracciare e conservare tutto? La Nazione è povera, ci vuol altro che pensare alle arti belle mentre si muore di lame! Lo so, traversiamo direi un periodo acuto per la Cassa dello Stato, ma perchè non trovare mezzo di riuscire allo intento medesimo senza andare a un esquilibrio finanziario?
Anzitutto, perchè non prendere esempio dalla Germania, che ha le sue squadre di volontari appassionati cultori delle arti belle?
E chi sono essi mai?
Un simpatico giovane tedesco, che appunto era fra i capi di queste carovane, il conte Becker, mi raccontava essere in Germania il sentimento favorevole alle arti così naturale, che i giovani di distinte famiglie combinano nel loro paese escursioni per cercare, studiare, riprodurre quanto vi è di meglio nell'arte, e la loro azione non essere solamente circoscritta alla Germania, ma anche estendersi per le altre nazioni.
Il governo informato di questi esploratori o touristes delle arti ne usufruisce, accordando loro un qualche aiuto, perchè facciano queste loro ricerche, ma poi finisce con avere egli stesso tutti i disegni dei più bei monumenti nazionali.
E noi medesimi non vediamo questi stranieri traversare l’Italia intiera, senza posa, senz’altro pensare che alle arti da loro amate?
Non li vediamo cotesti giovani penetrare in ogni paese, uscire da tutti i buchi, impolverati fino agli occhi, lieti del rintracciamento di un bel capitello, come un conquistatore di guerra è superbo dei suoi trofei?
Si tratta di una bella tela, in una chiesuola di montagna alta mille metri sul livello del mare, ma a questi giovani poco importa, essi gridano excelsior per la pittura, e riescono a giungere colà e vi portano via una fedelissima copia di quel dipinto. Si tratta di una statua della quale hanno sentito a parlare e questa statua è sopra la guglia di una cupola, ma a questi giovani non importa, essi gridano excelsior per la scultura, e li vedete legati con funi alla vita farsi sospendere fra il cielo e la terra allo scopo di poter avere una fotografia di quel marmo.
Si tratta di una elegante architettura e voi troverete questi giovani vagare per la vostra città con pertiche di sei o sette metri tranquillamente misurarne le sue parti; ma a questi giovani poco importa, essi gridano excelsior per l’architettura e questi operai volontarii vi presentano disegni di certi dettagli artistici che erano nella casa vostra e che voi ignoravate!
Perchè in Italia il Governo non incoraggia i giovani a fare altrettanto?
L’Italia ha il Boito, ospita il D’Andrade, due illustri conoscitori dell’arte, l’uno il campione della penna, l’altro il ricercatore studioso di ogni bellezza antica, perché non invitare questi uomini di fama mondiale a tenere nelle Accademie nostre conferenze intorno i nostri tesori artistici?
E con compiacenza, se Genovese, posso con la coscienza della verità, dire che la mia città natale oggi ci addimostra che prima fra le altre città italiane agisce in conformità al desiderio mio.
So che il Consiglio Accademico di quella città chiamò due chiarissimi giovani ammiratori e discepoli del Boito e del D’Andrade a reggere due uffici importanti di quell’Accademia.
Giuseppe Campora fu nominato Professore della Storia dell’Arte. M. Aurelio Crotta fu nominato Professore di Architettura.
Chi conosce l’ingegno e lo studio di questi giovani deve essere ben grato a quel Consiglio Accademico, perchè se i Campora e i Crotta fossero in ogni provincia dell'Italia, noi potremmo essere certi di vedere coll’opera nostra a salvaguardare il bello antico dell’arte.
Ma l’artista deve spingere il suo pensiero a coloro in modo speciale che possono avere cooperato a dare a Genova due maestri così commendevoli e soffermandoci al D’Andrade, alla memoria dello scultore Agostino Allegro, e alla persona del prof. Tamar Luxoro, posso dire che essi furono le menti intelligenti che prepararono il Campora e il Crotta agli onori presenti.
Se fossi ministro, non trascurerei di aumentare lo studio del nudo nelle nostre Accademie, perchè se la pittura moderna al presente ha un buon colorito, manca però del vero giusto contorno e la scultura quantunque bene ingentilita, pure è priva di quelle scalpellate che mostrano l'artista profondo nella anatomia umana.
Se fossi ministro, crederei necessario riordinare le scuole per le Arti e per i Mestieri.
E qui sono proprio felice di citare quanto espone al proposito uno scrittore forse poco conosciuto in Italia, ma degno del massimo plauso.
Io aveva già dato alle stampe il libro Salviamo l’Italia, quando trovatomi con l’amico mio il chiarissimo Prof. Pacchioni, insegnante di disegno nella Regia Scuola Tecnica Piatti e nel Regio Ginnasio Manzoni in Milano, fui entusiasmato nel sentire apprezzamenti i più giusti intorno l’insegnamento artistico per le classi operaie.
Vi assicuro il Pacchioni lo ritenni sempre, e lo ritengo, un vero artista, ma non lo ritenevo un pedagogista così profondo; e la sua competenza, diceva tra me e me, dove mai può averla egli attinta?
Il suo ingegno naturale, il suo studio, lo avevano fatto apprezzare al Prof. Oreste Paini, prof. di disegno nella R. Scuola Tecnica di Mirandola, lo scrittore forse poco conosciuto in Italia ma degno del massimo rispetto, e da questo ne ebbe vantaggio.
Avuto anch’io l’opuscolo pubblicato da costui delle Scuole di arti e mestieri ne rimasi meravigliato e così restai convinto di quanto in esso si scrisse che qui ad onore del Paini lo ripresento integralmente al lettore.
I.
«Nel settembre 1870 il Ministero della P. I. nominava una Commissione incaricata di stabilire i programmi per tutto quanto riguarda lo studio del disegno nelle scuole normali e professionali. Il Ministero d’Agricoltura e Commercio con circolare del 7 ottobre 1879 e del 21 gennaio 1880, ha cercato con savio divisamento di portar rimedio efficace ad un urgente bisogno delle nostre classi operaie, consigliando ai Comuni, ai Consigli provinciali e alle Camere di Commercio, l’istituzione di certe scuole intitolate d’arti e mestieri, rivolte allo scopo di accrescere o perfezionare l’abilità dell operaio, con che solo può essere mutata in meglio la sua condizione e dato incremento allo sviluppo delle arti e delle industrie nazionali.
Anche S. E. il Ministro Martini, allorché fu chiamato a reggere la P. I. promise, nel discorso pronunciato a Milano, che si sarebbe dedicato interamente e seriamente al miglioramento delle classi operaie, istituendo nuove scuole d’arti e mestieri, e migliorando le esistenti con programmi più pratici, ed aggiungendovi le officine.
Difatti, parlando delle arti che si dicono minori, si avverte agevolmente l’enorme differenza che è tra la coltura tecnica dell’operaio italiano e quello delle altre nazioni. L’operaio nostro è, salvo rare eccezioni, una macchina che riproduce continuamente lo stesso lavoro senza facoltà di perfezionarlo. Nessuno gli ha direttamente insegnato il mestiere che esercita: lo ha, dopo un tirocinio di molti anni, imparalo per imitazione in una bottega, spesso tra gli scappaccioni, i rabbuffi, le parole oscene ed ingiuriose di un padrone zotico e manesco. Ogni mestiere, per meschino che si voglia, ha le sue ragioni scientifiche ed estetiche donde procedono le norme del far bene e meglio continuamente.
Egli le ignora perché nessuno glie le ha additate: il meglio, pervenuto ad un certo punto, non lo capisce e non lo vede più; manca della ragione impellente d’ogni umano progresso, la visione interna di quella perfezione che stimola, migliorandole del continuo, le nostre fatiche. È in somma un manuale che ha l’abilità nelle mani e non nella testa; facile a confondersi per ogni minima difficoltà; incapace, non che d’inventare un lavoro o le modificazioni di un altro, ma di eseguirlo sopra un disegno che ne mostri il prospetto e la pianta, se non gli venga questo spiegato ripetutamente e chiaramente a viva voce da chi ne fa l’ordinazione.
Ecco la ragione perchè nei grandi opifici nazionali i capi officina sono la più parte stranieri, e perchè l’operaio italiano, capitando in qualche grande città manifatturiera di Francia, d’Inghilterra o di Germania si sente umiliato davanti a quelle mani nere e callose, che trattano la matita e il compasso così abilmente come il martello e la sega; davanti a quegli uomini fieri del loro camiciotto di cotone, che è nobile divisa del lavoro intelligente, non livrea della fatica cieca e servile, divorziata dal pensiero che crea ed inventa; abbrutita dalla mancanza dell’intelligenza, diventata misera per mancanza di soddisfazioni. Il pensiero di costituire le scuole d’Arti e Mestieri fu dunque sapientissimo e s'informa d’un concetto pratico la cui bontà non può essere revocata in dubbio. Ma di scuole, secondo alcuni, ce ne è ormai troppe, e stimerebbero più opportuno scemarne il numero anziché aumentarlo. Avvertiamo che il numero delle scuole non prova la loro sufficienza, e che nel caso nostro la questione è posta così: c'è una scuola che formi l’operaio? la quale domanda equivale a quest* altra: c’è una scuola per il popolo? Giacché l’operaio costituisce il nerbo della nazione ed è o la forza, o la rovina di lei secondo l’educazione che riceve.
Noi dobbiamo non soltanto rispondere negativamente a quella domanda, ma dire che le scuole esistenti non che mirino a formare l’operaio, anzi lo guastano addirittura. Si noti che questo giudizio non implica di necessità un voto di censura su queste scuole. Dire ch’elle guastano l’operaio, non vuol dire che non siano, come pur sono, uiilissime a molti. Le cognizioni che si attingono nelle pubbliche scuole popolari e tecniche in ispecie, pel loro carattere generale, per la forma in cui sono date, per la loro estensione, riescono più presto a vizio che a coltura efficace nell’istruzione dell’artigiano. Il quale da quelle cognizioni disparate, imperfette e designate con nomi ambiziosi come l’Economia e il Diritto; o aristocratiche, come il Francese e l’Ornato trae cagione a desideri immoderati e, credendo saper molto e valer molto, agogna di mutare condizione perchè quella dell’operaio, gli sembra triviale e sprezzata, facchinaggio grossolano, indegno di chi sa qualche cosa. Onde abborre l’officina, abborre la professione utile ed onorata del padre suo, e non è se non con repugnanza ch’egli obbedisce alla necessità di abbracciarla. Di qui l'incontentabilità del suo stato, l’irrequietezza del suo spirito, la mala voglia che genera gli odii e le turbolenze civili; si noti poi che molti mancano di mezzi per provvedere libri, compassi, carta e quanto fa bisogno: talché diventano il tormento dei loro compagni e degli insegnanti; a questi si uniscono i deficienti per capacità e volontà, in modo che agli esami molti sono i rimandati che ripetono per anni le classi, finché non sono licenziati per anzianità e per liberarne la scuola. Quale possa essere il loro grado d’istruzione è ben facile immaginarlo. Questo poi è certissimo che si va per tal guisa di giorno in giorno moltiplicando il numero degli spostati con danno infinito della società.
Indi l’accusa data alle scuole tecniche di sottrarre un grande numero di braccia all’opera feconda delle professioni meccaniche, per moltiplicare con eccesso deplorevole e funesto il numero degli impiegali. Oggi tutti vogliono essere impiegati; è il fine, l’ambizione di chiunque sappia, non diremo qualche cosa, ma leggere o scrivere appena: vera e terribile crittogama, che isterilisce tutte le amministrazioni dello Stato. Qualche tempo fa l’amministrazione delle Ferrovie adriatiche pubblicò un concorso a 120 posti designando tre sedi d’esami: Milano, Verona e Venezia. A Milano soltanto i concorrenti furono 860 e, salvo errore, poco meno di 1000 a Verona; 1860 concorrenti per 80 posti! Un amico di chi scrive queste parole, avvocato di professione, esternò un giorno il desiderio di provvedersi di un amanuense; e la mattina appresso aveva già sullo scrittoio da 50 a 60 suppliche di concorrenti. Si potrebbe supporre che l’entità del lucro giustificasse tale concorrenza; ma no: il guadagno sollecitato da tanti e con tanta premura era in media di L. 15 al mese; meno cioè di quanto può guadagnare un fanciullo di 12 anni alla fucina di un fabbro ferraio o sul ponte di un muratore.
Questi fatti parlano da sé stessi con una logica inesorabile; c’è dunque una folla d’uomini, vagabondi, senza professione, senza pane; istruiti poco per levarsi di miseria col valore dell’ingegno; troppo perchè si contentino di campare la vita con un lavoro grossolano che li confonda con la classe più oscura o più umile della società. Essi cercano perciò un qualunque impiego: assediano con incessante importunità Municipi, Governo, Amministrazioni pubbliche e private.
Esca un concorso, e voi vedete questa turba sparuta levarsi e tendere le mani da tutte le parti, come attorno ad un pane scagliato nella via si addensano divorati dalla fame i cani in una città dell’Egitto.
Questo ha prodotto, non l’istruzione, incapace di tali malefici, ma il sistema delle scuole; sistema ispirato a teorie ottime in certe condizioni eccezionali di persone e d’intenti, ma più spesso fallaci perchè non si fondano sulla pratica esperienza dei nostri bisogni, e non derivano la loro prima ragione dall’interesse peculiare de’ giovani, ma dalle intenzioni del legislatore.»
II.
«Era dunque necessaria una scuola, che, correggendo il difetto delle altre, intendesse unicamente e di proposito a fare buoni operai perfezionando le cognizioni speciali, che si richieggono nell’esercizio dei singoli mestieri, nobilitando ed elevando, per così dire, la dignità delle arti minori, talché non abbia più a parere umiliazione incompatibile col sapere il maneggiare la pialla e la lima invece della penna.
È manifesto che una tale scuola non deve nella forma e nel metodo d’insegnamento ritrarre da nessuna delle esistenti. Chi la dice una duplicazione, non s’è fermato a considerare lo scopo colla dovuta attenzione, e non ne ha perciò indovinato la natura.
Questa scuola deve essere quella che nessuna è: realmente, intrinsecamente professionale; professionale e non altro. Il fabbro, il falegname, il tornitore, l’intagliatore in legno, l’orefice, l'orologiaro, il meccanico, ecc., ecc., debbono rinvenirvi, insieme colle notizie del leggere e dello scrivere, sviluppate o rassodate con processi alieni dalle pedanterie scolastiche, tutte le cognizioni che hanno specifica ed intima relazione coll’arte particolare a cui debbono applicarsi. La scuola dove essere come la prima bottega dove l’operaio impari, non per imitazione, ma con pratica razionale o quasi artistica, il mestiere, che darà il pane alla sua famiglia. Vi deve avere campo larghissimo il disegno; ma il disegno quale bisogna all’artefice per ischizzare con prontezza e grazia, senza leccature stucchevoli, un pensiero della sua mente; per rappresentare un lavoro eseguito o da eseguire; per servirsene insomma quando e come gli faccia d’uopo e per tracciare nitidamente con intelligenza e prontezza un lavoro e le singole parti che lo compongono.
Le fogliette d’acanto, i rosoni e le altre cosettine più o meno classiche che fanno oggidì le spese a tutte le scuole di disegno, sono presso che inutili all’operaio. Infatti a che possono giovargli? A che giovano al muratore gli ordini architettonici disegnati colla massima precisione, e perfettamente chiaroscurati ed ombreggiati (senza la conoscenza della teoria delle ombre), inamidati e stirati con una pazienza degna di miglior causa? Forse che si commette a lui l’invenzione o il disegno degli edilizi? Egli deve saper fare una cornice ad una casa, e perciò stabilire giustamente la sua altezza, la sporgenza o aggetto, dando grazia al profilo secondo lo richiede il bisogno; una casetta, un pozzo, una cisterna, un forno, un camino, le armature varie dei tetti e delle vòlte, delle scale e loro costruzione. Devo saper calcolare la quantità di materiale richiesta in un dato lavoro, valutarne la spesa, presentare una perizia o uno scandaglio di spesa. Non vi ha scuola, tra le tante che abbiamo, dove gli sia dato d’imparare tutto questo, per quanto sia poco. Sa copiare gli ordini architettonici, sa copiare bene il disegno della facciata di un tempio greco o romano; ma quale utile ne ricaverà egli, che non dovrà mai costruire templi nè greci nè romani o che, pure ritraendone lo stile in qualche edificio, lo farà macchinalmente sotto la vigile direzione di un architetto?13 Mettetelo invece a fare una scala, egli opera a caso. Traccerà sul muro con un carbone i gradini, che gli riescono or troppo larghi or troppo stretti; onde cancella, e poi rifa, ed eccolo di nuovo a cancellare, finché azzecca la misura giusta dopo di aver consumato sul muro le unghie, il carbone e la pazienza.
Del tempo che ha perduto, dell'umiliazione che il suo amor proprio ha subito, potrà risarcirlo il pensiero che egli sa disegnare a meraviglia tutti gli ordini del Vignola?
Il medesimo si dica degli altri mestieri. È perciò naturale che l’artigiano, datosi a frequentare certe scuole che si professano istituite per lui, le deserti in capo a qualche giorno, ristucco di tante bellissime cose; bellissime davvero, ma della cui utilità nè sa nè può rendersi conto. Non capisce, e in verità non so chi possa veramente comprendere, lo spirito di tale insegnamento.
Qual rapporto diretto può esistere tra i fregi, i fiorami, l’ordine ionico o corintio, la facciata di un museo, un candelabro del Rinascimento, e le
scarpe o le serrature, o le caldaie, o i caloriferi, o i letti di ferro intorno ai quali si adopera tutto l’anno? Ma fate che la scuola d’Arti e Mestieri gli insegni a pensare e a disegnare oggi quello che dovrà fare domani14, fate che venga l’immediato legame della scuola con la bottega; che uscendo da quella, porti con se un'esperienza, una cognizione da spendersi subito per i bisogni dell’arte sua; che, in una parola, sappia e senta di non perdere il tempo; allora egli non si stancherà della istruzione; ma la cercherà con sollecitudine piena di nobili propositi e con avidità tanto più grande quanto più procederà nello studio; perchè vedrà che perseverare e procedere significa in realtà farsi operaio infinitamente migliore di quel che fosse in passato.»
III.
«Dopo il disegno, che traduce in segni visibili ed eloquenti i concetti dell’artista, la lingua, che insegna a tradurre ne' suoni delle parole i pensieri e gli affetti dell’uomo. Il Giordani dice, il disegno deve diventare il linguaggio pronto e sicuro della mano che rende visibili le cose, non possibili a rappresentare esattamente colla parola. Questo è destinato ad imprimere agli oggetti un carattere che agisca sui sensi; diretto solo allo scopo primario dell’apparenza; fondato principalmente sull'organo della visione e sul sentimento del bello, che tutti secondo la loro maniera di vedere e di sentire credono di possedere. Nè fa mestieri osservare, che secondo lo scopo della scuola d’Arti e Mestieri, anche questo insegnamento, deve seguire un indirizzo pratico e spedito. L’operaio non ha da diventare uno scrittore e tanto meno un pedante. Certe questioni sottili di grammatica, di punteggiatura, di eleganza, martirio dei giovani, dottrina pretenziosa dei vecchi pedagoghi, non fanno per lui, e debbono dar luogo all’insegnamento sintetico delle forme ordinarie e correnti del favellare. Chi s’è brigato finora d’insegnare agli artigiani la nomenclatura che si riferisce al loro mestiere? Raccolta con pazienza dal Carena e da altri, rimane sepolta nei vocabolari a servizio dei filologi, a comodità degli scrittori. Tuttavia il primo a conoscerla dovrebbe essere l’operaio stesso per parlare delle cose sue senza idiotismi ridicoli od oscuri per saper descrivere il lavoro da lui eseguito, e perché infine la lingua dei maestri e delle arti non si farà parte viva nella pratica generale di tutta la nazione, se prima non la diffonda l'uso quotidiano degli artefici. Lo studio della nomenclatura deve dunque occupare il primo posto nella coltura letteraria dei giovani operai, e con esso e per esso debbono contrarre l’abitudine di parlare e scrivere con precisione e chiarezza degli oggetti attinenti alla loro professione.
Parrà cosa difficile coi metodi che si conoscono, e difficile sarebbe certo; ma mi pare di vedere un metodo facilissimo: mettere il fare, in luogo del dire, l’esercizio dell’alunno in luogo delle chiacchiere o dei testi o dei maestri. Qui è realmente il caso d’insegnare a scrivere in quel modo che diceva (non dicendo il vero) di saper fare il Giusti: a orecchio. Che importa un barbarismo, una virgola di più o di meno nella scrittura di un operaio, quando sia fatta con buon senso, e rilevi una pratica non isquisita, ma facile e sciolta, e quando invece delle eleganzuccie accattate dalle antologie, mostri la proprietà, forse rozza ma evidente del linguaggio dell’arte?
E per ottenere questo risultato, e che non può non apparire stupendo, è questione di esercizio e di metodo. Libri di lettura debbono essere in queste scuole i libri, che parlano all'operaio col linguaggio dell’operaio, bello più nelle cose che nelle frasi e nudo di affettazioni. Questo linguaggio egli lo comprende, e sa come gli esercizi concorrano a scolpirglielo in mente, e rendersene padrone senza troppa difficoltà. Lo senta su i libri, sulla bocca dei maestri; lo parli lui quando e come può: sia reso famigliare col favellare pulito delle persone dabbene; impari a pesare le parole e valutarne non il suono, ma il significato. Un insegnamento come questo è tutt’insieme istruttivo ed educativo. Con esso voi emanciperete l’operaio da una tirannia forse più odiosa di tutte e più impunemente esercitata, la tirannia dell’eloquenza declamatoria dei demagoghi ambiziosi, che trascina lui ignorante, affascinato da parole che lo commovono senza ch’ei le capisca, a tutti gli errori e a tutti gli eccessi che giovano ai pochi, e cattivi. Rendere quel linguaggio intelligibile all’operaio, è privarlo d’ogni potere nocivo; è spuntare un’arma, terribile solamente perchè il popolo non è assuefatto a maneggiarla, e perchè non la conosce.»
IV.
«Dell’insegnamento dell’aritmetica dirò poco, non perchè non manchino riforme da additare anche i qui a facilitare il compito delle scuole d'Arti e Mestieri, ma perchè riescirei troppo più lungo che non comporti la natura di questo scritto.
Avverto che un’usanza, alla quale è da imputare la tardità del profitto che si fa in questa materia da’ giovani che frequentano le scuole popolari, si è quella di costringerli ad esercizi remoti anch’essi dal caso loro; molti de’ quali consistono in giochetti di parole, indovinelli, specie di rebus, modo di esprimersi oscuri, che forse potranno riuscire appropriatissimi ad acuire la mente dei giovani che mirano a’ studi elevati, ma disacconci ai piccoli operai d’intelletti poco esercitati e peggio agli adulti. Questi ultimi ci perdono il tempo e la pazienza, e trovando quelle questioni assai diverse dalle solite a ricorrere ne’ casi della loro professione, si recano agevolmente a pensare che l’aritmetica o è troppo difficile o meno utile di quanto si dice. L'insegnamento di questa materia deve nelle scuole degli operai procedere strettamente congiunto coll’insegnamento del disegno, come quello che ha da riferirsi sempre, o quasi sempre, ad applicazioni di teorie concernenti il disegno geometrico delle costruzioni architettoniche e disegno axonometrico.
Del resto intorno alle questioni degli esercizi da assegnare agli operai nelle varie materie costituenti il programma delle scuole in discorso si deve pensare quanto importi adottare un uso utilissimo sotto tutti i rapporti.
Siccome i diversi insegnamenti debbono aiutarsi a vicenda e tutti concorrere al fine di perfezionare la pratica degli artefici, mi pare che le esercitazioni così dello scrivere, ilei conteggiare, della plastica e dell'intaglio, ecc., ecc., abbiano da intimamente collegarsi con quelle del disegno. Secondo questo principio ogni insegnante dovrebbe essere informato di ciò che fanno gli altri giorno per giorno; e però i compiti da assegnarsi agli alunni, per riflettere in certo modo i progressi di tutte le materie abbracciandoli nell’unità di una sola composizione, se non assolutamente almeno molto relativamente, dovrebbero essere determinati dal comune accordo degli insegnanti in adunanze speciali giornaliere o settimanali, oppure per informazione del Direttore.
Esempio: in dette adunanze speciali degli insegnanti per l'assegnazione dei compiti, il Prof. di Disegno informa oggetto della sua lezione essere stata, pel gruppo dei muratori, l’arte di costruire le scale. Il Prof. di Lingua Italiana, può allora assegnare questo compito agli alunni del medesimo gruppo: Un capo mastro muratore dovendosi allontanare per alcuni giorni dal lavoro, ne affida la direzione al migliore do' suoi operai; nello scrivergli, comunicandogli questa disposizione e raccomandandogli l'esattezza di alcuni lavori più rilevanti, gli richiama alla mente per maggior sicurezza il modo di costruire la scala della casa che si sta fabbricando, accennandogli i calcoli da fare per determinare il numero, l'altezza e la pedata dei gradini.
In questa guisa alle teorie del disegno e alla lingua si unirebbe l’insegnamento pratico dell’aritmetica.
Del resto è evidente che tutto l’insegnamento nelle scuole d’arti e mestieri dovrebbe ridursi alle seguenti materie: 1. Disegno e Plastica; 2. Lingua Italiana; 3. Aritmetica e Geometria Pratica; aggiungendo a queste una lezione settimanale di Storia Patria e Geografia da tenersi dal Professore di Lingua Italiana, ed un’altra pure settimanale di Fisica e Chimica applicata ai mestieri da darsi dal Professore di Matematica.»
V.
«Dal fin qui detto consegue che gli insegnamenti in una scuola d’arti e mestieri, dovrebbero essere tre di numero: più un maestro d’intaglio in legno e falegname con piccola officina ed un capo fabbrica per le arti metallurgiche o fabbricazione pratica in piccoli modelli di Macchine industriali.
Quindi l’insegnante di matematica dovrebbe mostrare con esperimenti la forza del vapore, la resistenza delle caldaie e tutta l’azione delle singole parti d’una macchina: a lui l’insegnare la formazione delle varie tinte composte chimicamente; bandita però ogni formola e ciò che sappia di scienza.
Nelle due officine il corso pratico per gli operai basta limitarlo a quattro o cinque anni. In esse si tratta di costruire lavori in legno od in metalli in piccoli modelli con scale ridotto sul vero. Chi sa domare la materia per la fabbricazione di un piccolo cassettone, armadio, letto, divano, ecc.... con poco esercizio lo saprà anche fare, in proporzione naturale. Così pure dicasi per l'arte dei metalli; nell’officina della scuola si costruiranno piccoli modelli di macchine che dovranno agire in piccola scala come se fossero in azione, e nelle sue vere e grandi dimensioni. Nella costruzione di un rubinetto, di una caldaia, di uno stantufo, di una valvola di sicurezza, di un distributore in piccola scala, non si dovranno superare quasi le stesse difficoltà come o poco meno nelle costruzioni al vero in grande scala? Mancherà è vero all’operaio una scuola di perfezionamento: ma se sarà riconosciuta l'utilità della medesima si potrà sempre e facilmente riparare a questa deficienza. Nella scuola di disegno, dopoché gli alunni avranno imparato tutte le parti elementari ossia i primi esercizi del disegno lineare geometrico dell’ornato, dovranno disegnare con tutte le regole il pezzo di macchina o il mobilio che dovranno costruire nell’officina, ed il capo di questa dovrà farlo eseguire di comune accordo col Professore di Disegno che fa le veci d’ingegnere meccanico. Se poi alla detta scuola, o per mancanza di fondi od in via di esperimento, o per qualunque altra ragione non venisse congiunta l’officina meccanica e si volesse impiantarla coi soli insegnamenti come si trovano le poche esistenti, l’operaio adolescente frequenterà la scuola regolarmente; mentre l’operaio adulto, fuori d’orario ed in ora da stabilirsi potrà consultare il Professore di Disegno sul modo di eseguire il lavoro che gli è stato ordinato, farne il disegno, la descrizione e lo scandaglio di spesa. Anche durante la costruzione visiterà di spesso il Professore di Disegno per riceverne i consigli sul modo di facilitare l’esecuzione e per evitare i molti errori che si verificano nelle proporzioni.
E in vero è cosa assai deplorevole che non ci sia dato di entrare in un salone, in un gabinetto, in un ufficio qualunque dove il mobilio sebbene eseguilo con mano maestra e molto preciso nella lavorazione, diffetta orribilmente nella proporzione delle singole parti. Gli zoccoli, ad esempio, o la a fascia che serve di base, sono estremamente piccoli o troppo grandi; i piedi troppo alti e sottili, o troppo grossi e senza forma. Le cornici che devono servire d’ornamento in detti mobili sono tutti assolutamente senza ragioni architettoniche, nell’unione delle sagome, nella grandezza e sporgenza delle medesime.»
VI.
«Chiunque abbia a cuore il miglioramento della classe operaia, saluterà colle migliori speranze questa istituzione. Ma affinchè nasca questa sana e vigorosa, capace dei risultati che si aspettano da lei, occorrono tre condizioni essenziali, nelle quali si concreta la sostanza delle considerazioni premesse.
I.º Che gli insegnanti deputati ad insegnarvi siano sei, compresi i due maestri capi officine ed un assistente al Professore di Disegno, al fine di poter impartire l’insegnamento delle singole materie. Questi insegnanti non siano semplici incaricati tolti, per misura d’economia, da altre scuole, ma insegnanti proprii ed esclusivi delle nuove scuole e di una idoneità indiscutibile.
La necessità di questa misura è resa manifesta dal cenno che abbiamo dato circa l’importanza del nuovo insegnamento e la specialità del metodo didattico cui deve conformarsi l’insegnante. Esso deve scegliere e studiare questo metodo con la paziente osservazione de’ bisogni e de’ difetti dei suoi alunni. Le sue lezioni egli non le troverà sui libri, ma dovrà prepararsele, discuterne l’opportunità, la forma, l’estensione; spogliarle di quanto possono avere di cattedratico: restringerle e compenetrarle in un esercizio facile, che lasci tutte le volte una norma semplice e chiara piuttosto nel buon senso che nella memoria dei suoi alunni. Quest’opera richiede tempo e fatica, nè può essere fatta di traforo in mezzo ad altre occupazioni della giornata.
2.º Che siano ammessi come alunni tutti i giovani d’età non inferiore ai 13 anni e che il grado della loro istruzione sia almeno equiparato alla quarta elementare.
Il modulo di statuto per le scuole d’Arti e Mestieri pubblicato dal Ministero (art. III) per l’ammissione a quelle scuole esige la licenza elementare o almeno il certificato di promozione alla quarta classe. L’età degli allievi ammissibili è fissata, secondo i casi, dai dodici fino ai quattordici anni. Questo sta bene: ma per gli adulti? Si dirà che per essi vi sono le scuole serali e domenicali. Non è vero: giacché di queste ve ne sono ormai pochissime e poi chi ha visitato queste scuole o voglia visitarle, saprà come pochissimi siano gli adulti che le frequentano. Nè mancano ragioni a spiegare codesto fatto; un operaio già provetto rifugge di trovarsi in una medesima scuola coll’adolescente che può essere anche il suo garzonetto di bottega, o suo fratello. È una mortificazione per lui il farsi conoscere a quei giovinetti di tredici o quattordici anni, non punto più istruito di loro, forse più tardo nel rapprendere o più goffo nell’adempiere ai suoi doveri d’alunno; massime che questo caso, è frequentissimo; avendo i fanciulli mente più sveglia, più famigliarità colla scuola e colle persone, e più franchezza nelle materie di studio; perchè non si è in loro del tutto cancellata la memoria della prima istruzione, che la maggior parte di essi ha ricevuta. Si aggiunga l’irrequietezza, l’indisciplina propria dei fanciulli, importuna a chi frequenta la scuola con matura riflessione e con proposito di far tesoro del tempo per giovarsi dei benefizi che ne derivano.
Come vorrà dunque l’adulto frequentare una scuola, dove si trova esposto a certe umiliazioni, dove trova un profitto intellettuale certamente, ma così piccolo, ma così lontano, ma così disforme dalla necessità che lo ha spinto a cercare quella scuola? Scuole di adulti ci sono dunque, ma di nome non di fatto e tutti lo sanno. Ora poiché l’istruzione degli adulti importa oggi quasi più di quella dei fanciulli, si debbono ammettere questi adulti nelle scuole d’Arti e Mestieri.
3.º Che le lezioni siano due: l'una diurna per gli adolescenti, l’altra serale per gli adulti: che gli uni come gli altri vengano divisi in due classi secondo il grado d’istruzione, e quanto all’insegnamento del disegno, in gruppi o sezioni secondo l'affinità de’ mestieri. Stabilita la massima di ammettere alle scuole d’Arti e Mestieri alunni adolescenti e operai adulti ne viene di conseguenza che le lezioni quotidiane debbono essere due appunto per togliere di mezzo quella mescolanza che si riconosce perniciosa nelle scuole serali e domenicali ora esistenti. Questa divisione gioverebbe tuttavia che non fosse così rigorosa ed esclusiva così che gli adulti, ove piacesse ad alcuno di loro, potessero intervenire anche alla lezione diurna. Non tutti sono continuamente occupati, anzi molti operai restano parecchi mesi dell'anno quasi senza lavoro. Sarebbe quindi utile e morale ad un tempo che potessero sottrarsi all’ozio pericoloso, cui si trovano costretti, intervenendo alla scuola. Qui potranno assistere a lezioni non fatte per loro, ma ad essi non inutili: eseguire se non altro i loro compiti sotto la vigilanza dei maestri; nè sarebbe ad ogni modo difficile avvisare alla maniera di tenerli raccolti tutti insieme in qualche esercizio, che ribadisca le cognizioni attinte nelle scuole serali. Nella scuola di disegno potrà l’adulto con somma sua utilità studiare e tracciare il disegno dei lavori ordinati o di quelli che ha in costruzione od in progetto.
Circa la divisione in classi la necessità ne è tanto manifesta che non ci occorre discorso.
La divisione in gruppi secondo l'affinità dei mestieri è cosa per avventura più nuova e non pertanto del pari indispensabile. Il disegno costituisce, siccome dicemmo, l’elemento più rilevante di queste scuole. Ora le lezioni ne saranno comuni per tutti finchè si tratterà delle cognizioni fondamentali, che sono principio unico e base alle cognizioni che verranno dappoi. Ma allorché sarà duopo applicare e svolgere quelle cognizioni prime e generali nella forma e negli oggetti che interessano alla speciale professione de’ discenti, niuno vorrà negare che altro sarà il disegno in che dovranno esercitarsi, per esempio, i tornitori, gl’intagliatori in legno, i falegnami, i bottai; altro quello confacente all’opera dei fabbri, degli ottonai e via dicendo. Questa divisione è specialità tanto sostanziale d’una scuola d’Arti e Mestieri, che non sapremo vedere onde se non da questo, potesse ella ritrarre il carattere e la pratica efficace d’una scuola professionale. Che se alcuno osservasse ricercarsi per questa divisione l’opera di parecchi insegnanti e quindi una spesa troppo grande, gli si può rispondere che un solo insegnante di disegno basterà, coadiuvato da un buon assistente, come attesta l’esempio di altre scuole, purché l’orario fissato dal modulo di statuto sopra citato (art. 5.) venga saviamente modificato, come si dovrebbe fare senz’altro, attesa la sua ristrettezza. Infatti le ore di lezioni quivi stabilite, a parte l’accennata divisione per gruppi, sono scarse al bisogno non meno del disegno che delle altre materie. Non dimentichiamo trattarsi qui di operai e che, pur dato per parte di essi il massimo buon volere, non è lecito sperare che possano dedicare alla scuola più di due ore e mezzo per giorno. Ma non tutti gli operai, torniamo a dire, sono occupati sempre; che ove fosse altrimenti, non udremmo in ogni luogo tante lagnanze di poveri mancanti di lavoro ed il grido della miseria che cresce e si estende minacciosa da tutte le parti. Giudichiamo potersi quindi senza inconveniente portare a due le lezioni quotidiane tanto degli adulti quanto dei non adulti, tenendo calcolo degli esercizi pratici che si dovranno fare in due opifici, con questo che l’una sia obbligatoria, l’altra facoltativa: quella riceva gli operai nelle ore destinate al riposo, questa nelle ore condannate all’inerzia; e purtroppo l’ultima avrà forse scolaresca più numerosa della prima.
Inoltre quanti giovani artigiani pieni di attività e d’intelligenza, avidi di sapere, impazienti della lentezza non discara agli ingegni pigri, non vorranno rubare qualche momento del giorno per correre alla scuola, dove terminare o correggere un lavoro, sia teorico che pratico, fare una questione col maestro, domandare un consiglio circa questo o quel lavoro di commissione, o ascoltare la ripetizione degli insegnamenti ricevuti il giorno innanzi?
Così la scuola, per l’operaio, diverrà la sua guida sia per l’esecuzione dei lavori, sia per diventare un ottimo cittadino.
Riepilogando il fin qui detto nessuno esiterà a ripetere con noi che una scuola d’Arti e Mestieri, è il tipo vero e perfetto di quella scuola che sola è capace di partecipare all’operaio i benefizi della civiltà o dare impulso vigoroso al progresso delle industrie nazionali. Si dia dunque a questa scuola tutta l’importanza che merita, affinchè sorga intera e senza rattoppi, nella forma di un’istituzione perfetta nell'organismo, altamente civile nello scopo. Metodi, insegnanti, disciplina, orario, programmi tutto deve essere argomento di serie ponderazioni; tutto speciale e proprio a lei, come è speciale lo scopo ch’essa deve proporsi. — Dalle scuole d'Arti e Mestieri, dice Boccardo, quando saggiamente organizzate e governate, non tarderà l’Italia a sentire il benefico influsso, per cui avrà tutto quello svolgimento industriale, di cui essa è capace, e dal quale finora, è troppo lontana.»
Qui termina lo scritto del chiarissimo e simpatico professore di Mirandola, al quale invio un saluto rispettoso con il desiderio vivissimo che la sua penna ci dia altri lavori meritevoli di uguale ammirazione.
Si metta dunque ogni impegno affinchè i giovani artigiani, si formino disegnatori esatti di quanto si presenta loro a modello, ma molto più di qualche motivo artistico di loro creazione.
Conosco che il genio non si può infondere, ma so benissimo che si può aiutarlo, affinchè si manifesti più pronto; dunque occorre pazienza ed esempio pratico.
Io so di giovani che adunandoli alla sera presso di me, invitandoli a disegnare sulla lavagna, o uno schizzo di un mobile, o di un cancello in ferro, o di una cornice, a poco a poco addivennero capaci di bellissime trovate.
Ma mi domanderete:
Dove abbiamo i buoni maestri?
I maestri buoni sono pochi ne convengo, ma questi sono meritevolissimi di lode e perciò il Governo non può lamentare mancanza di insegnanti capaci, è questione di volere.
E come in Italia abbiamo dei maestri buoni per le scuole delle Arti e dei Mestieri, così ci possiamo gloriare di avere compatrioti che nella pittura, nella scultura e nella architettura fanno onore all’Italia.
Morelli, Maccari, Podesti, Iacovacci, Bertini, non sono glorie viventi per la pittura nostra?
Nicolò Barabino, troppo presto rapito dalla scena del mondo, non ci lasciò esempi ammirabili di un genio ardente, che potrebbe avere degli ottimi seguaci se fossero aiutati?
Ma che fa il Governo per accrescere la schiera di siffatti capitani della pittura?
Che fa il Governo per favorire la scultura?
Se io fossi ministro, metterei tutta l’anima mia per interessare i giovani che si entusiasmano dinanzi ai capilavori dell’arte, a tener dietro allo scuole dei nostri scultori eccellenti.
Non abbiamo noi, un Monteverde, un Rivalta, un Villa che si possono a ragione proclamare gemme rare della scultura italiana?
Giovanni Duprè che con il suo gusto angelico invogliò gli Angeli a rapirlo in Paradiso, non consegnò alla posterità considerevoli memorie alle quali, ispirandosi, la gioventù potrebbe averne profitto artistico?
Se io fossi ministro, verso quei giovani che subiscono la lotta dell’ingegno con la privazione del necessario alla vita, rivolgerei le mie cure. Sono essi cari figli del popolo che il più delle volte non possono manifestare i loro talenti perchè non trovano un mecenate; dovremo noi abbandonarli?
Io vorrei condurre questi giovani a visitare il cimitero di Staglieno a Genova e fermatomi al mausoleo dove il Villa fece ridiscendere col suo marmo il Redentore vivo fra noi, direi loro:
Giovani, qui avete la via tracciata per l’arte.
Chiedete al Redentore redivivo la sua protezione, imitate il maestro terreno che divinamente lo scolpì; voi un giorno sarete i primi artisti del cuore, i primi scultori di merito.
Se fossi ministro, non imiterei davvero coloro che distrussero molti ricordi dell’arte e lasciarono imbiancare frammenti dell’antichità.
Abbiamo in Italia delle importanti escavazioni, perchè in qualche guisa non farle progredire?
Tutti lamentiamo una decadenza nell'architettura, perchè non mettervi un riparo?
Un assessore ai lavori pubblici in tutti i Municipii italiani esiste, ma chi è egli mai?
Un avvocato, un medico, un commerciante che vi parlerà bene di traffici, che vi farà una diagnosi a meraviglia, che vi reciterà a memoria i codici, ma nella generalità s’intenderà di cose d’arte come ne potrà saperne il gatto che avete in casa.
Questo sistema introdotto e nel Municipio e nella Provincia e nel Ministero, di chiamare agli uffici dei lavori pubblici uomini che non siano tecnici e pratici delle arti, è un errore.
Mi accuserete di troppo servilismo per le arti, ma conosco il vecchio proverbio che dice: Ognuno faccia il mestiere suo.
⁂
Il buon gusto nelle arti, mi domanderete, non è forse un dono straordinario e non una qualità comune nell’uomo?
Sì, è un dono starordinario, mi diceva il chiarissimo avv. Pier Costantino Remondini15: è un dono straordinario che chi lo possiede può esser certo di avere anche un animo squisito, giacché per sapere cogliere il vero bello, bisogna avere per il bello quasi un culto speciale il quale non permette che un animo s’infanghi nelle bassezze della vita.
Verissima è questa asserzione, ma aggiungerò io: se il Governo avesse prima d’ora creata una scuola, che io avrei chiamata di emulazione nelle arti, non sarebbe riuscito a promuovere il buon gusto?
Lo so, bisogna nascere con quell’intuito direi quasi perfetto, ma chi non è favorito di questo dono raro, con lo studio e con l’osservazione non può forse anche lui avvicinarsi alla comprensione del bello?
Se io fossi ministro, costituirei un corpo detto di vigilanza artistica, al quale aggregherei tutte quelle persone che si distinguessero per buon gusto nelle arti.
Il loro mandato sarebbe quello di combattere nelle arti e nelle mode tutto quanto venisse a guastare il Bello ed il Buono, la loro missione sarebbe quella di non ordinare mai e di non fare mai pitture, sculture, architetture che si discostassero da quel bello ideale che porta una nazione a uno stato di superiorità fra le altre nazioni.
Vi sono uomini speciali che si possono nominare altrettante stelle del buon gusto.
E qui senza correre per tutta l’Italia resto a Milano.
Vedeste mai i magnifici restauri diretti dal conte Emilio Alemagna, nel palazzo di S. E. il principe Gian Giacomo Trivulzio in piazza S. Alessandro?
In quelle sale, dove quel perfetto gentiluomo volle adunare tante bellezze artistiche, pare abbia desiderato immortalare il suo architetto.
Infatti vi si ammirano due scale che sono due trovate felici e di un gusto elegantissimo.
A comodo di quel palazzo, era necessaria una nuova scala che dalla prima sala portasse ai piani superiori, ma si riscontrava difficoltà grave perché non potendola elevare dalla parte esterna, bisognava fare la costruzione interna, cosa che avrebbe deturpata l'estetica di quell'ambiente.
L’ingegnoso conte Alemagna non si perdette di animo e riuscì allo scopo in modo meraviglioso.
Ideò una grandiosa scala a chiocciola che chiamò Trivulziana, la difese con ornamenti in ferro graziosissimi e lasciò credere fosse essa come nascosta da una grande tenda di stolta a fiorami, mentre quella altro non è che semplice muro.
L’altra scala tutta a legno d’oro, nasce dallo studio del cortese e brillante principe Giorgio, e conduce alla sua camera, con mossa così elegante che sempre invidierò al giovane patrizio di esserne il possessore.
Visitaste mai, il palazzo dei nobili Fratelli Bagatti-Valsecchi in via del Gesù?
Quei signori, che non so se siano più ricchi di censo che di gusto artistico, si edificarono quella dimora che è prova essere essi architetti celebratissimi.
Non è affermazione esagerata la mia, giacché conosco l’Italia artistica e posso accertare che in nessuna altra delle sue città si trova l’esempio raro di così bella e pura architettura.
Vi assicuro che alla prima visita che feci colà, rimasi stordito.
Vi ritornai e tratto tratto sono costretto a ripeter le mie visite per migliorarmi nell’arte.
Volete togliervi la curiosità?
Appressatevi con me al fiorito cancello in ferro battuto che vieta l’ingresso ai diversi cortili e vi parrà vedere aggirarsi fra quelle numerose colonne, dame, cavalieri e paggi, perchè in casa Bagatti-Valsecchi si è ritornati al Medio Evo.
In quella casa, tutto sente della grandiosità di quell’epoca, e allo stile antico si seppero così bene accoppiare le comodità moderne, che i nobili proprietari meriterebbero una medaglia nazionale per l’impulso che essi diedero alle arti.
Là vi troverete quanto vi è di più ricercato, nell’architettura, nella scultura, nella pittura, là troverete argenterie di lavoro squisito16, arazzi ben conservati, armi pregevoli, porcellane vaghissime, stoffe regali, mobili meravigliosi; se avrete l’onore di conoscere i nobili fratelli Bagatti-Valsecchi, vi sarà forse dato di accettare un bicchierino di qualche liquore in graziose e antiche cristallerie di Murano.
E badate il buon gusto regna in tutto.
In quel palazzo io credo che il critico più fino e incontentabile dell’arte, dovrebbe esclamare hic manebimus optime.
Vi fermaste mai dinanzi al palazzo commerciale di quei laboriosissimi e intelligenti signori che sono i Fratelli Bocconi?17 Osservaste mai quel colonnato posteriore, così elegantemente disegnato?
Io mi trovava assai male in salute nel 1890, a Regoledo, quando un giorno si disse:
— Questa sera arriva l’architetto del palazzo commerciale Bocconi costrutto a Milano....
Rimasto ammirato di quell'edifizio per certe parti stupende, mia premura si fu di conoscere l’intelligente artista e ne fui così consolato che ogni qualvolta penso a lui, vivissima ne sento la simpatia.
Un uomo dalla fisonomia artistica, dagli occhi lucenti, signore di censo, cavaliere perfetto, in lui riscontrai che forse parte del suo genio lo si deve in premio alle sue qualità personali.
Oh, come erano cari i suoi bambini! A lui saltellavano attorno, quasi amorini discesi dal cielo a far festa all'uomo innamorato del bello.
Sono a parlare di Milano, a discorrere del gusto, mi trovo in mezzo ai fiori del maggio, come non potrò accennare al gusto squisito che sente il nobile Cesare Calchi-Novati, milanese, nel dipingere i suoi fiori?
Io credo giustamente siano egli ed il Ripari i campioni del vero modo di sentire la bellezza della natura, e vi assicuro che visitando alcune volte lo studio del nobile cortese mi trovai entusiasmato.
Già è una lode meritata nella capitale lombarda: il buon gusto parte dal sentire del suo popolo, e, cosa strana, molto parte dai suoi intraprendenti signori.
Io conosco Milano, e con franchezza dirò che la ritengo la città prima d'Italia.
In essa il bello è apprezzato e l’artista tenuto in più riguardo che altrove.
I Milanesi che sanno fare da loro senza chiedere la carità a nessuno, del loro gusto ripetono le chiare prove.
In questi mesi essi prepararono le Esposizioni Riunite, risultato splendido di una volontà ferrea di voler rialzare il sentimento morale, artistico e finanziario del loro paese.
Io voleva visitare quei locali ove sorgono le diverse mostre, volea vedere il castello visconteo, ma le Esposizioni erano chiuse ancora. Mi rivolsi a quel gentiluomo perfetto che è il conte Emilio Turati e ne ebbi il dovuto permesso.
Nell’entrare in quelle aree occupate da tanti edifici provvisori, ne fui stupito; ne va lode al Comitato solerte, agli architetti Sommaruga, Beltrami, al simpatico signor Scheibler, Broggi ed altri molti che resero dell’antica piazza d’armi, del castello, dei suoi contorni, un meraviglioso assieme che merita la più grande lode.
Viva Milano! dovetti esclamare nell’uscire da quel recinto, e feci voti perchè il buon gusto che si vede sorgere vigoroso in questa terra si espanda per l’Italia tutta.
⁂
Un amico che sapeva di questo mio scritto, mi chiese testé, che cosa fareste se foste ministro dell’Industria e Commercio?
Se avessi il portafoglio di tale Ministero, comincerei con tutelare l’agricoltura del Paese.
In vero l’Italia al presente paga più del 30 per cento riguardo alla rendita sui fondi, si capisce non depurato dalle ipoteche; ed esistendo la sperequazione è facile si giunga a un 60 percento, perchè, oltre al Governo, bisogna pensare alla Provincia e al Municipio. Per soprappiù le fiscalità e aggravii sopra aggravii, ridussero e padroni e dipendenti al segno di ribellarsi, e ribellarsi direi giustamente, perchè l'oppressione venga dai Municipii, venga dalle Provincie, venga dal Ministero non è tollerabile.
Dunque, se fossi ministro, vorrei che la nostra agricoltura sentisse la mano di un Governo benevolo; vorrei che i proprietarii non fossero dissanguati, vorrei che i nostri contadini non fossero necessitati a mendicare in un suolo straniero la vita, poiché noi abbiamo terre incolte da lavorare, senza che connazionali nostri, diano al mondo intero spettacolo di essere affamati.
E veniamo alle industrie; se fossi ministro vorrei proteggere molto di più i tanti capitalisti che fra noi nulla trascurano per farci produrre quello che eravamo costretti ad elemosinare all’estero.
E per questo vorrei che costoro non fossero colpiti da gravi tasse, vorrei invigilare perchè si potesse giungere coi nostri prodotti a far concorrenza all’estero.
Se si riuscisse a poco a poco a vivere della propria industria restringendo l’importazione a poca cosa, si finirebbe col vivere di vita propria, che è quanto dire economicamente bene.
Ma mi direte: come si può favorire il commercio impedendo il reciproco scambio?
Io non discorro dei fratellevoli accordi commerciali che dovrebbero esistere fra popoli, non solo por legge, ma per natura, solo voglio accennare al dovere che avrebbe il Governo di tutelar maggiormente lo sviluppo industriale nazionale, per quanto concerne la materia prima, necessaria per produrre strettamente il necessario del paese.
Ma il Governo ben poco fece, e per questo molte fabbriche languono, molte si chiudono, perchè il Governo non provvede, il Governo opprime.
E poi si dice che le industrie italiane sono bambine.... che abbisognano di personale straniero?....
Ma via, non andiamo nel ridicolo!
È vero in Italia molti fra i capi degli stabilimenti sono tedeschi, sono francesi, ma nelle fabbriche di Germania e di Francia non vi sono a capi anche degli italiani?
Inutile il negarlo; noi abbiamo l’elemento, ma o non siamo capaci di giovarsene, o non vogliamo giovarsene perfezionandolo alla scuola di Arti e Mestieri, perchè gli Italiani seguono la scuola di coloro che trovano solo buono tutto quanto è forestiero.
Che fa il Governo per i centri principali delle nostre industrie? Che fa il Governo per i nostri porti di mare, che sono come il cuore dal quale parte la principale vitalità delle industrie e dei commerci di una nazione?
Che dire del nostro riordinamento bancario?
Se fossi ministro tanto i centri delle nostre industrie, come i porli di mare, vorrei avessero nel Governo non un padrone avaro, ma un padre benefico. Giacché che sarà dell’Italia quando il commercio giungesse a uno stato di abbandono e i nostri porti fossero dimenticati?
⁂
Se fossi ministro, dovrei rinunciare al mio posto innanzi alle nostre finanze rovinate?
Consideriamo dove stanno le cause di tanti mali, quali potrebbero esserne i rimedii.
Qui voglio per intero presentare al lettore uno stupendo articolo dovuto alla penna del chiarissimo avvocato Ernesto Calegari, il quale vide la luce in un giornale genovese il 25 febbraio di quest’anno.18
«La gravità del problema finanziario italiano ha due distinti coefficienti: il primo è nella politica, il secondo nell’amministrazione. Nella politica generale ed estera, perché l’Italia ha esagerato la sua politica estera, portandoci all'iperbole militare di una nazione armata in tempo di pace, sopra un piede che ogni ragione di economia e di politica ci dice essere rovinoso. Ecco la megalomania in cui fu insuperabile l'on. Crispi. Nella politica interna, ossia nell’amminislrazione dello Stato, si ebbero due momenti distinti: uno quello delle spese fastose: l’altro quello della disorganizzazione morale delle amministrazioni. E qui fu un eroe Agostino Depretis, un fìsiocratico della politica interna, che rese proverbiale sotto di lui, il lasciar fare e lasciar passare.
«Queste le due cagioni precipue della cattiva finanza: cagioni esterne, perchè le intime, le cause universali sono molte e varie, e stanno in un altro ordine di idee e di fatti. Il rimedio al problema finanziario per quanto riguarda la politica è uno solo o lampante: la riduzione delle spese militari. Ma per ciò che riflette l’amministrazione vi sono i rimedii di indole morale, quali sarebbero la giustizia e l’onestà nell’amministrazione, cose che il processo Pinto-Chauvet e la relazione del Comitato dei Sette ci dimostrano con documenti umani essere affatto sconosciute nel mondo dirigente. E sonvi poi quelli di carattere organico, cioè un nuovo ordinamento amministrativo, una ripartizione più ampia di affari e di funzioni alle amministrazioni locali o regionali, un concetto amministrativo dove fossero divise le attribuzioni: le generali, politiche, militari e costituzionali allo Stato: le amministrative, nel senso stretto della parola, quelle riguardanti lavori pubblici, pesi locali, affari circoscritti, devolute ai corpi amministrativi regionali.
«Sarebbe il pensiero federativo che tempererebbe il concetto accentratore unitario, che amministrativamente ha fatto così cattiva prova.
«Questa idea fu trattata già in riviste e giornali, e la Nazione di Firenze la esaminava con serietà gli scorsi giorni. Il giornale fiorentino riporta dapprima lo scritto di un uomo autorevole, che svolge con assennate ragioni, il concetto di ripartire in poche e grandi regioni la penisola, di affidare a queste molte delle attribuzioni amministrative che ora ha lo Stato; e confida che questo potrebbe fortificare il concetto unitario, ora indebolito da tanti errori, e rimettere in onore il parlamentarismo decaduto.
«La Nazione poi cita la deliberazione di un’Associazione milanese per la libertà economica, colla quale si proponeva di suddividere l’Italia in quindici grandi regioni,19 secondo le tradizioni, gli interessi, la storia e la geografìa. La Nazione nota come questo che oggi si dice nei circoli politici, fosse già esposto dall’on. Di Rudinì nel suo discorso tenuto a Milano nel novembre 1891: e spera che l’on. Crispi, ottenendo i pieni poteri, potrebbe studiarlo e attuarlo. Una sola cosa fa dubitare la Nazione: quella che alcune regioni non sieno mature per questa riforma, che darebbe loro una specie di autonomia. E ciò dicendo allude alle cattive amministrazioni comunali di Sicilia.
«Questo pensiero di discentrare le grandi amministrazioni è certo meritevole di attenzione; e il vederlo trattare sui giornali, che più s’adoperarono per condurci a questo unitarismo soffocante, che ha crealo politicamente e amministrativamente e peggio burocraticamente il dio Stato, è segno che molti pregiudizii lentamente vanno scomparendo. Infatti se si guarda la nostra storia, non v’ha nazione dove il pensiero sia più omogeneo come popolo, ma dove pure il concetto regionale sia più naturale e più antico. Mentre la Francia s’univa tre secoli fa, l’Italia aveva le sue repubbliche potenti, e pur troppo divise. Ma l’indole, la coltura, l’arte, coi caratteri speciali della nazione, avevano spiccato lo stampo del genio italiano.
«La politica, seguitando il moto accentratore dato dalla rivoluzione francese, fece un’unità d’Italia che è uniformità, strozzamento delle varie regioni italiane. Nè questo fu danno tanto politico, quanto amministrativo; la sperequazione fondiaria, la disparità nelle industrie e nei commerci, la varietà dei prodotti del suolo, e quindi delle fonti di ricchezza, la diversa natura orografica delle provincie, tutto fu livellato da una legge dissennata che imponeva le strade obbligatorie ai Comuni della montuosa Liguria, come della piana Lombardia; che costruiva ferrovie nella Basilicata, nelle Puglie, come se dovessero far fiorire il commercio che esiste nell’Italia settentrionale, che aggravava così una regione a danno dell’altra; ora onorando delle sue grazie una città, ora scoronandone un’altra. E noi a Genova ne sappiamo qualche cosa.
«Tutto poi si tratta a Roma, dai più minuscoli altari, alle più alte quistioni. Di qui le lungaggini burocratiche, le decisioni inesplicabili dei responsi, gli inconvenienti necessari di affari trattati in sede non propria, da giudici ignari dei luoghi, facili ad essere ingannati e ad ingannarsi: tutto un cumulo di controsensi amministrativi, che ogni giorno lamentiamo. Questo stato di cose ha agevolato gli abusi amministrativi, le ingiustizie, gli sperperi, il lare e disfare, il disordine che regna spesso nelle pratiche della più semplice amministrazione. I Consigli provinciali sono Giunte governative, che eseguiscono sempre il concetto burocratico centrale: i Consigli comunali hanno visto da ogni nuova legge diminuire le loro attribuzioni d’iniziativa locale. Tutto è assorbito dal mostro dell’accentramento.
«Ecco donde nasce organicamente la cattiva amministrazione. Se ogni grande regione potesse avere una specie di governo suo, con rappresentanti proprii, con più larghe attribuzioni, senza che tutto si facesse dal governo centrale, coartati dal suo potere, gli interessi delle singole provincia sarebbero trattati più sollecitamente, con cognizione di causa, da persone che conoscono i luoghi, i bisogni, i costumi della regione. Molte spese pazze sarebbero risparmiate. Molti inconvenienti non sarebbero possibili. Ogni Consiglio regionale potrebbe lare i suoi regolamenti e le leggi locali consone e opportune: e il controllo dello Stato sarebbe una garanzia, non una servitù. Lo stesso concetto politico si rafforzerebbe nella varietà e nella libertà regionale.»
Se fossi ministro, non mi dipartirei mai dal parere del profondo giureconsulto che così bene espose le cause dei nostri mali finanziarii.
I consigli che ci porge per riparare ai nostri guai, sarebbero scolpiti sempre nella mia mente e avrebbero la loro attuazione, di maniera che l’Italia risorgerebbe a vita nuova.
⁂
Uno statista illustre mi diceva: voi scrivete con senno e con cuore, ma le idee vostre esposte nell’ultimo vostro libro, lasciano vedere che a voi piace un socialismo troppo ideale e perciò problematico.
Risponderò:
Anzi tutto per parlare del socialismo bisogna conoscere bene gli operai e i padroni.
Non devo a merito mio se posso discorrere degli uni e degli altri con cognizione di pratica, ma la ragione si è che, per il passato, fui di mezzo a loro come amico.
Vi dirò di più, che per vera affezione verso i figli del popolo, più volte fui intermediario fra padroni ed operai con esito buono.
Il concetto che ebbi sempre del socialismo, si è che esso deve avere a base la giustizia e la carità.
Giustizia e carità nell’ordinare, carità e giustizia nell’obbedire.
Se fossi ministro, queste parole giustizia e carità vorrei fossero messe in pratica per ogni dove, perchè è solo con la giustizia e con la carità che si possono rendere buone e tranquille le nazioni.
Che se poi neanco con questo retto sistema, non si potesse ottenere l'ordine e la quiete e si volesse ad ogni costo andare all’anarchia, allora alla carità del cuore e per la giustizia, lascerei sottentrare il rimedio del cannone.
Se fossi ministro, il mio socialismo fondato sulla giustizia e sulla carità seguirebbe il programma deliberato in buona parte nell’assemblea dell’Unione per gli Studii Sociali, tenuta in Milano nei giorni 2 e 3 gennaio di quest’anno.
In esso programma, si afferma che bisogna distinguere le cause dagli intenti finali del socialismo.
Pel primo rispetto esso è l’espressione di un malessere reale, diffuso, diuturno, il quale alla sua volta è l’ultimo prodotto di una serie prolungata di violazioni dell’ordine sociale cristiano fondato sulla giustizia e sulla carità.
In tal caso la causa del popolo sofferente e le irrequietudini presenti di esso ne sono una prova di più.
I fini di questa medesima agitazione, in quanto si confondono col programma del socialismo essendo pure riprovevoli, attestano tuttavia che non si ha posto ormai che alla rivoluzione sociale o al restauro sociale cristiano.
Perciò urge: I. Proclamare che la legge del dovere cristiano deve imperare sovrana sopra tutte le classi senza distinzione; e che tal legge nei rispetti economici si traduce nella legge del lavoro da cui non rimane assolto alcuno, se non per sostituirvi forme di attività più elevate e proficue all’universale.
E precisamente questa legge comune del lavoro, ossia di una attività utile e meritoria, deve essere quella che appresti colleganza e stabilità ai rapporti fra le classi oggidì scisse e fra loro in conflitto.
II. È necessario restaurare la coscienza del dovere etico cristiano, per cui l’uso della proprietà privata, soddisfatti i bisogni relativi della classe possidente, deve volgersi a beneficio comune e in specie dei poveri e nulla tenenti. Salvare le ultime reliquie e comporre possibilmente i patrimoni collettivi degli enti morali giuridici, delle opere pie, delle corporazioni religiose, della Chiesa, che furono ritenuti sempre quasi il tesoro riservato del popolo, cui possono aggiungersi i beni e le proprietà collettive dei Comuni, delle Provincie, dello Stato, che debbono conservarsi e fruttare a benefizio pubblico o cedersi per la coltivazione ai proletari; — favorire la diffusione della piccola proprietà preservandola dai pericoli del frazionamento e dagli oneri ipotecarii che precipitosamente la disperdono e ciò mediante una modificazione del regime successorio20 e coll’esonero di un minimum di proprietà da ogni espropriazione coattiva per crediti privati o fiscali21 in quanto alle medie e grandi proprietà far partecipare il lavoratore più che sia possibile alla permanenza e alla progressiva produttività del possesso fondiario, mediante la diffusione della Colonia parziaria (mezzadria) o mediante piccolo affitto a lungo termine e con diritto di indennità per le migliorie — o finalmente mediante l'enfiteusi da introdursi nei latifondi incolti coattivamente per ministero di legge a titolo di pubblica utilità; — tutto ciò guarantito mediante l’esonero dalle imposte della parte di reddito strettamente necessaria alla vita.
III. Trasformare il capitalista che presta all’industriale, in un socio d’industria che con lui condivida tutti i rischi dell’impresa a somiglianza di una accomandita, restringendo così il premio dei semplici capitalisti mutuanti — similmente restringere la classe precaria e misera del semplice salariato e perciò ommesso primamente il salario giusto, cioè corrispondente al prodotto del lavoro, concedere all’operaio una parte di codesta rimunerazione, piuttosto che in forma fissa, sotto la forma di partecipazione agli utili, e ulteriormente elevare l’operaio stesso alla compartecipazione al capitale dell’impresa, mediante l’impiego dei risparmi in azioni nominative dell’impresa medesima.
IV. Riprodurre nelle forme ammodernate la repressione legale delle usure — sottoporre le Borse ad una legge severa sopra le sue operazioni — e della dispensazione del credito mediante le banche di emissione farne una funzione sociale non affidata ad una società di speculatori, bensì a un istituto autonomo con patrimonio impersonale da amministrarsi con intenti di pubblica utilità...22
Questo sarebbe il programma che crederei conveniente di adottare verso il socialismo perchè è il più consentaneo alla giustizia e alla carità e perchè studiato e suggerito da uomini negli studii sociali versatissimi quali il prof. G. Toniolo dell'Università di Pisa, il prof. L. Olivi dell’Università di Modena.
Mi domanderete: credete voi che riuscireste a migliorare le classi operaje con questo programma, e che si potrebbe addivenire a un pacifico equilibrio sociale?
Vi dirò, è vero, molto siamo già inoltrati verso il precipizio, ma seguendo i consigli del Toniolo e dell'Olivi ci potremo ancora salvare.
Ma sapete che cosa sarebbe necessario? Sarebbe necessario che tutti gli uomini onesti si porgessero la mano, perché è solo dall’unione che avremo la vittoria.
Ma che accade invece?
Mentre la casa va in fiamme, molti se ne stanno indifferenti a mirare l’incendio, pochi lavorano a spegnerlo, e tra questi pochi spesso s’insinua la discordia sotto veste di critica.
Noi somigliamo ai teologi bizantini che disputavano sottilmente, mentre le orde di Maometto II stavano alle porte di Costantinopoli.
Così il Caligari, celato sotto il pseudonimo di Mikros, in un altro suo scritto.
E in vero, le condizioni nostre sono tali che molto somigliamo a quei teologi poco prudenti. Liberali e clericali noi ci indeboliamo con scaramuccie di partito, che finiranno ad accelerare la catastrofe che si addensa sopra il nostro Paese.
⁂
Don Luigi..... curato nel paese di..... venne da me non è molto e mi bisbigliò all’orecchio:
— È vero che state scrivendo un nuovo libro? Ditemi con schiettezza, io terrò il segreto, anzi potrò consigliarvi ed aiutarvi!
La visita del buon prete non mi sarebbe dispiaciuta se si fosse limitata ad apportarmi uno dei soliti suoi ragionamenti intorno alle arti, ma avvedutomi che essa avea ben altro scopo, prontamente risposi che riguardo ai miei libri mai avea voluti consigli ed aiuti per non avere a fare delle vittime.
La mia dichiarazione, non si volle comprendere dall’amico, il quale cominciò a dire che col mio libro Salviamo l’Italia, mi era espresso in alcune parti vagamente e che, a dir vero, ero stato troppo indulgente verso la rivoluzione.
In secondo luogo, egli animandosi, affermava che io mi era mostrato deferente assai per una Dinastia che avea seguita la rivoluzione stessa.
Più aggiungeva, che nel desiderio manifestato per la conciliazione fra lo Stato o la Chiesa, io lasciava dei dubbi sul mio modo di pensare.
Avere io scritto a fine di bene, anzi averne egli la certezza, ma essere obbligato a fare la critica, perché, uomo avvisato resta salvato.
A questo panegirico, non sgomentai davvero, ma non sapendo se Don Luigi volesse scherzare o seriamente disapprovare il mio operato, fui per troncare l’intervista con la scusa di un appuntamento.
Ma poi dissi tra me: Io ho pensato con la mia testa, ho ponderato, ho scritto, ho corretto, dovrò gratuitamente accogliermi in buona pace la lezione poco conveniente?
L’ecclesiastico avea finito, ed io allora convinto che Don Luigi era persuaso di aver a che fare con un uomo traviato, cominciai la mia parte.
Voi, signor abate, non intendeste il mio libro, giacché mentre voi mi accusate di troppa indulgenza verso la rivoluzione, parecchi liberalissimi mi scrissero che da molto tempo nessuno avea parlato contro di essa così chiaramente.
E procediamo.....
Voi mi accusate di essere deferente assai verso una Dinastia che ha seguito la rivoluzione, mi dite in altri termini che io dovea questa Dinastia quasi combatterla, ma sapete, Don Luigi mio, che dissi in favore di essa, neppure metà di quello che avea in animo di dire?
Anzitutto, vi dichiaro che io rispetto ed amo la Casa di Savoja, e questo come cattolico e come cittadino.
Ho rispetto per Essa, perché in Sua Maestà Umberto I, io vi riconosco il capo legittimo dello Stato e siccome ogni autorità viene da Dio, come voi, signor Don Luigi dovete sapere, così voi stesso siete obbligato ad ammettere che essa deve essere rispettata.
Penso poi agli spiriti eletti di Umberto, di Amedeo, di Margherita, ascritti alla gloria dei beati, ricordo Maria Teresa, Maria Cristina, Maria Adelaide, ammiro la vivente romita di Moncalieri e mi sento entusiasmare.
Io circondo di affetto sincero la Dinastia di Savoja perchò so che Essa fra le attuali Case regnanti è fra le più gloriose e per coraggio e per carità.
Lo comprendo il Re, capo di uno Stato cattolico, dovrebbe parlare più in favore della giustizia, non dovrebbe firmare certe leggi e certi decreti, dovrebbe mostrarsi più benevolo verso i cattolici, tutto questo dovrebbe fare; ma non sapete voi, signor abate, che dal dover fare al poter fare ci passa di mezzo il mare?
Ritenete bene, che io non voglio risalire fino a Vittorio Emanuele II, perchè sulla bara dei morti mi piace pregare e non fare della politica, ma rimanendo al nostro Augusto Sovrano, io ritengo faccia quanto a Lui consente la difficile posizione nella quale si trova.
Si ha bel fare da consiglieri alla Corona, dalle redazioni dei giornali di qualsiasi colore o dai caffè, ma io credo che se uno di questi sapientissimi uomini che tutto criticano fosse chiamato a quel posto, o farebbe come fa Umberto ili Savoja o ci porterebbe tutti alla perdizione in breve tempo.
Ma ragioniamo:
Chi sono i consiglieri naturali del Re?
Per la costituzione vigente, sono i Ministri, i Consiglieri di Stato, i Senatori, i Deputati.
Chi manda questa gente a quei seggi?
Sono coloro che accorrono alle urne politiche, ma essi non sono i cattolici disciplinati; dunque questi cattolici che possono sperare?
Se a un maestro di cappella si concederanno dei buoni esecutori, la musica riuscirà per incanto; ma se invece a costui si lascieranno esecutori che uguaglino i cani, il maestro per bene intenzionato che sia, finirà col fare il meglio che a lui sarà possibile, ma l’armonia certo sarà poco piacevole e a lui e per gli altri.
Il paragone è un po’ poetico ma è opportuno.
Non intendo con questo dire che i cattolici dovrebbero fare diversamente da quello che fanno, perchè so che essi devono obbedire al desiderio di Colui che è maestro di color che sanno, ma non posso disconoscere che se ai cattolici sarà concesso di muovere disciplinati alle urne politiche, come già fecero per le elezioni provinciali e comunali, la notte tenebrosa di oggi passerà per darci domani una giornata di sole lucentissimo.
Dunque, caro Don Luigi, attendete con calma la bella aurora, ma lasciate in pace Chi regge i destini del Paese nostro.
Credete voi che il Monarca, accusato ingiustamente da tutti i partiti, in certi momenti non cederebbe il suo posto a qualcun altro, per godersi la tranquillità di semplice suddito?
Sua Maestà fa come meglio può, e se voi teneste dietro al suo operare vedreste in quell’uomo senno, coraggio e cuore. Col senno ritenete, caro amico, il nostro Re, chi sa quanti malanni risparmiò all'Italia!
Col coraggio addimostrò valorosamente che sa esporre la sua vita per la Patria e per la sua libertà.
Col cuore ci fece vedere che Egli, più di sovrano dei suoi sudditi, è padre, fratello ed amico.
Lo ricordo il nostro buon Re in mezzo alle epidemie, in mezzo alle ruine del terremoto, in mezzo ai luoghi innondati, in mezzo agli avanzi del fuoco.
Il popolo ammirato acclamava al sovrano benefico e col popolo a Lui acclamavano cardinali, vescovi e sacerdoti implorando sul Re la benedizione del Cielo.
Lo incontrai il nostro buon Re addolorato e commosso nell’atrio dell’arcivescovado di Milano, di ritorno da monsignor di Calabiana, che era aggravassimo.
Accompagnato da numeroso Clero il Sovrano avea parole cortesi per tutti, parole improntate al più sincero rispetto e per l’amico morente e per il vescovo esemplare che era per lasciare la sua archidiocesi.
Che cosa volete, mio caro Don Luigi, lo comprendo; un monarca come Luigi IX di Francia sarebbe più perfetto, ma persuadetevi che se lo stesso eroe delle Crociate potesse ora regnare in Italia, o abdicherebbe o dovrebbe procurare di regnare scegliendo fra i due mali, il male minore.
Dunque se così farebbe il santo figlio della Regina Bianca, come volete si comporti il figlio di Maria Adelaide?
Non potendo regnare con tutta quella giustizia che forse Lui stesso vorrebbe, ma che non gli è consentita, dovrebbe Egli abdicare?
Ma in favore di chi?
Avete, voi mio Don Luigi, una forma di governo migliore, che possa dare al Paese beneficii maggiori?
Accennatemi a questo ideale vostro, che vi sorride e se riuscite a trovarlo, io applaudirò; ma siccome ben capisco che voi alludete alla Repubblica, allora qui senza attendere vi dico quanto vi spetta.
Sì, per principio d’imparzialità, io credo che la forma del Governo Repubblicano sia la migliore, ma intendo accennare a quella Repubblica che avesse per guida il Vangelo e che fosse adito al più virtuoso al più intelligente, al più capace dei sudditi di salire allo scanno Presidenziale; ma essendo che la Repubblica nostra rifiuterebbe le leggi divine, e il suo presidente sarebbe portato al potere dall’intrigo, dalle sommosse e dal sangue, così vi dichiaro che non lodo un Governo nuovo che si iniziasse sui cadaveri dei sudditi.
Ma ammettiamo che questa Repubblica fosse anche tollerabile, voi siete così ingenuo a credere, mio Don Luigi, che dalla caduta della Monarchia alla proclamazione della Repubblica vi si passerebbe con un tramonto all’acqua di rosa, come avvenne nel Brasile per la caduta dell’Imperatore Don Pedro?
È vero, tranquillamente Fonseca sottentrò al potere, ma la calma durò poco e i giornali da quel giorno ci dicono che l’antico impero, gode i frutti di una Repubblica che porta sterminio, morte e desolazione.
In Italia il credere in un cambiamento di Governo, senza tristi conseguenze è una opinione ingenua.
Prima di tutto fra noi per riuscire a mutare le cose, bisognerebbe che il malcontento fosse proprio verso la Monarchia e questo non è, perchè tutti non ignorano che la marea sale contro i ministri che opprimono lo Stato ma non contro del Re.
Dal ricco al povero, i più degli Italiani sono affezionati ai loro Principi, perchè ben conoscono che se non riescono a fare di più la colpa non è loro.
Ma la Monarchia ha un prode Esercito che la ama e sul quale può calcolare.
L’amore che l’Esercito ha per la Patria è indivisibile dall’amore pel suo Sovrano e o quando la libertà della Patria avesse a pericolare, o quando Casa Savoja, dalla ingratitudine di pochi, fosse minacciata, ritenga, Don Luigi, che il grido di viva la patria, non sarebbe disgiunto mai da quello sempre avanti Savoja.
L'Esercito nostro è un valoroso e generoso Esercito e giammai permetterebbe che una Dinastia di tanti valorosi Monarchi, di tanti generosi Principi, dovesse abbandonare la custodia che da Dio e dal popolo a Lei venne affidata.
Io sarò forse troppo ottimista, ma la storia mi insegna che la fedeltà dell’Esercito è la garanzia dei coronati.
Qui in Italia il soldato fu sempre esempio di fedeltà, e dalle prime guerre per la nostra libertà, fino all’ultimo fatto d’armi tanto lusinghiero per il bravo colonnello Arimondi, abbiamo la prova che i nostri fratelli nelle armi, per la Patria e per il Re sanno vincere, con uguale entusiasmo, con uguale eroismo.
Si è con vera gioia che qui porto l’elogio magnifico che fa dell’Esercito quel giornale assennato che è il Corriere di Casale Monferrato — egli dice:
«Il nostro Esercito è l’unica cosa che abbia resistito all’imperversare della fiumana rivoluzionaria che travolse tante belle glorie della nostra Patria; in mezzo a tante rovine, fa piacere e dà conforto il vedere ancora in piedi questa istituzione, la quale compendia in sè quanto vi è ancora di glorioso, di nobile, di generoso, di serio, d’incontaminato.
Non mancarono o non mancano i tentativi per guastare e corrompere anche l’Esercito; per strappargli dal cuore quel nobile sentimento del dovere, pel quale e sempre pronto a sacrificarsi; o l’empietà, ricordando il detto di Voltaire che un’armata pronta a combattere per il suo Dio è invincibile, non cessò e non cessa di attentare alla fede dei nostri bravi soldati, per renderli fedifraghi al loro giuramento o aggiogarli alla setta nemica del trono e dell’altare.
Ma riconosciamolo, a gloria di questa falange di prodi, i tristi conati non riuscirono che a maggiormente provarne l'incorruttibile carattere, per cui serbandosi in massima schiettamente cristiana, seppe mantenersi fedele al proprio dovere, e come sempre in passato, sarà sempre disposta a dar la vita per la conservazione dell’ordine e della sicurezza sociale.
I più valenti capitani furono sempre e saranno essenzialmente religiosi. Napoleone I diceva al generale Bertrand: se non amate Dio e la religione ho avuto torto a farvi generale, e con ciò l’esiliato di Sant’Elena non faceva che confermare una verità, illustrata dai Bajardo, dai Turenna, dai Condé, da tanti celebri guerrieri della stirpe Sabauda, tra i quali ci piace ricordare il conte Verde, Emanuele Filiberto, Vittorio Amedeo e il principe Eugenio.
Che diremo noi dei nostri soldati? Li vediamo più degli altri ordini di cittadini conservare i sentimenti attinti da una educazione cristiana, pregare nelle nostre chiese, morire sul campo di battaglia invocando i soccorsi della Religione e la clemenza di Dio: i migliori tra essi, quelli che si mostrano più docili alla disciplina militare, i più pronti all’abnegazione, i più rispettosi ai superiori, i più cari ai compagni, meno colpiti dalle punizioni severe, sono appunto quelli, i quali sfuggendo alla corruzione anticristiana ed ai perniciosi esempi dell’empietà, ravvisano sempre nel sacerdote un amico e nelle pratiche religiose un necessario conforto....»
È così bene scritto questo articolo del giornale Casalese che volli qui pubblicarlo perchè coloro che vedranno questo libro diano ragione all’entusiasmo che io nutro per i nostri soldati, entusiasmo fondato sulla certezza che il nostro Esercito sarà sempre la difesa della Patria, lo scudo della Dinastia Sabauda.
Sì, caro Don Luigi, volete dunque che con un simile Esercito, sia cosa facile invitare il Sovrano a scendere dal suo soglio?
Auguratevi, caro amico, che non sorga mai il giorno che si volesse commettere siffatto attentato, perchè voi che aspirate a certi sogni, dovreste vedere i nostri soldati di fanteria, mettervi con le spalle al muro, sentireste il fischio dei confetti delle artiglierie, vi vedreste inseguito dai bersaglieri, scovato perfino sulle cime delle montagne più ripide dagli alpini e la cavalleria se risparmierebbe di rompervi tutte le costole, sarebbe per darvi il tempo di osservare i corazzieri del Re che con dei petti più forti delle loro armature sarebbero là a difendere il loro Capo.
Ma che parlo io di corazzieri? Le corazze per salvare il nostro Re sarebbero i petti stessi di tutti gli Italiani e voi Don Luigi, atterrito per lo spavento, risparmiato dalla pietà dei soldati, sareste costretto a morire per la vergogna delle vostro utopie.
Un anno or fa un repubblicano accanito mi diceva:
— Ci vuol altro che pensare alla Repubblica quando un presidente di essa, buono come il cittadino Umberto, non lo troveremmo mai!....
Mi dispiace, signor abate riveritissimo, di vedere che le mie parole vi pesano, ma la verità è sempre verità e anche voi la dovete riconoscere.
Nè si dica, che in Italia l'affetto dei sudditi è ristretto a Sua Maestà il Re, giacché tutta la Famiglia è amata dagli Italiani.
S. M. la Regina gode la simpatia universale.
Il Principe di Napoli si formò un nucleo numeroso di ammiratori, pel suo contegno riservato, per la sua coltura, per la sua bontà e carità verso il popolo.
Il Duca d’Aosta, giovane assai brillante, accoppiando a questa sua qualità un animo cortesissimo, è da tutti amato perchè Egli tutti ama.
Il Conte di Torino, spirito gioviale, se porta colla sua persona una nota allegra, manifesta altresì un cuore espansivo e veramente fatto per essere prediletto.
E come non meritarlo, quando compie atti di un sentimento delicatissimo verso il suo prossimo!
Il giorno 28 del gennaio di questo anno, un vecchio muratore, con la giacca in ispalla e la pipa spenta tra le labbra strette, traversava la piazza del Quirinale in Roma.
In senso inverso, veniva verso di lui un elegante e bellissimo giovane fumando una sigaretta. Il muratore gli si è avvicinato, e toccandosi il cappello, gli ha chiesto del fuoco.
L’elegante giovinotto s’è fermato, s'è tolta di bocca la sigaretta che ha dato al vecchio operaio; ha aspettato che questo avesse bene accesa la pipa, poi riprendendo la sigaretta, ha salutato il vecchio togliendosi il cappello. Questi, impressionato da tanta giovanile garbatezza e cortesia, segui con gli occhi il giovinotto che vide entrare al Quirinale ossequiato da tutti.
Soltanto allora il muratore fu avvisato d’essersi fatto accendere la pipa da Sua Altezza Reale il Conte di Torino.
I commenti favorevoli furono moltissimi nel popolo e la simpatia per Lui sempre più si accentuò.
Il Duca delle Puglie, destinato alla Marina, tutti riconoscono per un giovane mite e i suoi superiori pronosticano bene della sua carriera, perchè è intelligente e ha molto tatto in ogni suo proposito.
Il Duca di Genova, lascia traccio di carità per ogni parte che è da Lui visitata, e si può dire di lui che sa fare il bene senza alcuna esteriorità.
Ma tralasciamo di fare il biografo e ritorniamo all’argomento.
Credete voi, Don Luigi mio, che l’Italia si adatterebbe ad avere per suo Capo, un uomo che non avesse un passato degno di tanta carica?
Pensate forse, e questo voi lo credete, che i repubblicani vi darebbero la felicità ideale?
Badate alla Francia e poi ditemi se proprio vale la pena di aspirare alle novità.
Ma veniamo, signor abate, alla osservazione che mi fate relativamente alla conciliazione fra lo Stato e la Chiesa: e questa essendo materia un po’ difficile v’invito a ripassare domani da me, perchè trattandosi di affare delicato non voglio pronunciarmi a caso.
⁂
Il giorno dopo, puntualissimo, venne l'ecclesiastico e sorridendo mi chiese se la risposta alla sua ultima accusa era fatta!...
Appunto, per servirvi, e senza più lessi:
Se fossi ministro, riguardo al dissidio fra lo Stato e la Chiesa agirei così:
Prima di tutto essendo il momento nel quale attraversa l’Italia, molto critico, domanderei i pieni poteri perchè per gravi mali ci vogliono gravi rimedi, e ritenuto che senza riavvicinarsi al Papa non si potrà mai avere questo bene morale, così io andrei in Vaticano...
Qui Don Luigi, scattando sopra la sedia e fuori di sé, gridò: — Ma voi impazzite.... per carità.... non andiamo più oltre...
Si, caro Don Luigi, andrei in Vaticano, e sapendo quanto sia perfetto gentiluomo il Cardinale Rampolla, lo pregherei di chiedere a Sua Santità un’udienza per me.
Concedetemi, mio buon uomo, che dopo tutto, come dicono i Romani, Sua Eminenza Reverendissima mi ottenesse l’udienza, volete sapere che cosa direi al Pontefice?
Santità!
Mi permisi venire a Voi perchè il bene del mio Paese lo esige.
Da lunga pezza, il mondo corre al precipizio. Voi, più di una volta, invitaste i potenti della terra a governare gli Stati secondo i dettami del Cielo.
Ma le Vostre parole furono poco intese ed ora le nazioni sentono i preludii d’uno spaventevole avvenire.
Voi ripeteste che bisogna rifare il cammino, ma la forza materiale dei popoli non è più sufficiente per riprendere la strada smarrita e occorre essa sia coadiuvata dalla forza morale che tutta in voi si concentra.
Il bisogno di questo aiuto lo sentono tutti ed in particolar modo gli Italiani che più degli altri provano il castigo di essersi allontanati da Dio.
Padre Santo, il mio Governo a Voi reverente si trae con la sicurezza di salvare l’Italia.
Il mio Governo ammira la sublimità del pensiero Vostro e si allieta dell’affetto che addimostrate al Vostro Paese.
Il pensiero Vostro anela di vedere salva l’Italia, il Vostro desiderio è di avvicinarla al Vostro cuore.
Nell’alto e patriottico pensiero Vostro non si contiene l’ombra del proposito, che calunniosamente viene alla Santità Vostra attribuita dall’ibrida coorte dei massoni e dei rivoluzionarii, di distruggere il libero regime e di sminuzzare l’unità nazionale d’Italia. Nel Vostro programma, a così dire, italiano, non si tratta di distruggere e di demolire, ma bensì si tratta di riparare e di correggere, di riparare cioè le colpe morali che si sono commesse, di correggere gli errori politici che si sono compiuti23.
Ciò asseverato:
Voi diceste il 28 gennaio di quest’anno che non giustizia soltanto ma senno politico sarebbe accostarsi con fiducia e senza sospetti a Colui che della Religione tiene da Dio il magistrato supremo; giacchè le parole di vita eterna ch'Egli possiede hanno virtù di far prosperare eziandio la vita mortale.
Ed io per giustizia e senno politico venni al Vaticano.
Lo so, qualsiasi trattato di pace onorevole vuole a base fra le parti concessioni onorevoli, ma alla magnanimità, e imparzialità Vostra, io rimetto queste concessioni.
Ma voi non siete solo il padre dei cattolici italiani, ma siete anco il padre di tutti i cattolici del mondo, e così la Santità Vostra, se desidera, ha il diritto che i cattolici tutti intervengano per mezzo dei rispettivi governi al concordato che crederete utile per la Santa Sede e indispensabile per la dignità e il bene nazionale.
Voi pertanto in tal maniera assicurato nel possesso di quella libertà che crederete necessaria al ministero Vostro apostolico abbiate la certezza che il mio Governo mai verrà meno nel mantenimento di quei doveri che verso della Santità Vostra e dei successori Vostri, colla appropriazione dei tre poteri dello Stato sarà per sancire. Le leggi ispirate a giustizia, saranno il riflesso delle Vostre aspirazioni, a benefizio di tutti gli Italiani che voi amate e dai quali siete riamato.
11 mio Governo viene a Voi con la massima fiducia.
Egli sa che la virtù Vostra, esaltata, migliorerà il popolo italiano.
Egli conosce che la sapienza Vostra, additata a maestra nel bel Paese, disperderà le tenebre dell'errore.
Egli sa che la carità Vostra apprezzata, sarà apportatrice di pace fra le diverse classi sociali.
Egli sa che la potenza Vostra, renderà per riflesso stimata e potente la Nazione.
Padre Santo, nella figura Vostra quasi immateriale, Dio vi conservi per anni ancora lo spirito Vostro sano, vigoroso. Esso dirà ai flaccidi, agli ignavi, cervello e di cuore che l’esistenza e la santità di Leone XIII han diritto all’ammirazione ed all’augurio24.
Questi sentimenti, Beatissimo Padre, mi tengo onorato di esprimervi per incarico del mio Augusto Sovrano e per volere del popolo.
Don Luigi che avea ascoltato con attenzione, mi soggiunse: Il vostro discorso corre, e corre bene; ma la questione si è che voi non siete ministro...... e poi? anche foste al posto di Crispi, con i pieni poteri, sperereste voi che la visita vostra, il vostro discorso metterebbe le cose a posto?
Sareste sicuro che alla resa dei pieni poteri non sareste dispensato dal Governo?.....
Capisco, caro Don Luigi, l’avvenire è buio per tutti, ma quando uno fa una parte con senno e con lealtà, non può essere tacciato nè di audacia, nè di debolezza.
Sarebbe audacia il voler far le orecchie da mercante ai consigli che per il bene della Nazione ci sono rivolti, sarebbe debolezza il cedere a ingiuste pretese; ma quando Chi parla, rivolge la parola affettuosa di padre, potranno i figli essere così ostinati nel volerla disprezzare?
Che se alla resa dei pieni poteri mi toccasse la sorte che colpi nel 1888 il Sindaco Torlonia, la vergogna non sarebbe la mia, ma di coloro che mi avessero fatto mandare a casa, non più ministro, ma semplice suddito.
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Sono alle ultime pagine del mio scritto e voglio in esso vi sia un saluto al Conte Edoardo Soderini, il quale se scrisse con più senno ed eleganza della mia, spero però troverà buono il mio intendimento e perciò porgendoci la mano da buoni amici con lui ripeto l’augurio che sorga in Italia un uomo di Stato che sappia valersi del grande amore che il Pontefice sente per la Patria nostra e dei grandi mezzi di salvezza politica ed economica di cui il Papato può sempre disporre per Roma e per l'Italia.
Fosse pure quest’uomo che avesse a sorgere Francesco Crispi, sia egli il benvenuto, la Patria per mezzo suo salvata, saprà immortalarne il suo nome.
Qui giunto il mio libro è finito, ed io sarò dal mio lettore giudicato... Sarà il verdetto a me favorevole o contrario?
Io non lo posso sapere: solo mi auguro che queste pagine non siano disprezzate dalla imparzialità degli Italiani che ancora amano il proprio Paese.
Ma prima di consegnare questo mio scritto all’editore, vorrei chiamare dalle rive dell’Arno la veneranda figura di Augusto Conti, vorrei domandarle se in queste pagine io ho demeritato di lui! vorrei chiederle se ho profanato il suo nome!
Ma che dico? Avrei io potuto farlo? Se il lettore troverà in queste pagine qualche cosa di Vero, di Buono e di Bello, non sono io che lo raccolsi dal giardino fiorito delle Opere di Augusto Conti?
Vorrei qui chiamare la figura veneranda di questo uomo ammirabile, perchè esso colla vivezza della sua fede, con lo slancio del suo patriottismo, con la dolcezza del suo cuore, con la purezza del suo parlare, infervorasse gli Italiani tutti al miglioramento monile e materiale della Patria comune.
Vorrei qui chiamare la figura veneranda di Augusto Conti, perchè tutti potessero sentir ripetere e lar tesoro di questi suoi versi:
Iddio te benedica, o patria terra, |
Vorrei qui vedere la figura veneranda di quel vecchio poeta per dirle che gli Italiani non accettano il suo addio quale allusione a volere Egli lasciare la terra. Gli Italiani coi loro voti, formeranno un baluardo invincibile attorno alla casa di lui a Firenze, perchè respinta la morte, Augusto Conti, ritardando la corona del Cielo, possa inghirlandarsi con loro dell’ulivo della pace, nel giorno che finalmente l’Italia sarà grande davvero.
fine.
- ↑ Questa lettera fu dal chiarissimo Filosofo scritta all’autore, in risposta a una sua dove chiedeva a Lui l’onore di poter fregiare del suo nome il presente libro.
- ↑ Al presente i Vescovi in Italia privi dell’exequatur sono ventitre.
- ↑ Questo Arcivescovo morì il 5 aprile di quest’anno lasciando gran rimpianto in tutti i partiti, perchè come santamente visse, così santamente morì.
- ↑ Il fu Canonico Professore Giuseppe Carpi, uomo di sapere nelle scienze e nelle lettere.
- ↑ Questo diminutivo di lupetto usato dai Romani per il cane lupo, si adoperò perchè detto cane è un animale grazioso, intelligente e voglioso di saltellare.
- ↑ È presidente del Comitato Lombardo per le Missioni Italiane.
Benemerente di questa Società a benefizio delle Missioni Italiane è certo anche primo fra tutti il Senatore Cav. Fedele Lampertico, uomo che a virtù e ad una azione energica unisce una modestia ammirevole. - ↑ Dal libro Libertà e Legge, scritto dall’Illustre giureconsulto e poeta Avvocato Giuseppe Migone di Genova.
- ↑ La famiglia del marchese Raffaele Gavotti.
- ↑ Questa lettera del Senatore Sclopis fu indirizzata ad un amico.
- ↑ In una relazione rassegnata al Re d’Inghilterra il 29 febbraio 1834 da Commissari incaricati sulla legge dei poveri, essi dicono: esser convinti, che il più importante dovere della legislatura è quello di provvedere pel miglioramento dell’educazione religiosa e morale degli operai.
Il Governo Prussiano, di cui tanto si parla oggi tra noi, introducendo l’istruzione obbligatoria nell’Alsazia-Lorena, stabilisce pene severe contro gli scolari che trascurassero di frequentare l’istruzione religiosa. — Vedi l’art. 13 del decreto del Governatore Generale dell'Alsazia, 18 aprile 1871.
Anche il primo Console Bonaparte sentiva la grande necessità dell'insegnamento religioso nelle scuole, quando nel 5 giugno 1800, indirizzandosi al Clero della città di Milano, così ragionava: «La nostra società non può sussistere senza morale: non c’è morale senza Religione; non v’è dunque altro che la Religione, che dar possa allo Stato un appoggio saldo e durevole. Una società senza Religione è come un vascello senza bussola; un vascello in tale stato non può nè accertarsi del suo cammino, nè sperare di raggiungere il porto. Una società senza Religione, sempre agitata, perpetuamente scossa dall’urto delle più violenti passioni, prova in sé tutti i furori di una guerra intestina che la precipita in un abisso di mali e che prima o poi ne adduce infallibilmente a rovina» (Vedi Almanach des catholiques pel 1801).
- ↑ De la littérature en France durant les quinze années de la Restauration. Revue des Deux-Mondes, tome V., 1854, pag. 586.
- ↑ Queste parole furono pronunziate in favore dell'insegnamento religioso nelle scuole dal Dottor Edoardo Porro, Senatore del Regno, Consigliere Comunale di Milano, in una tornata del 1893.
- ↑ Ci valga l'autorità di un giudice competentissimo, il prof. cav. Giusti, dell'Istituto professionale industriale di Torino. Incaricato dal Ministero di un'ispezione nelle scuole industriali del Regno, osservò in quasi tutte, come egli ci disse, operai che venivano esercitati a ritrarre da bellissimi esemplari di disegni d’ornato, mascheroni, foglie, mensole, capitelli, ecc. Confessando di aver trovato non poche di queste copie (fatiche di molti mesi) eseguite con mirabile diligenza, soggiungeva che non riusciva a rendersi ragione dell’utilità di un simile esercizio, ch’ei non si peritava di chiamare addirittura un perditempo. «Preferisco, concludeva, quattro sgorbi ritraenti grossolanamente un disegno dal vero, o un’umile invenzione che esprima un’idea, a cotali inezie che non provano nè approdano a niente.» Parole assennatissime, che concordano perfettamente nella sostanza delle nostre osservazioni.
- ↑ Non si dimentichi che qui si ragiona di operai adulti.
- ↑ L'avv. Pier Costantino Remondini, nato a Genova il 29 giugno 1829, morto il 9 marzo 1893 fu un celebre critico di musica e il più celebre restauratore della musica sacra del nostro secolo. Filologo insigne, conobbe tutte le lingue europee non solo, ma con grande facilità aveva appreso pure le lingue orientali antiche e moderne, coltivando altresì perfino il chinese e il giapponese con splendidi risultati.
Meccanico, matematico, botanico, fra le scienze positive; diritto, filosofia, economia, fra le scienze giuridiche; letteratura, storia, geografia, la musica davano a lui materia d’indefessi studi.
Un uomo che nato da famiglia agiata, che ebbe molte cariche, lo si vedeva così modesto che suscitava una vera venerazione.
Egli per ciascuno aveva il suo linguaggio: teologi, filosofi, legali, letterati, artisti, musici trovavano in lui un profondo conoscitore ed un elegante parlatore, e così giusto era il modo di esprimere i suoi concetti che quasi la sua idea la sentivate entrare in voi stessi così pronta, come l'acqua scorre indubbiamente da un imbuto in un recipiente qualsiasi.
È proprio con dolore che questa virtuosa, intelligente, bella, simpatica, figura scomparve dalla scena del mondo.
Io ricorderò sempre di averne voluto visitare la salma; là esposta in una stanza del suo palazzo, sulle mura del quale mi auguro abbia a vedersi murata una lapide che ricordi il nome di Pier Costantino Remondini.
Innanzi ai resti mortali di quell'insigne uomo, mi sentii venir meno, avea a piangere una delle glorie belle del nostro Paese, e sapendo a quante poche oggi si riducano, grave era il mio cordoglio. - ↑ Custode di bellissimi oggetti in argento è pure il cavaliere Francesco Camagna di Genova, il quale tiene diversi acquasantini per merito rarissimi, e che l’arte a Lui deve molto se gelosamente li serba da vero signore e da conoscitore del Bello.
- ↑ Il palazzo Bocconi, architettato da Giovanni Giachi, fu inaugurato il 21 ottobre 1889.
- ↑ È questo, il giornale Il Cittadino di Genova, fra i giornali d’Italia, uno dei migliori.
Ne è proprietario il signor Giovanni Rivara, il quale a sue spese lo fondò nulla risparmiando perchè giungesse ad avere quell'apprezzamento del quale oggi gode. - ↑ Ultimamente nel congresso dei Sindaci italiani a Roma appunto il pensiero del sistema regionale fa molto apprezzato ed approvato.
- ↑ Se un piccolo proprietario ha tre ettari di terreno da dividersi alla sua morte tra sei figli non li lascia tutti miserabili? Porche non avrà almeno la facoltà di lasciare il podere ad un solo, a sua scelta, salvo a imporgli oneri di aver cura di avviare ad un mestiere i fratelli, mantenere le sorelle nubili, ecc.? — Ciò è introdotto per legge in molti paesi d’Europa.
- ↑ Nelle peggiori sventure a nessun proprietario può essere sottratta coattivamente almeno la capanna o la casa avita ove reclinare nella notte il capo, o l'orticello donde trarre il pane indispensabile a sfamare sè ed i figli. È questo l’istituto dell'homestead di cui sono fieri gli americani del Nord.
- ↑ La moneta e i biglietti di banca, come strumenti universali di circolazione influiscono sopra la vita economica dei produttori e consumatori. Finché la Banca di emissione spetti ad una società di azionisti, cui devonsi corrispondere i dividendo, difficilmente sarà sottratta alla tentazione di lasciarsi condurre nelle sue operazioni da esclusivi criteri di guadagno con pericolo degli interessi della nazione. Qualora se ne taccia un istituto di Stato, questo diverrà un organo di finanza. Di qui il concetto di un istituto con patrimonio appartenente a nessuno, cioè all'ente giuridico, senza scopo di lucro e da amministrarsi da liberi cittadini per pubblica utilità. Saggi di tali ordinamenti, salvo le modalità, sono offerti dagli antichi Banco-giro, dal Banco di Napoli, dalla Cassa di Risparmio di Milano, come istituti autonomi per il pubblico vantaggio. Ciò è più urgente per la funzione della emissione.
- ↑ Quest'ultimo periodo è tolto a un bellissimo articolo pubblicato sull’Osservatore Romano il 22 novembre 1893.
- ↑ Questo ultimo sentimento fu tolto dal giornale Il Pensiero di Nizza, 9 marzo 1891.