Libro IV

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Apollonio Rodio - Gli Argonauti (III secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Felice Bellotti (1873)
Libro IV
Libro III Indice

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LIBRO IV.


Della vergin di Colco ora tu stessa
     Dimmi l’angosce e i pensamenti, o Musa,
     Figlia di Giove: in me la mente ondeggia
     Nell’incerta credenza o se per trista
     5Forza d’amore o per fuggir vergogna
     Essa il popol de’ Colchi abbandonava.
Entro la reggia co’ primati suoi
     Tutta la notte consultando Eeta,
     Ordiva a’ Minii enorme inganno, in cuore
     10Per lo vinto certame ardendo d’ira;
     Nè il successo credea senza alcun’opra
     Delle proprie sue figlie. Avea Giunone
     Un timore affannoso in cuor gittato
     A Medea, che tremava a par di damma,
     15Cui tra le macchie di fonda foresta
     Vociar di cani esterrefece; e tosto
     Argomentò che non occulta al padre
     Rimasta sia la data aita, e ch’ella
     Tutta in breve a patirne avrà la pena.

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     20Le conscie ancelle anco paventa: gli occhi
     Le s’empiono di foco; un rombo orrendo
     Negli orecchi le freme; ad ora ad ora,
     La man mette alla gola; ad ora ad ora
     Svellendosi i capelli, in suon lugubre
     25Ùlula, geme; e morta allor sarebbe
     Di suo voler, tosco inghiottendo, e scemi
     I consigli di Giuno avrìa d’effetto,
     Se la dea l’atterrito animo suo
     Non induceva a via fuggirne insieme
     30Co’ figliuoli di Frisso. In ciò fermata,
     Senti il cuor dall’ambascia allevïarsi,
     E dal sen tostamente versò tutti
     I raccolti veleni in piccol’arca;
     Indi il letto baciò; baciò le porte,
     35E toccò le pareti, e delle chiome
     Tronca una lunga ciocca, entro la stanza
     Di sè lasciolla virginal ricordo
     Alla madre, e con voce gemebonda:
     Questi (disse) di me, questi partendo
     40Miei capelli ti lascio, o madre mia:
     Calciope, addio; tutta la casa, addio....
     Deh perduto, o stranier, t’avesse il mare
     Pria di giungere a Colco! Ella sì disse,
     E dagli occhi versò lagrime molte;
     45E come fuor del suo beato tetto
     Va donzella, cui schiava un rio destino
     Dalla patria divelle, e che non mai
     Usa a fatiche, e nuova alla sventura,

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     Con tremor le servili opre s’avvia
     50A imprender sotto alla difficil mano
     D’aspra signora; e tale uscìa di casa
     La vergine amorosa. Innanzi a lei
     Della porta spontanëe le valve
     Si disserrâr retrocedendo al suono
     55Della magica voce; ed ella corse
     Nuda le piante per anguste vie,
     Con la manca avvolgendo in su le gote
     Fino alla fronte il peplo, e con la destra
     Su da terra tenendo alto e raccolto
     60Della tunica il lembo. Frettolosa
     Per oscura viuzza alle torrite
     Mura della città giunse tremante,
     E fuor n’uscì, nè la conobbe alcuna
     Delle guardie custodi, e le trascorse
     65Inavvertita. Era sua mente al tempio
     Quinci andar, chè ogni calle ne sapea,1
     Usa spesso aggirarsi in fra le tombe
     De’ morti corpi, ed ir cogliendo infeste,
     Come fan maghe donne, erbe e radici;
     70Ma di trepida tema il cuor nel petto
     Le palpitava. La Titania Luna,
     Spuntando allor dall’orizzonte, vide
     Il vagar dell’insana, e se ne piacque
     Intensamente, e fra sè stessa disse:

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     75Non io dunque, non sola io vo furtiva
     Di Latmo all’antro, e non d’amore io sola
     Per lo vago mi struggo Endimione.
     Ben sovente a’ tuoi carmi incantatori
     Per la nostra amistanza io mi ritrassi
     80Te lasciando tranquilla in notte buja
     I veneficii tuoi, tue dilette opre,
     Esercitar: còlta tu stessa or fosti
     D’egual malore: un demone molesto
     Grave angoscia ti fece esser Giasone.
     85Or va: tu ancor, benchè sì accorta e saggia,
     Soffrir d’amore i duri affanni impara.
La dea sì disse, e ratto i piè per via
     Portavan l’altra. Alacremente il margo
     Soprammontò del fiume, a sè di contro
     90Lucer veggendo uno splendor di foco,
     Cui nella notte ardean gli eroi festanti
     Per la bella vittoria. Un alto grido
     Ella mise fra l’ombre a chiamar Fronti
     Di là dall’altra ripa, il minor figlio
     95Ch’era di Frisso. Egli e i fratelli suoi
     E lo stesso Giason della fanciulla
     Avvisaron la voce; stupefatti
     Fecer tutti silenzio immantinente,
     Chè argomentâr quel ch’era in vero. Il grido
     100Tre volte ella iterò; Fronti tre volte,
     Esortanti i compagni, a lei rispose,
     E gli eroi prestamente incontro ad essa
     Sospinsero la nave. E ancor gittato

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     Non han le funi su l’opposta riva,
     105E un salto già dagli alti banchi a terra
     Spiccò Giasone, e Fronti appresso ed Argo,
     Due de’ figli di Frisso. Ella i ginocchi
     Con ambe mani ad essi abbraccia, e dice:
Deh, amici, or deh me misera salvate,
     110E voi stessi, d’Eeta! Manifesto
     È fatto il tutto: ogni consiglio è indarno.
     Via fuggiam su la nave anzi ch’ei salga
     Suoi veloci cavalli. Io l’aureo Vello
     A voi darò, del guardian serpente
     115L’occhio addormendo. Ospite, e tu qua in mezzo
     De’ tuoi compagni in testimon gli dei
     Chiama delle promesse, onde affidata
     Già tu m’hai, nè voler me di qua lunge
     Fuggita, e scevra d’ogni mio congiunto,
     120Render di biasmo e d’ignominia oggetto.
Così con ansia ella pregò. Gli spirti
     S’allegrâr di Giasone, e lei caduta
     A’ suoi ginocchi innanzi lenemente
     Rialza, abbraccia, e sì dicendo incuora:
     125Nobile donna, io per lo stesso il giuro
     Olimpio Giove e per la moglie sua2
     Pronuba Giuno, entro mie case io giuro
     Sposa mia collocarti allor che fatto
     Avrem ritorno alla contrada Ellena.
130Tanto disse, e la destra mano impose

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     Nella destra di lei. Dessa gli esorta
     Di spingere la nave al sacro bosco
     Subitamente, a fin che ascosi ancora
     Dall’ombre della notte il Vello trarne
     135Possano, fuor del suspicar d’Eeta.
Detto e fatto fu insieme. Ascesi in nave,
     Tosto da terra la spiccâr: gran tonfo
     Fêr nell’acqua co’ remi i vogatori:
     Trasalì la donzella, e vòlta indietro,
     140Alla terra natìa stese le braccia,3
     Fuor di sè quasi; ma Giason con blandi
     Detti affidolla, e n’acquetò gli spirti.
Nell’ora che gli agresti cacciatori
     Sciolgon gli occhi dal sonno, e co’ lor cani
     145Escon l’aurora a prevenir, che l’orme
     Delle fiere cancelli insù ’l terreno,
     E ne sperda l’odor co’ bianchi raggi;4
     In quell’ora Giason con la donzella
     Scese di nave, e il piè poser su ’l prato
     150Che ancor si noma del Monton Riposo,
     Però che in esso le stanche ginocchia
     Piegò quello a posar, quando su ’l dorso
     Portonne il Minio d’Atamante figlio.5
     Quivi fuliginosi i fondamenti
     155Erano ancora dell’altar, che a Giove
     Protettor de’ fuggenti eresse un giorno

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     Frisso d’Eolo figliuolo, ostia immolando
     Quel monton portentoso aurilanuto,
     Siccome a lui benevolo venendo
     160Mercurio impose. Ivi gli eroi lasciâro,
     D’Argo al consiglio obbedïenti, i due,
     Che per dritto sentier vennero al bosco,
     Il gran faggio cercando, a cui da un ramo
     L’aurea pelle pendea, simile a nube
     165Che s’invermiglia a’ fiammeggianti raggi
     Del Sol nascente. Incontro a lor protese
     Il lunghissimo collo il fiero drago
     Che co’ vigili sempre occhi da lunge
     Venir li vide; e mise orrendi sibili,
     170Sì che del fiume n’echeggîar le sponde
     Quanto son lunghe, e quella selva immensa;
     E l’udirono quei che di là molto
     Dalla Titani d’Ea stanziano in fondo
     Della Colchica terra appo le foci
     175Del Lieo fiume, che dal letto uscendo
     Del fragoroso Arasse entro del Fasi
     Porta le sacre sue correnti, ed ambo
     Sboccano insieme nel Caucasio mare:
     Si svegliâr spaurite le novelle
     180Madri, e affannose stesero le mani
     Su i pargoletti che al lor sen raccolti
     Dormiéno, e scossi al fiero suon trabalzano.
     E come allor che da una selva ardente
     Erompono di fumo ignei volumi,
     185E dal basso nell’alto, e l’un nell’altro

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     Volvonsi sempre in vorticosi giri;
     Così quel mostro in infinite rote
     Iva torcendo e ritorcendo il corpo
     Scabro d’orride squame. Innanzi ad esso
     190Stette Medea: con sua voce soave
     Fausto invocò, sommo de’ numi, il Sonno
     A sopir quella belva, e la d’Averno
     Possente dea nottivagante implora
     A dar buon fine alla comincia impresa.
     195Presso è Giason, non senza tema. Il mostro
     Già rammollito a quelle dolci note,
     Dalle attorte sciogliea spire la lunga
     Spina del dorso, e su ’l terreno in molti
     Si spianava gran cerchii, a par d’oscuro
     200Fiotto che sovra abbonazzato mare
     Sordamente fremendo si distende.
     Ma il terribile capo alto levando,
     Agognava il crudele ambo far pasto
     Di sue fiere mascelle. Ed ella un ramo6
     205Di ginepro allor còlto in medicati
     Sughi intingendo, e magiche parole
     Cantando, gli occhi a quel ne spruzza. Il grave
     Di quel farmaco odor diffuso intorno
     Gl’infonde il sonno; ivi dov’era, al suolo
     210Posò obliqua la guancia, e lunge addietro
     Si stendea per la selva attorcigliato
     L’immane corpo. Allor Giasone, al cenno

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     Che gli diè la donzella, all’arbor tolse7
     Le aurate lane; ed ella intanto il capo
     215Alla fera molcea col medicarne,
     Fin che invito Giason di ritornarne
     Le fe’ seco alla nave, e in un con lei
     Fuor del fosco n’uscìa luco di Marte.
     E qual fanciulla della piena luna
     220Che dall’alto le splende entro la stanza,
     Sopra il fino suo peplo accoglie i raggi,
     E mirando il bel lume, il cuor le gode:
     Tal Giason s’allegrava alto levando
     Con sua man l’aurea spoglia, e a lui le bionde
     225Gote e la fronte imporporò di quella
     Il vermiglio fulgor simile a fiamma.
     Quanto il cuojo egli è poi d’una giovenca
     D’un anno nata, o d’una cerva, a cui
     D’Acheinéa dan nome i cacciatori,
     230Quell’aurea pelle era cotanta, e greve
     Per folta lana; e rilucea la terra
     Dinanzi al piè dell’incedente eroe,
     Ed egli or tutto steso la portava
     Giù fino al suol su la sinistra spalla,
     235Or la ripiega per timor che alcuno
     Uom che incontri, o un iddio, non gliela tolga.
Già sulla terra si spandea l’aurora,
     Quando allo stuolo ei giunsero. Stupore
     Prese i Minii al veder la grande spoglia
     240Che lampeggia al balen pari di Giove,

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     E v’accorre ciascun desideroso
     Di toccarla e tenerla entro sue mani;
     Ma lo vieta Giasone, e quella in nuovo
     Drappo rinvolge; insù la poppa asside
     245Poi la donzella, e così parla a tutti:
Non s’indugi, o compagni, a far ritorno
     Al patrio lido. Il grande affar che un tanto
     Travaglioso passaggio imprender fece,
     E ne diè tanti affanni, è faustamente
     250Per opra e senno di Medea compiuto.
     Lei, che pur lo desìa, nelle mie case
     Io condurrò consorte mia; ma voi
     Qual si fu generosa ajutatrice
     E di tutta la Grecia e di voi stessi,
     255Salvatela; chè assai forte ho sospetto
     Che dal fiume a impedirne in mar l’uscita
     Sopravverrà con molte genti Eeta.
     Parte or dunque di voi su i banchi assisi
     Fate sforzo di voga, e l’altra parte
     260Protendendo gli scudi a far riparo
     Dagli ostili projetti, difendete
     Della nave il viaggio. I figli nostri,
     La patria cara, i venerandi padri
     Ora in man son di noi: Grecia in noi fonda
     265O d’ignominia o d’alto onor l’acquisto.
Disse, e vestì le bellich’armi. Un grido
     Alzâr tutti d’assenso, invasi tutti
     D’un divino ardimento; ed esso, il brando
     Tratto dalla vagina, immantinente

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     270Taglia le amarre, indi alla vergin presso
     S’assise a fianco del nocchiero Anceo.
     Spingono il legno i rematori, e fanno
     Per uscirlo del fiume impeto e foga.
Chiari al barbaro Eeta e a’ Colchi tutti
     275Eran già di Medea l’amore e l’opre,
     E già il popolo tutto a parlamento
     Accoglievasi in arme. E quanti in mare
     Flutti solleva il procelloso turbo,
     O quante dalla selva a terra cadono
     280Foglie d’autunno (e chi contar le puote?)
     Tanti in numero i Colchi schiamazzando
     Passâr del fiume oltre le rive. Eeta
     Su bel cocchio venìa fastosamente
     Con cavalli, onde il Sole a lui fe’ dono,
     285Pari a’ soffii del vento: alto sostiene
     Col manco braccio un tondo scudo: lunga
     Face di pino ha nella destra, e a canto
     Grande un’asta gli sta: de’ corridori
     Regge Absirto le guide. In là già molto
     290Fendea la nave il mar, spinta da forti
     Remiganti, e dal corso in giù portata
     Di quel gran fiume. Allor levando Eeta
     Nel dolor di tal caso alto le mani,
     Il Sole e Giove a testimoni invoca
     295Di sì reo fatto, e fieramente a tutto
     Il suo popolo intima, ove a lui presa
     O su la terra o sovra l’onde in nave
     Non adducan la figlia, ed ei non possa

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     Satisfar di vendetta il cuor bramoso,
     300Essi di tutto il cruccio suo, di tutta
     La sciagura che il preme, piombar grave
     Su le lor teste sentiranno il peso.
Sì disse Eeta, e in quel dì stesso i Colchi
     E varâr navi, e le arredâro, e a correre
     305Presero in mar; nè un tanto stuol diresti
     Esser di genti, ma uno storno immenso
     D’augei che susurrando il mar trasvola.
Ma forte in poppa agli Argonauti il vento
     Soffia per opra della Dea Giunone;
     310Sì che giunga Medea celeremente
     Al suol Pelasgo ad apportar malanno
     Alle case di Pelia; ond’essi al lido
     De’ Paflagoni su la terza aurora
     Legarono la nave appo la foce
     315Dell’Ali fiume; ed ella quivi impose
     Uscir tutti del legno a far benigna
     Con sacrificii Ecate dea; ma quanto
     Fece la vergin poi nel rito sacro,
     Nè alcun l’inchieda, e me non sia che inciti
     320Di cantarlo talento: ho pia temenza
     Di favellarne; ma il delubro e l’ara
     Che in quel lido alla dea poser gli eroi
     Stan de’ posteri ancora esposti al guardo.
Quindi il figlio d’Esone e gli altri anch’essi
     325Rimembraron Fineo che lor prescrisse
     Altro cammino al ritornar da Colco;
     Ma qual si fosse ignoto è a tutti. E a tutti

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     Di saperlo bramosi Argo allor disse:
     Ad Orcómeno andiam, chè d’uopo a voi
     330Il passarvi dicea vaticinando
     Quel verace profeta, a cui scontrati
     Già vi foste. E per certo evvi altra via,
     Cui de’ numi insegnâro i sacerdoti
     Ch’ebbero a cuna la Tritonia Tebe.8
     335Non ancor tutte risplendean le stelle
     Che or si volgono in ciel, nè ancor la sacra
     De’ Danai schiatta nominar s’udia:
     Gli Arcadi Apidanesi eranvi soli,
     Gli Arcadi, la cui gente anco alla Luna
     340Esser dicon precessa, e si fêan cibo
     Delle ghiande ne’ monti; e la Pelasga
     Regïon non regnata era per anco
     De’ Deucálidi illustri. Allor con molto
     Celebravasi onor l’alma, ubertosa,
     345Madre de’ primonati uomini Egitto,
     E del fiume Triton l’ampia corrente,9
     Da cui tutta si bagna e si feconda
     L’Egizia terra. Acqua dal ciel su questa
     Non piove mai, dal traboccar del fiume
     350S’empion di spighe i dilagati campi.
     Di quivi uscito un uom fama è che tutta
     Scorresse Asia ed Europa e nella possa
     De’ suoi guerrieri, e nel valor fidando,
     Città molte conquise; e di coloni

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     355Le rifornì, parte fiorenti ancora,
     Parte non più; però che d’indi in poi
     Lungo numero d’anni accumulossi.
     Ea sta in fior tutta volta, e i discendenti
     Vi stan di quei che vi ponea quel Grande
     360Ad abitarla. Le memorie antiche
     Serban essi de’ padri e tutte in quelle
     Della terra e del mar le vie descritte
     Sono, e i confini, ad istruir chi prende
     A far viaggio. Ivi segnato è pure,
     365Corno sovran dell’Oceàno, un fiume
     Largo, profondo, e d’oneraria nave
     Portante il peso. Istro è nomato, e lunge
     È l’origine sua, chè le sue fonti
     Di là dall’Aquilon sgorgando mormorano
     370D’insù l’alpi Rifée: lunga contrada
     Fende in un alveo sol, ma ne’ confini
     De’ Traci entrando, e degli Sciti, in due
     Si parte, e quindi in questo mare Eusino
     Getta l’acque con l’un, con l’altro ramo
     375Rivolto altrove, nel profondo golfo
     Entra che sovra al mar Trinacrio ondeggia,
     A quel che giace della terra vostra10
     Lungo le prode, s’egli è ver che fuori
     Di vostra terra l’Achelóo prorompe.
380Tanto diss’egli, e lor la diva un fausto
     Diè segnal portentoso, alla cui vista

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     Tutti acclamâr di quella via doversi
     Tener la traccia, perocchè vêr quella
     Un lungo solco di celeste luce
     385Nell’aere si traea. Lieti per tanto,
     Di Lico il figlio ivi lasciando, e il guardo
     Pur rivolgendo a’ Paflagonii monti,
     Correano il mar con dispiegate vele;
     Nè Carambi appressâr, chè l’aure e il raggio
     390Del celeste splendor furon lor guida
     Fin che giunser del grande Istro alle foci.
De’ Colchi intanto altri, cercando indarno
     Raggiungere i fuggenti, in fra le rupi
     Cïanée tragittando, uscian dal Ponto;
     395Altri, su’ quali avea comando Absirto,
     Entrâr su per lo fiume in quella foce
     Che Bella è detta, e precedendo i Minii,
     Corser per quello infino al seno estremo
     Del mare Jonio. Ove suo sbocco ha l’Istro,
     400Ivi un’isola sta (Pence è nomata)
     Triangolar, che verso il Ponto estende
     Lunga la base, e si converge acuta
     Contra il corso del fiume, ond’esso in due
     Quivi si parte, ed ha nel mar due foci;
     405Di cui l’una è Nareco, e l’altra al basso
     Bella foce è nomata; e via per questa
     Corser più ratto con Absirto i Colchi,11
     E dell’isola i Minii infino al sommo
     Navigaron per l’altra. Armenti e greggie

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     410Abbandonâr nelle vicine lande
     Via fuggendo i pastori esterrefatti
     Di quelle navi all’inusata vista,
     Qual se marini immani mostri emergere
     Visto avesser dall’onde, chè navigli
     415Mai più veduti non avean nè a’ Traci
     Misti gli Sciti, nè i Sigini mai,
     Nè i Grancenii, nè i Sindi intorno al vasto
     Laurio campo abitanti. Avean già i Colchi
     L’Angùro monte e il più lontano scoglio
     420Del Cauliaco passato; incontro a cui
     L’Istro si scinde a due mari converso,
     E il Laurio piano anch’esso, e dentro poi
     Al Cronio mare entrati, a impedir tutti
     Diêrsi i varchi e le vie, perchè d’ascoso
     425Non passin quelli; e quei venian lor dietro
     Giù per lo fiume, e riuscîr d’appresso
     Alle due Brigeïdi isole sacre
     Alla diva Dïana. Era nell’una
     Il delubro di lei; sceser nell’altra
     430Cauti i Minii a scansar l’ostil d’Absirto
     Turba seguace, chè occupar s’astenne
     Di tante in quel paraggio isole sparse
     Sole pur quelle due, per riverenza
     Della figlia di Giove; e l’altre tutte
     435Affollate di Colchi i passi al mare
     Precludean tutti; ed altre isole ancora
     Di lor genti occupâr fin dove è il fiume
     Di Salancone, e de’ Nestei la terra.

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Troppo quivi infelice avrian la sorte
     440Della battaglia i Minii, ei pochi incontro
     A molti e molti; onde a cessar conflitto
     Patteggiarono un patto: il Vello d’oro,
     Poi che ad essi il promise Eeta istesso,
     Ove il cimento avesser vinto, ad essi
     445Di buon dritto rimanga, o sia che tolto
     L’abbian con fraude, o con aperta forza.
     Medea — chè questo è della lite il nodo —
     Sia data in guardia, dallo stuol divisa
     De’ Minii, all’alma di Latona figlia
     450Fin che alcun di que’ Savii, a cui commessa
     È delle leggi la ragion, sentenza
     Proferisca, se ancor debba alle case
     Tornar del padre, o se alla terra Ellena
     Venir compagna agli Argonauti eroi.
455Ogni cosa in sua mente allor volgendo
     La giovane Medea, sentì d’acuto
     Duol senza posa esagitato il cuore;
     E in disparte da’ suoi tosto chiamando
     Giason, lui solo, il trasse assai da tutti
     460Lunge, in lui fisa, e con sospiri e pianto:
     Oh Esónide (gli disse), or qual fermaste
     Di me partito? I fortunati eventi
     T’hanno di tutto in pieno oblìo sommerso,
     Nè di quanto dicevi al maggior uopo,
     465Or più nulla ti cale? Ov’è di Giove,
     Che de’ supplici ha cura, il giuramento?
     Ove andâr le melliflue promesse,

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     Quelle, ond’io già non decorosamente,
     Anzi con impudente ardir fuggii
     470La mia patria, la mia splendida casa,
     I miei stessi parenti, ogni più cara
     Mia cosa in somma? E via lontano e sola
     Portata per lo mar vo con le meste
     Alcïoni, per te, per te che salvo
     475Da’ tori e da’ Giganti, io de’ cimenti
     Vincitor feci; e l’aureo Vello in fine,
     Onde questo passaggio impreso avete,
     Per mio mal senno il ricevesti. Ah! ch’io
     Sovra le donne una grand’onta ho sparsa.
     480Però figlia, sorella e moglie tua,
     Fermo ho in Grecia seguirti; e tu mi sii
     Protettor generoso, e non lasciarmi
     Sola, senza di te, de’ giudicanti
     La sentenza chiedendo. Ah no! tu stesso
     485Fammi difesa, e fermo il dritto sia,
     Ferma la legge che giurammo entrambo;
     O tu qui tosto trafiggi col brando
     Questa mia gola, a fin che degno io m’abbia
     Premio così di mia demenza insana.
     490Misera! se alla man del fratel mio
     Quel giudice m’addice, in cui riposto
     L’arbitrio avete di quel patto iniquo,
     Come al cospetto io ne verrò del padre?
     Molto orrevole in vero! E qual mai pena,
     495Qual soffrir non dovrò duro governo
     Per le audaci opre mie? Ma nè ritorno

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     Tu qual brami farai: deh no ’l permetta
     La gran regina del Tonante sposa,
     Del cui favor tu superbisci! Ed anco,
     500Anco di me ti risovvenga, afflitto
     Di sventure e travagli; e l’aureo Vello
     Via da te come sogno si dilegui
     Nell’ombra buja. Dalla patria tua
     Te le mie furie cacceran tra breve,
     505Poi che giusto non è che quanto io soffro
     Per la tua sceleranza a vuoto cada
     Invendicato. Un forte giuramento
     Spietatamente hai spergiurato. A scherno
     Me non più prenderete, e non a lungo
     510Godrete, no, de’ vostri accordi in pace.
Così bollente di profondo sdegno
     Favellava, e la nave ardere, e tutto
     Por bramava a soqquadro, e nelle fiamme
     Gittar sè stessa. A lei Giason, temendo,
     515L’ira con blando ragionar molcea:
Pace, egregia donzella! E a me pur anche
     Quest’accordo non piace, ma cercando
     Solo andiam qualche indugio alla battaglia,
     Un tanto nembo d’inimiche genti
     520Ne sta intorno per te; chè quanti han sede
     In questa terra, ardon di voglia tutti
     Di dar mano ad Absirto, a fin ch’ei possa
     Te qual captiva ricondurre al padre.
     Certo, se noi veniam con tanti a pugna,
     525Tutti morremo orribilmente, e acerbo

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     Più n’avremo dolor se te, morendo,
     Preda a coloro abbandonar n’è forza.
     Or questo accordo altro non è che inganno
     Per trar quello a perir; nè per te sola
     530Più daranno i vicini a’ Colchi aita,
     Se lor manca il signor, quei che si vanta
     Propugnatore e fratel tuo; nè pugna
     Con soli i Colchi io canserò, se tôrre
     Tenteran del ritorno a me la via.
535Sì blandendo la venne. Ella un funesto
     Pensamento proferse: — Or ben, m’ascolta.
     Poi che commesso ho il primo fallo, e rea
     Per impulso divin fatta mi sono,
     All’altre colpe aggiunger questa or vuolsi.
     540Tu dell’oste de’ Colchi al movimento
     Procaccia opporti; io nelle mani tue
     Colui venirne alletterò con arte
     (Di bei doni e d’onor tu l’accarezza),
     Se pur quinci a partir potrò gli araldi
     545Persuader, sì che da tutti solo
     Meco ei rimanga a favellar: tu allora
     (Se ciò ti giova, io no ’l ti vieto) a lui
     Dà morte, e movi indi battaglia a’ Colchi.
Ambo sì convenuti, il grande inganno
     550Composero ad Absirto, e a lui di molti
     Mandâr doni ospitali e il sacro anch’esso
     D’Issipile aggiungean purpureo peplo,
     Che a Bacco già nella marina Dia
     Elle stesse tessean le dive Grazie,

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     555E Bacco al proprio suo figliuol Teonte
     Ne fe’ dono, e ad Issipile lasciato
     Fu poi da questo; ella con altri e molti
     Lavorii prezïosi ospital dono
     A Giason lo porgea, peplo che mai
     560Del contemplarlo e con la man toccarlo
     Non ne potreste sazïar la dolce
     Compiacenza; e da quello anche una diva
     Fragranza uscìa, da poi che il Nisio sire
     Suvvi ei stesso corcossi ebro di vino
     565E di nettare, il bel petto palpando
     Della Minoide vergine, da Creta
     Pria con Téseo venuta, e su la spiaggia
     Poi dell’isola Dia da lui lasciata.
Con gli araldi Medea ragionamento
     570Tenea, lor con bel modo insinuando
     Che appena al tempio della diva Absirto
     Giunga al colloquio convenuto, e l’atro
     Bujo diffuso abbia la notte intorno,
     Ne partan essi, a fin che ordir segreta
     575Possa trama con lui di tôrre a’ Greci
     L’aureo gran Vello, indi con lui d’Eeta
     Alle case tornar, d’onde per forza
     A que’ stranieri a via menar l’han data
     Di Frisso i figli. — E poi che lor ciò disse,
     580Tal per l’etra e nell’aure una potenza
     Di lenïenti farmachi profuse,
     Che pur da lungi e dagli eccelsi monti
     Attratto avrebbe anche un’agreste fiera.

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Improbo amor, grande sciagura, grande
     585Agli uomini di colpe incitamento,
     Per te liti omicide e pianti e lutti
     E angosce innumerabili travagliano
     L’umana vita! Insorgi, o Dio, t’accampa
     Incontro ai figli de’ nimici nostri,
     590E spira in essi il reo furor che in petto
     Infondesti a Medea. — Di qual crudele
     Morte Absirto ella oppresse? A noi di canto
     Questa fiera materia or s’appresenta.
Poichè nella a Diana isola sacra
     595Quegli araldi lasciata ebber Medea,
     Giusta il patto, di là spartitamente
     Tornâr essi a lor navi, e nell’agguato
     Giason s’ascose ad aspettarvi Absirto,
     Indi i compagni suoi. Ratto in suo legno,
     600Della suora tradito alle solenni
     Promesse Absirto per lo mar varcando,
     Nel bujo della notte alla sacrata
     Isola scese, e alla sorella innanzi
     Fattosi ei solo, la tentò co’ detti
     605(Semplice qual fanciul che tenta il guado
     Di torrente invernal, cui nè gli adulti
     S’arrischiano passar), se a que’ stranieri
     Macchinato avess’ella inganno alcuno.
     Mentre di ciò tenean consulta, ed ecco
     610Fuor dell’insidie repentinamente
     Balzò Giason, nuda la spada in mano
     Alto vibrando. La donzella il guardo

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     Volse a dietro, e ne’ veli si nascose
     Per non veder l’uccisïon del suo
     615Proprio fratello. E a lui Giason, siccome
     Ammazzator di buoi fa con gran tauro
     Alticornuto, avvisando suo colpo,
     Calò a forza un fendente, al tempio innanzi
     Che i Brigi abitator del lido opposto
     620A Dïana inalzâr: nel pròneo quivi
     Su le ginocchia il misero cascò;
     Indi, spirando, con ambe le mani
     Dalla ferita raccogliendo il sangue,
     A lei, che rifuggia, fece le candide
     625Bende del capo rosseggiarne e il peplo;
     E con acuto obliquo occhio l’enorme
     Fatto guatò la prepotente Erinne.
     Troncò quindi Giason le parti estreme
     Delle membra all’ucciso, e la ferita
     630Tre volte ne lambì, tre dalla bocca
     Il sangue ne sputò, siccome è rito
     Ad espiar le proditorie stragi;
     E il cadavere poi sotto la terra
     Nascose là dove tuttor quell’ossa
     635Fra le Absirtidi genti hanno riposo.
Tosto che i Minii sfolgorar da lunge
     Vider la face, che inalzò Medea,
     Convenuto segnal, spinser lor nave
     Presso quella de’ Colchi, e tale han fatta
     640Strage di lor, qual gli sparvieri fanno
     D’uno stuol di colombe, o qual d’un gregge

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     Fieri leoni impetuosamente
     Nell’ovile irrompenti. A morte un solo
     Non ne fuggì, chè sulla torma tutta
     645Si slanciâr come fiamma a farne scempio,
     E anch’ei Giasone indi v’accorse, aita
     Portar bramando a quei che più d’aita
     Non avean d’uopo. Eran bensì di lui
     Desiderosi e tutti ad una insieme
     650Sedettero a tener savia consulta
     Su le vie del ritorno. Anco Medea
     V’ebbe suo loco; e primo allor fra tutti
     Queste parole proferì Pelêo:
Consiglio è mio, che mentre è notte ancora
     655Montiamo in nave, e con l’oprar de’ remi
     Facciam cammino in parte opposta a quella
     Ove stanno i nimici. Alla dimane
     Essi veggendo ogni avvenuta cosa,
     Non saran, credo, in un pensier concordi,
     660Che a inseguirne li spinga. Orbi del loro
     Duce e signor, n’andran divisi e spersi
     Per discordi pareri, e, spersi quelli,
     Facil fia del ritorno a noi la via.
Tanto diss’egli, ed approvaron tutti
     665Dell’Eácide il detto. In nave ascesi
     S’incurvâr sopra i remi, e non fêr posa
     Che all’Elèttride sacra isola giunti
     Fûr, che al fiume Eridáno è più vicina.
     I Colchi appena ebber la morte appresa
     670Del lor sire, volean correr per tutto,

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     L’Argo e i Minii cercando, e il Cronio mare.
     Ma dall’etra Giunon con lampi e folgori
     Li atterrì dall’impresa, e poi che l’ira
     Tremavano del fiero offeso Eeta,
     675Di ritornarne alla Sitèide terra
     Ebber ribrezzo, e stabil sede altrove
     Chi qua, chi là fermâro; ed altri a quelle
     Venner isole stesse, ove afferrato
     Aveano i Minii, e le abitâro, il nome
     680Pur pigliando d’Absirto; altri del cupo
     Nero Illirico fiume in su le sponde,
     Ov’è di Cadmo e d’Armonia la tomba,
     Eressero una ròcca, all’Encheléa
     Gente confini; altri ne’ monti han sede,
     685Che di Cerauni ebbero nome, quando
     Di là cacciârli i fulmini di Giove,
     Sì che all’isola opposta han vòlto il corso.
Poi che franco agli eroi d’ogni periglio
     Parve il ritorno, a risolcar quel mare
     690Diêrsi fin che il naviglio ebber legato
     Nel terren degli Illei, che le aggruppate
     Isole molte assai fra loro il passo
     Fan difficile quivi a’ naviganti.12
     Non più ad essi gl’Illéi nudrian, qual prima,
     695Infesti sensi; anzi la via con essi
     Disegnâr del ritorno, in dono un grande
     Ricevendone tripode d’Apollo;

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     Chè due tripodi già Febo donati
     Ebbe a Giason, quando alla sacra Delfo
     700L’oracolo andò questi a consultarne
     Su cotesto passaggio; e fato egli era
     Che la terra, in che posti erano quelli,
     Mai non vengan nimici a disertarla.
     Però quel tuttavia presso all’illustre
     705Illéa città ben giù nel suol profondo
     Riposto sta, perch’uomo alcun no ’l vegga.
     Or là i Minii più il re non trovâr vivo,
     Illo, cui partorì Mélite bella
     Tra’ Feaci ad Alcide — Alcide un giorno
     710Di Naesiroo venuto era alla reggia
     Là nell’isola Macri (a cui diè nome
     La nudrice di Bacco) il fiero eccidio
     Ad espiar de’ proprii figli, e quivi
     Preso d’amore deflorò la Najade
     715Mélite dell’Egèo fiume figliuola,
     Ch’indi il forte Illo partorì. Ma questi
     Poi che adulto si fe’ stanza non volle
     Più in quell’isola aver sotto al cipiglio
     Di Nausitoo regnante, e di Feaci
     720Tolto seco un drappello, il Cronio mare
     Prese a solcar, dal re Nausitoo stesso
     Fornito ad uopo. E qui ristette, e morto
     Fu da’ Méntori poi, mentre a difesa
     Di sue mandre pascenti ei combattea.
725Ma come, o Muse, della Nave Argóa,
     Come splendide ancor memorie e segni

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     Mostransi fuor di questo mare, e intorno
     All’Ausonia contrada, e su le arene
     Dell’isole ligustidi che nome
     730Han di Stécadi? Or qual necessitade,
     O qual ragion ne li portò sì lunge?
     Qual di venti li spinse intensa forza?
Spento Absirto, grave ira il re de’ numi
     Giove stesso prendea di quel misfatto,
     735E segnalò che della strage atroce
     Espurgarsi dovean giusta i consigli
     Dell’Eéa Circe, e mille guai soffrire
     Pria d’approdarsi al patrio suol: nessuno
     Però de’ Minii ebbe que’ segni inteso,
     740E l’Illèide paese abbandonato
     Correan lungi, e lasciato avean già dietro
     Quante isole Libùrnidi ricetto
     Furon prima de’ Colchi, Issa e Discélado
     E la piacente Pitiéa. Varcato
     745Anco han Corcíra, ove Nettun la figlia
     D’Asopo ad abitar pose, Corcira
     Di-bella-chioma, per amor dal Dio
     In Fliunte rapita. I naviganti
     Che la veggon dal mar negreggiar tutta
     750Per bruna selva, di Corcira Negra
     Le ne fecero il nome. Oltrepassato
     Mélita han pur, d’una piacevol aura
     Favoreggiati, indi Ceroso eccelsa,
     E più innanzi Ninféa, dove regina
     755L’Atlàntide Calipso avea soggiorno;

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     E foschi intraveder credean nell’aere
     I monti Acrocerauni allor che Giuno
     Degli avversi disegni e dell’acerba
     Contro a lor si fu accorta ira di Giove.
     760Sollecita la dea che a salvo fine
     Giunga il lor navigare, una tempesta
     Suscitò contro, onde rapiti addietro
     Dell’Eléttridi ad una isola incolta
     Ritornavano; ed ecco, ecco fra loro
     765Tutt’improvviso con umana voce
     Alto la trave favellò, che fatta
     D’un faggio Dodonèo, Pallade inserta
     Della nave alla chiglia avea nel mezzo.13
     Forte un terror tutti li prese udendo
     770Quella voce, e di Giove annunzïarsi
     Il grave sdegno; perocchè lor disse
     Che nè di mar lunghissimi viaggi,
     Nè tremende procelle eviteranno,
     Se della cruda occisïon d’Absirto
     775Non li ha Circe espiati; indi a Polluce
     E a Castore imponeva i sommi numi
     Pregar che ad essi dell’Ausonio mare
     Apran la via che a ritrovar li guidi
     La di Perse e del Sol Circe figliuola.
780Argo su ’l presso del mattin sì disse.
     I Tindáridi in piè sorsero, e a’ numi,
     Protendendo le mani, orâr devoti

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     L’imposto priego; e gli altri Minii al suolo
     China intanto tenean mesti la fronte.14
     785Scorrea la nave a piene vele e dentro
     All’alveo entrâr dell’Eridàn, là dove
     Percosso il petto da un’ignita folgore
     Semiarso Fetonte un dì dal carro
     Del Sol precipitò dentro a profondo
     790Gorgo del fiume, che tuttora esala
     Per l’ardente ferita un vapor grave;
     Nè augello alcun, le lievi ale spiegando,
     Può sovr’esso volar, ma piomba in mezzo
     Al bollente lagume. Intorno a quello
     795Stan l’Elíadi donzelle in alti pioppi
     Trasmutate, infelici! a far lamento,
     E lucide dagli occhi insù ’l terreno
     Gocce d’elettro piovono, che al Sole
     Seccansi su l’arene; e quando l’acqua
     800Dell’atro stagno indi sommossa, e in alto
     Spinta da soffio di mugghiante vento
     Le rive inonda, allor giù tutte insieme
     Nell’Eridano van rivoltolate
     Con la gonfia corrente. Altro il racconto
     805De’ Celti egli è: che lagrime d’Apollo
     Quelle son, che in gran copia ei sparse un tempo,
     Quando, del padre al minacciar, dal Cielo
     Quivi discese, e all’Iperborea poi
     Sacra gente migrò, pien di rancore

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     810Per l’ucciso figliuol, cui nell’opima
     Laceria a lui Coronide divina
     Partorì dell’Amiro appo la foce.
     Tal fra’ Celti è la fama. I Minii intanto
     Nè di cibi desìo, nè di bevanda
     815Sollecitava, e a lieta idea nessuna
     Si volgea la lor mente. Essi nel giorno
     Giacevano languenti ed affannati
     Dall’insoffribil puzzo, che dal fiume
     Il fumante Fetonte ancor vapora,
     820E nella notte dell’Eliadi suore
     Udìan gli acuti luttuosi lai,15
     E le lagrime lor, siccome stille
     D’oleoso liquor, gocciâr su l’acque.
Del Rodano di poi nel cupo letto
     825Entrâr, che nell’Eridano decorre,
     E là dove con l’un l’altro si mesce
     Rugghian l’onde allo scontro. Esce quel fiume
     Dall’ima terra ove le porte e i seggi
     Son della notte, e fuor di là correndo
     830Parte nell’Oceán, parte ne sbocca
     Nel Jonio, ed in parte entro il gran golfo
     Della Sarda marina anco si getta
     Da sette foci. Usciti poi dal fiume,
     Passâr nelle lagune tempestose
     835Che spandon di lor acque ampia distesa
     Nelle terre de’ Celti. A trista sorte
     Quivi incontro venìan, chè di quell’acque

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     Una corrente all’Oceán si volge,
     E ignari i Minii eran già presso in quella
     840Ad entrar, d’onde salvi ritornarne
     Mal potuto avrian poi; ma giù dal Cielo
     Giuno ratta scendendo, un forte grido
     Mise dall’alto dell’Ercinio monte.
     Scossi fûr da quel grido a un tempo tutti
     845Da improvviso terror; chè orribilmente
     Ne rimbombò l’ampio aere; e dalla dea
     Vòlti a retro avvisâr qual del ritorno
     Era ad essi la via. Scòrti da Giuno
     Vennero alfine alle marine spiaggie,
     850E di Celti e di Ligi a molti e molti
     Popoli in mezzo incolumi passando,
     Però che sempre intorno a lor diffusa
     Tenea Giuno a coprirli un’atra nebbia.
     Per la foce di mezzo in mar poi salvi
     855Entrâr presso alle Stècadi per opra
     De’ due figli di Giove; ond’è che altari
     E sagrificii fermamente ad essi
     Furon poi statuiti. E non di quello
     Sol viaggio ebber cura: a lor diè Giove
     860Protegger tutte in avvenir le navi.
     Dalle Stècadi i Minii indi tragitto
     Fêro all’isola Etalia, ove il sudore,
     Onde per la fatica eran grondanti,
     Si stregghiâr con piastrelle, e ancor sul lido
     865Tinte di quel sudor giacciono sparse,
     E dischi ed armi anco di loro, e un porto

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     Che Argòo per nome tuttavia s’appella.
Di là tosto partiti, e a lor cammino
     L’onde solcando, le Tirrene spiagge
     870Vider d’Ausonia, e poi che al porto illustre
     Giunsero d’Ea, gittâr dal legno a terra
     I canapi a legarlo, e Circe al lido
     Trovâr, che il capo era a lavarsi intesa
     Con le spume del mar, tutta, com’era,
     875Esterrefatta da notturno sogno.
     Di sua casa le stanze e della chiostra
     Le pareti di sangue esser cosperse
     Le parvero, e una fiamma divorarle
     Tutti i farmachi suoi, con che trasmuta
     880Ogni ospite che viene; ed ella poi,
     In man togliendo di quel vivo sangue,
     Spense la rossa vampa, e dal funesto
     Terror quetossi; indi ridesta al primo
     Albor nelle marine acque le chiome
     885E le vesti tergea. Torma di fiere,
     Non somiglianti alle feroci fiere,
     Nè a forme d’uom, ma di commiste insieme
     Diverse membra, la venian seguendo,
     Come dietro al pastor dal pecorile
     890Ne va un branco d’agnelli. Erano tali
     Que’ corpi un dì, che del primiero loto
     Varie membra accozzando in varie forme
     La terra producea, dall’aere secco
     Non assodata ancor, nè da’ cocenti
     895Strali del Sol de’ troppi umori emunta;

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     Indi il tempo li scerse e li distinse
     In diverse famiglie: or ben di quelli
     Era tal la natura, onde gli eroi
     Meravigliâr; quindi l’aspetto e gli occhi
     900Affisando di Circe, agevolmente
     Lei conobber sorella esser d’Eeta.
Ella, poi che rimossa ebbe la tema
     Della notturna visïon, rivolse
     Addietro i passi, e con la man cortese
     905Fe’ lor maligno insidïoso invito
     Di seguitarla; ma lo stuol de’ prenci
     Di Giasone a’ comandi obbediente
     Immoto stette. Il duce ei sol, con esso
     La Colchica donzella, in via si mise,
     910E proseguir fin che alla nobil casa
     Giunser di Circe. Ella in suo cuor sospesa
     Su ’l venir loro, di seder gl’invita
     Sovra splendidi seggi; ma que’ due
     Taciti, muti, al focolar di tratto
     915S’addrizzarono, e come d’infelici
     Supplici è rito, vi s’assiser sopra,
     La vergine velandosi con ambe
     Mani la fronte; ei vòlta al suol la punta
     Del gran brando che al figlio avea d’Eeta
     920Dato morte; nè l’uno ardìa, nè l’altra
     Con aperte palpebre inalzar gli occhi.
     Tosto Circe avvisò che per reato
     Di sparso sangue a lei venian fuggiaschi;
     E del Giove de’ supplici la santa

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     925Legge osservando, di quel Dio che molta
     Vêr gli omicidi ira concepe, e molta
     Cura ha pur d’aitarli, un sacrificio
     Prese a far, con che puri ed espiati
     Fannosi i rei che a supplicar ne vanno
     930All’altrui focolare. E primamente
     A purgar l’empio eccidio un novonato
     D’una scrofa che gonfie ancor dal parto
     Avea le zinne, ivi distese, e tronche
     Della gola le canne, entro quel sangue
     935Loro intinse le mani; indi con altre
     Li purgò libazioni, il sommo Giove
     Espiatore e vindice invocando
     De’ supplici omicidi. E ciò compiuto,
     Dalla casa spazzâr tutte lordure
     940Najadi ancelle, che di tutto a lei
     Rendean servigio; ed ella offe e molcenti
     Pastumi intanto ardea su ’l foco in casa,
     Sobrii voti aggiungendo a placar l’ira
     Dell’Erinni tremende, e a far che Giove
     945Benigno anch’esso all’un si porga e all’altra,
     O sia che di straniero, o sia che lorde
     Abbian le mani di cognato sangue.
Poi che a tutto diè fine, in piè levarsi
     E adagiarsi li fece in ben politi
     950Sedili; ed ella a lor s’assise in faccia,
     E di lor uopo e del viaggio loro
     Partitamente interrogolli, e d’onde
     In sua terra venuti, e di sue case

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     Al focolare in supplichevol atto
     955Si rifuggîro. E ciò chiedendo, in lei
     La trista de’ suoi sogni rimembranza
     Sottentrava a turbarla, e udir dal labbro
     Della fanciulla il suon bramò del suo
     Patrio linguaggio appena alzar la vide
     960Gli occhi da terra; perocchè la prole
     Tutta del Sol si manifesta ai raggi
     Che dalle ciglia gettano da lunge
     Splendor simile allo splendor dell’oro.
     Dolcemente di tutto alla chiedente
     965Nel Colchico sermon del crudo Eeta
     Satisfece la figlia, e degli eroi
     Disse lo stuolo, e il lor passaggio, e quanto
     Travagliaronsi in duri abbattimenti,
     E com’ella peccò per la sorella
     970In mal punto amorosa, e in un co’ figli
     Scampò di Frisso al minacciar tremendo
     Del genitor; ma di parlar si tenne
     Della strage d’Absirto; e nondimeno
     Nulla ascoso alla mente era di Circe,
     975Che però dell’afflitta ebbe pietade,
     E così le rispose: Oh sventurata!
     Una rea fuga indecorosa ordisti,
     Nè a lungo, io credo, alla terribil ira
     D’Eeta scamperai: forse ch’ei stesso
     980Nell’Ellene contrade a far vendetta
     Verrà del proprio ucciso figlio. Atroci
     Fûr l’opre tue; ma poi che a me ne vieni

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     Supplicante, e congiunta anco mi sei,
     Non male alcuno io ti farò, ma parti,
     985Vanne dalla mia casa in un con questo
     Stranier qual ch’egli sia, che sconosciuto
     Hai per compagno, avverso il padre, eletto.
     Non più al mio focolar, nè a’ miei ginocchi
     Starti innanzi pregando: i tuoi consigli
     990Non lodo io, no, nè l’indecente fuga.
Disse, e immenso dolor l’altra comprese:
     Tirò il peplo su gli occhi, e ruppe in pianto.
     Giason per mano allor la piglia, e tutta
     Palpitante, tremante la conduce
     995Fuor della soglia, e abbandonâr di Circe
     Il palagio ambidue. Nè ciò nascoso
     Fu del Saturnio alla consorte: a lei
     Iride l’avvisò, visti che gli ebbe16
     Uscir di là, però che Giuno ad essa
     1000Spiar commise e riferirle il quando
     Fêan ritorno alla nave. Or premurosa
     La dea dunque le disse: Iride amata,
     Se mai fida compiesti i cenni miei,
     Or su, librata in su le rapid’ali,
     1005Vammi Teti a chiamar, che fuor del mare
     Esca e a me venga; assai di quella ho d’uopo.
     Varca quindi alle spiagge, ove rimbombano
     Le ferree incudi di Vulcan battute
     Da pesanti martelli, e di’ che cessi

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     1010De’ mantici il soffiar fin che passato
     Nè sia l’Argóo naviglio. Ad Eolo poi,
     Eolo che a’ venti aeronati impera,
     Vanne e gli esponi il mio voler, che tutti
     Tenga i venti nell’aere sospesi,
     1015Nè forte soffio il mar rabbuffi: il fiato
     Sol di Zeffiro spiri in fin che giunti
     Sien d’Alcinoo que’ prodi al suol Feace.
Si spiccò dall’Olimpo immantinente
     Iride a quel comando, e fendè l’aere,
     1020Le lievi ali scotendo, e giù s’immerse
     Nell’Egeo mar, dove ha Neréo sue case.
     Trovò Tetide in prima, e le fe’ conta
     Di Giunon l’ambasciata, e d’irne a lei
     Sollecitolla. Indi a Vulcan venuta,
     1025Agevolmente di posar l’indusse
     Le ferree mazze, e i mantici affumati
     Si trattenner dal soffio. Eolo d’Ippote
     Inclito figlio ritrovò per terzo;
     E mentr’ella esponendo il suo messaggio
     1030Dal precorso cammin prendea riposo,
     Ecco Teti che in mar Nereo lasciando,
     E le sorelle sue, poggia all’Olimpo,
     E a Giunon si appresenta. A sè dappresso
     Questa l’asside, e così a lei favella:
1035Or m’ascolta, alma Teti, odi che bramo
     Di ragionar con te. Sai quanto in pregio
     È nell’animo mio l’eroe Giasone
     E i compagni a’ cimenti, e com’io salvi

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     Gli ho da cozzanti scogli, ov’arde e freme
     1040Il furor di terribili tempeste,
     E i marosi d’intorno a’ scabri sassi
     Si rompono spumando. Or presso al grande
     Promontorio di Scilla ed all’orrenda
     Eruttante Cariddi è il lor cammino.
     1045Io dall’infanzia tua ti fui nudrice,
     Io medesma, e t’amai su l’altre tutte
     Che hanno stanza nel mar, dacchè non mai
     Consentisti nel letto entrar di Giove
     Che di voglia n’ardea (sempre ha talento
     1050Di cotesti diletti, o le immortali
     Dive abbracciando, o le mortali donne);
     Ma di me riverente e paventosa
     Lo sfuggisti, onde irato ei giurò poi
     Gran giuramento, che giammai consorte
     1055Tu non saresti a un immortale Iddio;
     E ritrosa pur anco ei non cessava
     D’adocchiarti e inseguirti infin che a lui
     Profetò la gran Temi esser destino
     Che tu madre d’un figlio diverresti
     1060Prestante più del proprio padre; ond’egli
     Desïoso quantunque, allor la traccia
     Di te lasciò per lo timor che un altro
     Nume sorgesse ad occupargli il regno,
     Ch’ei serbar volea sempre. Io de’ mortali
     1065L’ottimo allora a te congiunsi in nozze,
     Sì che grato al tuo cor fosse lo sposo,
     E di lui tu figliassi. Al gran convito

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     Io chiamai tutti i numi, e in mano io stessa
     Portai la face pronuba per segno
     1070Di benigna onoranza. Or ben palese
     Farti vo’ cosa che avverrà di certo.
     Quando agli Elisii campi il figliuol tuo
     Scenderà, cui del tuo latte bramoso
     Or là negli antri di Chiron Centauro
     1075Han le Najadi in cura, ivi è destino
     Ch’egli sposo a Medea figlia d’Eeta
     Divenga: or dunque alla futura nuore
     Vieni in soccorso, ed a Peléo tuo sposo.
     Perchè l’ira contr’esso è in te costante?
     1080È ver, fallì; ma fra gli dei pur anco
     Ate si mesce. Alla richiesta mia,
     Cred’io, Vulcano entro gli ardenti fochi
     Dal soffiar farà posa; Eolo de’ venti
     Infrenerà le furïose buffe,
     1085Sol Zeffiro spirar sempre lasciando
     Fin che verranno de’ Feaci al porto.
     Cura dunque tu pur la securtade
     Del lor ritorno. Or sol periglio e tema
     Son per essi li scogli e le grandi onde,
     1090E tu con altre delle tue sorelle
     Di camparneli adopra. E improveduti
     Non lasciarli addentrarsi entro Cariddi,
     Sì che tutti gli assorba, o nel funesto
     Speco di Scilla, dell’Ausonia Scilla,
     1095Cui di Forco produsse la notturna
     Ecate (che Crateide anco si noma),

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     Perchè a lor non s’avventi, e non maciulli
     Quella eletta d’eroi con sue voraci
     Mascelle orrende. Or ben, tu stessa in quello
     1100Stretto passo mortal guida la nave.
Disse, e Teti a rincontro: Ove stia queto
     L’ardor vorace del Vulcanio foco,
     E queti siano i turbinosi venti
     Veracemente, io con fidanza (avversi
     1105Anco i flutti mi sieno), io, sì, prometto,
     Di Zeffiro spirando il lene fiato,
     Quella nave salvar; ma tosto è d’uopo
     Che a percorrere io prenda immensa via
     Le mie sorelle a ritrovar, che all’opra
     1110Mi sovvengan d’aita, e là pur vada
     Ove sta quella nave, a fin che i prenci
     Pensino a sciorre all’albeggiar del giorno.
Disse, e dal Ciel giù ne’ cerulei gorghi
     Del mar tuffossi. Ivi a soccorso appella
     1115Le Nereidi sue suore; ed elle accorrono
     Alla chiamata. Annunziò Teti a loro
     Di Giunone i comandi, e tostamente
     Le mandò tutte al mar d’Ausonia; ed essa
     Più rapida del lampo e più de’ raggi
     1120Che il Sol vibra dall’alto insù la terra,
     Via via per l’acque agilemente corse
     Fin che pervenne sulla spiaggia Eea
     Del Tirren continente. Ivi gli eroi
     Trovò presso alla nave a dilettarsi
     1125Col disco intesi, e col tirar dell’arco;

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     E con la punta della man toccando
     L’Eácide Peléo (ch’era suo sposo),
     Invisibile agli altri, ed a lui solo
     Mostrandosi, gli disse: Or non più state
     1130Seggendo qua su le Tirrenee rive.
     Al nuovo dì della veloce nave
     Dislegate i ritegni, alla parola
     Di Giunone obbedendo ajutatrice.
     Per suo comando le Nereidi tutte
     1135Concorreranno a trar la nave in salvo
     D’in fra le rupi che di Plante han nome.
     Quinci è il vostro cammino. E tu non farmi
     Conoscere ad alcun, quando me pure
     Con quell’altre vedrai: poni ben mente
     1140Di non più m’irritar di quando un giorno
     M’hai contro a te di grave sdegno accesa.
Detto ciò, sparve a tutti sguardi occulta
     Nel profondo del mare, e lui percosso
     Di gran duolo lasciò, poi che veduta
     1145Non l’avea più, dacchè la casa e il letto
     Abbandonò di lui, forte adirata
     Per cagion del divino infante Achille.
     Nell’alta notte ella solea del figlio
     Abbronzar su la fiamma il mortal corpo,
     1150E d’ambrosia nel dì poi lo spalmava
     Per rifarlo immortale, e la persona
     Dalla trista vecchiaja preservarne.
     Peleo dal letto insù balzando un tratto17

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     Vide il caro fanciullo entro le fiamme
     1155Palpitante, e a tal vista un grido orribile
     Inalzò, malaccorto! Essa, l’udendo,
     Strappò il figlio dal foco, e ahi ahi gridante
     Gittollo a terra; e fatta pari al vento,
     Via, come sogno, s’involò di casa
     1160Celeremente, e in mar sbalzò sdegnata,
     Nè al tetto marital fe’ più ritorno.
     Stupor, dolore or nuovamente strinse
     L’animo di Peléo, ma tutta espose
     L’ambasciata di Teti a’ suoi compagni.18
     1165Cessâr questi i lor giuochi, e le vivande
     Ammannirono tosto, e i letti, in cui
     Cenati poi dormirono la notte.
Ma co’ suoi raggi appena il ciel ferìa
     La lucifera Aurora, al lene spiro
     1170D’un Zefiro soave essi da terra
     Montâr sui banchi; l’àncora dal fondo
     Su ritrassero lieti, e gli altri tutti
     Armamenti ordinâr; dall’alta antenna
     Spiegarono la vela, e un agil vento
     1175Ne portava il naviglio. A vista in breve
     Della florida fûro isola vaga
     Ove le figlie d’Achelóo, le argute
     Sirene con soavi melodie
     Molcendo i naviganti, a perir traggono
     1180Chiunque il fune alle lor prode allega.

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     Le partorì Tersicore leggiadra,
     L’una d’in fra le Muse, ad Achelóo
     D’amor congiunta; ed esse un dì cantando
     In bel conserto a dilettar la figlia
     1185Di Cerere prendean, vergine ancora;
     E fu d’allor che parte augelli e parte
     Apparvero donzelle, e sempre poi
     Di lor facile spiaggia alle vedette
     Vegliano attente, e a molti e molti il dolce
     1190Ritorno ai lidi lor tolser, di tabe
     Consumandoli quivi. Ed or nel passo
     Degli Argonauti la voce soave
     Dirizzarono ad essi, ed essi attratti
     N’eran già dalla nave in quelle arene
     1195I canapi a gittar, se il Tracio Orfeo,
     D’Eágro il figlio, la Bistonia cetra
     Tosto in man tolta, in concitato modo
     Non facea risuonar forte di corde
     E di voce un concento, a fin che ad essi
     1200S’intronino gli orecchi; e oppresso il suono
     Quindi restò delle femminee voci.
     Zefiro intanto e l’echeggiante insieme
     Onda da poppa in là spingean la nave,
     E un indistinto modular di note
     1205Mettean quelle nell’aure. Uno pur v’ebbe
     Degli eroi, Bute, il valoroso figlio
     Di Teleonte, che rapito al dolce
     Cantar delle Sirene, in mar d’un salto
     Slanciossi e a nuoto infra i commossi flutti

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     1210Verso lor si spingea. Misero! a lui
     Tosto quelle il ritorno avrebber tolto,19
     Ma d’Érice la diva alma Ciprigna
     Pietà n’ebbe, e dall’onde in salvo a stanza
     Su ’l Lilibèo benignamente il trasse.
     1215Di lui dolenti i Minii oltre le ree
     Cantatrici passâr, ma gìan del mare
     Più naufragosi ad incontrar perigli;
     Chè la stagliata rupe erta di Scilla
     Di qua sorge, e di là s’ode estuante
     1220Senza mai posa rimuggir Cariddi.
     Mormoravan di sotto alle grosse onde
     Più in là que’ massi erranti, a cui dal sommo
     Vertice un tempo ardente fiamma uscìa;
     Ed è l’aere di fumo ivi sì oscuro,
     1225Che i rai del Sol non ne intravedi. Avea
     Fatto tregua ai lavori allor Vulcano,
     E tuttavolta il mare un vapor caldo
     Esalava. Costà quali da un lato,
     Quali dall’altro le Nereidi accorsero,
     1230E dietro al legno la divina Teti
     Ella stessa la mano all’ala porse
     Del governale a ben drizzarne il corso
     Tra que’ mobili scogli. E come allora
     Che i delfin bonacciosi a galla in frotte
     1235Volteggiano dintorno a presta nave,
     E or dinanzi, or di retro, or dalle bande
     Veggonsi, e gioja a’ marinier ne viene;

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     Sovra l’onde così leste le Ninfe
     S’aggiravano intorno al legno Argóo,
     1240Mentre Teti il guidava; e quando giunse
     Presso alle Piante, delle vesti il lembo
     Rialzando su’ candidi ginocchi,
     Surse sovra que’ sassi e in mezzo al frangersi
     De’ flutti, in doppia fila a paro a paro
     1245Di qua, di là fêan forza. Il fiotto in alto
     Spingea la nave, e gonfia l’onda intorno
     Sovra gli scogli ergendosi fremea;
     E quelle or su i marosi alto levate,
     D’aeree forme avean sembianza, ed ora
     1250Giù inabissate nel fondo più cupo,
     S’immergeano del mare. In quella guisa
     Che giovinette in arenosa piaggia,
     La tunica su i fianchi alto succinta,
     Giocano palleggiando un tondo globo:
     1255L’una dall’altra lo riceve, e all’aere
     Di rimando lo balza, ond’esso a terra
     Non batte mai; tal le Nereidi a gara
     Or questa or quella il celere naviglio
     Spingon alto su l’onde, e da que’ scogli
     1260Lunge il tengono sempre, e la marea
     Bolle, spuma eruttando intorno ad esse.20
     Sovra la vetta d’eminente roccia,
     In piè stante, e il grave omero appoggiando
     Al baston del martello, il re Vulcano

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     1265Le contemplava, e dal raggiante cielo
     Le mirò Giuno, e con le braccia a Pallade
     Tutta si strinse; un tal terror la prese.
     Quanto egli è lungo il giorno a primavera,
     Tanto hanno quelle travagliato a trarre
     1270Da que’ scogli echeggianti il legno in salvo.
     Con buon vento indi i Minii oltre correndo,
     Giunser della Trinacria innanzi al prato,
     Che i buoi pasce del Sole. Ivi, il comando
     Della moglie di Giove appien compiuto,
     1275Si tuffâr le Nereidi a par di merghi
     Giù pel profondo; ed un belar d’agnelle
     E un muggir di giovenchi a’ naviganti
     Ferì gli orecchi. In rugiadosa landa
     Faetusa, del Sol la minor figlia,
     1280Guidava l’agne, argentea verga appesa
     Al cubito portando, e guardiana
     De’ buoi Lampezia in man vibra una mazza
     Di lucido oricalco. In campo erboso
     Videro gli Argonauti appresso un fiume
     1285Pascolar quegli armenti; e un sol non v’era
     Bruno corpo fra lor; bianchi eran tutti
     A par del latte, e d’auree corna insigni.
     Essi nel dì quinci passâr; la notte
     Lieti corsero un lungo andar di mare,
     1290Finchè dal ciel la mattutina Aurora
     Vibrò sua luce a illuminar lor via.
Nel mar Ceraunio al Jonio golfo innanzi
     Sta con due porti un’isola ferace;

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     Sotto al cui suol giacer la falce è fama
     1295(Pace, o Muse, s’io narro istoria vieta
     Malgrado mio!) quella, onde un dì Saturno
     Le pudende del padre atrocemente
     Troncò. Ma corre anco per altri un grido,
     Che di Cerere diva agricultrice
     1300La falce è quella. Ivi la dea già stette
     Amorosa di Macri, ed a’ Titani
     Ivi del grano mietere l’altrice
     Spiga insegnò. — Drépani allor per nome
     Detta fu quella terra, de’ Feaci
     1305Sacra nudrice, ed i Feaci ei stessi
     Di quel sangue d’Uran progenie sono.
     Al lor lido or l’Argòa nave dal molto
     Travagliar faticata a toccar viene
     Con aure amiche dal Trinacrio mare;
     1310E Alcinoo rege e il popol suo con sacre
     Cerimonie festive ad essi fanno
     Bella accoglienza. Intorno a’ Minii esulta
     La città tutta, e qual di proprii figli
     La diresti gioire; e anch’ei fra il popolo
     1315Sì gioìan quegli eroi come se in mezzo
     Fosser giunti d’Emonia. E pur su ’l punto
     Fûr d’armarsi a battaglia, un tal di Colchi
     Stuol numeroso approssimar fu visto,
     Che del Ponto la foce e trapassando
     1320Le rupi Cianée, venìan di loro
     Ricercando la traccia. Essi Medea
     Alla casa tornar del padre suo

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     Volean ricisamente, o con minacce
     Gridando aspre, insolenti, a feral pugna
     1325Intimavan dar mano, e tosto e poi
     Al giungere d’Eeta. In lor di guerra
     Tale ardente però voglia represse
     Alcìnoo re che dell’entrambe parti
     Senza battaglia la terribil lite
     1330Volea disciorre. E la donzella impressa
     Di mortale terror con caldi prieghi
     Ora i compagni di Giason molcea,
     Or d’Arete, d’Alcinoo consorte,
     Le ginocchia stringendo: A te, regina
     1335(Dicea), mi prostro, e tu mi sii benigna;
     Non darmi a’ Colchi a ricondurmi al padre,
     Se tu pur dell’umana gente sei,
     Che per lieve fallir corre a ruina
     Rapidamente. E così caddi anch’io
     1340Dal buon senno di pria, non per insano
     Furor lascivo. Il sacro Sole attesto,
     Della nottivagante Ecate i santi
     Misterii attesto: io non di là buon grado
     Partii con gli stranieri; a questa fuga
     1345Pensar mi fece un profondo terrore
     Che al primo error m’assalse: altro proposto
     Io non avea. La verginal mia zona
     È tuttavia, qual nel paterno tetto,
     Invïolata, intatta. Abbi pietade,
     1350O veneranda, e m’addolcisci il cuore
     Del tuo consorte. A te di vita un lungo

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     Dieno gli dei corso beato, e figli,
     E onore, e gloria di cittade invitta.
Così ad Arete, gran pianto versando,
     1355Ella prega prostrata; indi a ciascuno
     Volgendosi de’ prenci: Io per voi (disse),
     Prestantissimi eroi, per li cimenti
     Vinti da voi son di terror compresa,
     Io, per cui mezzo e posto avete il giogo
     1360A que’ tori feroci, e quell’orrenda
     Mèsse mieteste di guerrier sorgenti
     Fuor della terra, io, per lo cui favore
     L’aureo Vello, ad Emonia ritornando,
     Recherete fra breve: or ben, quell’io
     1365E patria e genitori e case e tutte
     Della vita perdute ho le dolcezze,
     E voi fatto ho la patria e i tetti vostri
     Abitar novamente, e mirerete
     De’ vostri genitori il volto ancora21
     1370Con lieti occhi contenti; ma una dura
     Sorte me scossa ha d’ogni orrevol lustro,
     E con genti straniere errando io vado
     Carca di biasmo. Ah paventate i patti
     E i giuramenti violar; temete
     1375La de’ supplici Erinne, e la vendetta
     Pur degli dei se nelle man d’Eeta
     Acerbissima pena a patir vengo.
     Io non tempio, non ròcca, e non d’altronde
     Ho rifugio e difesa: a voi mi volgo,

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     1380Soli a voi m’abbandono. Oh sciagurati
     Di crudo e duro cuor, che non sentite
     Nè pietà nè vergogna, or me veggendo
     Di regina straniera alle ginocchia
     Per disperazïon tender le braccia!
     1385E sì quando a rapir quell’aureo Vello
     Anelavate, avreste a guerra i Colchi
     Tutti sfidato, e il fiero Eeta anch’esso;
     E d’animo cadete or che di loro,
     Di lor soli una banda è che v’insegue.
1390Sì dicea supplicando, e a cui prostrata
     Le ginocchia stringea, quegli a fidanza
     La rincorava, e le vietava il duolo;
     E tutti nelle man l’aste appuntate
     Scossero, e fuor delle vagine i brandi
     1395Traendo, a lei di non fallir d’aita
     Fêron promessa, ove incontrato avesse
     Giudizio iniquo. Al faticato intanto
     Stuol de’ prodi la notte sopravvenne
     Dell’opre de’ mortali acquetatrice,
     1400E tutta insieme addormentò la terra.
     Ma di sonno a Medea nè un leggier velo
     Le pupille adombrava, ed agitato
     L’animo ognor le si volgea nel petto.
     Come la pazïente vedovella
     1405Torce il fuso di notte, e le fan lagno
     Gli orfani figli intorno; ella dolente
     Riga il volto di lagrime, pensando
     Qual ne l’incolse miseranda sorte:

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     Di lacrime così Medea stillanti
     1410Avea le gote, e da punture acute
     Trafitto in sen le sobbalzava il cuore.
Della città nel regal tetto intanto
     Alcìnoo re con l’onoranda sua
     Sposa Arete nel talamo posanti
     1415Lungo la notte avean fra lor consulta
     Su la giovin di Coleo; e la consorte
     S’accostò con parole accarezzanti
     Al diletto marito: Oh sì, mio caro,
     Salvami, sì, quest’affannata giovine
     1420Da’ Colchi, e a’ Minii opra pur fa gradita.
     Argo è vicina a questa isola nostra;
     Son gli Emonii vicini; a noi d’Eeta
     Non è presso la stanza; Eeta noi
     No ’l conosciam, ma sol nomarlo udimmo.
     1425Questa giovine poi, che tante angosce
     Soffre, il cuor mi spezzò co’ prieghi suoi;
     Deh no, signor, deh non la dare a’ Colchi
     Da ricondurla al padre suo! Mal fece
     Quando da pria l’ammansator de’ tori
     1430Farmaco diede a quel garzone, e poi
     (Come spesso facciam) fallo con fallo
     Medicando, scampava all’ira atroce
     Del fiero genitor; ma da solenni
     Giuramenti Giason, siccome intendo,
     1435Stretto s’è di condurla alle sue case
     Legittima consorte. Or tu, mio caro,
     Tu non farlo spergiuro, e per tuo fatto

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     Non sia che il padre in sua terribil ira
     Soffrir faccia alla figlia orrido strazio.
     1440Troppo son duri alle lor figlie i padri.
     Contro alla bella Antìope Nittèo
     Formò truce disegno; in mar gittata
     Per tristizia del padre orrendi guai
     Danae sostenne; e non di qua lontano
     1445Pur di recente il dispietato Echeto
     Nelle pupille alla propria figliuola
     Cacciò di bronzo acute punte, ed ora
     Bronzo in carcere bujo macinando
     La meschina di stento si consuma.
1450Così Arete pregava; e della sposa
     Godeva ai detti il cuor del sire, e questa
     Le fêa risposta; Arete mia, con l’armi,
     Con l’armi ancora io caccerei li Colchi,
     Favorendo gli eroi per la donzella;
     1455Ma di Giove sprezzar temo il sovrano
     Giusto giudicio; e non conviene a vile
     Anco Eeta tener, come consigli;
     Chè re più forte altri non v’è d’Eeta,
     E lontano quantunque, a Grecia guerra
     1460Porterebbe volendo. Indi un partito
     Pigliar degg’io, ch’ottimo estimi ogni uomo,22
     Nè a te il celo. Se ancor vergine è dessa,
     Farò tornarla al padre suo; se il letto
     Marital già toccò, non del marito
     1465Privarla io vo’, nè a’ suoi nimici darla,

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     Se già prole concetta ha forse in grembo.
Tal proferse sentenza, e quindi il sonno
     L’occupò. La consorte il saggio avviso
     In cuor si pose, e surta fuor del letto,
     1470S’aggirò per la casa. Frettolose
     Accorsero le ancelle, il ministero
     A prestar di lor opra alla regina.
     Essa l’araldo suo segretamente
     Chiama, e gl’impon che da sua parte ingiunga
     1475A Giason d’accoppiarsi alla donzella,
     Nè più Alcìnoo pregar; chè statuito
     Egli ha questa sentenza a’ Colchi esporre:
     Che se Medea vergine è ancor, del padre
     La darà nelle case a ricondurla;
     1480Ma se con uom già s’abbracciò, non fia
     Che all’amor dello sposo ei la ritolga.
Ciò udito, i piè ratto portâr l’araldo
     Fuor della reggia: egli a Giason sen’ corre
     Il fausto avviso a riferir d’Arete
     1495E d’Alcìnoo la mente. Appo il naviglio
     Nell’Ittico trovò porto gli eroi
     Veglianti in armi alla città dappresso,
     E lor disse il messaggio. A tutti il cuore
     Ne giubilò, sì grato annunzio ei porse.
     1490Un cratere agli dei tosto mescendo,
     Siccome è rito, e santamente fatto
     D’agnelli un sagrificio, in quella stessa
     Notte apprestâro alla regal donzella
     Il letto nuzïal nell’antro sacro,

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     1495Ove un tempo albergò Macri, la figlia
     Di quel saggio Aristéo che primo seppe
     Il lavoro dell’api, e gemer fece
     Il pingue umor della compressa oliva:
     E fu Macri colei che primamente
     1500Nell’Abantide Eubea di Giove il figlio
     Bacco accolse al suo petto, e l’arso labbro
     Di miele gli spalmò poi che dal foco
     Mercurio il trasse, e il diede a lei. La vide
     Giuno, ed irata la cacciò di tutta
     1505L’isola in bando. Ella per lunga via
     Nel sacro de’ Feaci antro ne venne
     A far soggiorno, e a quelle genti immensa
     Largì dovizia. Or quivi i Minii un grande
     Letto stesero, e sovra il rifulgente
     1510Aureo Vello spiegâr per far più adorne
     Quelle nozze e onorate; e fiori anch’esse
     Varii e leggiadri vi recâr le Ninfe
     Entro a’ candidi seni: a par di fiamma
     Vivo chiaror le irraggiò tutte: un tanto
     1515Dall’auree lane si spargea fulgore,
     Che lor negli occhi una cupida voglia
     Di toccarle accendea; ma le contenne
     Religïon dal poner man su quelle,
     Desïose pur molto. Altre son figlie
     1520Del fiume Egeo; del Meliteo sui gioghi
     Abitan altre; altre di campi e boschi
     Eran cultrici, e convenir là tutte
     Le fe’ Giunon che di Giasone ha cura;

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     Ed antro sacro di Medea si noma
     1525Tuttavia quello, ove le Ninfe insieme
     Composero gli amanti, e li velâro
     Co’ lor pepli odoranti. In man fra tanto
     Brandiscono gli eroi le bellich’aste,
     Che d’improvviso l’inimica gente
     1530Non irrompa a battaglia, e di frondosi
     Ramoscelli la fronte inghirlandati,
     Del talamo alla soglia in modulate
     Voci Imeneo ne van cantando al suono
     Della cetra d’Orfeo. Voler non era
     1535Già di Giasone il celebrar sue nozze
     Nella terra d’Alcìnoo, ma in casa
     Del padre suo, reduce a Jolco; e questo
     Pur divisato avea Medea; ma l’uopo
     Or quivi all’opra marital li trasse.
     1540Noi miseri mortali intera gioja
     Mai gustar non possiamo; un che d’acerbo
     Sempre i diletti a perturbar ne viene;
     Quindi, benché di dolce amor godenti,
     Stavan quelli in timor se troverebbe
     1545Di quel re la sentenza adempimento.
Ma in suo divo fulgor surta l’Aurora
     La nera notte per lo ciel disciolse,
     E rideano le arene e i rugiadosi
     Sentier lunghi de’ campi. Un rumorio
     1550Nelle vie si propaga; il popol move
     Per la cittade, e su la riva estrema
     Son dell’isola anch’essi i Colchi in moto.

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     Tosto Alcìnoo s’avvia, giusta il disegno,
     A promulgar di sua mente il decreto
     1555Su la donzella. Ha l’aureo scettro in mano
     Di giudicante, onde in città le liti
     Sono con retto giudicar disciolte.
     Cinti d’armi guerresche appresso a lui
     De’ Feaci i più prodi a torma vanno;23
     1560E fuor della città folla di donne
     Affrettavansi uscir desiderose
     Di veder quegli eroi; de’ campi accorsero
     Anco i cultori, udito ciò; chè Giuno
     Chiaro il grido n’avea sparso da prima.24
     1565E chi scelto dal gregge ivi un agnello,
     Chi una giovenca ivi adducea, non anco
     Doma a fatiche, altri di vin ricolme
     Anfore; e il fumo da lontan sorgea
     De’ sagrificii. Il genio lor seguendo,
     1570Portavano le donne adorni pepli
     Di assai lavoro, e fregi d’oro, e quante
     Han varie leggiadrie spose novelle.
     Ben fu ad esse stupor di que’ prestanti
     Il mirar le sembianze e le persone,
     1575E d’Eagro fra lor l’inclito figlio
     Che della lira al dolce suono, e al canto
     Col bel calzare il suol battea. Le Ninfe
     Tutte ad una, quand’egli in sua canzone
     Motto fêa delle nozze, il dolce, il caro

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     1580Cantavano Imeneo; poi da sè sole,
     Danzando a tondo, a te, Giunon, di laude
     Modulavano un inno, a te che posto
     Hai d’Arete nel cuor di far che conta
     Pria d’Alcìnoo la mente a Giason fosse.
     1585Or poi che il re la sua sentenza espose
     Già del fatto connubio era la fama
     Diffusa intorno. Ei stette fermo, e grave
     Timor no ’l vinse, e non d’Eeta i fieri
     Sdegni; inconcusso il giuramento ei tenne.
     1590Ben conobbero i Colchi essere indarno
     L’opporsi a lui che d’osservar sue leggi
     Imponea loro, e allontanâr dai porti
     Di sua terra lor legni; ond’ei tementi
     Del proprio re le minacciate pene,
     1595Umilemente lo pregâr d’accorli
     Ospiti amici. E tra’ Feaci poi
     Abitâr lungamente, in fin che a stanza
     I Bacchìadi che d’Èfira son genti,
     Vennero quivi. Allor migrâro i Colchi
     1600Nell’isola a rincontro, e degli Abanti
     Indi a’ monti Cerauni, ed a’ Nestei,
     E ad Orico venian, ma dopo molto
     Rivolgere d’etadi. Or delle Parche
     Tuttavia quivi l’aere, e delle Ninfe,
     1605Che nel tempio devoto al Nomio Apollo
     Alzò Medea, di sagrificii ogni anno
     Ricevono tributo. Allor che poi
     Si partivano i Minii, Alcìnoo molti

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     Diè lor doni ospitali, e molti Arete,
     1610E questa anche a Medea seguaci aggiunse
     Dodici di Feacia elette ancelle
     Del suo palagio. Drèpani lasciata
     Hanno il settimo giorno; e lor da Giove
     Un puro vento d’Orïente venne,
     1615Dal cui soffio sospinti assai di via
     Corsero, sì; ma non ancor dal fato
     Era attinger l’Acaja a lor concesso,
     Se travagli a patir non venian prima
     Su le coste di Libia. E già quel golfo
     1620Che d’Ambracia si noma, avean trascorso;
     De’ Cureti le spiaggie a tese vele
     Oltre avean già passate, e i varchi angusti
     Delle Echinadi anch’essi; e lor la terra
     Di Pelope apparìa, quando di Borea
     1625Fiera bufera li rapì nel mezzo
     Del Libistico mare, e nove notti
     Quivi aggirolli, ed altrettanti giorni,
     Fin che spinti poi fûro entro la Sirte,
     D’onde ai legni tornar più non è dato,
     1630Poi che in essa fûr presi. Ampie lagune
     Vi son per tutto, ed alta un’alga e densa
     Ricopre il suol, su cui con rumor sordo,
     L’onda spumeggia. Una distesa immensa
     V’ha di sabbia all’intorno, e là non muove
     1635Nullo animante, e non aleggia augello.
     La marea che dal lido ad ora ad ora
     Retrocede, e di nuovo indi su ’l lido

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     Con furor vïolento erutta i flutti,
     Li cacciò forte entro l’arena a tale
     1640Che rimasa nell’acqua era del legno
     Sol la parte postrema. Allor di nave
     Balzaron fuori, e gran mestizia tutti
     Occupò, non veggendo intorno intorno
     Altro ch’aere, e una gran lama di terra
     1645Che via via si distende, a par dell’aere,
     Lontan lontano; e non ruscello alcuno,
     Non sentier, non tugurio in qualche parte
     Di pastor si vedea: tutto una muta
     Cupa quïete possedea quel suolo.
     1650L’un vòlto all’altro con animo afflitto:
     E che nome (diceva) ha questa terra?
     Ove spinti, ove mai n’ha la procella?
     Oh perchè non ardimmo, il cuor francando
     Da un insano timor, la stessa via
     1655Rifar per mezzo a’ Cianei macigni?
     Certo, avversante anche il voler di Giove,
     Era meglio perire, un’animosa
     Grande impresa tentando. Or che faremo,
     Se ne astringono i venti a far qui sosta
     1660Per qual sia breve tempo? ermo, deserto
     Tanto questo terren lungi si stende!
Sì taluno dicea. Dal grave caso
     Sbigottito, smarrito anco lo stesso
     Reggitor del naviglio Ancèo soggiunse:
     1665Ah di morte crudel tutti perimmo!
     Scampo non v’ha. Tremendi guai soffrire

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     Dovrem gittati in su quest’erme arene,
     Se da terra a soffiar prendono i venti,
     Poi che lunge inviando il guardo intorno,
     1670Veggo di mare un limaccioso fondo
     In tutte parti, e l’onda ripercossa
     Corre e si frange su le bianche sabbie.
     Anco rotta e spezzata in trista guisa
     Dalla terra lontan già questa sacra
     1675Nostra nave sarìa, se non che il flusso
     Il mar gonfiando, sollevolla in alto,
     E in terra la portò; ma retrocessa
     Or la marea, qua su ’l terren sol d’acqua
     Tanto riman che a navigar non basta.
     1680Però tutta speranza e di rimbarco
     E di partenza esser precisa io dico.
     Altri, se v’ha, qui sua perizia mostri,
     E se brama partir, segga pur egli
     Della nave al governo. Ah non vuol Giove
     1685Con felice ritorno, ah no, non vuole
     Dar compimento alle fatiche nostre!
Sì plorando diceva, e fêan tenore
     Dell’afflitto al parlar quanti eran quivi
     Di nautic’arte esperti, e a tutti il cuore
     1690Di duol si strinse, e su le guancie a tutti
     Si diffuse il pallore. E qual, simili
     Ad inanimi spettri, i cittadini
     Volvonsi per le vie se guerra o lue
     Attendono funesta, o grandinoso
     1695Nembo tutti de’ buoi sommerge e strugge

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     Gli operosi lavori; o se de’ numi
     Sudino sangue i simulacri, e paja
     Udir ne’ templi rimbombar muggiti;
     O il Sol dal cielo a mezzo il dì la notte
     1700Su ’l mondo adduca, e scintillar le stelle
     Si veggano nell’alto; in pari imago
     Que’ prenci allor su ’l lungo lido erravano
     Mesti, scorati. Il tenebroso vespro
     Sopravvenne, e con atto doloroso
     1705L’uno dell’altro stringendo la mano,
     Si disser vale; e ricercando il dove
     Da solo a solo in su l’arena steso
     Strugga l’animo suo, qua, là ciascuno
     Andò a prender suo loco, e tutti il capo
     1710Ne’ pallii avvolto, impransi ancor, digiuni
     Giacquer tutta la notte e molto giorno,
     Presso a morir di miseranda morte;
     E in disparte le ancelle accolte intorno
     Alla figlia d’Eeta un lamentoso
     1715Mettean compianto; e qual da cava rupe
     Non ancor volatii caduti a terra
     Augelletti di nido, un pipilìo
     Fan di querule voci; o come al margo
     Dell’ameno Pattólo il flebil canto
     1720Muovono i cigni, e il rugiadoso prato
     Ne risona all’intorno, e il vago fiume;
     Quelle donne così sparse di polve
     Le bionde chiome, un doloroso lagno
     Facean tutta la notte. E oscuramente

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     1725Pria di compier l’impresa, a ogni uomo ignoti,
     Quivi spenti di vita i più prestanti
     Rimanean degli eroi; ma di lor trista
     Dura sorte pietade ebber le dive
     Eroine di Libia, elle che quando
     1730Raggiante in arme dal paterno capo
     Fuor Minerva balzò, corsele incontro
     Le diêr nell’acque del Triton lavacro.
     Era il meriggio, e i rai del Sol più accensi
     Ardean la Libia: esse a Giason dappresso
     1735Stettero, e a lui con man lieve dal capo
     Ritirarono il pallio. Ei volse altrove
     Gli occhi, temendo di mirar le dee;
     E palesi a lui solo esse con blandi
     Detti molcendo ne venian l’affanno.
1740Oh misero, perchè tanto sconforto?
     Ben del vostro passaggio alla conquista
     Dell’aureo Vello a noi l’istoria è conta;
     Conti i vostri travagli a noi pur sono,
     E quanti in terra e quanti in mar vagando
     1745Alti fatti compieste: abitatrici
     Di deserti siam noi, dive eroine,
     Protettrici di Libia, e di lei figlie.
     Sorgi, e più di dolor non macerarti:
     Sorger fa teco i tuoi compagni, e tosto
     1750Che disciolto Anfitrite abbia il veloce
     Carro a Nettuno, e voi la madre vostra,
     Che lungo tempo vi portò nel grembo,
     Retribuite di mercè dovuta

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     A’ sofferti travagli, e alla divina
     1755Poi farete ritorno Acaica terra.
Dissero, e in un con la parola estrema
     Sparvero a un tratto. Intorno il guardo volse
     Giason; sedette insù la terra, e disse:
     Deh propizie ne siate, o venerande
     1760Romite dee! Ma su ’l ritorno il senso
     Dell’oracolo vostro io non comprendo.
     Bensì, raccolti i miei compagni, ad essi
     Il ridirò, se trar se n’ possa un qualche
     Lume. De’ molti è più veggente il senno.
1765Detto ciò rilevossi, e tutto ancora
     Brutto di polve un lungo grido inalza
     I compagni a chiamar, come leone
     Che la compagna sua per la foresta
     Cercando rugge, e a quel ruggito i boschi
     1770Tremano da lontan su la montagna
     E i buoi ne’ campi, ed i bifolchi orrore
     N’hanno, e terror; ma non a’ Minii orrenda
     La voce risonò del lor compagno
     Che a sè li chiama. Intorno a lui raccolti
     1775Si fur tosto con fronte al suol dimessa;
     Ed ei presso alla nave essi e le donne
     Seder fe’ insieme, e così tutto espose:
M’udite, amici. A me che in duolo assorto
     Stava, tre dee che di caprine pelli
     1780Erano avvolte dal sommo del collo
     Giù per lo dorso, e se n’coprìan pur l’anche,
     Di donzelle in sembianza a me sospese

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     Stetter sopra del capo, e con man lieve
     Mi ritrassero il pallio dalla testa,
     1785E m’imposer levarmi, e che voi tutti
     Sorger pur faccia, ed alla madre vostra,
     Che lungo tempo vi portò nel grembo,
     Da voi si renda la mercè dovuta
     A’ sofferti travagli allor che sciolto
     1790Abbia Anfitrite di Nettuno il carro.
     Io la mente chiarir d’oracol tale
     Da me non valgo. Esse eroine e figlie
     Dicean esser di Libia, e protettrici;
     E quanto in terra e quanto in mar soffrimmo,
     1795Tutto a loro esser conto. E poi vederle
     Più non potei, chè oscura nebbia e nube
     Surse fra mezzo, e agli occhi miei le ascose.
Tutti all’udir questo racconto i prenci
     Meravigliâro; ed un maggior portento
     1800Ecco a’ Minii apparì. Dal mar su ’l lido
     Saltò un grande cavallo, alto portante
     Folto di doppia aurata giubba il collo.
     La salsa acqua, onde molle il corpo avea,
     Giù si scosse d’un crollo, e via veloce
     1805Corse a paro col vento. Allor Pelèo
     S’allegrò tutto, e a’ congregati amici
     Disse: Per certo, or di Nettuno il carro
     Sciolto fu dalla man della diletta
     Consorte sua. La madre nostra io tengo
     1810Altra non sia che questa nave. È dessa
     Che nel suo grembo ne portò, gravata

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     Di continui travagli. Orsù! con sforzo
     Di tutte posse e su gagliarde spalle
     Leviamla in alto, e sopportiamla addentro
     1815Dell’arenoso suol vêr quella parte
     Ove il cavallo il ratto piè sospinse.
     Non andrà sotto terra a profondarsi,
     Ma l’orme sue ne guideranno, io spero,
     A qualche sen di navigabil mare.
1820L’opportuno consiglio a tutti piacque.
     Così cantan le Muse; ed io ministro
     Delle Pierie dee questa che udita
     Ho certissima storia or canto anch’io,
     Che voi, di regi o valorosi figli,
     1825Con prestanza di forze e di virtude
     Per le di Libia inabitate arene
     Sorreggeste la nave e il tutto in essa
     Su le valide spalle, e la portaste
     Per ben dodici giorni ed altrettante
     1830Lunghe notti. Or chi dir può la fatica
     Ch’ei durâro e l’affanno? Veramente
     Eran del sangue d’immortali dei,
     Se tal ressero impresa, a cui li spinse
     Necessità. Ma giunti a riva alfine
     1835Alacremente del Tritonio lago,
     Dagli omeri il naviglio in quel posâro;
     Quindi simili a cani arsi di sete,
     Avidamente a ricercar si diêro
     Qualche fonte; chè aggiunto alla fatica
     1840Erasi e all’ansia un sitibondo ardore;

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     Nè cercaronla invano. Al sacro campo
     Vennero a caso in regïon d’Atlante,
     Ove il Ladon terrigeno dragone
     Pur dianzi custodìa le poma d’oro,
     1845E l’Esperidi Ninfe intorno a quelle
     Dolcemente cantavano. Ma ucciso
     Poc’anzi il serpe dalla man d’Alcide
     Giacea sotto quel melo. Ancor guizzava
     La coda estrema; erane il capo e il tronco
     1850Tutto privo di vita; e tal nel sangue
     Gli han dell’idra Lernèa veleno infuso
     L’Erculee frecce, che perian le mosche
     Su le putride piaghe. Ivi le candide
     Mani calcando su le bionde teste
     1855Alto gemean l’Esperidi. Vêr quelle
     Tutti corsero i Minii, e quelle a un tratto
     Si mutâr quivi stesso in terra e polve.
     Ma il portento divino Orfeo veggendo,
     Mosse lor questo priego: Oh voi, leggiadre
     1860E benevole dive, alme signore,
     Deh pietose sostate, o che celesti
     Dee voi siate, o terrestri, o nome abbiate
     Di Ninfe di deserti abitatrici,
     Oh Ninfe, oh d’Oceán progenie santa,
     1865Appariteci innanzi, e ne mostrate
     Qualche zampillo di petrosa fonte,
     O qualche polla che da terra sorga
     Di sacra linfa, a cui possiamo alfine
     L’ardente sete estinguere. Se mai

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     1870Rieder poi navigando al lido Acheo
     Dato ne fia, di mille doni a voi,
     Prime a voi fra le dee, di libamenti
     E sacre dapi renderem mercede.
Tal con debile accento ei fèa preghiera:
     1875Pietà n’ebbero quelle, e primamente
     Pullular fêr da terra un cespo erboso,
     Dal cespo in alto poi lunghi rampolli
     Spuntar fecero, e quelli in frondeggianti
     Si protesero alfine arborei rami.
     1880Espera un pioppo, ed Eriteide un olmo,
     Egle divenne un sacro salcio, e quali
     Erano pria, tali a veder da quelle
     Piante si diêro, oh meraviglia! Ed Egle
     Con dolci detti al lor desìo rispose:
     1885Grande a’ travagli vostri alleggiamento
     Qua venne al certo ad arrecar quel fero
     Tristissim’uom che del dragon custode
     Spenta la vita, ne involò partendo
     Delle dee l’auree poma, onde gran duolo
     1890Ricadde a noi. Venuto è jeri un crudo,
     Un d’ardir prepotente, e di persona
     Terribile, a cui sotto a un torvo ciglio
     Lampeggiavano gli occhi: indosso avea
     D’un immane leon la croja pelle;
     1895D’olivo in man gran mazza; e quelle frecce,
     Con che ferito ha questo serpe e morto.
     Or ben, colui poi che il cammino avea
     Fatto pedone, ardea di sete; intorno

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     D’acqua in cerca lo sguardo andò girando,
     1900Cui trovata però mai non avrebbe;
     Ma un sasso è qua presso al Tritonio lago,
     Ch’egli o di proprio instinto, o che insegnato
     Ciò gli fosse da un Dio, col piè percosse
     Nell’ima parte, e un’abbondante vena
     1905D’acqua fuor ne sgorgò. Con ambe mani
     E col petto giù steso insù ’l terreno,
     Tanto ne bevve dalla rotta pietra
     Fin che, pari a giumenta, al suol giacendo,
     Tutto n’ebbe satollo il cupo ventre.
1910Ciò disse appena, e di repente tutti
     Corsero allegri al sospirato fonte,
     Che ad essi Egle mostrò. Come ad angusta
     Buca intorno s’aggirano affollate
     Le operose formiche; o qual di mosche
     1915Volar vedi uno sciame ad una sola
     Goccia di miele; in pari guisa a quella
     Scaturigine intorno agglomerati
     Roteavansi i Minii. Ed un fra loro
     Disse giojoso con grondanti labbra:
     1920Oh fausto caso! Anche da noi diviso,
     Or ecco, salvi ha i suoi compagni Alcide
     Morïenti di sete. Oh se cercando
     Dato fosse trovarlo in queste spiagge!
Tutti applausero al volo, e scelti i meglio
     1925Atti a quest’opera, s’affrettâr partendo
     Chi di qua, chi di là per farne inchiesta;25

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     Poi che i venti notturni avean sommossa
     L’arena sì, che ogni vestigio, ogni orma
     N’era scomparsa. I due di Borea figli
     1930Tosto mossero in loro ali fidando,
     Ne’ piè celeri Eufemo, e quei che lunge
     Scerne, acuti vibrando occhi, Linceo.
     Quinto fu Canto, cui de’ numi il fato
     E il forte animo suo spinser d’Alcide
     1935Alla ricerca per saper da lui
     Ove lasciato egli ha d’Èlato il figlio,
     Polifemo; chè a lui troppo era a cuore
     Del suo compagno investigar la sorte.
     Ma costui, poi che a’ Misii ebbe fondata
     1940Un’illustre città, per lunghe vie
     Camminando di terra Argo cercava;
     Ma de’ Calibi giunto alle marine
     Coste, la Parca ivi l’estinse, e a lui
     All’ombra d’un gran pioppo in riva al mare
     1945Posto fu il monumento. Or poi d’Alcide
     Solo parve a Linceo lontan lontano
     La figura veder, come taluno
     O vede appena, o di veder gli pare
     In fra le nubi la novella luna;
     1950Però disse tornando a’ suoi compagni,
     Che per correr ch’uom faccia a quella volta
     Niun potrebbe arrivarlo. E sì ritorna
     Il piè-celere Eufemo, ed ambo i figli
     Del Tracio Borea tornano delusi
     1955Di lor vana fatica. Ma te, Canto,

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     Spensero in Libia le funeste Parche.
     Tu scontrando per caso un pascolante
     Gregge, a’ compagni tuoi che n’avean d’uopo,
     T’avvisasti condurlo: alla difesa
     1960Delle pecore sue surto il pastore
     Che le guardava, un gran sasso lanciando,
     Morte ti diè; chè non di te men forte
     Era Cafauro il guardïan, nipote
     Di Febo e d’Acacállide fanciulla,
     1965Di lei, cui fece il padre suo Minosse
     Nella Libia migrar, mentre la prole
     Portava in sen di quell’iddio concetta.
     Ella poi quivi un nobil figlio illustre,
     Che Anfitemi fu detto e Garamante,
     1970Produsse a Febo. Anfitemi di poi
     Mischiossi insieme con Tritonia Ninfa,
     Ed essa Nasamon gli partoria,
     E il gagliardo Cafauro, il qual fe’ Canto
     Per salvar la sua greggia cader morto.
     1975Ma non egli alle man vendicatrici
     Sfuggì de’ Minii, appena hann’essi appreso
     Il reo suo fatto; e dell’ucciso il corpo
     Ritrovarono, e mesti e lagrimanti
     Lo composero in tomba, indi alla nave
     1980Trassero tutto di colui l’armento.
Da crudel fato anco in quel dì fu còlto
     Mopso, d’Ampico il figlio. A lui non valse
     Profetico saper; chè scampo alcuno
     Non v’ha da morte. Ad evitar la sferza

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     1985Del cocente meriggio un fiero serpe
     Sotto alle arene si giacea, non presto
     Ad assalir chi non gli nuoce, e l’uomo
     Che da lui fugge, ei d’inseguir non cura;
     Ma qualunque animal che vive in terra,
     1990L’atro veleno appena in sè n’accolga,
     Non più lunga d’un cubito è per esso
     La via dell’Orco; e nè Peon (se tanto
     Dir lice apertamente) a medicarne
     Pur sol varrebbe di que’ denti il tocco;
     1995Poi che Perseo divino (Eurimedonte
     Dalla madre nomato) allor che a volo
     Passò sovra la Libia, al re portando
     Della Gòrgone il capo allor reciso,
     Le tutte gocce di quell’atro sangue,
     2000Che a terra ne grondâr, divenner germi
     Di quelle serpi. Ora il sinistro piede
     Mopso avanzando, col tallon compresse
     A quell’angue la spina; e quel per duolo
     Ritorcendosi in alto, a lui di morso
     2005Diè nella carne, e della tibia a mezzo
     Gli ferì l’osso e il muscolo. Medea
     Ne inorridì; ne inorridîr le ancelle:
     Egli animoso la letal ferita
     Si toccava, chè molto il duol non era.
     2010Misero! nelle membra era già sparso
     Il sopor della morte, e già sugli occhi
     Gli si addensa una nebbia; grave a terra
     Inchinandosi cade, e senza spirto

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     Irrigidì. Tutti i compagni intorno
     2015Con l’Esonide eroe stetter colpiti
     Di stupor, di dolore. Il morto corpo
     Non potè sotto il Sol per pochi istanti
     Pur rimaner; chè infracidir le carni
     Gli fe’ tosto il veleno, e dalla cute
     2020Putre umor ne gemea. Con ferree zappe
     Immantinente una profonda fossa
     Scavarono, e i compagni e le donzelle
     Si reciser le chiome, afflitti tutti
     Del suo caso infelice. In arme i prenci
     2025Tre volte intorno gli girâr; compiuta
     Quindi ogni cosa del funereo rito,
     Gli ammontâr sopra la scavata terra.
Mentre in mar venteggiava un Noto ardente,
     Saliti in nave ivan cercando un varco
     2030Ad uscir fuori del Tritonio lago;
     Ma il cercarlo era indarno, e tutto il giorno
     S’aggirarono a caso. E come il serpe
     Strisciando va per tortuosa via;
     Quando l’ignea del Sol vampa lo scalda,
     2035E fischiando qua e là dimena il capo,
     E scintille di fuoco infurïando
     Schizza dagli occhi, infin che poi s’imbuca
     Per angusto forame; Argo in tal guisa
     Una foce navale investigando,
     2040Volteggiò lungo tempo. Ed ecco un tratto
     Orfeo propon che dalla nave il grande
     Fuori si tragga tripode d’Apollo,

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     E agl’indigeni dei porgasi in dono
     Per un fausto ritorno. A quel consiglio
     2045Scesero a terra, e del presente sacro
     Fêr solenne profferta. Incontro a loro
     Simigliante a garzon mosse il possente
     Tritone, e dal terren tolta una gleba,
     Ospital dono a lor la porse, e disse:
     2050Questa, amici, prendete. Io prezïosa
     Cosa non ho che ad ospiti dar possa;
     Ma se le vie che portan quinci al mare
     Anelate trovar, come sovente
     Braman gli erranti in peregrini luoghi,
     2055Io mostrerolle; chè mi fe’ perito
     Di questo mare il padre mio Nettuno,
     Ed hovvi impero; e ancor di qua lontani
     Voi d’Euripilo il nome udiste forse,
     Nato in Libia, di fiera altrice terra.
2060Ei sì disse, e alla zolla alacremente
     Stese Eufemo le mani, e a lui rispose:
     L’Attica e il mar che da Minosse ha nome26
     (Se conoscenza, o eroe, tu n’hai), l’insegna
     A noi, che te n’ chiediam, veracemente.
     2065Qua di nostro voler non siam venuti,
     Ma da fiere procelle ai lidi estremi
     Di questa terra spinti, abbiam la nave
     Per terrestre cammino a gran fatica
     Fin qua portata, a questo lago; e ignari
     2070Siam d’onde uscir per all’Achea contrada.

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Tacque, e l’altro la mano protendendo
     A lontan segno, e il mar mostrando, e un’alta
     Foce del lago: Il varco (disse) al mare
     È là dove più l’onda è cupa e nera.
     2075Rupi che sponda fan d’ambe le parti,
     Biancheggiano di spuma; angusto in mezzo
     D’uscir dal lago è il passo; indi quel fosco
     Mare al divino Pelopéo paese
     Mena sopra di Creta. A destra mano,
     2080Dal lago usciti, ite radendo il lido
     Fin che giunti sarete ove la terra
     Fa un gomito sporgente; e voi piegando
     Intorno a quello il corso, indi securo
     Fia ’l cammin vostro. Itene lieti, e nulla
     2085Sia fatica, nè stento che alle vostre
     Di gioventù gagliarde membra incresca.
Così benigno ei favellò. Su ’l legno
     Gli altri salîr di brama impazïenti
     D’uscir vogando da quell’acque al mare,
     2090E diêr impeto ai remi. Allor Tritone
     Il gran tripode prese, e dentro al lago
     Immergersi fu visto; e più nessuno
     Veduto l’ha, sì d’improvviso a un tratto
     Col suo tripode sparve. A’ Minii il cuore
     2095Gioì, che fausto alcun de’ numi ad essi
     Occorso fosse, ed a Giasone invito
     Fêr che la meglio in fra le tolte agnelle
     Sagrificasse, ed una pia parola
     Sovra l’ostia dicesse. Immantinente

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     2100Una ei ne scelse, e le tagliò la gola,
     E così disse insù la poppa orando:
O nume che di questa ampia laguna
     Presso al margo apparisti, o te Tritone,
     Marin portento, o sia che Forco, o sia
     2105Che ti chiamin Neréo del mar le figlie,
     Deh propizio ne sii, deh fausto il fine
     Del bramato ritorno a noi concedi!
Col finir della prece ei dalla poppa
     Gittò nell’acque la scannata agnella;
     2110E allor quel Dio tal su dall’onde apparve,
     Qual veramente è in sua natura. E come
     Quando l’uom dell’agon nel vasto circo
     Mena veloce corridor che presto
     È a far prova di corsa, e l’uom lo tiene
     2115Per la folta criniera, e obbedïente
     Quello il siegue, squassando alto la testa
     Superbamente, e lo spumante freno
     Fa mordendo scricchiar fra le mascelle;
     Così il Dio della nave in man reggendo
     2120La punta anteriore, al mar la trasse.
     Era il corpo di lui da sommo il capo
     Giù al dorso e a’ lombi sino al ventre in tutto
     Simil di forme agl’immortali dei;
     Ma di sotto de’ fianchi biforcuta
     2125Gli si allunga una coda a quella eguale
     D’una balena, e balte l’acqua a galla
     Con le due spine, di falcati uncini,
     Pari a corna di luna, armate in cima.

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     Il naviglio ei guidò fin che sospinto
     2130L’ebbe nel mare, e di repente poi
     S’affondò dentro l’onda. Alla veduta
     Di tal portento un susurrante fremito
     Misero i prenci; e quivi il porto Angòo,
     Quivi d’Argo le insegne, ed a Nettuno
     2135Posero altari, ed a Triton; chè tutto
     Stetter ivi quel dì. L’alba seguente
     Spiegâr le vele, e a destra man radendo
     Quell’erma costa, ivano in là portati
     Dallo spirar di Zefiro; su ’l tardo
     2140Mattin giunsero poi del prominente
     Gomito a vista, e dell’estenso mare
     Di là da quello. Allor cessò d’un tratto
     Zefiro, e insurse un veemente Noto
     Che fe’ lieti gli eroi. Quando poi cadde
     2145Il Sole, e l’astro vespertin rifulse,
     Che gli stanchi arator mette in riposo,
     Ogni vento acquetossi; onde le vele
     Essi calando, e il lungo albero abbasso
     Dechinando, diêr mano a’ lisci remi,
     2150Tutta vogando quella notte e il giorno
     E la notte seguente. Alfin da lunge27
     L’aspra Cárpato apparve; indi tragitto
     Far dovevano a Creta, isola a quante
     Altre n’ha in mar sovreminente e illustre.
     2155Ma il bronzeo Talo da uno scabro scoglio

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     Rotte schegge scagliando incontro a loro
     Che nel porto Dittèo spinta han la nave,
     Legarne a terra non lasciò le funi.
     Della bronzea radice era costui
     2160(E superstite ei sol), di que’ che nati
     Fûr da frassini in un co’ semidei,
     E in Europa la guardia a lui di Creta
     Giove assegnò, triplice giro in essa
     Imponendogli far co’ piè di bronzo;
     2165Chè di bronzo era desso, in tutto il resto
     Del corpo invulnerabile, ma sotto
     Al calcagno una vena avea di sangue
     Presso alla noce, e una sottil membrana
     Ha il destin di sua vita e di sua morte.
     2170Dal periglio costretti e dal timore
     Tosto i Minii la nave remigando
     Arretrârno, e da Creta ahi! gl’infelici
     E di sete e d’affanno travagliati
     Iti lunge sarian, se a ritenerli
     2175Così ad essi Medea non favellava:
     Date ascolto al mio dire. Io penso, io sola,
     Domar quest’uom, qual ch’egli sia, se tutto
     Pur di bronzo abbia il corpo; immortal vita
     Se non abbia però. Voi fuor del gitto
     2180Delle sue pietre Argo tenete intanto,
     Fin che dall’opra mia domo non cada.
Tanto disse, e al suo detto obbedïenti
     Sottrassero scïando alle gittate
     Delle pietre la nave, attenti a quanto

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     2185Oprar d’inopinato ella s’appresta.
     Ella una falda del purpureo peplo
     Stendendosi su l’una e l’altra gota,
     Salì su ’l palco, e per la man Giasone
     Pigliandola, guidolla in fra li banchi.
     2190Là con magiche voci ella invocando
     E molcendo le Parche, avide e preste
     Cagne d’Averno, delle umane vite,
     Divoratrici, e volteggianti in aere
     A dar caccia a’ viventi, umilemente
     2195Tre volte inchina le chiamò, tre volte
     Le supplicò; poi con nocivo intento
     E sguardi infesti affascinò le luci
     Del bronzeo Talo, e tutta in ira accesa
     Gli soffiò contro un pestilente fiato
     2200Di fiera rabbia, e gli schierò dinanzi
     D’atre orribili larve una caterva. —
     Giove padre, stupor grave e paura
     M’agita il cor, se non da morbi solo,
     Se non sol da ferite a noi vien morte,
     2205Ma da lunge pur anco altri la vita
     Toglier ne può. Così colui che bronzo
     Era pur tutto, alla letal potenza
     Della maga Medea domo soggiacque;
     Chè schiantando una roccia a tener lungi
     2210Il naviglio dal porto, a un scabro masso
     Il malleolo percosse, e tosto un sangue
     Ne scorse fuori a liquefatto piombo
     Rassimigliante, e non potè lung’ora

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     Reggersi in piè su ’l prominente scoglio;
     2215Ma siccome ne’ monti un alto abete,
     Che con le scuri i tagliatori han solo
     Fesso a mezzo, e dal bosco indi partîro;
     E quel da’ venti pria scosso la notte
     Tentenna, e rotto alfin cade dal ceppo;
     2220Tal colui che su’ piedi ancor si resse
     Per alcun tempo, esanimato al fine
     Precipitò con gran fracasso a terra.
Stetter gli eroi tutta la notte in Creta;
     Poi nell’aurora alzarono un delubro
     2225A Pallade Minoide, e rifornita
     Quindi d’acqua la nave, entrano, e forza
     Fanno di remi a superar la punta
     Del Salmónide capo. Ma il Cretense
     Navigando ampio mar, quella li colse
     2230E gli atterrì, quella terribil notte
     Che Catulada appellano. Di stella,
     Nè di luna lucea raggio veruno:
     Occupa il cielo un negro orrore, o s’altra
     Tenebra mai fuor dai profondi abissi
     2235Uscì nell’aria, e più non sanno ormai
     Se in mar son essi o nell’Averno; e al mare
     S’abbandonâr del lor cammino ignari.
     Ma Giason, protendendo alto le mani,
     Febo chiama a gran voce, e di salvarli
     2240Supplice il prega; ed all’afflitto il volto
     Irrigavan le lagrime. Promise
     Molti a Delfo portar, molti ad Amicla,

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     Molti all’isola Ortigia egregi doni.
     E tu dal cielo, o Latonide, udisti
     2245L’umile priego, e l’accogliesti, e ratto
     Scendesti al mar su le Melantie rupi,
     E i piè su l’una delle due fermati,
     Alto brandisti con la destra l’arco
     Di lucid’oro, e una smagliante luce
     2250Tutt’all’intorno lampeggiò da quello.
     Fra le Sporadi allor picciola ad essi
     Isola apparve assai propinqua all’altra
     Picciol’isola Ippùride. Là tosto
     Gittâr l’ancore i Minii, e v’approdâro;
     2255E a splendere nel ciel presta di nuovo
     Tornò l’Aurora. Essi ad Apollo un bello
     Poser delubro entro ad un bosco ombroso,
     E fra l’ombre un altare; e Febo Eglete
     Nomâro il dio per la smagliante luce
     2260Che rischiarolli, e d’Anafe diêr nome
     All’isola, cui Febo a lor mostrava.
     Quivi fêr poi que’ sagrificii al nume,
     Che apprestar potea l’uomo in sì deserta
     Ignuda spiaggia; e allor che poi libando
     2265Sparsero l’acqua insù gli ardenti stizzi,
     Più di Medea le Feacensi ancelle
     Non poterono il riso entro a’ lor petti
     Chiuso tener; chè visto avean frequenti
     Nella reggia d’Alcinoo solenni
     2270Sagrificii di tauri. Ebber diletto
     Di quel ghigno gli eroi che di procaci

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     Motti le punser di rimbecco; e quindi
     Una di scherzi s’avvivò tra loro
     Piacevol gara, una contesa arguta.
     2275Su quell’isola poi da quel bizzarro
     Giuoco usanza venìa, ch’uomini e donne
     Si motteggino a prova allor che fanno
     D’Anafe al tutelare Eglete Apollo
     Di sagrificii espiatorio onore.
2280Quando di là sotto tranquillo cielo
     Scioglieano i Minii, Eufemo allora un suo
     Notturno sogno (venerando il figlio
     Di Maja) ricordò. Parvegli al petto
     Stretta tener quella divina gleba,
     2285E di candide stille del suo latte
     Tutta irrigarla, e della gleba poi,
     Ben che picciola fosse, una formarsi
     Donna a vergine pari. Ei di furente
     Amor preso per lei con lei mischiossi;
     2290Ma poi glie n’ dolse, e qual fanciulla pianse
     Che congiunto con donna egli si fosse,
     Cui del suo latte avea nudrita. Ed ella
     Con dolci detti a confortar lo prese:
     Prole io son di Triton; de’ figli tuoi
     2295Nudrice io sono, e non tua figlia, o caro.
     A me padre Triton, Libia fu madre;
     Ma tu dammi compagna alle marine
     Di Nereo figlie ad abitar nel mare
     Presso ad Ànafe. Io poi fuori dell’acque
     2300Alla luce del Sol, quando fia tempo,

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     Emergerò de’ tuoi nepoti ad uopo. —
     Ciò gli venne a memoria, e consultarne
     Volle Giason, che ponderando in mente
     Gli oracoli d’Apollo, a lui rispose:
     2305Viva! Te al certo un glorïoso attende
     Eccelso onor: se quella gleba in mare
     Tu getterai, faran gli dei di quella
     Un’isola che fia soggiorno ai figli
     De’ figli tuoi; poichè Triton la tolse
     2310Dalla Libica terra, e a te la diede
     Ospital dono. Altro immortal che desso
     Non si fece a te innanzi, e a te la porse.
Questo disse, ed Eufemo il suo responso
     Non a vuoto mandò. Lieto di quella
     2315Oracolar promessa, in mezzo all’onde
     Gittò la zolla, e l’isola Callista
     Su da quella spuntò, sacra nudrice
     De’ nepoti d’Eufemo. Essi da pria
     Stanza tenean nella Sintiaca Lenno;
     2320Di là cacciati dai Tirreni a Sparta
     Trasmigrâr di soggiorno; e Sparta alfine
     Abbandonata, all’isola Callista
     Tera ne li adducea, figlio valente
     D’Antesïone, e l’isola da lui
     2325Tera poi si nomò. Ma fûr vicende28
     Giunte da poi che più non era Eufemo.
Con presto corso, un ampio mar lasciando
     Dietro sè gli Argonauti, afferrâr pria

[p. 277 modifica]

     D’Egina al lido. Una laudabil gara
     2330Quivi surse fra lor: chi primo giunga29
     Con l’attinta nell’idrie acqua alla nave;
     Poi che il bisogno ed il favor del vento
     Facean ressa al partire; e d’indi in poi
     De’ Mirmidoni i figli anfore piene
     2335Su gli omeri portando, ancor contendono
     Della vittoria nel pedestre corso.
Salvete, o prole di beati eroi;
     E questi carmi miei sempre più in pregio
     D’anno in anno a cantar sieno alle genti!
     2340Già de’ vostri travagli al glorïoso
     Termine io venni: or più cimenti a voi
     Non fu d’uopo durar poi che partiti
     D’Egina foste, e nè di venti insurse
     Nuova bufera. La Cecropia terra
     2345Via passando tranquilli, e fra l’Eubea
     D’Aulide il lido, e degli Opunzii Locri
     Pur le città dietro lasciando, entraste
     Nel porto Pegaséo festosamente.

FINE.

Note

  1. Var ai v. 64-66. Delle guardie custodi, e inavvertita
    Le trapassò. Di quinci andarne al tempio

    Statuì; chè ogni calle ne sapea,
  2. Var. ai v. 125-126. Nobil donzella, io per l’Olimpio Giove,

    Per lui lo giuro, e per la sua consorte,
  3. Var. al v. 140. La man protese alla natia sua terra
  4. Var. al v. 147. E co’ bianchi suoi rai l’odor ne sperda;
  5. Var. al v. 153. Vi portò d’Atamante il Minio figlio.
  6. Var. ai v. 203-204. Agognava il crudel d’arabo far pasto

    Con sue fiere mascelle. Ed ella un ramo
  7. Var. al v. 213. Che Medea gliene diè, tolse dal faggio
  8. Var. al v. 334. Che culla avean nella Tritonia Tebe.
  9. Var. al v. 346. E il gran fiume Tritone ampio-corrente,
  10. Var. ai v. 376-377. Entra, che pende su ’l Trinacrio mare,

    Su quel che giace della terra vostra
  11. Var. al v. 407. Corse più ratto co’ suoi Colchi Absirto,
  12. Var. ai v. 692-693. Isole molte il tragittar fra loro

    Malagevole fanno a’ naviganti.
  13. Var. ai v. 767-768. D’un faggio Dodonéo, Pallade in mezzo

    Della nave alla chiglia inserto avea.
  14. Var. ai v. 783-784. L’imposto priego; e a pia mestizia gli altri

    Atteggiati tenean china la fronte.
  15. Var. al v. 821. Udivano echeggiar gli acuti lai,
  16. Var. ai v. 997-998. Fu alla consorte del Saturnio Giove,

    Iri a lei l’avvisò poi che li vide
  17. Var. al v. 1153. Su dal letto Peléo balzando un tratto,
  18. Var. ai v. 1163-1164. L’animo di Peléo, che tutto espose

    Pur di Teti il comando a’ suoi compagni.
  19. Var. al v. 1211. Elle tosto il ritorno avrebber tolto,
  20. Var. ai v. 1260-1261. Ne ’l tengon lungi, e d’ogni parte ad esse

    Bollendo intorno la marea spumeggia.
  21. Var. al v. 1369. De’ vostri genitori ancor la faccia
  22. Var. al v. 1461. Pigliar degg’io, che savio estimi ogni uomo,
  23. Var. al v. 1559. De’ Feaci i primati in ordin vanno,
  24. Var. al v. 1564. Percorrer chiaro aveane fatto il grido.
  25. Var. al v. 1926. Chi di qua, chi di là per rintracciarlo;
  26. Var. al v. 2062. L’Apia, ed il mar che da Minosse ha nome,
  27. Var. ai v. 2150-2151. E vogâr tutta notte e il dì seguente
    E la notte successa. Alfin da lunge

  28. Var. al v. 2325. Tera detta poi fu: vicende tutte
  29. Var. al v. 2330. Ivi nacque fra lor: chi giunga prima