Che gli diè la donzella, all’arbor tolse1
Le aurate lane; ed ella intanto il capo 215Alla fera molcea col medicarne,
Fin che invito Giason di ritornarne
Le fe’ seco alla nave, e in un con lei
Fuor del fosco n’uscìa luco di Marte.
E qual fanciulla della piena luna 220Che dall’alto le splende entro la stanza,
Sopra il fino suo peplo accoglie i raggi,
E mirando il bel lume, il cuor le gode:
Tal Giason s’allegrava alto levando
Con sua man l’aurea spoglia, e a lui le bionde 225Gote e la fronte imporporò di quella
Il vermiglio fulgor simile a fiamma.
Quanto il cuojo egli è poi d’una giovenca
D’un anno nata, o d’una cerva, a cui
D’Acheinéa dan nome i cacciatori, 230Quell’aurea pelle era cotanta, e greve
Per folta lana; e rilucea la terra
Dinanzi al piè dell’incedente eroe,
Ed egli or tutto steso la portava
Giù fino al suol su la sinistra spalla, 235Or la ripiega per timor che alcuno
Uom che incontri, o un iddio, non gliela tolga.
Già sulla terra si spandea l’aurora,
Quando allo stuolo ei giunsero. Stupore
Prese i Minii al veder la grande spoglia 240Che lampeggia al balen pari di Giove,
↑Var. al v. 213. Che Medea gliene diè, tolse dal faggio