Gli Argonauti/Libro IV
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LIBRO IV.
Della vergin di Colco ora tu stessa
Dimmi l’angosce e i pensamenti, o Musa,
Figlia di Giove: in me la mente ondeggia
Nell’incerta credenza o se per trista
5Forza d’amore o per fuggir vergogna
Essa il popol de’ Colchi abbandonava.
Entro la reggia co’ primati suoi
Tutta la notte consultando Eeta,
Ordiva a’ Minii enorme inganno, in cuore
10Per lo vinto certame ardendo d’ira;
Nè il successo credea senza alcun’opra
Delle proprie sue figlie. Avea Giunone
Un timore affannoso in cuor gittato
A Medea, che tremava a par di damma,
15Cui tra le macchie di fonda foresta
Vociar di cani esterrefece; e tosto
Argomentò che non occulta al padre
Rimasta sia la data aita, e ch’ella
Tutta in breve a patirne avrà la pena.
20Le conscie ancelle anco paventa: gli occhi
Le s’empiono di foco; un rombo orrendo
Negli orecchi le freme; ad ora ad ora,
La man mette alla gola; ad ora ad ora
Svellendosi i capelli, in suon lugubre
25Ùlula, geme; e morta allor sarebbe
Di suo voler, tosco inghiottendo, e scemi
I consigli di Giuno avrìa d’effetto,
Se la dea l’atterrito animo suo
Non induceva a via fuggirne insieme
30Co’ figliuoli di Frisso. In ciò fermata,
Senti il cuor dall’ambascia allevïarsi,
E dal sen tostamente versò tutti
I raccolti veleni in piccol’arca;
Indi il letto baciò; baciò le porte,
35E toccò le pareti, e delle chiome
Tronca una lunga ciocca, entro la stanza
Di sè lasciolla virginal ricordo
Alla madre, e con voce gemebonda:
Questi (disse) di me, questi partendo
40Miei capelli ti lascio, o madre mia:
Calciope, addio; tutta la casa, addio....
Deh perduto, o stranier, t’avesse il mare
Pria di giungere a Colco! Ella sì disse,
E dagli occhi versò lagrime molte;
45E come fuor del suo beato tetto
Va donzella, cui schiava un rio destino
Dalla patria divelle, e che non mai
Usa a fatiche, e nuova alla sventura,
Con tremor le servili opre s’avvia
50A imprender sotto alla difficil mano
D’aspra signora; e tale uscìa di casa
La vergine amorosa. Innanzi a lei
Della porta spontanëe le valve
Si disserrâr retrocedendo al suono
55Della magica voce; ed ella corse
Nuda le piante per anguste vie,
Con la manca avvolgendo in su le gote
Fino alla fronte il peplo, e con la destra
Su da terra tenendo alto e raccolto
60Della tunica il lembo. Frettolosa
Per oscura viuzza alle torrite
Mura della città giunse tremante,
E fuor n’uscì, nè la conobbe alcuna
Delle guardie custodi, e le trascorse
65Inavvertita. Era sua mente al tempio
Quinci andar, chè ogni calle ne sapea,1
Usa spesso aggirarsi in fra le tombe
De’ morti corpi, ed ir cogliendo infeste,
Come fan maghe donne, erbe e radici;
70Ma di trepida tema il cuor nel petto
Le palpitava. La Titania Luna,
Spuntando allor dall’orizzonte, vide
Il vagar dell’insana, e se ne piacque
Intensamente, e fra sè stessa disse:
75Non io dunque, non sola io vo furtiva
Di Latmo all’antro, e non d’amore io sola
Per lo vago mi struggo Endimione.
Ben sovente a’ tuoi carmi incantatori
Per la nostra amistanza io mi ritrassi
80Te lasciando tranquilla in notte buja
I veneficii tuoi, tue dilette opre,
Esercitar: còlta tu stessa or fosti
D’egual malore: un demone molesto
Grave angoscia ti fece esser Giasone.
85Or va: tu ancor, benchè sì accorta e saggia,
Soffrir d’amore i duri affanni impara.
La dea sì disse, e ratto i piè per via
Portavan l’altra. Alacremente il margo
Soprammontò del fiume, a sè di contro
90Lucer veggendo uno splendor di foco,
Cui nella notte ardean gli eroi festanti
Per la bella vittoria. Un alto grido
Ella mise fra l’ombre a chiamar Fronti
Di là dall’altra ripa, il minor figlio
95Ch’era di Frisso. Egli e i fratelli suoi
E lo stesso Giason della fanciulla
Avvisaron la voce; stupefatti
Fecer tutti silenzio immantinente,
Chè argomentâr quel ch’era in vero. Il grido
100Tre volte ella iterò; Fronti tre volte,
Esortanti i compagni, a lei rispose,
E gli eroi prestamente incontro ad essa
Sospinsero la nave. E ancor gittato
Non han le funi su l’opposta riva,
105E un salto già dagli alti banchi a terra
Spiccò Giasone, e Fronti appresso ed Argo,
Due de’ figli di Frisso. Ella i ginocchi
Con ambe mani ad essi abbraccia, e dice:
Deh, amici, or deh me misera salvate,
110E voi stessi, d’Eeta! Manifesto
È fatto il tutto: ogni consiglio è indarno.
Via fuggiam su la nave anzi ch’ei salga
Suoi veloci cavalli. Io l’aureo Vello
A voi darò, del guardian serpente
115L’occhio addormendo. Ospite, e tu qua in mezzo
De’ tuoi compagni in testimon gli dei
Chiama delle promesse, onde affidata
Già tu m’hai, nè voler me di qua lunge
Fuggita, e scevra d’ogni mio congiunto,
120Render di biasmo e d’ignominia oggetto.
Così con ansia ella pregò. Gli spirti
S’allegrâr di Giasone, e lei caduta
A’ suoi ginocchi innanzi lenemente
Rialza, abbraccia, e sì dicendo incuora:
125Nobile donna, io per lo stesso il giuro
Olimpio Giove e per la moglie sua2
Pronuba Giuno, entro mie case io giuro
Sposa mia collocarti allor che fatto
Avrem ritorno alla contrada Ellena.
130Tanto disse, e la destra mano impose
Nella destra di lei. Dessa gli esorta
Di spingere la nave al sacro bosco
Subitamente, a fin che ascosi ancora
Dall’ombre della notte il Vello trarne
135Possano, fuor del suspicar d’Eeta.
Detto e fatto fu insieme. Ascesi in nave,
Tosto da terra la spiccâr: gran tonfo
Fêr nell’acqua co’ remi i vogatori:
Trasalì la donzella, e vòlta indietro,
140Alla terra natìa stese le braccia,3
Fuor di sè quasi; ma Giason con blandi
Detti affidolla, e n’acquetò gli spirti.
Nell’ora che gli agresti cacciatori
Sciolgon gli occhi dal sonno, e co’ lor cani
145Escon l’aurora a prevenir, che l’orme
Delle fiere cancelli insù ’l terreno,
E ne sperda l’odor co’ bianchi raggi;4
In quell’ora Giason con la donzella
Scese di nave, e il piè poser su ’l prato
150Che ancor si noma del Monton Riposo,
Però che in esso le stanche ginocchia
Piegò quello a posar, quando su ’l dorso
Portonne il Minio d’Atamante figlio.5
Quivi fuliginosi i fondamenti
155Erano ancora dell’altar, che a Giove
Protettor de’ fuggenti eresse un giorno
Frisso d’Eolo figliuolo, ostia immolando
Quel monton portentoso aurilanuto,
Siccome a lui benevolo venendo
160Mercurio impose. Ivi gli eroi lasciâro,
D’Argo al consiglio obbedïenti, i due,
Che per dritto sentier vennero al bosco,
Il gran faggio cercando, a cui da un ramo
L’aurea pelle pendea, simile a nube
165Che s’invermiglia a’ fiammeggianti raggi
Del Sol nascente. Incontro a lor protese
Il lunghissimo collo il fiero drago
Che co’ vigili sempre occhi da lunge
Venir li vide; e mise orrendi sibili,
170Sì che del fiume n’echeggîar le sponde
Quanto son lunghe, e quella selva immensa;
E l’udirono quei che di là molto
Dalla Titani d’Ea stanziano in fondo
Della Colchica terra appo le foci
175Del Lieo fiume, che dal letto uscendo
Del fragoroso Arasse entro del Fasi
Porta le sacre sue correnti, ed ambo
Sboccano insieme nel Caucasio mare:
Si svegliâr spaurite le novelle
180Madri, e affannose stesero le mani
Su i pargoletti che al lor sen raccolti
Dormiéno, e scossi al fiero suon trabalzano.
E come allor che da una selva ardente
Erompono di fumo ignei volumi,
185E dal basso nell’alto, e l’un nell’altro
Volvonsi sempre in vorticosi giri;
Così quel mostro in infinite rote
Iva torcendo e ritorcendo il corpo
Scabro d’orride squame. Innanzi ad esso
190Stette Medea: con sua voce soave
Fausto invocò, sommo de’ numi, il Sonno
A sopir quella belva, e la d’Averno
Possente dea nottivagante implora
A dar buon fine alla comincia impresa.
195Presso è Giason, non senza tema. Il mostro
Già rammollito a quelle dolci note,
Dalle attorte sciogliea spire la lunga
Spina del dorso, e su ’l terreno in molti
Si spianava gran cerchii, a par d’oscuro
200Fiotto che sovra abbonazzato mare
Sordamente fremendo si distende.
Ma il terribile capo alto levando,
Agognava il crudele ambo far pasto
Di sue fiere mascelle. Ed ella un ramo6
205Di ginepro allor còlto in medicati
Sughi intingendo, e magiche parole
Cantando, gli occhi a quel ne spruzza. Il grave
Di quel farmaco odor diffuso intorno
Gl’infonde il sonno; ivi dov’era, al suolo
210Posò obliqua la guancia, e lunge addietro
Si stendea per la selva attorcigliato
L’immane corpo. Allor Giasone, al cenno
Che gli diè la donzella, all’arbor tolse7
Le aurate lane; ed ella intanto il capo
215Alla fera molcea col medicarne,
Fin che invito Giason di ritornarne
Le fe’ seco alla nave, e in un con lei
Fuor del fosco n’uscìa luco di Marte.
E qual fanciulla della piena luna
220Che dall’alto le splende entro la stanza,
Sopra il fino suo peplo accoglie i raggi,
E mirando il bel lume, il cuor le gode:
Tal Giason s’allegrava alto levando
Con sua man l’aurea spoglia, e a lui le bionde
225Gote e la fronte imporporò di quella
Il vermiglio fulgor simile a fiamma.
Quanto il cuojo egli è poi d’una giovenca
D’un anno nata, o d’una cerva, a cui
D’Acheinéa dan nome i cacciatori,
230Quell’aurea pelle era cotanta, e greve
Per folta lana; e rilucea la terra
Dinanzi al piè dell’incedente eroe,
Ed egli or tutto steso la portava
Giù fino al suol su la sinistra spalla,
235Or la ripiega per timor che alcuno
Uom che incontri, o un iddio, non gliela tolga.
Già sulla terra si spandea l’aurora,
Quando allo stuolo ei giunsero. Stupore
Prese i Minii al veder la grande spoglia
240Che lampeggia al balen pari di Giove,
E v’accorre ciascun desideroso
Di toccarla e tenerla entro sue mani;
Ma lo vieta Giasone, e quella in nuovo
Drappo rinvolge; insù la poppa asside
245Poi la donzella, e così parla a tutti:
Non s’indugi, o compagni, a far ritorno
Al patrio lido. Il grande affar che un tanto
Travaglioso passaggio imprender fece,
E ne diè tanti affanni, è faustamente
250Per opra e senno di Medea compiuto.
Lei, che pur lo desìa, nelle mie case
Io condurrò consorte mia; ma voi
Qual si fu generosa ajutatrice
E di tutta la Grecia e di voi stessi,
255Salvatela; chè assai forte ho sospetto
Che dal fiume a impedirne in mar l’uscita
Sopravverrà con molte genti Eeta.
Parte or dunque di voi su i banchi assisi
Fate sforzo di voga, e l’altra parte
260Protendendo gli scudi a far riparo
Dagli ostili projetti, difendete
Della nave il viaggio. I figli nostri,
La patria cara, i venerandi padri
Ora in man son di noi: Grecia in noi fonda
265O d’ignominia o d’alto onor l’acquisto.
Disse, e vestì le bellich’armi. Un grido
Alzâr tutti d’assenso, invasi tutti
D’un divino ardimento; ed esso, il brando
Tratto dalla vagina, immantinente
270Taglia le amarre, indi alla vergin presso
S’assise a fianco del nocchiero Anceo.
Spingono il legno i rematori, e fanno
Per uscirlo del fiume impeto e foga.
Chiari al barbaro Eeta e a’ Colchi tutti
275Eran già di Medea l’amore e l’opre,
E già il popolo tutto a parlamento
Accoglievasi in arme. E quanti in mare
Flutti solleva il procelloso turbo,
O quante dalla selva a terra cadono
280Foglie d’autunno (e chi contar le puote?)
Tanti in numero i Colchi schiamazzando
Passâr del fiume oltre le rive. Eeta
Su bel cocchio venìa fastosamente
Con cavalli, onde il Sole a lui fe’ dono,
285Pari a’ soffii del vento: alto sostiene
Col manco braccio un tondo scudo: lunga
Face di pino ha nella destra, e a canto
Grande un’asta gli sta: de’ corridori
Regge Absirto le guide. In là già molto
290Fendea la nave il mar, spinta da forti
Remiganti, e dal corso in giù portata
Di quel gran fiume. Allor levando Eeta
Nel dolor di tal caso alto le mani,
Il Sole e Giove a testimoni invoca
295Di sì reo fatto, e fieramente a tutto
Il suo popolo intima, ove a lui presa
O su la terra o sovra l’onde in nave
Non adducan la figlia, ed ei non possa
Satisfar di vendetta il cuor bramoso,
300Essi di tutto il cruccio suo, di tutta
La sciagura che il preme, piombar grave
Su le lor teste sentiranno il peso.
Sì disse Eeta, e in quel dì stesso i Colchi
E varâr navi, e le arredâro, e a correre
305Presero in mar; nè un tanto stuol diresti
Esser di genti, ma uno storno immenso
D’augei che susurrando il mar trasvola.
Ma forte in poppa agli Argonauti il vento
Soffia per opra della Dea Giunone;
310Sì che giunga Medea celeremente
Al suol Pelasgo ad apportar malanno
Alle case di Pelia; ond’essi al lido
De’ Paflagoni su la terza aurora
Legarono la nave appo la foce
315Dell’Ali fiume; ed ella quivi impose
Uscir tutti del legno a far benigna
Con sacrificii Ecate dea; ma quanto
Fece la vergin poi nel rito sacro,
Nè alcun l’inchieda, e me non sia che inciti
320Di cantarlo talento: ho pia temenza
Di favellarne; ma il delubro e l’ara
Che in quel lido alla dea poser gli eroi
Stan de’ posteri ancora esposti al guardo.
Quindi il figlio d’Esone e gli altri anch’essi
325Rimembraron Fineo che lor prescrisse
Altro cammino al ritornar da Colco;
Ma qual si fosse ignoto è a tutti. E a tutti
Di saperlo bramosi Argo allor disse:
Ad Orcómeno andiam, chè d’uopo a voi
330Il passarvi dicea vaticinando
Quel verace profeta, a cui scontrati
Già vi foste. E per certo evvi altra via,
Cui de’ numi insegnâro i sacerdoti
Ch’ebbero a cuna la Tritonia Tebe.8
335Non ancor tutte risplendean le stelle
Che or si volgono in ciel, nè ancor la sacra
De’ Danai schiatta nominar s’udia:
Gli Arcadi Apidanesi eranvi soli,
Gli Arcadi, la cui gente anco alla Luna
340Esser dicon precessa, e si fêan cibo
Delle ghiande ne’ monti; e la Pelasga
Regïon non regnata era per anco
De’ Deucálidi illustri. Allor con molto
Celebravasi onor l’alma, ubertosa,
345Madre de’ primonati uomini Egitto,
E del fiume Triton l’ampia corrente,9
Da cui tutta si bagna e si feconda
L’Egizia terra. Acqua dal ciel su questa
Non piove mai, dal traboccar del fiume
350S’empion di spighe i dilagati campi.
Di quivi uscito un uom fama è che tutta
Scorresse Asia ed Europa e nella possa
De’ suoi guerrieri, e nel valor fidando,
Città molte conquise; e di coloni
355Le rifornì, parte fiorenti ancora,
Parte non più; però che d’indi in poi
Lungo numero d’anni accumulossi.
Ea sta in fior tutta volta, e i discendenti
Vi stan di quei che vi ponea quel Grande
360Ad abitarla. Le memorie antiche
Serban essi de’ padri e tutte in quelle
Della terra e del mar le vie descritte
Sono, e i confini, ad istruir chi prende
A far viaggio. Ivi segnato è pure,
365Corno sovran dell’Oceàno, un fiume
Largo, profondo, e d’oneraria nave
Portante il peso. Istro è nomato, e lunge
È l’origine sua, chè le sue fonti
Di là dall’Aquilon sgorgando mormorano
370D’insù l’alpi Rifée: lunga contrada
Fende in un alveo sol, ma ne’ confini
De’ Traci entrando, e degli Sciti, in due
Si parte, e quindi in questo mare Eusino
Getta l’acque con l’un, con l’altro ramo
375Rivolto altrove, nel profondo golfo
Entra che sovra al mar Trinacrio ondeggia,
A quel che giace della terra vostra10
Lungo le prode, s’egli è ver che fuori
Di vostra terra l’Achelóo prorompe.
380Tanto diss’egli, e lor la diva un fausto
Diè segnal portentoso, alla cui vista
Tutti acclamâr di quella via doversi
Tener la traccia, perocchè vêr quella
Un lungo solco di celeste luce
385Nell’aere si traea. Lieti per tanto,
Di Lico il figlio ivi lasciando, e il guardo
Pur rivolgendo a’ Paflagonii monti,
Correano il mar con dispiegate vele;
Nè Carambi appressâr, chè l’aure e il raggio
390Del celeste splendor furon lor guida
Fin che giunser del grande Istro alle foci.
De’ Colchi intanto altri, cercando indarno
Raggiungere i fuggenti, in fra le rupi
Cïanée tragittando, uscian dal Ponto;
395Altri, su’ quali avea comando Absirto,
Entrâr su per lo fiume in quella foce
Che Bella è detta, e precedendo i Minii,
Corser per quello infino al seno estremo
Del mare Jonio. Ove suo sbocco ha l’Istro,
400Ivi un’isola sta (Pence è nomata)
Triangolar, che verso il Ponto estende
Lunga la base, e si converge acuta
Contra il corso del fiume, ond’esso in due
Quivi si parte, ed ha nel mar due foci;
405Di cui l’una è Nareco, e l’altra al basso
Bella foce è nomata; e via per questa
Corser più ratto con Absirto i Colchi,11
E dell’isola i Minii infino al sommo
Navigaron per l’altra. Armenti e greggie
410Abbandonâr nelle vicine lande
Via fuggendo i pastori esterrefatti
Di quelle navi all’inusata vista,
Qual se marini immani mostri emergere
Visto avesser dall’onde, chè navigli
415Mai più veduti non avean nè a’ Traci
Misti gli Sciti, nè i Sigini mai,
Nè i Grancenii, nè i Sindi intorno al vasto
Laurio campo abitanti. Avean già i Colchi
L’Angùro monte e il più lontano scoglio
420Del Cauliaco passato; incontro a cui
L’Istro si scinde a due mari converso,
E il Laurio piano anch’esso, e dentro poi
Al Cronio mare entrati, a impedir tutti
Diêrsi i varchi e le vie, perchè d’ascoso
425Non passin quelli; e quei venian lor dietro
Giù per lo fiume, e riuscîr d’appresso
Alle due Brigeïdi isole sacre
Alla diva Dïana. Era nell’una
Il delubro di lei; sceser nell’altra
430Cauti i Minii a scansar l’ostil d’Absirto
Turba seguace, chè occupar s’astenne
Di tante in quel paraggio isole sparse
Sole pur quelle due, per riverenza
Della figlia di Giove; e l’altre tutte
435Affollate di Colchi i passi al mare
Precludean tutti; ed altre isole ancora
Di lor genti occupâr fin dove è il fiume
Di Salancone, e de’ Nestei la terra.
Troppo quivi infelice avrian la sorte
440Della battaglia i Minii, ei pochi incontro
A molti e molti; onde a cessar conflitto
Patteggiarono un patto: il Vello d’oro,
Poi che ad essi il promise Eeta istesso,
Ove il cimento avesser vinto, ad essi
445Di buon dritto rimanga, o sia che tolto
L’abbian con fraude, o con aperta forza.
Medea — chè questo è della lite il nodo —
Sia data in guardia, dallo stuol divisa
De’ Minii, all’alma di Latona figlia
450Fin che alcun di que’ Savii, a cui commessa
È delle leggi la ragion, sentenza
Proferisca, se ancor debba alle case
Tornar del padre, o se alla terra Ellena
Venir compagna agli Argonauti eroi.
455Ogni cosa in sua mente allor volgendo
La giovane Medea, sentì d’acuto
Duol senza posa esagitato il cuore;
E in disparte da’ suoi tosto chiamando
Giason, lui solo, il trasse assai da tutti
460Lunge, in lui fisa, e con sospiri e pianto:
Oh Esónide (gli disse), or qual fermaste
Di me partito? I fortunati eventi
T’hanno di tutto in pieno oblìo sommerso,
Nè di quanto dicevi al maggior uopo,
465Or più nulla ti cale? Ov’è di Giove,
Che de’ supplici ha cura, il giuramento?
Ove andâr le melliflue promesse,
Quelle, ond’io già non decorosamente,
Anzi con impudente ardir fuggii
470La mia patria, la mia splendida casa,
I miei stessi parenti, ogni più cara
Mia cosa in somma? E via lontano e sola
Portata per lo mar vo con le meste
Alcïoni, per te, per te che salvo
475Da’ tori e da’ Giganti, io de’ cimenti
Vincitor feci; e l’aureo Vello in fine,
Onde questo passaggio impreso avete,
Per mio mal senno il ricevesti. Ah! ch’io
Sovra le donne una grand’onta ho sparsa.
480Però figlia, sorella e moglie tua,
Fermo ho in Grecia seguirti; e tu mi sii
Protettor generoso, e non lasciarmi
Sola, senza di te, de’ giudicanti
La sentenza chiedendo. Ah no! tu stesso
485Fammi difesa, e fermo il dritto sia,
Ferma la legge che giurammo entrambo;
O tu qui tosto trafiggi col brando
Questa mia gola, a fin che degno io m’abbia
Premio così di mia demenza insana.
490Misera! se alla man del fratel mio
Quel giudice m’addice, in cui riposto
L’arbitrio avete di quel patto iniquo,
Come al cospetto io ne verrò del padre?
Molto orrevole in vero! E qual mai pena,
495Qual soffrir non dovrò duro governo
Per le audaci opre mie? Ma nè ritorno
Tu qual brami farai: deh no ’l permetta
La gran regina del Tonante sposa,
Del cui favor tu superbisci! Ed anco,
500Anco di me ti risovvenga, afflitto
Di sventure e travagli; e l’aureo Vello
Via da te come sogno si dilegui
Nell’ombra buja. Dalla patria tua
Te le mie furie cacceran tra breve,
505Poi che giusto non è che quanto io soffro
Per la tua sceleranza a vuoto cada
Invendicato. Un forte giuramento
Spietatamente hai spergiurato. A scherno
Me non più prenderete, e non a lungo
510Godrete, no, de’ vostri accordi in pace.
Così bollente di profondo sdegno
Favellava, e la nave ardere, e tutto
Por bramava a soqquadro, e nelle fiamme
Gittar sè stessa. A lei Giason, temendo,
515L’ira con blando ragionar molcea:
Pace, egregia donzella! E a me pur anche
Quest’accordo non piace, ma cercando
Solo andiam qualche indugio alla battaglia,
Un tanto nembo d’inimiche genti
520Ne sta intorno per te; chè quanti han sede
In questa terra, ardon di voglia tutti
Di dar mano ad Absirto, a fin ch’ei possa
Te qual captiva ricondurre al padre.
Certo, se noi veniam con tanti a pugna,
525Tutti morremo orribilmente, e acerbo
Più n’avremo dolor se te, morendo,
Preda a coloro abbandonar n’è forza.
Or questo accordo altro non è che inganno
Per trar quello a perir; nè per te sola
530Più daranno i vicini a’ Colchi aita,
Se lor manca il signor, quei che si vanta
Propugnatore e fratel tuo; nè pugna
Con soli i Colchi io canserò, se tôrre
Tenteran del ritorno a me la via.
535Sì blandendo la venne. Ella un funesto
Pensamento proferse: — Or ben, m’ascolta.
Poi che commesso ho il primo fallo, e rea
Per impulso divin fatta mi sono,
All’altre colpe aggiunger questa or vuolsi.
540Tu dell’oste de’ Colchi al movimento
Procaccia opporti; io nelle mani tue
Colui venirne alletterò con arte
(Di bei doni e d’onor tu l’accarezza),
Se pur quinci a partir potrò gli araldi
545Persuader, sì che da tutti solo
Meco ei rimanga a favellar: tu allora
(Se ciò ti giova, io no ’l ti vieto) a lui
Dà morte, e movi indi battaglia a’ Colchi.
Ambo sì convenuti, il grande inganno
550Composero ad Absirto, e a lui di molti
Mandâr doni ospitali e il sacro anch’esso
D’Issipile aggiungean purpureo peplo,
Che a Bacco già nella marina Dia
Elle stesse tessean le dive Grazie,
555E Bacco al proprio suo figliuol Teonte
Ne fe’ dono, e ad Issipile lasciato
Fu poi da questo; ella con altri e molti
Lavorii prezïosi ospital dono
A Giason lo porgea, peplo che mai
560Del contemplarlo e con la man toccarlo
Non ne potreste sazïar la dolce
Compiacenza; e da quello anche una diva
Fragranza uscìa, da poi che il Nisio sire
Suvvi ei stesso corcossi ebro di vino
565E di nettare, il bel petto palpando
Della Minoide vergine, da Creta
Pria con Téseo venuta, e su la spiaggia
Poi dell’isola Dia da lui lasciata.
Con gli araldi Medea ragionamento
570Tenea, lor con bel modo insinuando
Che appena al tempio della diva Absirto
Giunga al colloquio convenuto, e l’atro
Bujo diffuso abbia la notte intorno,
Ne partan essi, a fin che ordir segreta
575Possa trama con lui di tôrre a’ Greci
L’aureo gran Vello, indi con lui d’Eeta
Alle case tornar, d’onde per forza
A que’ stranieri a via menar l’han data
Di Frisso i figli. — E poi che lor ciò disse,
580Tal per l’etra e nell’aure una potenza
Di lenïenti farmachi profuse,
Che pur da lungi e dagli eccelsi monti
Attratto avrebbe anche un’agreste fiera.
Improbo amor, grande sciagura, grande
585Agli uomini di colpe incitamento,
Per te liti omicide e pianti e lutti
E angosce innumerabili travagliano
L’umana vita! Insorgi, o Dio, t’accampa
Incontro ai figli de’ nimici nostri,
590E spira in essi il reo furor che in petto
Infondesti a Medea. — Di qual crudele
Morte Absirto ella oppresse? A noi di canto
Questa fiera materia or s’appresenta.
Poichè nella a Diana isola sacra
595Quegli araldi lasciata ebber Medea,
Giusta il patto, di là spartitamente
Tornâr essi a lor navi, e nell’agguato
Giason s’ascose ad aspettarvi Absirto,
Indi i compagni suoi. Ratto in suo legno,
600Della suora tradito alle solenni
Promesse Absirto per lo mar varcando,
Nel bujo della notte alla sacrata
Isola scese, e alla sorella innanzi
Fattosi ei solo, la tentò co’ detti
605(Semplice qual fanciul che tenta il guado
Di torrente invernal, cui nè gli adulti
S’arrischiano passar), se a que’ stranieri
Macchinato avess’ella inganno alcuno.
Mentre di ciò tenean consulta, ed ecco
610Fuor dell’insidie repentinamente
Balzò Giason, nuda la spada in mano
Alto vibrando. La donzella il guardo
Volse a dietro, e ne’ veli si nascose
Per non veder l’uccisïon del suo
615Proprio fratello. E a lui Giason, siccome
Ammazzator di buoi fa con gran tauro
Alticornuto, avvisando suo colpo,
Calò a forza un fendente, al tempio innanzi
Che i Brigi abitator del lido opposto
620A Dïana inalzâr: nel pròneo quivi
Su le ginocchia il misero cascò;
Indi, spirando, con ambe le mani
Dalla ferita raccogliendo il sangue,
A lei, che rifuggia, fece le candide
625Bende del capo rosseggiarne e il peplo;
E con acuto obliquo occhio l’enorme
Fatto guatò la prepotente Erinne.
Troncò quindi Giason le parti estreme
Delle membra all’ucciso, e la ferita
630Tre volte ne lambì, tre dalla bocca
Il sangue ne sputò, siccome è rito
Ad espiar le proditorie stragi;
E il cadavere poi sotto la terra
Nascose là dove tuttor quell’ossa
635Fra le Absirtidi genti hanno riposo.
Tosto che i Minii sfolgorar da lunge
Vider la face, che inalzò Medea,
Convenuto segnal, spinser lor nave
Presso quella de’ Colchi, e tale han fatta
640Strage di lor, qual gli sparvieri fanno
D’uno stuol di colombe, o qual d’un gregge
Fieri leoni impetuosamente
Nell’ovile irrompenti. A morte un solo
Non ne fuggì, chè sulla torma tutta
645Si slanciâr come fiamma a farne scempio,
E anch’ei Giasone indi v’accorse, aita
Portar bramando a quei che più d’aita
Non avean d’uopo. Eran bensì di lui
Desiderosi e tutti ad una insieme
650Sedettero a tener savia consulta
Su le vie del ritorno. Anco Medea
V’ebbe suo loco; e primo allor fra tutti
Queste parole proferì Pelêo:
Consiglio è mio, che mentre è notte ancora
655Montiamo in nave, e con l’oprar de’ remi
Facciam cammino in parte opposta a quella
Ove stanno i nimici. Alla dimane
Essi veggendo ogni avvenuta cosa,
Non saran, credo, in un pensier concordi,
660Che a inseguirne li spinga. Orbi del loro
Duce e signor, n’andran divisi e spersi
Per discordi pareri, e, spersi quelli,
Facil fia del ritorno a noi la via.
Tanto diss’egli, ed approvaron tutti
665Dell’Eácide il detto. In nave ascesi
S’incurvâr sopra i remi, e non fêr posa
Che all’Elèttride sacra isola giunti
Fûr, che al fiume Eridáno è più vicina.
I Colchi appena ebber la morte appresa
670Del lor sire, volean correr per tutto,
L’Argo e i Minii cercando, e il Cronio mare.
Ma dall’etra Giunon con lampi e folgori
Li atterrì dall’impresa, e poi che l’ira
Tremavano del fiero offeso Eeta,
675Di ritornarne alla Sitèide terra
Ebber ribrezzo, e stabil sede altrove
Chi qua, chi là fermâro; ed altri a quelle
Venner isole stesse, ove afferrato
Aveano i Minii, e le abitâro, il nome
680Pur pigliando d’Absirto; altri del cupo
Nero Illirico fiume in su le sponde,
Ov’è di Cadmo e d’Armonia la tomba,
Eressero una ròcca, all’Encheléa
Gente confini; altri ne’ monti han sede,
685Che di Cerauni ebbero nome, quando
Di là cacciârli i fulmini di Giove,
Sì che all’isola opposta han vòlto il corso.
Poi che franco agli eroi d’ogni periglio
Parve il ritorno, a risolcar quel mare
690Diêrsi fin che il naviglio ebber legato
Nel terren degli Illei, che le aggruppate
Isole molte assai fra loro il passo
Fan difficile quivi a’ naviganti.12
Non più ad essi gl’Illéi nudrian, qual prima,
695Infesti sensi; anzi la via con essi
Disegnâr del ritorno, in dono un grande
Ricevendone tripode d’Apollo;
Chè due tripodi già Febo donati
Ebbe a Giason, quando alla sacra Delfo
700L’oracolo andò questi a consultarne
Su cotesto passaggio; e fato egli era
Che la terra, in che posti erano quelli,
Mai non vengan nimici a disertarla.
Però quel tuttavia presso all’illustre
705Illéa città ben giù nel suol profondo
Riposto sta, perch’uomo alcun no ’l vegga.
Or là i Minii più il re non trovâr vivo,
Illo, cui partorì Mélite bella
Tra’ Feaci ad Alcide — Alcide un giorno
710Di Naesiroo venuto era alla reggia
Là nell’isola Macri (a cui diè nome
La nudrice di Bacco) il fiero eccidio
Ad espiar de’ proprii figli, e quivi
Preso d’amore deflorò la Najade
715Mélite dell’Egèo fiume figliuola,
Ch’indi il forte Illo partorì. Ma questi
Poi che adulto si fe’ stanza non volle
Più in quell’isola aver sotto al cipiglio
Di Nausitoo regnante, e di Feaci
720Tolto seco un drappello, il Cronio mare
Prese a solcar, dal re Nausitoo stesso
Fornito ad uopo. E qui ristette, e morto
Fu da’ Méntori poi, mentre a difesa
Di sue mandre pascenti ei combattea.
725Ma come, o Muse, della Nave Argóa,
Come splendide ancor memorie e segni
Mostransi fuor di questo mare, e intorno
All’Ausonia contrada, e su le arene
Dell’isole ligustidi che nome
730Han di Stécadi? Or qual necessitade,
O qual ragion ne li portò sì lunge?
Qual di venti li spinse intensa forza?
Spento Absirto, grave ira il re de’ numi
Giove stesso prendea di quel misfatto,
735E segnalò che della strage atroce
Espurgarsi dovean giusta i consigli
Dell’Eéa Circe, e mille guai soffrire
Pria d’approdarsi al patrio suol: nessuno
Però de’ Minii ebbe que’ segni inteso,
740E l’Illèide paese abbandonato
Correan lungi, e lasciato avean già dietro
Quante isole Libùrnidi ricetto
Furon prima de’ Colchi, Issa e Discélado
E la piacente Pitiéa. Varcato
745Anco han Corcíra, ove Nettun la figlia
D’Asopo ad abitar pose, Corcira
Di-bella-chioma, per amor dal Dio
In Fliunte rapita. I naviganti
Che la veggon dal mar negreggiar tutta
750Per bruna selva, di Corcira Negra
Le ne fecero il nome. Oltrepassato
Mélita han pur, d’una piacevol aura
Favoreggiati, indi Ceroso eccelsa,
E più innanzi Ninféa, dove regina
755L’Atlàntide Calipso avea soggiorno;
E foschi intraveder credean nell’aere
I monti Acrocerauni allor che Giuno
Degli avversi disegni e dell’acerba
Contro a lor si fu accorta ira di Giove.
760Sollecita la dea che a salvo fine
Giunga il lor navigare, una tempesta
Suscitò contro, onde rapiti addietro
Dell’Eléttridi ad una isola incolta
Ritornavano; ed ecco, ecco fra loro
765Tutt’improvviso con umana voce
Alto la trave favellò, che fatta
D’un faggio Dodonèo, Pallade inserta
Della nave alla chiglia avea nel mezzo.13
Forte un terror tutti li prese udendo
770Quella voce, e di Giove annunzïarsi
Il grave sdegno; perocchè lor disse
Che nè di mar lunghissimi viaggi,
Nè tremende procelle eviteranno,
Se della cruda occisïon d’Absirto
775Non li ha Circe espiati; indi a Polluce
E a Castore imponeva i sommi numi
Pregar che ad essi dell’Ausonio mare
Apran la via che a ritrovar li guidi
La di Perse e del Sol Circe figliuola.
780Argo su ’l presso del mattin sì disse.
I Tindáridi in piè sorsero, e a’ numi,
Protendendo le mani, orâr devoti
L’imposto priego; e gli altri Minii al suolo
China intanto tenean mesti la fronte.14
785Scorrea la nave a piene vele e dentro
All’alveo entrâr dell’Eridàn, là dove
Percosso il petto da un’ignita folgore
Semiarso Fetonte un dì dal carro
Del Sol precipitò dentro a profondo
790Gorgo del fiume, che tuttora esala
Per l’ardente ferita un vapor grave;
Nè augello alcun, le lievi ale spiegando,
Può sovr’esso volar, ma piomba in mezzo
Al bollente lagume. Intorno a quello
795Stan l’Elíadi donzelle in alti pioppi
Trasmutate, infelici! a far lamento,
E lucide dagli occhi insù ’l terreno
Gocce d’elettro piovono, che al Sole
Seccansi su l’arene; e quando l’acqua
800Dell’atro stagno indi sommossa, e in alto
Spinta da soffio di mugghiante vento
Le rive inonda, allor giù tutte insieme
Nell’Eridano van rivoltolate
Con la gonfia corrente. Altro il racconto
805De’ Celti egli è: che lagrime d’Apollo
Quelle son, che in gran copia ei sparse un tempo,
Quando, del padre al minacciar, dal Cielo
Quivi discese, e all’Iperborea poi
Sacra gente migrò, pien di rancore
810Per l’ucciso figliuol, cui nell’opima
Laceria a lui Coronide divina
Partorì dell’Amiro appo la foce.
Tal fra’ Celti è la fama. I Minii intanto
Nè di cibi desìo, nè di bevanda
815Sollecitava, e a lieta idea nessuna
Si volgea la lor mente. Essi nel giorno
Giacevano languenti ed affannati
Dall’insoffribil puzzo, che dal fiume
Il fumante Fetonte ancor vapora,
820E nella notte dell’Eliadi suore
Udìan gli acuti luttuosi lai,15
E le lagrime lor, siccome stille
D’oleoso liquor, gocciâr su l’acque.
Del Rodano di poi nel cupo letto
825Entrâr, che nell’Eridano decorre,
E là dove con l’un l’altro si mesce
Rugghian l’onde allo scontro. Esce quel fiume
Dall’ima terra ove le porte e i seggi
Son della notte, e fuor di là correndo
830Parte nell’Oceán, parte ne sbocca
Nel Jonio, ed in parte entro il gran golfo
Della Sarda marina anco si getta
Da sette foci. Usciti poi dal fiume,
Passâr nelle lagune tempestose
835Che spandon di lor acque ampia distesa
Nelle terre de’ Celti. A trista sorte
Quivi incontro venìan, chè di quell’acque
Una corrente all’Oceán si volge,
E ignari i Minii eran già presso in quella
840Ad entrar, d’onde salvi ritornarne
Mal potuto avrian poi; ma giù dal Cielo
Giuno ratta scendendo, un forte grido
Mise dall’alto dell’Ercinio monte.
Scossi fûr da quel grido a un tempo tutti
845Da improvviso terror; chè orribilmente
Ne rimbombò l’ampio aere; e dalla dea
Vòlti a retro avvisâr qual del ritorno
Era ad essi la via. Scòrti da Giuno
Vennero alfine alle marine spiaggie,
850E di Celti e di Ligi a molti e molti
Popoli in mezzo incolumi passando,
Però che sempre intorno a lor diffusa
Tenea Giuno a coprirli un’atra nebbia.
Per la foce di mezzo in mar poi salvi
855Entrâr presso alle Stècadi per opra
De’ due figli di Giove; ond’è che altari
E sagrificii fermamente ad essi
Furon poi statuiti. E non di quello
Sol viaggio ebber cura: a lor diè Giove
860Protegger tutte in avvenir le navi.
Dalle Stècadi i Minii indi tragitto
Fêro all’isola Etalia, ove il sudore,
Onde per la fatica eran grondanti,
Si stregghiâr con piastrelle, e ancor sul lido
865Tinte di quel sudor giacciono sparse,
E dischi ed armi anco di loro, e un porto
Che Argòo per nome tuttavia s’appella.
Di là tosto partiti, e a lor cammino
L’onde solcando, le Tirrene spiagge
870Vider d’Ausonia, e poi che al porto illustre
Giunsero d’Ea, gittâr dal legno a terra
I canapi a legarlo, e Circe al lido
Trovâr, che il capo era a lavarsi intesa
Con le spume del mar, tutta, com’era,
875Esterrefatta da notturno sogno.
Di sua casa le stanze e della chiostra
Le pareti di sangue esser cosperse
Le parvero, e una fiamma divorarle
Tutti i farmachi suoi, con che trasmuta
880Ogni ospite che viene; ed ella poi,
In man togliendo di quel vivo sangue,
Spense la rossa vampa, e dal funesto
Terror quetossi; indi ridesta al primo
Albor nelle marine acque le chiome
885E le vesti tergea. Torma di fiere,
Non somiglianti alle feroci fiere,
Nè a forme d’uom, ma di commiste insieme
Diverse membra, la venian seguendo,
Come dietro al pastor dal pecorile
890Ne va un branco d’agnelli. Erano tali
Que’ corpi un dì, che del primiero loto
Varie membra accozzando in varie forme
La terra producea, dall’aere secco
Non assodata ancor, nè da’ cocenti
895Strali del Sol de’ troppi umori emunta;
Indi il tempo li scerse e li distinse
In diverse famiglie: or ben di quelli
Era tal la natura, onde gli eroi
Meravigliâr; quindi l’aspetto e gli occhi
900Affisando di Circe, agevolmente
Lei conobber sorella esser d’Eeta.
Ella, poi che rimossa ebbe la tema
Della notturna visïon, rivolse
Addietro i passi, e con la man cortese
905Fe’ lor maligno insidïoso invito
Di seguitarla; ma lo stuol de’ prenci
Di Giasone a’ comandi obbediente
Immoto stette. Il duce ei sol, con esso
La Colchica donzella, in via si mise,
910E proseguir fin che alla nobil casa
Giunser di Circe. Ella in suo cuor sospesa
Su ’l venir loro, di seder gl’invita
Sovra splendidi seggi; ma que’ due
Taciti, muti, al focolar di tratto
915S’addrizzarono, e come d’infelici
Supplici è rito, vi s’assiser sopra,
La vergine velandosi con ambe
Mani la fronte; ei vòlta al suol la punta
Del gran brando che al figlio avea d’Eeta
920Dato morte; nè l’uno ardìa, nè l’altra
Con aperte palpebre inalzar gli occhi.
Tosto Circe avvisò che per reato
Di sparso sangue a lei venian fuggiaschi;
E del Giove de’ supplici la santa
925Legge osservando, di quel Dio che molta
Vêr gli omicidi ira concepe, e molta
Cura ha pur d’aitarli, un sacrificio
Prese a far, con che puri ed espiati
Fannosi i rei che a supplicar ne vanno
930All’altrui focolare. E primamente
A purgar l’empio eccidio un novonato
D’una scrofa che gonfie ancor dal parto
Avea le zinne, ivi distese, e tronche
Della gola le canne, entro quel sangue
935Loro intinse le mani; indi con altre
Li purgò libazioni, il sommo Giove
Espiatore e vindice invocando
De’ supplici omicidi. E ciò compiuto,
Dalla casa spazzâr tutte lordure
940Najadi ancelle, che di tutto a lei
Rendean servigio; ed ella offe e molcenti
Pastumi intanto ardea su ’l foco in casa,
Sobrii voti aggiungendo a placar l’ira
Dell’Erinni tremende, e a far che Giove
945Benigno anch’esso all’un si porga e all’altra,
O sia che di straniero, o sia che lorde
Abbian le mani di cognato sangue.
Poi che a tutto diè fine, in piè levarsi
E adagiarsi li fece in ben politi
950Sedili; ed ella a lor s’assise in faccia,
E di lor uopo e del viaggio loro
Partitamente interrogolli, e d’onde
In sua terra venuti, e di sue case
Al focolare in supplichevol atto
955Si rifuggîro. E ciò chiedendo, in lei
La trista de’ suoi sogni rimembranza
Sottentrava a turbarla, e udir dal labbro
Della fanciulla il suon bramò del suo
Patrio linguaggio appena alzar la vide
960Gli occhi da terra; perocchè la prole
Tutta del Sol si manifesta ai raggi
Che dalle ciglia gettano da lunge
Splendor simile allo splendor dell’oro.
Dolcemente di tutto alla chiedente
965Nel Colchico sermon del crudo Eeta
Satisfece la figlia, e degli eroi
Disse lo stuolo, e il lor passaggio, e quanto
Travagliaronsi in duri abbattimenti,
E com’ella peccò per la sorella
970In mal punto amorosa, e in un co’ figli
Scampò di Frisso al minacciar tremendo
Del genitor; ma di parlar si tenne
Della strage d’Absirto; e nondimeno
Nulla ascoso alla mente era di Circe,
975Che però dell’afflitta ebbe pietade,
E così le rispose: Oh sventurata!
Una rea fuga indecorosa ordisti,
Nè a lungo, io credo, alla terribil ira
D’Eeta scamperai: forse ch’ei stesso
980Nell’Ellene contrade a far vendetta
Verrà del proprio ucciso figlio. Atroci
Fûr l’opre tue; ma poi che a me ne vieni
Supplicante, e congiunta anco mi sei,
Non male alcuno io ti farò, ma parti,
985Vanne dalla mia casa in un con questo
Stranier qual ch’egli sia, che sconosciuto
Hai per compagno, avverso il padre, eletto.
Non più al mio focolar, nè a’ miei ginocchi
Starti innanzi pregando: i tuoi consigli
990Non lodo io, no, nè l’indecente fuga.
Disse, e immenso dolor l’altra comprese:
Tirò il peplo su gli occhi, e ruppe in pianto.
Giason per mano allor la piglia, e tutta
Palpitante, tremante la conduce
995Fuor della soglia, e abbandonâr di Circe
Il palagio ambidue. Nè ciò nascoso
Fu del Saturnio alla consorte: a lei
Iride l’avvisò, visti che gli ebbe16
Uscir di là, però che Giuno ad essa
1000Spiar commise e riferirle il quando
Fêan ritorno alla nave. Or premurosa
La dea dunque le disse: Iride amata,
Se mai fida compiesti i cenni miei,
Or su, librata in su le rapid’ali,
1005Vammi Teti a chiamar, che fuor del mare
Esca e a me venga; assai di quella ho d’uopo.
Varca quindi alle spiagge, ove rimbombano
Le ferree incudi di Vulcan battute
Da pesanti martelli, e di’ che cessi
1010De’ mantici il soffiar fin che passato
Nè sia l’Argóo naviglio. Ad Eolo poi,
Eolo che a’ venti aeronati impera,
Vanne e gli esponi il mio voler, che tutti
Tenga i venti nell’aere sospesi,
1015Nè forte soffio il mar rabbuffi: il fiato
Sol di Zeffiro spiri in fin che giunti
Sien d’Alcinoo que’ prodi al suol Feace.
Si spiccò dall’Olimpo immantinente
Iride a quel comando, e fendè l’aere,
1020Le lievi ali scotendo, e giù s’immerse
Nell’Egeo mar, dove ha Neréo sue case.
Trovò Tetide in prima, e le fe’ conta
Di Giunon l’ambasciata, e d’irne a lei
Sollecitolla. Indi a Vulcan venuta,
1025Agevolmente di posar l’indusse
Le ferree mazze, e i mantici affumati
Si trattenner dal soffio. Eolo d’Ippote
Inclito figlio ritrovò per terzo;
E mentr’ella esponendo il suo messaggio
1030Dal precorso cammin prendea riposo,
Ecco Teti che in mar Nereo lasciando,
E le sorelle sue, poggia all’Olimpo,
E a Giunon si appresenta. A sè dappresso
Questa l’asside, e così a lei favella:
1035Or m’ascolta, alma Teti, odi che bramo
Di ragionar con te. Sai quanto in pregio
È nell’animo mio l’eroe Giasone
E i compagni a’ cimenti, e com’io salvi
Gli ho da cozzanti scogli, ov’arde e freme
1040Il furor di terribili tempeste,
E i marosi d’intorno a’ scabri sassi
Si rompono spumando. Or presso al grande
Promontorio di Scilla ed all’orrenda
Eruttante Cariddi è il lor cammino.
1045Io dall’infanzia tua ti fui nudrice,
Io medesma, e t’amai su l’altre tutte
Che hanno stanza nel mar, dacchè non mai
Consentisti nel letto entrar di Giove
Che di voglia n’ardea (sempre ha talento
1050Di cotesti diletti, o le immortali
Dive abbracciando, o le mortali donne);
Ma di me riverente e paventosa
Lo sfuggisti, onde irato ei giurò poi
Gran giuramento, che giammai consorte
1055Tu non saresti a un immortale Iddio;
E ritrosa pur anco ei non cessava
D’adocchiarti e inseguirti infin che a lui
Profetò la gran Temi esser destino
Che tu madre d’un figlio diverresti
1060Prestante più del proprio padre; ond’egli
Desïoso quantunque, allor la traccia
Di te lasciò per lo timor che un altro
Nume sorgesse ad occupargli il regno,
Ch’ei serbar volea sempre. Io de’ mortali
1065L’ottimo allora a te congiunsi in nozze,
Sì che grato al tuo cor fosse lo sposo,
E di lui tu figliassi. Al gran convito
Io chiamai tutti i numi, e in mano io stessa
Portai la face pronuba per segno
1070Di benigna onoranza. Or ben palese
Farti vo’ cosa che avverrà di certo.
Quando agli Elisii campi il figliuol tuo
Scenderà, cui del tuo latte bramoso
Or là negli antri di Chiron Centauro
1075Han le Najadi in cura, ivi è destino
Ch’egli sposo a Medea figlia d’Eeta
Divenga: or dunque alla futura nuore
Vieni in soccorso, ed a Peléo tuo sposo.
Perchè l’ira contr’esso è in te costante?
1080È ver, fallì; ma fra gli dei pur anco
Ate si mesce. Alla richiesta mia,
Cred’io, Vulcano entro gli ardenti fochi
Dal soffiar farà posa; Eolo de’ venti
Infrenerà le furïose buffe,
1085Sol Zeffiro spirar sempre lasciando
Fin che verranno de’ Feaci al porto.
Cura dunque tu pur la securtade
Del lor ritorno. Or sol periglio e tema
Son per essi li scogli e le grandi onde,
1090E tu con altre delle tue sorelle
Di camparneli adopra. E improveduti
Non lasciarli addentrarsi entro Cariddi,
Sì che tutti gli assorba, o nel funesto
Speco di Scilla, dell’Ausonia Scilla,
1095Cui di Forco produsse la notturna
Ecate (che Crateide anco si noma),
Perchè a lor non s’avventi, e non maciulli
Quella eletta d’eroi con sue voraci
Mascelle orrende. Or ben, tu stessa in quello
1100Stretto passo mortal guida la nave.
Disse, e Teti a rincontro: Ove stia queto
L’ardor vorace del Vulcanio foco,
E queti siano i turbinosi venti
Veracemente, io con fidanza (avversi
1105Anco i flutti mi sieno), io, sì, prometto,
Di Zeffiro spirando il lene fiato,
Quella nave salvar; ma tosto è d’uopo
Che a percorrere io prenda immensa via
Le mie sorelle a ritrovar, che all’opra
1110Mi sovvengan d’aita, e là pur vada
Ove sta quella nave, a fin che i prenci
Pensino a sciorre all’albeggiar del giorno.
Disse, e dal Ciel giù ne’ cerulei gorghi
Del mar tuffossi. Ivi a soccorso appella
1115Le Nereidi sue suore; ed elle accorrono
Alla chiamata. Annunziò Teti a loro
Di Giunone i comandi, e tostamente
Le mandò tutte al mar d’Ausonia; ed essa
Più rapida del lampo e più de’ raggi
1120Che il Sol vibra dall’alto insù la terra,
Via via per l’acque agilemente corse
Fin che pervenne sulla spiaggia Eea
Del Tirren continente. Ivi gli eroi
Trovò presso alla nave a dilettarsi
1125Col disco intesi, e col tirar dell’arco;
E con la punta della man toccando
L’Eácide Peléo (ch’era suo sposo),
Invisibile agli altri, ed a lui solo
Mostrandosi, gli disse: Or non più state
1130Seggendo qua su le Tirrenee rive.
Al nuovo dì della veloce nave
Dislegate i ritegni, alla parola
Di Giunone obbedendo ajutatrice.
Per suo comando le Nereidi tutte
1135Concorreranno a trar la nave in salvo
D’in fra le rupi che di Plante han nome.
Quinci è il vostro cammino. E tu non farmi
Conoscere ad alcun, quando me pure
Con quell’altre vedrai: poni ben mente
1140Di non più m’irritar di quando un giorno
M’hai contro a te di grave sdegno accesa.
Detto ciò, sparve a tutti sguardi occulta
Nel profondo del mare, e lui percosso
Di gran duolo lasciò, poi che veduta
1145Non l’avea più, dacchè la casa e il letto
Abbandonò di lui, forte adirata
Per cagion del divino infante Achille.
Nell’alta notte ella solea del figlio
Abbronzar su la fiamma il mortal corpo,
1150E d’ambrosia nel dì poi lo spalmava
Per rifarlo immortale, e la persona
Dalla trista vecchiaja preservarne.
Peleo dal letto insù balzando un tratto17
Vide il caro fanciullo entro le fiamme
1155Palpitante, e a tal vista un grido orribile
Inalzò, malaccorto! Essa, l’udendo,
Strappò il figlio dal foco, e ahi ahi gridante
Gittollo a terra; e fatta pari al vento,
Via, come sogno, s’involò di casa
1160Celeremente, e in mar sbalzò sdegnata,
Nè al tetto marital fe’ più ritorno.
Stupor, dolore or nuovamente strinse
L’animo di Peléo, ma tutta espose
L’ambasciata di Teti a’ suoi compagni.18
1165Cessâr questi i lor giuochi, e le vivande
Ammannirono tosto, e i letti, in cui
Cenati poi dormirono la notte.
Ma co’ suoi raggi appena il ciel ferìa
La lucifera Aurora, al lene spiro
1170D’un Zefiro soave essi da terra
Montâr sui banchi; l’àncora dal fondo
Su ritrassero lieti, e gli altri tutti
Armamenti ordinâr; dall’alta antenna
Spiegarono la vela, e un agil vento
1175Ne portava il naviglio. A vista in breve
Della florida fûro isola vaga
Ove le figlie d’Achelóo, le argute
Sirene con soavi melodie
Molcendo i naviganti, a perir traggono
1180Chiunque il fune alle lor prode allega.
Le partorì Tersicore leggiadra,
L’una d’in fra le Muse, ad Achelóo
D’amor congiunta; ed esse un dì cantando
In bel conserto a dilettar la figlia
1185Di Cerere prendean, vergine ancora;
E fu d’allor che parte augelli e parte
Apparvero donzelle, e sempre poi
Di lor facile spiaggia alle vedette
Vegliano attente, e a molti e molti il dolce
1190Ritorno ai lidi lor tolser, di tabe
Consumandoli quivi. Ed or nel passo
Degli Argonauti la voce soave
Dirizzarono ad essi, ed essi attratti
N’eran già dalla nave in quelle arene
1195I canapi a gittar, se il Tracio Orfeo,
D’Eágro il figlio, la Bistonia cetra
Tosto in man tolta, in concitato modo
Non facea risuonar forte di corde
E di voce un concento, a fin che ad essi
1200S’intronino gli orecchi; e oppresso il suono
Quindi restò delle femminee voci.
Zefiro intanto e l’echeggiante insieme
Onda da poppa in là spingean la nave,
E un indistinto modular di note
1205Mettean quelle nell’aure. Uno pur v’ebbe
Degli eroi, Bute, il valoroso figlio
Di Teleonte, che rapito al dolce
Cantar delle Sirene, in mar d’un salto
Slanciossi e a nuoto infra i commossi flutti
1210Verso lor si spingea. Misero! a lui
Tosto quelle il ritorno avrebber tolto,19
Ma d’Érice la diva alma Ciprigna
Pietà n’ebbe, e dall’onde in salvo a stanza
Su ’l Lilibèo benignamente il trasse.
1215Di lui dolenti i Minii oltre le ree
Cantatrici passâr, ma gìan del mare
Più naufragosi ad incontrar perigli;
Chè la stagliata rupe erta di Scilla
Di qua sorge, e di là s’ode estuante
1220Senza mai posa rimuggir Cariddi.
Mormoravan di sotto alle grosse onde
Più in là que’ massi erranti, a cui dal sommo
Vertice un tempo ardente fiamma uscìa;
Ed è l’aere di fumo ivi sì oscuro,
1225Che i rai del Sol non ne intravedi. Avea
Fatto tregua ai lavori allor Vulcano,
E tuttavolta il mare un vapor caldo
Esalava. Costà quali da un lato,
Quali dall’altro le Nereidi accorsero,
1230E dietro al legno la divina Teti
Ella stessa la mano all’ala porse
Del governale a ben drizzarne il corso
Tra que’ mobili scogli. E come allora
Che i delfin bonacciosi a galla in frotte
1235Volteggiano dintorno a presta nave,
E or dinanzi, or di retro, or dalle bande
Veggonsi, e gioja a’ marinier ne viene;
Sovra l’onde così leste le Ninfe
S’aggiravano intorno al legno Argóo,
1240Mentre Teti il guidava; e quando giunse
Presso alle Piante, delle vesti il lembo
Rialzando su’ candidi ginocchi,
Surse sovra que’ sassi e in mezzo al frangersi
De’ flutti, in doppia fila a paro a paro
1245Di qua, di là fêan forza. Il fiotto in alto
Spingea la nave, e gonfia l’onda intorno
Sovra gli scogli ergendosi fremea;
E quelle or su i marosi alto levate,
D’aeree forme avean sembianza, ed ora
1250Giù inabissate nel fondo più cupo,
S’immergeano del mare. In quella guisa
Che giovinette in arenosa piaggia,
La tunica su i fianchi alto succinta,
Giocano palleggiando un tondo globo:
1255L’una dall’altra lo riceve, e all’aere
Di rimando lo balza, ond’esso a terra
Non batte mai; tal le Nereidi a gara
Or questa or quella il celere naviglio
Spingon alto su l’onde, e da que’ scogli
1260Lunge il tengono sempre, e la marea
Bolle, spuma eruttando intorno ad esse.20
Sovra la vetta d’eminente roccia,
In piè stante, e il grave omero appoggiando
Al baston del martello, il re Vulcano
1265Le contemplava, e dal raggiante cielo
Le mirò Giuno, e con le braccia a Pallade
Tutta si strinse; un tal terror la prese.
Quanto egli è lungo il giorno a primavera,
Tanto hanno quelle travagliato a trarre
1270Da que’ scogli echeggianti il legno in salvo.
Con buon vento indi i Minii oltre correndo,
Giunser della Trinacria innanzi al prato,
Che i buoi pasce del Sole. Ivi, il comando
Della moglie di Giove appien compiuto,
1275Si tuffâr le Nereidi a par di merghi
Giù pel profondo; ed un belar d’agnelle
E un muggir di giovenchi a’ naviganti
Ferì gli orecchi. In rugiadosa landa
Faetusa, del Sol la minor figlia,
1280Guidava l’agne, argentea verga appesa
Al cubito portando, e guardiana
De’ buoi Lampezia in man vibra una mazza
Di lucido oricalco. In campo erboso
Videro gli Argonauti appresso un fiume
1285Pascolar quegli armenti; e un sol non v’era
Bruno corpo fra lor; bianchi eran tutti
A par del latte, e d’auree corna insigni.
Essi nel dì quinci passâr; la notte
Lieti corsero un lungo andar di mare,
1290Finchè dal ciel la mattutina Aurora
Vibrò sua luce a illuminar lor via.
Nel mar Ceraunio al Jonio golfo innanzi
Sta con due porti un’isola ferace;
Sotto al cui suol giacer la falce è fama
1295(Pace, o Muse, s’io narro istoria vieta
Malgrado mio!) quella, onde un dì Saturno
Le pudende del padre atrocemente
Troncò. Ma corre anco per altri un grido,
Che di Cerere diva agricultrice
1300La falce è quella. Ivi la dea già stette
Amorosa di Macri, ed a’ Titani
Ivi del grano mietere l’altrice
Spiga insegnò. — Drépani allor per nome
Detta fu quella terra, de’ Feaci
1305Sacra nudrice, ed i Feaci ei stessi
Di quel sangue d’Uran progenie sono.
Al lor lido or l’Argòa nave dal molto
Travagliar faticata a toccar viene
Con aure amiche dal Trinacrio mare;
1310E Alcinoo rege e il popol suo con sacre
Cerimonie festive ad essi fanno
Bella accoglienza. Intorno a’ Minii esulta
La città tutta, e qual di proprii figli
La diresti gioire; e anch’ei fra il popolo
1315Sì gioìan quegli eroi come se in mezzo
Fosser giunti d’Emonia. E pur su ’l punto
Fûr d’armarsi a battaglia, un tal di Colchi
Stuol numeroso approssimar fu visto,
Che del Ponto la foce e trapassando
1320Le rupi Cianée, venìan di loro
Ricercando la traccia. Essi Medea
Alla casa tornar del padre suo
Volean ricisamente, o con minacce
Gridando aspre, insolenti, a feral pugna
1325Intimavan dar mano, e tosto e poi
Al giungere d’Eeta. In lor di guerra
Tale ardente però voglia represse
Alcìnoo re che dell’entrambe parti
Senza battaglia la terribil lite
1330Volea disciorre. E la donzella impressa
Di mortale terror con caldi prieghi
Ora i compagni di Giason molcea,
Or d’Arete, d’Alcinoo consorte,
Le ginocchia stringendo: A te, regina
1335(Dicea), mi prostro, e tu mi sii benigna;
Non darmi a’ Colchi a ricondurmi al padre,
Se tu pur dell’umana gente sei,
Che per lieve fallir corre a ruina
Rapidamente. E così caddi anch’io
1340Dal buon senno di pria, non per insano
Furor lascivo. Il sacro Sole attesto,
Della nottivagante Ecate i santi
Misterii attesto: io non di là buon grado
Partii con gli stranieri; a questa fuga
1345Pensar mi fece un profondo terrore
Che al primo error m’assalse: altro proposto
Io non avea. La verginal mia zona
È tuttavia, qual nel paterno tetto,
Invïolata, intatta. Abbi pietade,
1350O veneranda, e m’addolcisci il cuore
Del tuo consorte. A te di vita un lungo
Dieno gli dei corso beato, e figli,
E onore, e gloria di cittade invitta.
Così ad Arete, gran pianto versando,
1355Ella prega prostrata; indi a ciascuno
Volgendosi de’ prenci: Io per voi (disse),
Prestantissimi eroi, per li cimenti
Vinti da voi son di terror compresa,
Io, per cui mezzo e posto avete il giogo
1360A que’ tori feroci, e quell’orrenda
Mèsse mieteste di guerrier sorgenti
Fuor della terra, io, per lo cui favore
L’aureo Vello, ad Emonia ritornando,
Recherete fra breve: or ben, quell’io
1365E patria e genitori e case e tutte
Della vita perdute ho le dolcezze,
E voi fatto ho la patria e i tetti vostri
Abitar novamente, e mirerete
De’ vostri genitori il volto ancora21
1370Con lieti occhi contenti; ma una dura
Sorte me scossa ha d’ogni orrevol lustro,
E con genti straniere errando io vado
Carca di biasmo. Ah paventate i patti
E i giuramenti violar; temete
1375La de’ supplici Erinne, e la vendetta
Pur degli dei se nelle man d’Eeta
Acerbissima pena a patir vengo.
Io non tempio, non ròcca, e non d’altronde
Ho rifugio e difesa: a voi mi volgo,
1380Soli a voi m’abbandono. Oh sciagurati
Di crudo e duro cuor, che non sentite
Nè pietà nè vergogna, or me veggendo
Di regina straniera alle ginocchia
Per disperazïon tender le braccia!
1385E sì quando a rapir quell’aureo Vello
Anelavate, avreste a guerra i Colchi
Tutti sfidato, e il fiero Eeta anch’esso;
E d’animo cadete or che di loro,
Di lor soli una banda è che v’insegue.
1390Sì dicea supplicando, e a cui prostrata
Le ginocchia stringea, quegli a fidanza
La rincorava, e le vietava il duolo;
E tutti nelle man l’aste appuntate
Scossero, e fuor delle vagine i brandi
1395Traendo, a lei di non fallir d’aita
Fêron promessa, ove incontrato avesse
Giudizio iniquo. Al faticato intanto
Stuol de’ prodi la notte sopravvenne
Dell’opre de’ mortali acquetatrice,
1400E tutta insieme addormentò la terra.
Ma di sonno a Medea nè un leggier velo
Le pupille adombrava, ed agitato
L’animo ognor le si volgea nel petto.
Come la pazïente vedovella
1405Torce il fuso di notte, e le fan lagno
Gli orfani figli intorno; ella dolente
Riga il volto di lagrime, pensando
Qual ne l’incolse miseranda sorte:
Di lacrime così Medea stillanti
1410Avea le gote, e da punture acute
Trafitto in sen le sobbalzava il cuore.
Della città nel regal tetto intanto
Alcìnoo re con l’onoranda sua
Sposa Arete nel talamo posanti
1415Lungo la notte avean fra lor consulta
Su la giovin di Coleo; e la consorte
S’accostò con parole accarezzanti
Al diletto marito: Oh sì, mio caro,
Salvami, sì, quest’affannata giovine
1420Da’ Colchi, e a’ Minii opra pur fa gradita.
Argo è vicina a questa isola nostra;
Son gli Emonii vicini; a noi d’Eeta
Non è presso la stanza; Eeta noi
No ’l conosciam, ma sol nomarlo udimmo.
1425Questa giovine poi, che tante angosce
Soffre, il cuor mi spezzò co’ prieghi suoi;
Deh no, signor, deh non la dare a’ Colchi
Da ricondurla al padre suo! Mal fece
Quando da pria l’ammansator de’ tori
1430Farmaco diede a quel garzone, e poi
(Come spesso facciam) fallo con fallo
Medicando, scampava all’ira atroce
Del fiero genitor; ma da solenni
Giuramenti Giason, siccome intendo,
1435Stretto s’è di condurla alle sue case
Legittima consorte. Or tu, mio caro,
Tu non farlo spergiuro, e per tuo fatto
Non sia che il padre in sua terribil ira
Soffrir faccia alla figlia orrido strazio.
1440Troppo son duri alle lor figlie i padri.
Contro alla bella Antìope Nittèo
Formò truce disegno; in mar gittata
Per tristizia del padre orrendi guai
Danae sostenne; e non di qua lontano
1445Pur di recente il dispietato Echeto
Nelle pupille alla propria figliuola
Cacciò di bronzo acute punte, ed ora
Bronzo in carcere bujo macinando
La meschina di stento si consuma.
1450Così Arete pregava; e della sposa
Godeva ai detti il cuor del sire, e questa
Le fêa risposta; Arete mia, con l’armi,
Con l’armi ancora io caccerei li Colchi,
Favorendo gli eroi per la donzella;
1455Ma di Giove sprezzar temo il sovrano
Giusto giudicio; e non conviene a vile
Anco Eeta tener, come consigli;
Chè re più forte altri non v’è d’Eeta,
E lontano quantunque, a Grecia guerra
1460Porterebbe volendo. Indi un partito
Pigliar degg’io, ch’ottimo estimi ogni uomo,22
Nè a te il celo. Se ancor vergine è dessa,
Farò tornarla al padre suo; se il letto
Marital già toccò, non del marito
1465Privarla io vo’, nè a’ suoi nimici darla,
Se già prole concetta ha forse in grembo.
Tal proferse sentenza, e quindi il sonno
L’occupò. La consorte il saggio avviso
In cuor si pose, e surta fuor del letto,
1470S’aggirò per la casa. Frettolose
Accorsero le ancelle, il ministero
A prestar di lor opra alla regina.
Essa l’araldo suo segretamente
Chiama, e gl’impon che da sua parte ingiunga
1475A Giason d’accoppiarsi alla donzella,
Nè più Alcìnoo pregar; chè statuito
Egli ha questa sentenza a’ Colchi esporre:
Che se Medea vergine è ancor, del padre
La darà nelle case a ricondurla;
1480Ma se con uom già s’abbracciò, non fia
Che all’amor dello sposo ei la ritolga.
Ciò udito, i piè ratto portâr l’araldo
Fuor della reggia: egli a Giason sen’ corre
Il fausto avviso a riferir d’Arete
1495E d’Alcìnoo la mente. Appo il naviglio
Nell’Ittico trovò porto gli eroi
Veglianti in armi alla città dappresso,
E lor disse il messaggio. A tutti il cuore
Ne giubilò, sì grato annunzio ei porse.
1490Un cratere agli dei tosto mescendo,
Siccome è rito, e santamente fatto
D’agnelli un sagrificio, in quella stessa
Notte apprestâro alla regal donzella
Il letto nuzïal nell’antro sacro,
1495Ove un tempo albergò Macri, la figlia
Di quel saggio Aristéo che primo seppe
Il lavoro dell’api, e gemer fece
Il pingue umor della compressa oliva:
E fu Macri colei che primamente
1500Nell’Abantide Eubea di Giove il figlio
Bacco accolse al suo petto, e l’arso labbro
Di miele gli spalmò poi che dal foco
Mercurio il trasse, e il diede a lei. La vide
Giuno, ed irata la cacciò di tutta
1505L’isola in bando. Ella per lunga via
Nel sacro de’ Feaci antro ne venne
A far soggiorno, e a quelle genti immensa
Largì dovizia. Or quivi i Minii un grande
Letto stesero, e sovra il rifulgente
1510Aureo Vello spiegâr per far più adorne
Quelle nozze e onorate; e fiori anch’esse
Varii e leggiadri vi recâr le Ninfe
Entro a’ candidi seni: a par di fiamma
Vivo chiaror le irraggiò tutte: un tanto
1515Dall’auree lane si spargea fulgore,
Che lor negli occhi una cupida voglia
Di toccarle accendea; ma le contenne
Religïon dal poner man su quelle,
Desïose pur molto. Altre son figlie
1520Del fiume Egeo; del Meliteo sui gioghi
Abitan altre; altre di campi e boschi
Eran cultrici, e convenir là tutte
Le fe’ Giunon che di Giasone ha cura;
Ed antro sacro di Medea si noma
1525Tuttavia quello, ove le Ninfe insieme
Composero gli amanti, e li velâro
Co’ lor pepli odoranti. In man fra tanto
Brandiscono gli eroi le bellich’aste,
Che d’improvviso l’inimica gente
1530Non irrompa a battaglia, e di frondosi
Ramoscelli la fronte inghirlandati,
Del talamo alla soglia in modulate
Voci Imeneo ne van cantando al suono
Della cetra d’Orfeo. Voler non era
1535Già di Giasone il celebrar sue nozze
Nella terra d’Alcìnoo, ma in casa
Del padre suo, reduce a Jolco; e questo
Pur divisato avea Medea; ma l’uopo
Or quivi all’opra marital li trasse.
1540Noi miseri mortali intera gioja
Mai gustar non possiamo; un che d’acerbo
Sempre i diletti a perturbar ne viene;
Quindi, benché di dolce amor godenti,
Stavan quelli in timor se troverebbe
1545Di quel re la sentenza adempimento.
Ma in suo divo fulgor surta l’Aurora
La nera notte per lo ciel disciolse,
E rideano le arene e i rugiadosi
Sentier lunghi de’ campi. Un rumorio
1550Nelle vie si propaga; il popol move
Per la cittade, e su la riva estrema
Son dell’isola anch’essi i Colchi in moto.
Tosto Alcìnoo s’avvia, giusta il disegno,
A promulgar di sua mente il decreto
1555Su la donzella. Ha l’aureo scettro in mano
Di giudicante, onde in città le liti
Sono con retto giudicar disciolte.
Cinti d’armi guerresche appresso a lui
De’ Feaci i più prodi a torma vanno;23
1560E fuor della città folla di donne
Affrettavansi uscir desiderose
Di veder quegli eroi; de’ campi accorsero
Anco i cultori, udito ciò; chè Giuno
Chiaro il grido n’avea sparso da prima.24
1565E chi scelto dal gregge ivi un agnello,
Chi una giovenca ivi adducea, non anco
Doma a fatiche, altri di vin ricolme
Anfore; e il fumo da lontan sorgea
De’ sagrificii. Il genio lor seguendo,
1570Portavano le donne adorni pepli
Di assai lavoro, e fregi d’oro, e quante
Han varie leggiadrie spose novelle.
Ben fu ad esse stupor di que’ prestanti
Il mirar le sembianze e le persone,
1575E d’Eagro fra lor l’inclito figlio
Che della lira al dolce suono, e al canto
Col bel calzare il suol battea. Le Ninfe
Tutte ad una, quand’egli in sua canzone
Motto fêa delle nozze, il dolce, il caro
1580Cantavano Imeneo; poi da sè sole,
Danzando a tondo, a te, Giunon, di laude
Modulavano un inno, a te che posto
Hai d’Arete nel cuor di far che conta
Pria d’Alcìnoo la mente a Giason fosse.
1585Or poi che il re la sua sentenza espose
Già del fatto connubio era la fama
Diffusa intorno. Ei stette fermo, e grave
Timor no ’l vinse, e non d’Eeta i fieri
Sdegni; inconcusso il giuramento ei tenne.
1590Ben conobbero i Colchi essere indarno
L’opporsi a lui che d’osservar sue leggi
Imponea loro, e allontanâr dai porti
Di sua terra lor legni; ond’ei tementi
Del proprio re le minacciate pene,
1595Umilemente lo pregâr d’accorli
Ospiti amici. E tra’ Feaci poi
Abitâr lungamente, in fin che a stanza
I Bacchìadi che d’Èfira son genti,
Vennero quivi. Allor migrâro i Colchi
1600Nell’isola a rincontro, e degli Abanti
Indi a’ monti Cerauni, ed a’ Nestei,
E ad Orico venian, ma dopo molto
Rivolgere d’etadi. Or delle Parche
Tuttavia quivi l’aere, e delle Ninfe,
1605Che nel tempio devoto al Nomio Apollo
Alzò Medea, di sagrificii ogni anno
Ricevono tributo. Allor che poi
Si partivano i Minii, Alcìnoo molti
Diè lor doni ospitali, e molti Arete,
1610E questa anche a Medea seguaci aggiunse
Dodici di Feacia elette ancelle
Del suo palagio. Drèpani lasciata
Hanno il settimo giorno; e lor da Giove
Un puro vento d’Orïente venne,
1615Dal cui soffio sospinti assai di via
Corsero, sì; ma non ancor dal fato
Era attinger l’Acaja a lor concesso,
Se travagli a patir non venian prima
Su le coste di Libia. E già quel golfo
1620Che d’Ambracia si noma, avean trascorso;
De’ Cureti le spiaggie a tese vele
Oltre avean già passate, e i varchi angusti
Delle Echinadi anch’essi; e lor la terra
Di Pelope apparìa, quando di Borea
1625Fiera bufera li rapì nel mezzo
Del Libistico mare, e nove notti
Quivi aggirolli, ed altrettanti giorni,
Fin che spinti poi fûro entro la Sirte,
D’onde ai legni tornar più non è dato,
1630Poi che in essa fûr presi. Ampie lagune
Vi son per tutto, ed alta un’alga e densa
Ricopre il suol, su cui con rumor sordo,
L’onda spumeggia. Una distesa immensa
V’ha di sabbia all’intorno, e là non muove
1635Nullo animante, e non aleggia augello.
La marea che dal lido ad ora ad ora
Retrocede, e di nuovo indi su ’l lido
Con furor vïolento erutta i flutti,
Li cacciò forte entro l’arena a tale
1640Che rimasa nell’acqua era del legno
Sol la parte postrema. Allor di nave
Balzaron fuori, e gran mestizia tutti
Occupò, non veggendo intorno intorno
Altro ch’aere, e una gran lama di terra
1645Che via via si distende, a par dell’aere,
Lontan lontano; e non ruscello alcuno,
Non sentier, non tugurio in qualche parte
Di pastor si vedea: tutto una muta
Cupa quïete possedea quel suolo.
1650L’un vòlto all’altro con animo afflitto:
E che nome (diceva) ha questa terra?
Ove spinti, ove mai n’ha la procella?
Oh perchè non ardimmo, il cuor francando
Da un insano timor, la stessa via
1655Rifar per mezzo a’ Cianei macigni?
Certo, avversante anche il voler di Giove,
Era meglio perire, un’animosa
Grande impresa tentando. Or che faremo,
Se ne astringono i venti a far qui sosta
1660Per qual sia breve tempo? ermo, deserto
Tanto questo terren lungi si stende!
Sì taluno dicea. Dal grave caso
Sbigottito, smarrito anco lo stesso
Reggitor del naviglio Ancèo soggiunse:
1665Ah di morte crudel tutti perimmo!
Scampo non v’ha. Tremendi guai soffrire
Dovrem gittati in su quest’erme arene,
Se da terra a soffiar prendono i venti,
Poi che lunge inviando il guardo intorno,
1670Veggo di mare un limaccioso fondo
In tutte parti, e l’onda ripercossa
Corre e si frange su le bianche sabbie.
Anco rotta e spezzata in trista guisa
Dalla terra lontan già questa sacra
1675Nostra nave sarìa, se non che il flusso
Il mar gonfiando, sollevolla in alto,
E in terra la portò; ma retrocessa
Or la marea, qua su ’l terren sol d’acqua
Tanto riman che a navigar non basta.
1680Però tutta speranza e di rimbarco
E di partenza esser precisa io dico.
Altri, se v’ha, qui sua perizia mostri,
E se brama partir, segga pur egli
Della nave al governo. Ah non vuol Giove
1685Con felice ritorno, ah no, non vuole
Dar compimento alle fatiche nostre!
Sì plorando diceva, e fêan tenore
Dell’afflitto al parlar quanti eran quivi
Di nautic’arte esperti, e a tutti il cuore
1690Di duol si strinse, e su le guancie a tutti
Si diffuse il pallore. E qual, simili
Ad inanimi spettri, i cittadini
Volvonsi per le vie se guerra o lue
Attendono funesta, o grandinoso
1695Nembo tutti de’ buoi sommerge e strugge
Gli operosi lavori; o se de’ numi
Sudino sangue i simulacri, e paja
Udir ne’ templi rimbombar muggiti;
O il Sol dal cielo a mezzo il dì la notte
1700Su ’l mondo adduca, e scintillar le stelle
Si veggano nell’alto; in pari imago
Que’ prenci allor su ’l lungo lido erravano
Mesti, scorati. Il tenebroso vespro
Sopravvenne, e con atto doloroso
1705L’uno dell’altro stringendo la mano,
Si disser vale; e ricercando il dove
Da solo a solo in su l’arena steso
Strugga l’animo suo, qua, là ciascuno
Andò a prender suo loco, e tutti il capo
1710Ne’ pallii avvolto, impransi ancor, digiuni
Giacquer tutta la notte e molto giorno,
Presso a morir di miseranda morte;
E in disparte le ancelle accolte intorno
Alla figlia d’Eeta un lamentoso
1715Mettean compianto; e qual da cava rupe
Non ancor volatii caduti a terra
Augelletti di nido, un pipilìo
Fan di querule voci; o come al margo
Dell’ameno Pattólo il flebil canto
1720Muovono i cigni, e il rugiadoso prato
Ne risona all’intorno, e il vago fiume;
Quelle donne così sparse di polve
Le bionde chiome, un doloroso lagno
Facean tutta la notte. E oscuramente
1725Pria di compier l’impresa, a ogni uomo ignoti,
Quivi spenti di vita i più prestanti
Rimanean degli eroi; ma di lor trista
Dura sorte pietade ebber le dive
Eroine di Libia, elle che quando
1730Raggiante in arme dal paterno capo
Fuor Minerva balzò, corsele incontro
Le diêr nell’acque del Triton lavacro.
Era il meriggio, e i rai del Sol più accensi
Ardean la Libia: esse a Giason dappresso
1735Stettero, e a lui con man lieve dal capo
Ritirarono il pallio. Ei volse altrove
Gli occhi, temendo di mirar le dee;
E palesi a lui solo esse con blandi
Detti molcendo ne venian l’affanno.
1740Oh misero, perchè tanto sconforto?
Ben del vostro passaggio alla conquista
Dell’aureo Vello a noi l’istoria è conta;
Conti i vostri travagli a noi pur sono,
E quanti in terra e quanti in mar vagando
1745Alti fatti compieste: abitatrici
Di deserti siam noi, dive eroine,
Protettrici di Libia, e di lei figlie.
Sorgi, e più di dolor non macerarti:
Sorger fa teco i tuoi compagni, e tosto
1750Che disciolto Anfitrite abbia il veloce
Carro a Nettuno, e voi la madre vostra,
Che lungo tempo vi portò nel grembo,
Retribuite di mercè dovuta
A’ sofferti travagli, e alla divina
1755Poi farete ritorno Acaica terra.
Dissero, e in un con la parola estrema
Sparvero a un tratto. Intorno il guardo volse
Giason; sedette insù la terra, e disse:
Deh propizie ne siate, o venerande
1760Romite dee! Ma su ’l ritorno il senso
Dell’oracolo vostro io non comprendo.
Bensì, raccolti i miei compagni, ad essi
Il ridirò, se trar se n’ possa un qualche
Lume. De’ molti è più veggente il senno.
1765Detto ciò rilevossi, e tutto ancora
Brutto di polve un lungo grido inalza
I compagni a chiamar, come leone
Che la compagna sua per la foresta
Cercando rugge, e a quel ruggito i boschi
1770Tremano da lontan su la montagna
E i buoi ne’ campi, ed i bifolchi orrore
N’hanno, e terror; ma non a’ Minii orrenda
La voce risonò del lor compagno
Che a sè li chiama. Intorno a lui raccolti
1775Si fur tosto con fronte al suol dimessa;
Ed ei presso alla nave essi e le donne
Seder fe’ insieme, e così tutto espose:
M’udite, amici. A me che in duolo assorto
Stava, tre dee che di caprine pelli
1780Erano avvolte dal sommo del collo
Giù per lo dorso, e se n’coprìan pur l’anche,
Di donzelle in sembianza a me sospese
Stetter sopra del capo, e con man lieve
Mi ritrassero il pallio dalla testa,
1785E m’imposer levarmi, e che voi tutti
Sorger pur faccia, ed alla madre vostra,
Che lungo tempo vi portò nel grembo,
Da voi si renda la mercè dovuta
A’ sofferti travagli allor che sciolto
1790Abbia Anfitrite di Nettuno il carro.
Io la mente chiarir d’oracol tale
Da me non valgo. Esse eroine e figlie
Dicean esser di Libia, e protettrici;
E quanto in terra e quanto in mar soffrimmo,
1795Tutto a loro esser conto. E poi vederle
Più non potei, chè oscura nebbia e nube
Surse fra mezzo, e agli occhi miei le ascose.
Tutti all’udir questo racconto i prenci
Meravigliâro; ed un maggior portento
1800Ecco a’ Minii apparì. Dal mar su ’l lido
Saltò un grande cavallo, alto portante
Folto di doppia aurata giubba il collo.
La salsa acqua, onde molle il corpo avea,
Giù si scosse d’un crollo, e via veloce
1805Corse a paro col vento. Allor Pelèo
S’allegrò tutto, e a’ congregati amici
Disse: Per certo, or di Nettuno il carro
Sciolto fu dalla man della diletta
Consorte sua. La madre nostra io tengo
1810Altra non sia che questa nave. È dessa
Che nel suo grembo ne portò, gravata
Di continui travagli. Orsù! con sforzo
Di tutte posse e su gagliarde spalle
Leviamla in alto, e sopportiamla addentro
1815Dell’arenoso suol vêr quella parte
Ove il cavallo il ratto piè sospinse.
Non andrà sotto terra a profondarsi,
Ma l’orme sue ne guideranno, io spero,
A qualche sen di navigabil mare.
1820L’opportuno consiglio a tutti piacque.
Così cantan le Muse; ed io ministro
Delle Pierie dee questa che udita
Ho certissima storia or canto anch’io,
Che voi, di regi o valorosi figli,
1825Con prestanza di forze e di virtude
Per le di Libia inabitate arene
Sorreggeste la nave e il tutto in essa
Su le valide spalle, e la portaste
Per ben dodici giorni ed altrettante
1830Lunghe notti. Or chi dir può la fatica
Ch’ei durâro e l’affanno? Veramente
Eran del sangue d’immortali dei,
Se tal ressero impresa, a cui li spinse
Necessità. Ma giunti a riva alfine
1835Alacremente del Tritonio lago,
Dagli omeri il naviglio in quel posâro;
Quindi simili a cani arsi di sete,
Avidamente a ricercar si diêro
Qualche fonte; chè aggiunto alla fatica
1840Erasi e all’ansia un sitibondo ardore;
Nè cercaronla invano. Al sacro campo
Vennero a caso in regïon d’Atlante,
Ove il Ladon terrigeno dragone
Pur dianzi custodìa le poma d’oro,
1845E l’Esperidi Ninfe intorno a quelle
Dolcemente cantavano. Ma ucciso
Poc’anzi il serpe dalla man d’Alcide
Giacea sotto quel melo. Ancor guizzava
La coda estrema; erane il capo e il tronco
1850Tutto privo di vita; e tal nel sangue
Gli han dell’idra Lernèa veleno infuso
L’Erculee frecce, che perian le mosche
Su le putride piaghe. Ivi le candide
Mani calcando su le bionde teste
1855Alto gemean l’Esperidi. Vêr quelle
Tutti corsero i Minii, e quelle a un tratto
Si mutâr quivi stesso in terra e polve.
Ma il portento divino Orfeo veggendo,
Mosse lor questo priego: Oh voi, leggiadre
1860E benevole dive, alme signore,
Deh pietose sostate, o che celesti
Dee voi siate, o terrestri, o nome abbiate
Di Ninfe di deserti abitatrici,
Oh Ninfe, oh d’Oceán progenie santa,
1865Appariteci innanzi, e ne mostrate
Qualche zampillo di petrosa fonte,
O qualche polla che da terra sorga
Di sacra linfa, a cui possiamo alfine
L’ardente sete estinguere. Se mai
1870Rieder poi navigando al lido Acheo
Dato ne fia, di mille doni a voi,
Prime a voi fra le dee, di libamenti
E sacre dapi renderem mercede.
Tal con debile accento ei fèa preghiera:
1875Pietà n’ebbero quelle, e primamente
Pullular fêr da terra un cespo erboso,
Dal cespo in alto poi lunghi rampolli
Spuntar fecero, e quelli in frondeggianti
Si protesero alfine arborei rami.
1880Espera un pioppo, ed Eriteide un olmo,
Egle divenne un sacro salcio, e quali
Erano pria, tali a veder da quelle
Piante si diêro, oh meraviglia! Ed Egle
Con dolci detti al lor desìo rispose:
1885Grande a’ travagli vostri alleggiamento
Qua venne al certo ad arrecar quel fero
Tristissim’uom che del dragon custode
Spenta la vita, ne involò partendo
Delle dee l’auree poma, onde gran duolo
1890Ricadde a noi. Venuto è jeri un crudo,
Un d’ardir prepotente, e di persona
Terribile, a cui sotto a un torvo ciglio
Lampeggiavano gli occhi: indosso avea
D’un immane leon la croja pelle;
1895D’olivo in man gran mazza; e quelle frecce,
Con che ferito ha questo serpe e morto.
Or ben, colui poi che il cammino avea
Fatto pedone, ardea di sete; intorno
D’acqua in cerca lo sguardo andò girando,
1900Cui trovata però mai non avrebbe;
Ma un sasso è qua presso al Tritonio lago,
Ch’egli o di proprio instinto, o che insegnato
Ciò gli fosse da un Dio, col piè percosse
Nell’ima parte, e un’abbondante vena
1905D’acqua fuor ne sgorgò. Con ambe mani
E col petto giù steso insù ’l terreno,
Tanto ne bevve dalla rotta pietra
Fin che, pari a giumenta, al suol giacendo,
Tutto n’ebbe satollo il cupo ventre.
1910Ciò disse appena, e di repente tutti
Corsero allegri al sospirato fonte,
Che ad essi Egle mostrò. Come ad angusta
Buca intorno s’aggirano affollate
Le operose formiche; o qual di mosche
1915Volar vedi uno sciame ad una sola
Goccia di miele; in pari guisa a quella
Scaturigine intorno agglomerati
Roteavansi i Minii. Ed un fra loro
Disse giojoso con grondanti labbra:
1920Oh fausto caso! Anche da noi diviso,
Or ecco, salvi ha i suoi compagni Alcide
Morïenti di sete. Oh se cercando
Dato fosse trovarlo in queste spiagge!
Tutti applausero al volo, e scelti i meglio
1925Atti a quest’opera, s’affrettâr partendo
Chi di qua, chi di là per farne inchiesta;25
Poi che i venti notturni avean sommossa
L’arena sì, che ogni vestigio, ogni orma
N’era scomparsa. I due di Borea figli
1930Tosto mossero in loro ali fidando,
Ne’ piè celeri Eufemo, e quei che lunge
Scerne, acuti vibrando occhi, Linceo.
Quinto fu Canto, cui de’ numi il fato
E il forte animo suo spinser d’Alcide
1935Alla ricerca per saper da lui
Ove lasciato egli ha d’Èlato il figlio,
Polifemo; chè a lui troppo era a cuore
Del suo compagno investigar la sorte.
Ma costui, poi che a’ Misii ebbe fondata
1940Un’illustre città, per lunghe vie
Camminando di terra Argo cercava;
Ma de’ Calibi giunto alle marine
Coste, la Parca ivi l’estinse, e a lui
All’ombra d’un gran pioppo in riva al mare
1945Posto fu il monumento. Or poi d’Alcide
Solo parve a Linceo lontan lontano
La figura veder, come taluno
O vede appena, o di veder gli pare
In fra le nubi la novella luna;
1950Però disse tornando a’ suoi compagni,
Che per correr ch’uom faccia a quella volta
Niun potrebbe arrivarlo. E sì ritorna
Il piè-celere Eufemo, ed ambo i figli
Del Tracio Borea tornano delusi
1955Di lor vana fatica. Ma te, Canto,
Spensero in Libia le funeste Parche.
Tu scontrando per caso un pascolante
Gregge, a’ compagni tuoi che n’avean d’uopo,
T’avvisasti condurlo: alla difesa
1960Delle pecore sue surto il pastore
Che le guardava, un gran sasso lanciando,
Morte ti diè; chè non di te men forte
Era Cafauro il guardïan, nipote
Di Febo e d’Acacállide fanciulla,
1965Di lei, cui fece il padre suo Minosse
Nella Libia migrar, mentre la prole
Portava in sen di quell’iddio concetta.
Ella poi quivi un nobil figlio illustre,
Che Anfitemi fu detto e Garamante,
1970Produsse a Febo. Anfitemi di poi
Mischiossi insieme con Tritonia Ninfa,
Ed essa Nasamon gli partoria,
E il gagliardo Cafauro, il qual fe’ Canto
Per salvar la sua greggia cader morto.
1975Ma non egli alle man vendicatrici
Sfuggì de’ Minii, appena hann’essi appreso
Il reo suo fatto; e dell’ucciso il corpo
Ritrovarono, e mesti e lagrimanti
Lo composero in tomba, indi alla nave
1980Trassero tutto di colui l’armento.
Da crudel fato anco in quel dì fu còlto
Mopso, d’Ampico il figlio. A lui non valse
Profetico saper; chè scampo alcuno
Non v’ha da morte. Ad evitar la sferza
1985Del cocente meriggio un fiero serpe
Sotto alle arene si giacea, non presto
Ad assalir chi non gli nuoce, e l’uomo
Che da lui fugge, ei d’inseguir non cura;
Ma qualunque animal che vive in terra,
1990L’atro veleno appena in sè n’accolga,
Non più lunga d’un cubito è per esso
La via dell’Orco; e nè Peon (se tanto
Dir lice apertamente) a medicarne
Pur sol varrebbe di que’ denti il tocco;
1995Poi che Perseo divino (Eurimedonte
Dalla madre nomato) allor che a volo
Passò sovra la Libia, al re portando
Della Gòrgone il capo allor reciso,
Le tutte gocce di quell’atro sangue,
2000Che a terra ne grondâr, divenner germi
Di quelle serpi. Ora il sinistro piede
Mopso avanzando, col tallon compresse
A quell’angue la spina; e quel per duolo
Ritorcendosi in alto, a lui di morso
2005Diè nella carne, e della tibia a mezzo
Gli ferì l’osso e il muscolo. Medea
Ne inorridì; ne inorridîr le ancelle:
Egli animoso la letal ferita
Si toccava, chè molto il duol non era.
2010Misero! nelle membra era già sparso
Il sopor della morte, e già sugli occhi
Gli si addensa una nebbia; grave a terra
Inchinandosi cade, e senza spirto
Irrigidì. Tutti i compagni intorno
2015Con l’Esonide eroe stetter colpiti
Di stupor, di dolore. Il morto corpo
Non potè sotto il Sol per pochi istanti
Pur rimaner; chè infracidir le carni
Gli fe’ tosto il veleno, e dalla cute
2020Putre umor ne gemea. Con ferree zappe
Immantinente una profonda fossa
Scavarono, e i compagni e le donzelle
Si reciser le chiome, afflitti tutti
Del suo caso infelice. In arme i prenci
2025Tre volte intorno gli girâr; compiuta
Quindi ogni cosa del funereo rito,
Gli ammontâr sopra la scavata terra.
Mentre in mar venteggiava un Noto ardente,
Saliti in nave ivan cercando un varco
2030Ad uscir fuori del Tritonio lago;
Ma il cercarlo era indarno, e tutto il giorno
S’aggirarono a caso. E come il serpe
Strisciando va per tortuosa via;
Quando l’ignea del Sol vampa lo scalda,
2035E fischiando qua e là dimena il capo,
E scintille di fuoco infurïando
Schizza dagli occhi, infin che poi s’imbuca
Per angusto forame; Argo in tal guisa
Una foce navale investigando,
2040Volteggiò lungo tempo. Ed ecco un tratto
Orfeo propon che dalla nave il grande
Fuori si tragga tripode d’Apollo,
E agl’indigeni dei porgasi in dono
Per un fausto ritorno. A quel consiglio
2045Scesero a terra, e del presente sacro
Fêr solenne profferta. Incontro a loro
Simigliante a garzon mosse il possente
Tritone, e dal terren tolta una gleba,
Ospital dono a lor la porse, e disse:
2050Questa, amici, prendete. Io prezïosa
Cosa non ho che ad ospiti dar possa;
Ma se le vie che portan quinci al mare
Anelate trovar, come sovente
Braman gli erranti in peregrini luoghi,
2055Io mostrerolle; chè mi fe’ perito
Di questo mare il padre mio Nettuno,
Ed hovvi impero; e ancor di qua lontani
Voi d’Euripilo il nome udiste forse,
Nato in Libia, di fiera altrice terra.
2060Ei sì disse, e alla zolla alacremente
Stese Eufemo le mani, e a lui rispose:
L’Attica e il mar che da Minosse ha nome26
(Se conoscenza, o eroe, tu n’hai), l’insegna
A noi, che te n’ chiediam, veracemente.
2065Qua di nostro voler non siam venuti,
Ma da fiere procelle ai lidi estremi
Di questa terra spinti, abbiam la nave
Per terrestre cammino a gran fatica
Fin qua portata, a questo lago; e ignari
2070Siam d’onde uscir per all’Achea contrada.
Tacque, e l’altro la mano protendendo
A lontan segno, e il mar mostrando, e un’alta
Foce del lago: Il varco (disse) al mare
È là dove più l’onda è cupa e nera.
2075Rupi che sponda fan d’ambe le parti,
Biancheggiano di spuma; angusto in mezzo
D’uscir dal lago è il passo; indi quel fosco
Mare al divino Pelopéo paese
Mena sopra di Creta. A destra mano,
2080Dal lago usciti, ite radendo il lido
Fin che giunti sarete ove la terra
Fa un gomito sporgente; e voi piegando
Intorno a quello il corso, indi securo
Fia ’l cammin vostro. Itene lieti, e nulla
2085Sia fatica, nè stento che alle vostre
Di gioventù gagliarde membra incresca.
Così benigno ei favellò. Su ’l legno
Gli altri salîr di brama impazïenti
D’uscir vogando da quell’acque al mare,
2090E diêr impeto ai remi. Allor Tritone
Il gran tripode prese, e dentro al lago
Immergersi fu visto; e più nessuno
Veduto l’ha, sì d’improvviso a un tratto
Col suo tripode sparve. A’ Minii il cuore
2095Gioì, che fausto alcun de’ numi ad essi
Occorso fosse, ed a Giasone invito
Fêr che la meglio in fra le tolte agnelle
Sagrificasse, ed una pia parola
Sovra l’ostia dicesse. Immantinente
2100Una ei ne scelse, e le tagliò la gola,
E così disse insù la poppa orando:
O nume che di questa ampia laguna
Presso al margo apparisti, o te Tritone,
Marin portento, o sia che Forco, o sia
2105Che ti chiamin Neréo del mar le figlie,
Deh propizio ne sii, deh fausto il fine
Del bramato ritorno a noi concedi!
Col finir della prece ei dalla poppa
Gittò nell’acque la scannata agnella;
2110E allor quel Dio tal su dall’onde apparve,
Qual veramente è in sua natura. E come
Quando l’uom dell’agon nel vasto circo
Mena veloce corridor che presto
È a far prova di corsa, e l’uom lo tiene
2115Per la folta criniera, e obbedïente
Quello il siegue, squassando alto la testa
Superbamente, e lo spumante freno
Fa mordendo scricchiar fra le mascelle;
Così il Dio della nave in man reggendo
2120La punta anteriore, al mar la trasse.
Era il corpo di lui da sommo il capo
Giù al dorso e a’ lombi sino al ventre in tutto
Simil di forme agl’immortali dei;
Ma di sotto de’ fianchi biforcuta
2125Gli si allunga una coda a quella eguale
D’una balena, e balte l’acqua a galla
Con le due spine, di falcati uncini,
Pari a corna di luna, armate in cima.
Il naviglio ei guidò fin che sospinto
2130L’ebbe nel mare, e di repente poi
S’affondò dentro l’onda. Alla veduta
Di tal portento un susurrante fremito
Misero i prenci; e quivi il porto Angòo,
Quivi d’Argo le insegne, ed a Nettuno
2135Posero altari, ed a Triton; chè tutto
Stetter ivi quel dì. L’alba seguente
Spiegâr le vele, e a destra man radendo
Quell’erma costa, ivano in là portati
Dallo spirar di Zefiro; su ’l tardo
2140Mattin giunsero poi del prominente
Gomito a vista, e dell’estenso mare
Di là da quello. Allor cessò d’un tratto
Zefiro, e insurse un veemente Noto
Che fe’ lieti gli eroi. Quando poi cadde
2145Il Sole, e l’astro vespertin rifulse,
Che gli stanchi arator mette in riposo,
Ogni vento acquetossi; onde le vele
Essi calando, e il lungo albero abbasso
Dechinando, diêr mano a’ lisci remi,
2150Tutta vogando quella notte e il giorno
E la notte seguente. Alfin da lunge27
L’aspra Cárpato apparve; indi tragitto
Far dovevano a Creta, isola a quante
Altre n’ha in mar sovreminente e illustre.
2155Ma il bronzeo Talo da uno scabro scoglio
Rotte schegge scagliando incontro a loro
Che nel porto Dittèo spinta han la nave,
Legarne a terra non lasciò le funi.
Della bronzea radice era costui
2160(E superstite ei sol), di que’ che nati
Fûr da frassini in un co’ semidei,
E in Europa la guardia a lui di Creta
Giove assegnò, triplice giro in essa
Imponendogli far co’ piè di bronzo;
2165Chè di bronzo era desso, in tutto il resto
Del corpo invulnerabile, ma sotto
Al calcagno una vena avea di sangue
Presso alla noce, e una sottil membrana
Ha il destin di sua vita e di sua morte.
2170Dal periglio costretti e dal timore
Tosto i Minii la nave remigando
Arretrârno, e da Creta ahi! gl’infelici
E di sete e d’affanno travagliati
Iti lunge sarian, se a ritenerli
2175Così ad essi Medea non favellava:
Date ascolto al mio dire. Io penso, io sola,
Domar quest’uom, qual ch’egli sia, se tutto
Pur di bronzo abbia il corpo; immortal vita
Se non abbia però. Voi fuor del gitto
2180Delle sue pietre Argo tenete intanto,
Fin che dall’opra mia domo non cada.
Tanto disse, e al suo detto obbedïenti
Sottrassero scïando alle gittate
Delle pietre la nave, attenti a quanto
2185Oprar d’inopinato ella s’appresta.
Ella una falda del purpureo peplo
Stendendosi su l’una e l’altra gota,
Salì su ’l palco, e per la man Giasone
Pigliandola, guidolla in fra li banchi.
2190Là con magiche voci ella invocando
E molcendo le Parche, avide e preste
Cagne d’Averno, delle umane vite,
Divoratrici, e volteggianti in aere
A dar caccia a’ viventi, umilemente
2195Tre volte inchina le chiamò, tre volte
Le supplicò; poi con nocivo intento
E sguardi infesti affascinò le luci
Del bronzeo Talo, e tutta in ira accesa
Gli soffiò contro un pestilente fiato
2200Di fiera rabbia, e gli schierò dinanzi
D’atre orribili larve una caterva. —
Giove padre, stupor grave e paura
M’agita il cor, se non da morbi solo,
Se non sol da ferite a noi vien morte,
2205Ma da lunge pur anco altri la vita
Toglier ne può. Così colui che bronzo
Era pur tutto, alla letal potenza
Della maga Medea domo soggiacque;
Chè schiantando una roccia a tener lungi
2210Il naviglio dal porto, a un scabro masso
Il malleolo percosse, e tosto un sangue
Ne scorse fuori a liquefatto piombo
Rassimigliante, e non potè lung’ora
Reggersi in piè su ’l prominente scoglio;
2215Ma siccome ne’ monti un alto abete,
Che con le scuri i tagliatori han solo
Fesso a mezzo, e dal bosco indi partîro;
E quel da’ venti pria scosso la notte
Tentenna, e rotto alfin cade dal ceppo;
2220Tal colui che su’ piedi ancor si resse
Per alcun tempo, esanimato al fine
Precipitò con gran fracasso a terra.
Stetter gli eroi tutta la notte in Creta;
Poi nell’aurora alzarono un delubro
2225A Pallade Minoide, e rifornita
Quindi d’acqua la nave, entrano, e forza
Fanno di remi a superar la punta
Del Salmónide capo. Ma il Cretense
Navigando ampio mar, quella li colse
2230E gli atterrì, quella terribil notte
Che Catulada appellano. Di stella,
Nè di luna lucea raggio veruno:
Occupa il cielo un negro orrore, o s’altra
Tenebra mai fuor dai profondi abissi
2235Uscì nell’aria, e più non sanno ormai
Se in mar son essi o nell’Averno; e al mare
S’abbandonâr del lor cammino ignari.
Ma Giason, protendendo alto le mani,
Febo chiama a gran voce, e di salvarli
2240Supplice il prega; ed all’afflitto il volto
Irrigavan le lagrime. Promise
Molti a Delfo portar, molti ad Amicla,
Molti all’isola Ortigia egregi doni.
E tu dal cielo, o Latonide, udisti
2245L’umile priego, e l’accogliesti, e ratto
Scendesti al mar su le Melantie rupi,
E i piè su l’una delle due fermati,
Alto brandisti con la destra l’arco
Di lucid’oro, e una smagliante luce
2250Tutt’all’intorno lampeggiò da quello.
Fra le Sporadi allor picciola ad essi
Isola apparve assai propinqua all’altra
Picciol’isola Ippùride. Là tosto
Gittâr l’ancore i Minii, e v’approdâro;
2255E a splendere nel ciel presta di nuovo
Tornò l’Aurora. Essi ad Apollo un bello
Poser delubro entro ad un bosco ombroso,
E fra l’ombre un altare; e Febo Eglete
Nomâro il dio per la smagliante luce
2260Che rischiarolli, e d’Anafe diêr nome
All’isola, cui Febo a lor mostrava.
Quivi fêr poi que’ sagrificii al nume,
Che apprestar potea l’uomo in sì deserta
Ignuda spiaggia; e allor che poi libando
2265Sparsero l’acqua insù gli ardenti stizzi,
Più di Medea le Feacensi ancelle
Non poterono il riso entro a’ lor petti
Chiuso tener; chè visto avean frequenti
Nella reggia d’Alcinoo solenni
2270Sagrificii di tauri. Ebber diletto
Di quel ghigno gli eroi che di procaci
Motti le punser di rimbecco; e quindi
Una di scherzi s’avvivò tra loro
Piacevol gara, una contesa arguta.
2275Su quell’isola poi da quel bizzarro
Giuoco usanza venìa, ch’uomini e donne
Si motteggino a prova allor che fanno
D’Anafe al tutelare Eglete Apollo
Di sagrificii espiatorio onore.
2280Quando di là sotto tranquillo cielo
Scioglieano i Minii, Eufemo allora un suo
Notturno sogno (venerando il figlio
Di Maja) ricordò. Parvegli al petto
Stretta tener quella divina gleba,
2285E di candide stille del suo latte
Tutta irrigarla, e della gleba poi,
Ben che picciola fosse, una formarsi
Donna a vergine pari. Ei di furente
Amor preso per lei con lei mischiossi;
2290Ma poi glie n’ dolse, e qual fanciulla pianse
Che congiunto con donna egli si fosse,
Cui del suo latte avea nudrita. Ed ella
Con dolci detti a confortar lo prese:
Prole io son di Triton; de’ figli tuoi
2295Nudrice io sono, e non tua figlia, o caro.
A me padre Triton, Libia fu madre;
Ma tu dammi compagna alle marine
Di Nereo figlie ad abitar nel mare
Presso ad Ànafe. Io poi fuori dell’acque
2300Alla luce del Sol, quando fia tempo,
Emergerò de’ tuoi nepoti ad uopo. —
Ciò gli venne a memoria, e consultarne
Volle Giason, che ponderando in mente
Gli oracoli d’Apollo, a lui rispose:
2305Viva! Te al certo un glorïoso attende
Eccelso onor: se quella gleba in mare
Tu getterai, faran gli dei di quella
Un’isola che fia soggiorno ai figli
De’ figli tuoi; poichè Triton la tolse
2310Dalla Libica terra, e a te la diede
Ospital dono. Altro immortal che desso
Non si fece a te innanzi, e a te la porse.
Questo disse, ed Eufemo il suo responso
Non a vuoto mandò. Lieto di quella
2315Oracolar promessa, in mezzo all’onde
Gittò la zolla, e l’isola Callista
Su da quella spuntò, sacra nudrice
De’ nepoti d’Eufemo. Essi da pria
Stanza tenean nella Sintiaca Lenno;
2320Di là cacciati dai Tirreni a Sparta
Trasmigrâr di soggiorno; e Sparta alfine
Abbandonata, all’isola Callista
Tera ne li adducea, figlio valente
D’Antesïone, e l’isola da lui
2325Tera poi si nomò. Ma fûr vicende28
Giunte da poi che più non era Eufemo.
Con presto corso, un ampio mar lasciando
Dietro sè gli Argonauti, afferrâr pria
D’Egina al lido. Una laudabil gara
2330Quivi surse fra lor: chi primo giunga29
Con l’attinta nell’idrie acqua alla nave;
Poi che il bisogno ed il favor del vento
Facean ressa al partire; e d’indi in poi
De’ Mirmidoni i figli anfore piene
2335Su gli omeri portando, ancor contendono
Della vittoria nel pedestre corso.
Salvete, o prole di beati eroi;
E questi carmi miei sempre più in pregio
D’anno in anno a cantar sieno alle genti!
2340Già de’ vostri travagli al glorïoso
Termine io venni: or più cimenti a voi
Non fu d’uopo durar poi che partiti
D’Egina foste, e nè di venti insurse
Nuova bufera. La Cecropia terra
2345Via passando tranquilli, e fra l’Eubea
D’Aulide il lido, e degli Opunzii Locri
Pur le città dietro lasciando, entraste
Nel porto Pegaséo festosamente.
FINE.
Note
- ↑
Var ai v. 64-66. Delle guardie custodi, e inavvertita
Statuì; chè ogni calle ne sapea,
Le trapassò. Di quinci andarne al tempio
- ↑
Var. ai v. 125-126. Nobil donzella, io per l’Olimpio Giove,
Per lui lo giuro, e per la sua consorte,
- ↑ Var. al v. 140. La man protese alla natia sua terra
- ↑ Var. al v. 147. E co’ bianchi suoi rai l’odor ne sperda;
- ↑ Var. al v. 153. Vi portò d’Atamante il Minio figlio.
- ↑
Var. ai v. 203-204. Agognava il crudel d’arabo far pasto
Con sue fiere mascelle. Ed ella un ramo
- ↑ Var. al v. 213. Che Medea gliene diè, tolse dal faggio
- ↑ Var. al v. 334. Che culla avean nella Tritonia Tebe.
- ↑ Var. al v. 346. E il gran fiume Tritone ampio-corrente,
- ↑
Var. ai v. 376-377. Entra, che pende su ’l Trinacrio mare,
Su quel che giace della terra vostra
- ↑ Var. al v. 407. Corse più ratto co’ suoi Colchi Absirto,
- ↑
Var. ai v. 692-693. Isole molte il tragittar fra loro
Malagevole fanno a’ naviganti.
- ↑
Var. ai v. 767-768. D’un faggio Dodonéo, Pallade in mezzo
Della nave alla chiglia inserto avea.
- ↑
Var. ai v. 783-784. L’imposto priego; e a pia mestizia gli altri
Atteggiati tenean china la fronte.
- ↑ Var. al v. 821. Udivano echeggiar gli acuti lai,
- ↑
Var. ai v. 997-998. Fu alla consorte del Saturnio Giove,
Iri a lei l’avvisò poi che li vide
- ↑ Var. al v. 1153. Su dal letto Peléo balzando un tratto,
- ↑
Var. ai v. 1163-1164. L’animo di Peléo, che tutto espose
Pur di Teti il comando a’ suoi compagni.
- ↑ Var. al v. 1211. Elle tosto il ritorno avrebber tolto,
- ↑
Var. ai v. 1260-1261. Ne ’l tengon lungi, e d’ogni parte ad esse
Bollendo intorno la marea spumeggia.
- ↑ Var. al v. 1369. De’ vostri genitori ancor la faccia
- ↑ Var. al v. 1461. Pigliar degg’io, che savio estimi ogni uomo,
- ↑ Var. al v. 1559. De’ Feaci i primati in ordin vanno,
- ↑ Var. al v. 1564. Percorrer chiaro aveane fatto il grido.
- ↑ Var. al v. 1926. Chi di qua, chi di là per rintracciarlo;
- ↑ Var. al v. 2062. L’Apia, ed il mar che da Minosse ha nome,
- ↑
Var. ai v. 2150-2151. E vogâr tutta notte e il dì seguente
E la notte successa. Alfin da lunge - ↑ Var. al v. 2325. Tera detta poi fu: vicende tutte
- ↑ Var. al v. 2330. Ivi nacque fra lor: chi giunga prima