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Anche S. E. il Ministro Martini, allorché fu chiamato a reggere la P. I. promise, nel discorso pronunciato a Milano, che si sarebbe dedicato interamente e seriamente al miglioramento delle classi operaie, istituendo nuove scuole d’arti e mestieri, e migliorando le esistenti con programmi più pratici, ed aggiungendovi le officine.
Difatti, parlando delle arti che si dicono minori, si avverte agevolmente l’enorme differenza che è tra la coltura tecnica dell’operaio italiano e quello delle altre nazioni. L’operaio nostro è, salvo rare eccezioni, una macchina che riproduce continuamente lo stesso lavoro senza facoltà di perfezionarlo. Nessuno gli ha direttamente insegnato il mestiere che esercita: lo ha, dopo un tirocinio di molti anni, imparalo per imitazione in una bottega, spesso tra gli scappaccioni, i rabbuffi, le parole oscene ed ingiuriose di un padrone zotico e manesco. Ogni mestiere, per meschino che si voglia, ha le sue ragioni scientifiche ed estetiche donde procedono le norme del far bene e meglio continuamente.
Egli le ignora perché nessuno glie le ha additate: il meglio, pervenuto ad un certo punto, non lo capisce e non lo vede più; manca della ragione impellente d’ogni umano progresso, la visione interna di quella perfezione che stimola, migliorandole del continuo, le nostre fatiche. È