Filocolo (Laterza 1938)/Libro V
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LIBRO QUINTO
Aspro guiderdone porgevano i cieli sopra i parenti di Filocolo per le loro operazioni. Essi, per la partita di lui rimasi con dolore inestimabile, spendevano li loro giorni in lagrime e in prieghi: la superflua malinconia di loro medesimi faceva loro perdere ogni sollecitudine. I reali visi, con miserabile aspetto, mostravano avere la dignitá perduta. I pianti avevano inasprite le guancie, e il dolore aveva congiunta la dolente pelle con l’ossa. E i capelli e la barba piú bianchi che non solevano, davano de’ pensieri e degli affanni convenevoli testimonianze; e i vestimenti oscuri, portati piú lunga stagione che la loro grandezza non dava, non lasciavano loro né altri rallegrare. Essi, ben che co’ corpi ne’ loro palagi dimorassero, seguivano con la mente il caro figliuolo, faccendo del suo cammino diverse imaginazioni, sempre temendo. Non udivano alcuna novella da alcuna parte, che essi di lui non dubitassero: e gl’infiniti pericoli ne’ quali i pellegrinanti possono incappare, tutti per lo petto loro si rivolgevano, con paura non forse in alcuno incappasse il loro figliuolo. Similemente dubitando del luogo dove la sua Biancofiore ritrovasse, non forse fosse tale che grave danno ne gl’incontrasse, o che, non potendola riavere, di dolore morisse, o disperato a loro mai non reddisse: e quasi di lui senza alcuna speranza di bene viveano, vedendo o con imaginazione o per visione quasi ciò che nel suo cammino gli avvenne. questo consentivano gl’iddii, perché piú multiplicando il loro dolore, piú fossero degnamente della loro nequizia puniti. E a questa miseria e doglia avevano per compagnia tutto il loro reame, il quale, in desolazione dimorando, dubitava della morte del vecchio re, non sappiendo che consiglio pigliarsi, dopo quello, per la vedova corona, poi che a loro perduto pareva avere Florio.
Era giá il decimo mese passato, poi che Filocolo ricevuto aveva per sua la disiata Biancofiore, e il dolce tempo ritornato cominciava a rivestire i prati e gli arbori delle perdute fronde, avendo Febo toccato il principio del Montone, quando a Filocolo tornò nella memoria l’abbandonato padre e la misera madre, e fu di loro da degna pietá costretto. Egli vedendo il tempo grazioso a navicare, propose di tornare a rivedere li suoi parenti con la cara sposa, e rendere loro con la sua tornata la perduta allegrezza. Nel qual proponimento dimorando, un giorno chiamò a sé l’amiraglio e Ascalione e gli altri suoi compagni e amici, e il suo proponimento a tutti fece palese. I compagni il lodarono, ma l’amiraglio, che di buon amore l’amava, e gli pareva grave tale ragionamento, pensando che acconsentendolo, la partita di Filocolo ne seguiva, rispose cosí: «Ogni tuo piacere m’è a grado, ma dove esser potesse, assai mi saria il tuo rimanere piú grazioso, avvegna che a tanto uomo io non sia possente di dare tale onorevole grado quale si converria, ma quello che io potessi, senza infingermi, volentieri doneria. A cui Filocolo rispose: «Io non dubito che piú ch’io sia degno non sia da voi onorato, ma il conosco, e sentomene obbligato sempre a voi; e dove e’ non fosse il debito amore che mi strigne a rivedere i vecchi parenti, e con la mia tornata rendere a loro la perduta consolazione, e similmente visitare i miei regni, li quali senza conforto stanno, credendomi aver perduto, io in niuna parte sí volentieri dimorerei come in questa, e massimamente con voi, da cui, appresso agl’iddii, la vita e l’onore e il bene e la mia Biancofiore, la quale io sopra tutte le cose disiderai e amo, riconosco». «Adunque» disse l’amiraglio, «il vostro piacere farete, e non che a questo io vi storni, ma confortare vi deggio, e cosí farò: ché giusta cosa è che delle sue cose ogni uomo si rallegri piú che gli strani.» Disse adunque Filocolo: «Comandate che la nostra nave sia racconcia, acciò che, quando i venti al nostro viaggio saranno, possiamo con la grazia degl’iddii intendere al navicare».
Poi che l’amiraglio vide la volontá di Filocolo, egli comandò che la sua nave fosse acconcia e tutta di nuovi corredi guernita, e in compagnia di quella molte altre ne fece apprestare. Venne il proposto giorno della partenza: il mare imbiancava per li ripercossi remi, e mostrava poche delle sue acque, in quella parte occupato da molti legni; e il romore de’ naviganti, che cercavano di partirsi, e delle acque e de’ suoni, riempieva l’aere. Filocolo, che con violate vele e vestimenti era li co’ suoi compagni venuto, comandò che, levati quelli via, s’adornassero di bianchi, e fece inghirlandare i templi e dare sacrificii agl’iddii, mescolati con prieghi, che benevoli loro facessero i venti e le marine onde, e lui e’ suoi con perfetta salute perducessero a’ disiderati luoghi. E giá l’occidentale orizonte aveva ricoperto il carro della luce, e le stelle si vedevano, quando il vento piú fresco venne, per che a’ marinari parve di partirsi. E saliti sopra l’acconcia nave, chiamarono Filocolo, il quale con grandissima compagnia e d’uomini e di donne a’ marini liti pervenne, e quivi con pietoso viso e animo pervenuto, dall’amiraglio prese congedo, prima de’ ricevuti beneficii rendendogli debite grazie, e appresso da Alcibiade, da Dario e da Sadoc, a lui carissimi amici, s’accomiatò, e salito sopra la bianca nave, da questi tutti con lagrime si partí. Biancofiore e Glorizia salirono appresso a Filocolo, le quali Bellisano, Ascalione, il duca e gli altri compagni di Filocolo, tutti avendo a coloro che rimanevano porte le destre mani e detto addio, seguirono. E cosí tutti ricolti, l’una parte pigliò il mare, e l’altra la terra, e gli animi che per lunga consuetudine e per eguali costumi erano divenuti uno, tennero luogo in mezzo la distanza, riscontrandosi quasi partiti da’ corpi che si divisero.
La fortuna pacificata a’ due amanti, e i fati recati ad effetto i piaceri degl’iddii, concedettero graziosi venti alle volanti navi. Alle quali, poi che i remi perdonarono al mare, furono date le bianche vele, né prima si calarono che i porti di Rodi l’ebbero in sé raccolte, dove, ad istanzia de’ prieghi di Bellisano, Filocolo e Biancofiore e i compagni discesero a terra, e quivi da lui, piú volenteroso che potente, magnificamente furono onorati: e non solamente da lui, ma da tutti i paesani per amor di lui ricevettero volenteroso onore. Piacque a Filocolo il partirsi, lodando che i beni della fortuna fossero da tòrre quando gli concede. Bellisano s’apparecchiò di seguirlo, ma Filocolo, conoscendolo attempato e di riposo bisognoso piú che d’affanno, ringraziandolo, con prieghi il fé rimanere non senza molte lagrime. Filocolo, disiderando d’adempiere la promessa fatta a Sisife, comandò che l’estrema punta di Trinacria fosse con la prora de’ suoi legni cercata: le vele si tendono, e i timoni fanno alle navi segare le salate acque con diritto solco verso quella parte, aiutandole il secondo vento. E in pochi giorni, lasciatisi indietro gli orientali paesi, pervennero al dimandato luogo: e date le poppe in terra, con brievi scale scesero sopra le secche arene. E venuti al grande ostiere di Sisife, da lei onorevolmente e con viso pieno di festa ricevuti furono. Ella niuna parte di potere si riserbò ad onorargli, anzi ancora sforzandosi le pareva far poco. E dimorata con loro in graziosa festa piú giorni, e sentendo che per matrimoniale legge erano i due giovani congiunti, cioè la cercata e il cercatore, cui essa, secondo le parole di Filocolo, fratello e sorella stimava, si maravigliò, e con umile preghiera dimandò che in luogo di singulare grazia, come ciò fosse, le fosse scoperto. A’ cui prieghi Filocolo con riso rispose: e prima chi essi erano, e il loro amore insieme con gli infortunii brevemente narrò, nella quale narrazione il suo pellegrinare, e la cagione della nascosa veritá, e ciò che avvenuto gli era, poi che da lei si parti, si contenne. Le quali cose sentendo Sisife, ripiena non meno di pietá che di maraviglia, lieta ringraziò gl’iddii che dopo tanti affanni in salutevole porto gli aveva condotti. Adunque dimorati quivi quanto fu il piacere di Filocolo, e a lei cari doni da Biancofiore donati, e con profferte grandissime, dall’una all’altra fatte, si partirono. E Biancofiore dietro a Filocolo, sopra l’usata nave, che giá aveva i ferri tolti agli scogli, risalí, né prima vi fu suso che Filocolo comandò che verso l’antica Partenope si pigliasse il cammino. Il quale preso da’ marinari, avanti che il terzo sole nel mondo nascesse, nella cittá pervennero, e in quella, scesi a terra, entrarono: e con egual piacere di tutti determinarono di finire il rimanente del cammino senza navigare. Per che fatti porre in terra i ricchi arnesi e i grandi tesori, e quegli uomini che a Filocolo piacque di ritenere, comandò che alla bella cittá di Marmorina ne andassero, e di lui e de’ compagni e della loro tornata vere novelle portassero al vecchio re e ad ogni altro loro amico e parente.
Rimasero Filocolo e i suoi compagni, partite le navi, sopra il grazioso lito, nella ricca cittá molti giorni prendendo diletto, e da’ cittadini onorati, e pieni di grazia nel cospetto di ciascuno. Ma perciò che nelle virtuose menti ozioso perdimento di tempo non può con consolazione d’animo passare, Filocolo con la sua Biancofiore cercarono di vedere i tiepidi bagni di Baia, e i vicini luoghi, e l’antica sepultura di Miseno, donde ad Enea fu largito l’andare a vedere le regioni de’ neri spiriti e del suo padre; e cercarono i guasti luoghi di Cuma, e ’l mare, le cui rive, abbondevoli di verdi mortelle, Mirteo il fanno chiamare, e l’antico Pozzuolo, con le circustanti anticaglie, e ancora quante cose mirabili in quelle parti le reverende antichitá per gli loro autori rappresentano: e in quel paese traendo lunga dimoranza, niuno giorno li tenne a quel diletto, che l’altro davanti li avea tenuti. E tal volta guardando l’antiche maraviglie, venne loro negli animi come gli autori di quelle diventarono magni. Tal volta nei soavi liquori gli affannati corpi rinfrescavano, e alcuna fiata con piccola navicella solcavano le salate acque, e con maestrevole rete pigliavano i paurosi pesci; e spesse volte agli uccelli dell’aere non paurosi, con piú potenti di loro davano incalzamenti dilettevoli a’ riguardanti. E alcun giorno li ritenne ne’ ramosi boschi, con leggieri cani e con armi seguitando le timide bestie, poi alli loro ostieri tornando, dove in canti con dolci suoni di diversi strumenti spendevano il tempo, che al sonno e al prendere de’ cibi avanzava loro. In questa maniera molti giorni dimorando, uno di quelli avvenne che essendo Filocolo co’ suoi compagni entrato in un dilettevole boschetto, seguito da Biancofiore e da molti altri giovani, con lento passo, davanti a loro, picciolissimo spazio, senza esser cacciato, si levò un cervo: il quale come Filocolo il vide, preso delle mani d’uno dei suoi compagni un dardo, correndo cominciò a seguitare, e giá parendogli essere al cervo vicino, s’aperse nelle braccia, e vibrando il dardo, col forte braccio quello lanciò, credendo al cervo dare; ma tra il cervo e Filocolo era quasi per diametro posto un altissimo pino, nella stremita del cui duro pedale il dardo percosse, e con la sua forza un pezzo della dura corteccia scrostò dall’antico pedale, egli ed ella assai a quello vicini cadendo: alla quale sangue con dolorosa voce venne appresso, non altrimenti che quando il pio Enea del non conosciuto Polidoro, sopra l’arenoso lito, levò un ramo, e disse: «O miserabili fati, io non meritai la pena ch’io porto, e voi non contenti ancora mi stimolate con punture mortali! Oh, felici coloro, a cui è lecito il morire, quando quello addomandano!«. E qui si tacque. Questa voce il veloce corso di Filocolo e de’ suoi compagni, quasi tutti pieni di paura e di maravíglia, ritenne, e quasi storditi stavano riguardando, non sappiendo che fare; ma dopo alquanto Filocolo con pietosa voce cosí cominciò a dire: «O santissimo arbore, da noi non conosciuto, se in te alcuna deitá si nasconde, come crediamo, perdona alle non volonterose mani de’ tuoi danni: caso, non deliberata volontá ci fece offendere. Purghi la tua pietá il nostro difetto, i quali presti ad ogni sodisfazione, temendo la tua ira, siamo disposti». Soffiò per la vermiglia piaga alquanto il tronco, e poi il suo soffiare convertendo in parole, cosí rispose: «Giovani, nulla deitá in me si richiude, la quale se si richiudesse, i vostri pietosi prieghi avriano forza di piegarla a perdonarvi: dunque, maggiormente me, il quale senza forza di vendicarmi dimoro, disideroso della grazia non tanto degli uomini, quanto ancora delle fiere, con ciò sia cosa che ciascuno nuocere mi possa, e noccia tal volta, né io possa piú nuocere, però bastimi per sodisfazione il vostro pentère, né vi sia questo dagl’iddii imputato in colpa». Seguí a questa voce Filocolo: «Dunque, o giovane, se gl’iddii e gli uomini e le fiere ti siano graziosi e i tuoi rami con pietosa sollecitudine conservino interi, non ti sia noia dirci chi tu se’, e per che qui relegato dimori». Cosí rispose il pedale: «L’amaritudine, che la dolente anima sente, non può tòrre che a’ vostri prieghi non sia sodisfatto, perché tanto è dalla dolcezza di quelli legata, che posponendo l’angoscia, disiderosa di piacervi, vuole che io vi risponda, e però cosí brievemente vi dirò. La genetrice di me misero, mi diè per padre un pastore chiamato Eucomos, i cui vestigi quasi tutta la mia puerile etá seguitai; ma poi che la nobiltá dello ingegno, del quale natura mi dotò, venne crescendo, torsi i piedi dal basso colle, e sforzandomi per piú aspre vie di salire all’alte cose, avvenne che, per quelle incautamente andando, nelle reti tese da Cupido incappai, delle quali mai sviluppare non mi potei: di che con ragione dolendomi, per miserazione degl’iddii, in quella forma che voi mi vedete, per fuggire peggio, mi trasmutarono». E qui si tacque.
Poi che Filocolo sentí la dolente voce aver posto silenzio, e giá Biancofiore con sua compagnia essere sopravvenuta, egli ricominciò cosi: «Se quella terra, che noi calchiamo, lungamente alle tue radici presti giazioso umore, per lo quale esse diligentemente nutrite le tue fronde nutrichino e a’ tuo! rami aggiungano copiosa quantita de’ tuoi pomi, e se il tuo pedale sia lungamente dalla tagliente scure difeso, non ti sia duro ancora parlarne e farne noto donde fosti, e il tuo nome, e come qui venisti, e per che modo nelle reti d’amore incappasti, e qual fu la cagione, e perché di lui dolendoti, poi in questo albero, piú che in un altro, ti trasformasti, e per cui, acciò che se il tuo corpo e la cara anima nascosi nella dura scorza non possono la tua fama far palese, noi sappiendo la verità da te, di te possiamo quella debitamente raccontare agl’ignoranti, i quali forse, udendo le nostre parole, mossi con noi a debita pietà, per te pietosi prieghi porgeranno agli iddii, e cosi la tua pena si mitighi, e la tua fama s’allunghi e si dilati». Come, quando Zefiro soavemente spira, si sogliono le tenere sommità degli arbori muovere per li campi, l’una fronda nell’altra ferendo, e di tutte dolce tintinnio rendendo, in tale maniera tutto l’arbore tremando si mosse a queste parole, e poi con voce alquanto più che la precedente pietosa ricominciò: «Io non ispero che mai pietà possa per sua forza mollificare ciò che crudeltà ingiustamente ha indurato; ma però che quello che io per fare troppa fede sostegno, non sia creduto che per mio peccato m’avvegna, e per la dolcezza de’ vostri prieghi, che maggior guiderdone meritano che quello che dimandano, parlerò e ciò che disiderate di sapere vi chiarirò. Ma però che senza molte parole ciò che domandato avete, dire non vi posso, vi priego che, se gl’iddii da simile avvenimento vi guardino, duro non vi sia alquanto il mio lungo dire ascoltare.
Nella fruttifera Italia siede una picciola parte di quella la quale gli antichi, e non immerito, chiamarono Tuscia, nel mezzo della quale, quasi fra bellissimi piani, si leva un picciol colle, il quale l’acque, vendicatrici della giusta ira di Giove, quando i peccati di Licaone meritarono di fare allagare il mondo, vi lasciò, secondo l’opinione di molti, la quale reputo vera, per ciò che ad evidenzia di tale verità si mostra il picciolo poggio pieno di marine conchiglie, né ancora si possono sì poco né molto le interiora di quello ricercare, che di quelle biancheggianti tutte non si trovino, e similemente i fiumi a quello circustanti, più veloci di corso che copiosi d’acque, le loro arene di queste medesime conchiglie dipingono. Sopra questo pasceva Eucomos la semplice mandra delle sue pecore, quando chiamato assai vicino fu a quell’onde, le quali i cavalli di Febo, passato il meridiano cerchio, con fretta disiderano per alleviare la loro ardente sete e per riposo: ov’egli andò, e quivi la mansueta greggia di Franconarcos, re del bianco paese, gli fu raccomandata, la quale egli con somma sollecitudine guardò. Aveva il detto re di figliuole copioso novero, di bellezze ornate e di costumi splendide, le quali insieme un giorno, con grandissima caterva di compagne mandate dal loro padre, andarono a porgere odoriferi incensi a un santo tempio dedicato a Minerva, posto in un antico bosco, avvegna che bello d’arbori e d’erbe e di fiori fosse. Esse, poi che il comandamento del padre ebbero ad esecuzione messo, essendo loro del giorno avanzato gran parte, a fare insieme festa per lo dilettevole bosco si dierono. A questo bosco era vicino Eucomos, sopra tutti i pastori ingegnosissimo, con l’accomandata greggia, il quale nuovamente colle proprie mani avendo una sampogna fatta che piú ch’altra dilettevole suono rendeva agli uditori, ignorante della venuta delle figliuole del suo signore, essendo allora il sole piú caldo che in alcun’altra ora del giorno, aveva le sue pecore sotto l’ombra d’un altissimo faggio raccolte, e, diritto appoggiato ad un mirteo bastone, questa sua nuova sampogna con gran piacere di sé sonava, e non di meno alla dolcezza di quella le pecore facevano mirabili giuochi. Questo suono udito dalle vaghe giovani, senza alcuna dimoranza corsero quivi, e poi che per alquanto spazio ebbero ricevuto diletto, e del suono e della veduta delle semplici pecore, una di loro chiamata Gannai, fra l’altre speziosissima, chiamò Eucomos, pregandolo che a loro col suo suono facesse festa, di ciò merito promettendogli. Egli il fece. Piacque a loro, e tornarono piú volte a udirlo. Eucomos assottiglia il suo ingegno a piú nobili suoni, e sforzasi di piacere a Gannai, la quale, piú vaga del suono che alcuna dell’altre, l’incalza a sonare. Corre agli occhi di Eucomos la bellezza di lei con grazioso piacere: a questa si aggiungono li dolci pensieri. Egli in se medesimo loda molto la bellezza di colei, e stima beato colui cui gl’iddii faranno degno di possederla, e disidererebbe, se possibile essere potesse, d’essere egli. Con questi pensieri, Cupido, sollecitatore delle vagabonde menti, disceso da Parnaso, gli sopravvenne, e per le rustiche midolle tacitamente mescolò i suoi veleni, aggiungendo al disiderio subita speranza. Eucomos si sforzava di piacere, e per lo nuovo amore la sua arte gli dispiaceva, ma pure discerneva non convenevole essere a lasciarla. Senza sapere come, i suoi suoni pieni di piú dolcezza ciascun giorno diventavano, sí come aumentati di sottigliezza da migliore maestro: l’ardenti fiamme d’amore lo stimolavano; per che egli, nuova malizia pensata, propose di metterla in effetto, come Gannai venisse piú ad ascoltarlo. Non passò il terzo giorno, che la fortuna, acconciatrice de’ mondani accidenti, conscia del futuro, sostenne che Gannai, sola delle sorelle, con picciola compagnia, né da lei temuta, semplicemente venne al luogo ove Eucomos era usata d’udire, e supplicollo, con prieghi di maggiore grazia degni, che egli sonasse: e fu obbedita. Ma il pastore malizioso con la bocca suonava e con gli occhi disiderava, e col cuore cercava di mettere il suo disio ad effetto: per che, poi ch’egli vide Gannai intentissima al suo suono, allora con lento passo mosse la sua greggia, ed egli dietro ad essa, e con lenti passi pervenne in un’ombrosa valle, ove Gannai il seguí: e quasi prima dall’ombra della valle si vide coperta che essa conoscesse avere i suoi passi mossi, tanto la dolcezza del suono le aveva l’anima presa! Quivi vedendola Eucomos, gli parve tempo di scoprirle il lungo disio, e, mutato il sonare in parole vere e dolci, il suo amore le scoperse, a quelle aggiungendo lusinghe e impromesse, e cominciolle a mostrare che questo molto saria nel cospetto degl’iddii grazioso, se ella il mettesse ad effetto, però che egli saria a lei, sí come suo padre alla sua madre era stato: e nondimeno le promise che mai il suo suono ad altrui orecchie che alle sue pervenire non faria, se non quanto ad essa piacesse: molte altre cose aggiungendo alle sue promesse. Gannai prima si maravigliò, e poi temette, dubitando forte non costui forza usasse, dove le dolci parole e i prieghi non le fossero valute: e udendo le ingannatrici lusinghe, semplice le credette, e sol per suo pegno prese la fede dal villano, che come alla sua madre il suo padre era stato, cosí a lei sarebbe, e a’ suoi piaceri nella profonda valle consentí, dove due figliuoli di lei generò, de’ quali io fui l’uno, e chiamommi Idalagos. Ma non lungo tempo quivi, ricevuti noi, dimorò, che, abbandonata la semplice giovane e l’armento, tornò ai suoi campi, e quivi appresso noi si tirò, e non guari lontano al suo natal sito, la promessa fede a Gannai, ad un’altra, Garamirta chiamata, ripromise e servò, di cui nuova prole dopo picciolo spazio di tempo ricevette. Io semplice e lascivo, sí come giá dissi, le pedate dello ingannator padre seguendo, e volendo un giorno nella paternale casa entrare, due orsi ferocissimi e terribili mi vidi avanti con gli occhi ardenti, disiderosi della mia morte, de’ quali io dubitando volsi i passi miei, e da quella ora inanzi sempre l’entrare in quella dubitai. Ma acciò che io piú vero dica, tanta fu la paura, che, abbandonati i paternali campi, in questi boschi venni l’apparato uficio ad operare: e qui dimorando, con Calmeta, pastore solennissimo, a cui quasi la maggior parte delle cose era manifesta, pervenni a piú alto disio. Egli un giorno, riposandoci noi col nostro peculio, con una sampogna sonando, cominciò a dire i nuovi mutamenti e gl’inopinabili corsi dell’inargentata luna, e qual fosse la cagione del perdere e dall’acquistar chiarezza, e perché tal volta nel suo epiciclo tarda e tal veloce si dimostrasse; e con che ragione il centro del cerchio il suo corpo portante, all’ora due volte circuisce il deferente, il suo centro movente intorno al piccolo cerchio, ch’ell’è, quant’è una; e da che natura potenziata la virtú dell’uno pianeta all’altro portasse, e similmente i suoi dieci vizi, seguendo di Mercurio e di Venere con debito ordine i movimenti. E appresso con dolce nota la dorata casa del sole disegnò tutta, non tacendo de’ suoi eclissi e di quelli della luna le cagioni, mostrando come da lui ogni altra stella piglia luce, e cosí essere necessario, a volere i luoghi di quelle sapere, prima il suo conoscere; mostrando del rosseggiante Marte, del temperato Giove e del pigro Saturno una essere la regola a cercare i luoghi loro. E mostrato con sottile canto interamente le loro regioni, e quali in quelle a loro fossero piú degne dimoranze e più care, passò cantando al nido di Leda, e in quello, da vero principio cominciando, prima del Montone Frisso disse, e delle sue stelle, e quali gradi in quello, quali masculini, quali feminini, quali lucidi, quali tenebrosi, quali plutei, quali azemeni, e quali aumentanti la fortuna fossero, dimostrò: e similmente di qual pianeta fosse casa, e quale in esso s’esaltasse la triplicità, e li termini di ciascuno in quello, e le tre facce. Questo ancora mostrando del sacrificato Tauro da Alcide per la morte di Caco, e de’ due fratelli di Clitennestra, nella fine de’ quali l’estivale solstizio comincia, e con quel medesimo ordine del retrogrado Cancro cantò. E del feroce Leone, e della Vergine onesta, nella fine della quale il coluro di Libra, equinozio facente, disse incominciare: e di lei cantò come degli altri avea cantato; mostrando nella sua fine la combustione avvenuta per lo malvagio reggimento del carro della luce usato da Fetonte, spaventato dall’animale uscito dalla terra a ferire Orione: la cui prima faccia, come di Libra l’ultima, fu combusta, di lui seguendo, come di quella aveva detto, e di Chirone Aschiro seguitando, nella fine di cui pose lo iemale solstizio. Poi cantando della nutrice di Giove, e del suo Pincerna, e de’ Pesci, da Venere nel luogo ove dimorano situati, dicendo nella fine di quelli il coluro d’Ariete cominciarsi insieme con lo equinozio del detto segno; mostrando appresso cosí de’ pianeti, come de’ segni le complessioni e i sessi e e potenze determinate negli umani membri, e come alla loro signoria prima in sette, e poi in dodici parti sia tutto il mondo diviso, cosí quello che sotto i sette climati s’abita, come l’altro. Con questo dicendo la variazione delle loro elevazioni pe’ diversi orizonti, e che legge da loro sia servata nel ritondo anno, mutando i tempi. E con non meno maestrevole verso l’udii, dopo questo, cantare e dimostrare nel suo canto come Calisto e Cinosura presso al polo artico dimorassero, faccendo cenit alle maggiori notti, e assegnare la cagione per che le loro stelle in mare non possono né siano lasciate da oceano come l’altre bagnare. E seguitò dove Boote, e la corona di Adriana, e Alcide vincitore dell’alte prove fossero locati; e senza mutar nota cantò del Corvo, per la recante acqua mandato da Febo, il quale, per lo soperchio tempo mosso ad aspettare i non maturi fichi, meritò per la bella bugia, egli con l’apportato Serpente e con la Cratera d’oro, essere in cielo dal mandatore locati, e ornati di piú belle stelle. E insieme con questo, raccontò il luogo ove è colei che la palma delibuta porta, e dove il Portatore del Serpente e Eridano e la paurosa Lepre co’ due Cani dimorassero. Cantando poi del nibbio, il quale le interiora del toro fatato, ucciso da Briareo, portò al cielo, ove egli fu da Giove locate e adornato di nove stelle, seguendo appresso di Eridano, di Sagitta, e d’Auriga i luoghi, e dell’australe corona; movendo con piú soave suono, come Arione, cantante sopra il portante Delfino, fuggi il mortal pericolo, e poi pe’ meriti dell’uno e dell’altro meritassero il cielo, e qual parte di esso; e dove il Cavallo non intero, e la Nave che prima solcò il non usato mare dimorassero, dimostrò; e ’l segno, e la gloria di Perseo, e ’l suo luogo, e con la testa del Gorgone, e dell’Idra, crescente per li suoi danni, e il luogo del vaso. E rimembromi che disse ancora del Centauro, e del celestial Lupo, di dietro a’ quali del Pesce i luoghi dimostrò con quelli di Cefeo, e del Triangolo, e del Ceto, e d’Andromeda, e del Pegaseo Cavallo; passando dietro a questi dentro alle regioni degl’iddii con piú sottil canto del suo suono. Queste cose ascoltai io con somma diligenza, e tanto dilettarono la rozza mente, ch’io mi diedi a voler conoscere quelle, e non come arabo, ma seguendo con istudio il dimostrante: per la qual cosa il divenire esperto meritai. E giá abbandonata la pastorale via, del tutto a seguitar Pallade mi disposi, le cui sottili vie ad imaginare, questo bosco mi prestò agevoli introducimenti, per la sua solitudine. Nel quale dimorando, m’avvidi lui essere alcuna stagione dell’anno, e massimamente quando Ariete in sé il Delfico riceve, visitato da donne, le quali piú volte, lente andando, io con lento passo le seguitai, di ciò agli occhi porgendo grazioso diletto continuamente i dardi di Cupido fuggendo, temendo non forse ferito per quelli in detrimento di me aumentassi i giorni miei: e disposto a fuggire quelli, prima alla cetara d’Orfeo, e poi ad essere arciere mi diedi, e prima con la paura del mio arco, del numero delle belle donne, le quali giá per lunga usanza tutte conoscea, una bianca colomba levai, e poi fra’ giovani arboscelli la seguii con le mie saette piú tempo, vago delle sue piume. Né per non poterla avere né per malinconia si tolse il core, che piú del suo valore che d’altro si dilettava, dallo studio di costei seguire. Dal luogo medesimo levatasi mi tolse una nera merla, la quale movendo col becco rosso modi piacevoli di cantare, oltre modo disiderare mi si fece, non però in me voltandola le mie saette, e piú volte fu ch’io credetti quella ritogliere negli apparecchiati seni. E di questo intendimento un pappagallo mi tolse, dalle mani uscito d’una donna della piacevole schiera. A seguitar costui si dispose alquanto piú l’animo, ch’alcuno degli altri uccelli, il quale andando le sue verdi piume ventilando, fra le frondi del suo colore agli occhi mi si tolse, né vidi come. Ma il discreto arciere Amore, che per sottili sentieri sottentrava nel guardingo animo, essendo rinnovato il dolce tempo, nel quale i prati e i campi e gli alberi partoriscono, andando le donne all’usato diletto, fece dal piacevole coro di quelle una fagiana levare, la quale, io per le cime de’ piú alti alberi con gli occhi andando dietro alla vaghezza delle variate penne, prese tanto l’animo a piú utili cose disposto, che, dimenticando quelle, a seguitare questa tutto si dispose, non risparmiando arte, né saetta, né ingegno per lei avere. Sentendo il puro core giá tutto degli amorosi veleni lungamente fuggiti contaminato, allora conoscendomi preso in quel laccio dal quale molto con discrezione m’era guardato, mi rivoltai, e vidi il numero delle belle donne essere d’una scemato, la quale io avanti avendola tra esse veduta, piú che alcuna dell’altre aveva bella stimata. Allora conobbi l’inganno da Amore usato, il quale, non avendomi potuto come gli altri pigliare, con sollecitudine d’altra forma mi prese, prima con diversi disii disponendo il cuore per farlo abile a quello. E rivolgendomi sospirando alla fagiana, la donna, che al numero delle altre fallava, di quella forma in essa mutandosi, agli occhi m’apparve, e cosí disse: «Che ti disponi a fuggire? Nulla persona piú di me t’ama». Quelle parole piú paura d’inganno che speranza di futuro frutto mi porsero, e dubitai, però ch’ella era di bellezza oltre modo dell’altre splendidissima, e d’alta progenie avea origine tratta, e delle grazie di Giunone era copiosa: per le quali cose io diceva essere impossibile che mi volesse altro che schernire, e se potuto avessi, volentieri mi sarei dallo incominciato ritratto. Ma la nobiltá del mio cuore, tratta non dal pastore mio padre, ma dalla reale madre, mi porse ardire, e dissi: ‛Seguirolla, e proverò se vera sará nell’effetto sí come nel parlare si mostra volonterosa’. Entrato in questo proponimento e uscito dall’usato cammino, abbandonate le imprese cose, cominciai a disiderare, sotto la nuova signoria, di sapere quanto l’ornate parole avessero forza di muovere i cuori umani: e, seguendo la silvestre fagiana, con pietoso stile quelle lungamente usai, con molte altre cose utili e necessarie a terminare tali disii. E certo non senza molto affanno lunga stagione la seguii, né alla fine campò, che nelle reti della mia sollecitudine non incappasse. Ond’io avendola presa, a’ focosi disii, piacendole, sodisfeci, e in lei ogni speranza fermai, per sommo tesoro ponendola nel mio core: ed ella, abbandonata la boschereccia salvatichezza, con diletto nel mio seno sovente si riposava. E se io ben comprendeva le note del suo canto, ella niuna cosa amava, secondo quelle, se non me, di che io vissi per alcuno spazio di tempo contento. Ma la non stante fede de’ cuori feminili, parandosi davanti agli occhi di costei nuovo piacere, e dimenticato com’io giá le piacqui, e preso l’altro, e fuggita dal mio misero grembo, nell’altrui si rinchiuse. Quanto fia ’l dolore di perdere subitamente una molto amata cosa, e massimamente quando col proprio occhio in altra parte trasmutata si vede, il dirlo a voi sarebbe un perder parole, però che so che il sapete; ma non per tanto, con quello, ad ogni animo intollerabile, la speranza di riacquistarla mi rimase, né per ciò risparmiai lacrime, né prieghi, né affanni. Ma la concreata nequiza a niuna delle dette cose porse udienza, né concedette occhio, per che io con affanno in tribulazione disperato rimasi, morte per mia consolazione cercando, la quale mai avere non potei, non essendo ancora il termine di dover finire venuto. Il quale volendo io, sí come Dido fece o Biblide, in me recare, e giá levato in piè da questo prato, ov’io piangendo sedeva, mi sentii non potermi avanti mutare, anzi soprastare a me Venere, di me pietosa, vidi, e disiderante di dare alle mie pene sosta. I piedi, giá stati presti, in radici, e ’l corpo in pedale, e le braccia in rami, e i capelli in fronde di questo arbore trasmutò, con dura corteccia cignendomi tutto quanto. Né variò la condizione di esso dalla mia natura, se ben si riguarda: egli verso le stelle piú che altro vicino albero la sua cima distende, sí come io giá tutto all’alte cose inteso mi distendeva. Egli i suoi frutti di fuori fa durissimi, e dentro piacevoli e dolcissimi a gustare. Oimè, che in questo la mia lunga durezza al contrastare agli amorosi dardi si dimostra, la quale v’elessero gl’iddii ch’io ancora avessi, ma l’agute saette, passata la dura e rozza forma di me povero pastore, trovarono il core abile alle loro punte. Questo mio albero ancora in sé mostra le fronde verdi, e mostrerá mentre le tristi radici riceveranno umore dalla terra circustante, in che la mia speranza, molte volte ingannata, non ancora esser secca, né credo che mai si secchi, si può comprendere. E se voi ben riguardate, egli ancora mostra del mio dolore gran parte: che esso, lagrimando, caccia fuori quello che dentro non può capere; e come questo legno meglio arde che alcun altro, cosí io, prima stato ad amare duro, poi piú che alcun amante arsi, e per ogni piccolo fuoco si mi raccendo come mai acceso fossi. Né il dilettevole odore ch’io porgo poté mai fare tanti di quello disiderosi, ch’io altro che a quella, per cui questa pena porto, mi dilettassi di piacere. Potete, adunque, per le mie parole e per me comprendere quanta poca fede le mondane cose servano agli aspettanti, e massimamente le femine, nelle quali niuno bene, niuna fermezza, niuna ragione si trova. Esse, schiera senza freno, secondo che la corrotta volontá le invita, cosí si muovono: per la qual cosa, se lecito mi fosse, con voce piena d’ira verso gl’iddii crucciati mi volgerei, biasimandogli perché l’uomo, sopra tutte le altre creature nobile, accompagnarono con sí contraria cosa alla sua virtú». Le parole del misero appena erano finite, che Biancofiore levata da sedere dal loco dove stava, per piú appressare le parole sue al rotto pedale, cosí cominciò a dire: «O Idalagos, che colpa hanno le buone, e di diritta fede servatrici, se a te una malvagia, per tua semplicitá, nocque non osservando la promessa?». A cui Idalagos: «Se io solo da’ vostri inganni mi sentissi schernito, tanta vergogna m’occuperebbe la coscienza, che mai ai prieghi di alcuno, quantunque fossero da esaudire, non direi i miei danni, sí come a voi ho fatto; ma però che tutto il mondo infino dal suo principio fu ed è delle vostre prodizioni pieno, sentendomi nel numero de’ piú caduto, lascio piú largo il freno al mio vero parlare. Ma se gl’iddii dalle malvage ti separino, non mi celare chi tu se’, che si pronta alla difesa delle buone sorgesti, come se di quelle fossi». «Io sursi» disse Biancofiore, «a quello che ciascuna prima operare e poi difendere dovria, sentendomi di quel peccato pura del quale in generale tu te ne biasimi: e acciò che io non aggiunga noia alle tue pene, sodisfarotti del mio nome. Sappi ch’io sono quella Biancofiore la quale la fortuna con tribulazioni infinite ha dal suo nascimento seguita, ma ora meco pacificata quelle a sé ritrae, e, concedutomi il mio disio, in pace vivo.» «Or se’ tu» disse Idalagos, «quella Biancofiore per la quale il mondo conosce quanto si possa amare, o essere con fede leale amato? Se’ tu colei la quale, secondo che tutto il mondo parla, se’ tanto stata amata da Florio figliuolo dell’alto re di Spagna, e, che per intera fede servargli, se’ nimica della fortuna stata, dove amica l’avresti potuta avere rompendo la pura fede? Se quella se’, con ragione delle mie parole ti duoli.» «Io sono quella», rispose Biancofiore. «Adunque» disse Idalagos, «singulare laude meriti: tu sola se’ buona, tu sola d’onore degna, niun’altra credo che tua pari ne viva. E certo se io nella memoria avuta t’avessi, quando in generalita male di voi parlai, te avrei dell’infinito numero delle ingannatrici tratta; ma in verita e’ mi pare, ciò che di te ho udito, maggiore maraviglia che il sentire me in questa forma ove mi vedi. Ma se la fortuna lungamente pacifica teco viva, dimmi che è di quel Florio, che tu tanto ami e che te piú che sé ama, sí come la fama rapportatrice ne conta.» Rispose Biancofiore: «Il mio Florio ha infino a qui teco parlato, ed è qui meco: e come mi potrei io dire senza lui felice, e con la fortuna pacificata?». «O felicissima la vita tua» disse il tronco, «molto m’è a grado, e assai me ne contento, che voi, che giá tanto foste infortunati, ora contenti siate, pensando ch’io possa prendere speranza di pervenire a simile partito de’ miei affanni.» Giá i corpi percossi dal tiepido sole porgevano lunghe ombre, e Febea si mostrava in mezzo il cielo, andante alla sua rotonditá, quando, Biancofiore non piú parlante, Filocolo disse: «O Idalagos, dinne, per quella fede che tu giá ad amore portasti, come ai tuoi orecchi pervenne la nostra fama, con ciò fosse cosa che appena ne’ nostri regni credevamo che saputi fossero i nostri amori». A cui Idalagos cosí rispose: «Come in queste parti i vostri fatti si sapessero m’è occulto, ma come io li sappia vi narrerò. Come voi vedete, io porgo con le mie frondi graziose ombre dintorno al mio pedale, e il suolo di fiori e d’erbe ogni anno s’adorna piú bello che alcuno altro prato vicino: per la qual cosa i miei compagni, sí per conforto di me, che d’udirgli mi dilettava, e sí per riposo e diletto di loro medesimi, qui sovente solevano venire, e ne’ loro ragionamenti dire quelle cose, le quali mancamento delle mie doglie credevano che fossero, e tal volta credendomi piacere, con fresche onde le mie radici riconfortavano. E quando costoro questo luogo non avessero occupato, molti gentili uomini e donne vegnenti a’ santi bagni, dove voi forse ora dimorate, qui a ragionare di diverse materie, qui a far festa, se ne sogliono venire. E quando di questi tutti solo io rimanessi, da’ pastori non sono abbandonato: a’ quali, perciò che mi ricorda ch’io giá di loro fui, piú fresca ombra porgo che ad altri. E come dagli altri qui venienti odo varii ragionamenti, cosí li loro e le loro contenzioni e le battaglie de’ loro animali spesso sento, e di me hanno fatto prigioniere del perditore: tra’ quali ragionamenti, molti, e non so di che gente, un giorno qui se ne vennero, a’ quali quasi interi i vostri casi udii narrare, forse non credendo essi essere uditi, i quali non minori che i miei riputai; e fummi caro ascoltargli, sentendo che solo negli amorosi affanni non dimorava». Queste cose udite, parve a Filocolo di partirsi, e disse: «Idalagos, gl’iddii quella perfetta consolazione che tu disideri ti donino, sí come tu hai a noi delle dimandate cose donata. Noi, costretti dalla sopravvenente notte, piú teco non possiamo stare, e però ti preghiamo che se per noi alcuna cosa fare si può che in piacere ti sia, la ne dica, con ferma speranza che fornita sia giusto il potere nostro». «Assai potreste fare» rispose Idalagos, «e però che nella vostra gran nobiltá confido, vi farò un priego: com’io poco avanti vi dissi, io amai una donna, dalla grazia della quale abbandonato, disiderando in essa ritornare, porsi prieghi e lacrime infinite, le quali la durezza del core di lei niente mutarono, per che io sono in questa forma. Poco tempo appresso la mia mutazione, avvenne che giovani a me carissimi, e consapevoli de’ miei mali, qui si raunarono, e quasi, come se a me parole porgessero, credendomi della vendetta degl’iddii rallegrare, dissero la bella donna in bianco marmo essere mutata, allato a una piccola fontana di acqua chiara, dimorante nelle grotte del duro monte Barbaro a mano sinistra, passata la grotta oscura. Della qual cosa io non lieto, anzi dolente fui, pensando che se avanti dura era a’ miei prieghi stata, omai pieghevole non saria; ma di ciò sono incerto, e però la speranza del piegare non ho lasciata, perché io vi priego che, quando verso la cittá andrete, non vi sia noia il visitare la fresca fontana, e quelle parole di me porgete alla bionda pietra che pietá vi consentirá. Né vi partite prima di qui, che il pezzo della dura scorza tolta a me dal vostro dardo sia al luogo renduta: poi con la grazia degl’iddii lecito vi sia l’andare». Udito questo, Filocolo giurando promise di fare quello che dimandato gli era, e la scorza rendé al dimandante, la quale cosí dall’albero fu ripresa come da calamita il ferro: e dettogli addio, co’ suoi si partí del luogo pieno di maraviglia, del nuovo caso ragionando co’ suoi. E parlando pervennero al loro ostiere, ove preso il cibo dieroro il corpo a’ notturni riposi. Salito il sole nell’aurora, Filocolo e i suoi compagni si levarono, e il cammino verso Partenope ripresero, e giá le tenebrose oscuritá della forata montagna passate, vicini al luogo dall’albero disegnato, pervennero. Quivi vaghi di vedere cose nuove, non sappiendo il luogo, né trovando cui dimandarne, andavano con gli occhi investigando, e ciascuna grotta pensavano essere la dimandata fonte: ma quella nascosa da frondi, quanto piú cercano piú s’occulta. Ciascuno guardava se vedesse alcuno che, dimandandolo, ne li certificasse. Niuno vedevano; ma Parmenione ascoltando udí di lontano risonare l’aere di tumultuose voci, per che chiamati gli sparti compagni, disse loro: «Se noi in quella parte andiamo dove io sento romore di gente, leggieri ci sará quello che cerchiamo di trovare». Piacque a tutti l’andarvi, e seguirono il suono, il quale, essendo da loro, quanto piú andavano, piú chiaro udito, gli faceva certi non deviare per pervenire a quello: al quale, dopo non grande quantitá di passi, lieti pervennro, e videro alquanti pastori, raccolti sotto fresche ombre, fare i loro montoni urtare insieme, e in merito del vincitore corone d’alloro essere poste da una parte; i quali, quando ad urtare venivano, ciascuno i suoi con voce altissima aiutava, e questo a vedere dimoravano piú altre persone, per accidente quivi, sí come costoro, venute. Filocolo fu co’ suoi a vedere con festa ricevuto; ove dimorato alquanto, fè uno de’ pastori dimandare della nascosa fontana. Questi disegnò loro il luogo, profferendosi di mostrarla, se a guardare non avesse la vincitrice mandria. Queste parole udirono due speziosissime giovani quivi venute con la loro compagnia a vedere, le quali, reputando non picciola cortesia agli strani giovani piacere, dissero: «Signori, ell’è a noi notissima, né greggia, né altro impedimento ci occupa, che mostrare non la vi possiamo, se i nostri passi seguire non isdegnate». Alle quali Filocolo: «Di niuna altra cosa dubitavamo, se non di non essere degni di seguire sí care pedate, quando altrui che voi, di ciò che cerchiamo, dimandammo; ma poi che a voi piace verso di noi per virtú essere cortesi, procedete, certo che contentissimi siamo di seguirvi».
Mossonsi le graziose giovani, il nome dell’una Alcimenal e dell’altra Idamaria era, e con voci soavi e radi ragionamenti, passo inanzi passo, i disideranti menarono alla fontana, alla quale essi piú volte erano stati vicini e veduta non l’aveano. Ma ciò non era da maravigliare, però che la natura, maestra di tutte le cose, co’ suoi ingegni nelle interiora del monte aveva volto un rozzo arco, sopra il quale fortissima lamia si posava, coperchio delle chiare onde, e quel luogo, il quale essa scoperto vi lasciò per porger luce, alberi di fronde pieni l’avevano occupato. Ad essa venuti, Alcimenal disse: «Signori, qui è la fresca fontana che cercate, e quinci s’entra in essa», mostrando loro un piccolo pertugio, entro al quale a scendere all’acque per alcun grado si convenia.
Entrò in quella Filocolo, e quasi opposito all’entrata vide il bianco marmo soprastante a parte dell’acque, e sceso in essa, fresca e dilettevole molto la vide: e ben che, di fuori dimorando, la fontana fosse da alberi nascosta agli occhi de’ viandanti, nondimeno dentro tra fronda e fronda graziosa luce vi trapassava. Ell’era da una parte e dall’altra di spine, per adietro state cariche di fresche rose, e per mezzo, a fronte al marmo, un bellissimo melogranato, le cui radici infino al fondo si distendevano, e le cui foglie e frutti gran parte de’ solari raggi cacciavano dalla fontana. Filocolo si rinfrescò le mani e il viso con la chiara acqua, e poi postosi a sedere allato al bianco marmo, cosí da tutti udito cominciò a dire: «O pietá, santissima passione de’ giusti cuori, tu negli umili e miserabili luoghi dal misericordioso seno di Giove discendi, e visiti i commossi petti dalle vedute e talora dalle udite cose. Tu fai i sostenitori e i veditori d’una medesima pena partecipare. Tu rechi agli occhi quelle lacrime le quali piú che altre meritano, e hai potenza di muovere i duri cuori da’ loro proponimenti nefandi, e di scacciare l’ardente ira dal turbato fiele. Tu nemica delle miserie, se’ dell’offese graziosa perdonatrice. Per te la tagliente spada della giustizia sovente in misericordiosa opera volge il suo operare. E chi agl’iddii ci congiungerebbe, da’ quali le nostre operazioni inique ci allontanano, se tu nol facessi? Tu se’ degli assaliti dalla tortura cagione di graziosa speranza, e di consolazione apportatrice. Che piú dirò di te? Tu piena di tanta umanita se’, che aperto si può dire che il cuore, ove tu non regni, piú tosto ferino è che umano. Tu e ’l figliuolo di Citerea sedete ad uno scanno. Egli senza di te faria le sue opere vane. Niuna ingiuria potrebbero gl’iddii porgere sí grave, che molto maggiore a chi dal suo petto ti scaccia non si convenisse. Tu me, che dell’ultimo ponente sono, facesti dell’angosce d’Idalagos partecipe, il quale dipinto e dentro afflitto di molte miserie, non poté questa pietra muovere con la tua forza dal duro proposito, amandola sopra tutte le cose e avendola amata: per che ora degnamente di sé puoi porgere manifesto esempio a’ riguardanti. O amore, per la grazia del quale io li meritati doni posseggo, viva in eterno il tuo valore: il quale, s’io merito nel tuo cospetto alcuna grazia piú che quella ch’io ricevuta posseggo, ti priego che da cosí fatti cuori t’allontani, però che tu, benevolo co’ malevoli, degno luogo avere non puoi. Sia l’acerbita consumatrice de’ cuori che la nutricano, degna di perdere la tua grazia e quella degli uomini».
Sí tosto come Filocolo, dette queste parole, tacque, Idamaria, che interamente l’aveva notate, disse: «O giovane, se gl’iddii te al nominato paese riportino con prospera via, dinne onde t’è manifesto ciò che qui parli in degno dispregio della pietra che tu tocchi? Tu ne fai maravigliare, essendo tu d’occidente e noi paesane, non essendoci quello che a te è manifesto». Alla quale Filocolo parlandò sodisfece, e dimandò se ’l modo della trasformazione di quella fosse a loro noto che glielo dicessero. A cui Alcimenal: «Per udita tutte il sappiamo; e poi che col tuo dire n’hai appagate, noi col nostro senza dimoranza t’appagheremo, e fiati caro». E cominciò cosí:
«I nostri antichi, che con solenne memoria le cose della loro etá notarono, ne dicevano sé ricordarsi in questa parte né la pietra né il bello melogranato né queste spine, le quali, pochi di sono passati, fiorite vedemmo, sí come ora sono bocciolose, non esserci, ma solo l’acqua e la grotta di questo luogo si contentavano. E similemente ne dicevano che questo luogo, il quale ora piú da’ pastori che da altra gente veggiamo visitato, rideva tutto d’arbori e d’erbe, essendo con ordine tutto il suo suolo coltivato da maestra mano: per la qual cosa i gentili uomini e le donne, vaghi di riposo e di diletto, qui per prendere quello soleano venire. Per che avvenne che in questa sí piacevole stagione, un giorno, donne di Partenope qui vennero a sollazzarsi, e schiusa da’ loro cuori ogni malinconia, tutte liete si dierono a’ cibi: delle quali quattro bellissime, abbandonato ogni vergognoso freno, forse oltre al dovere presero de’ doni di Bacco, dal quale stimolate, lasciate la loro compagnia, con ragionamenti e atti dissoluti si diedero ad andare tra’ fruttiferi alberi correndo, l’una tal volta cacciando l’altra, e l’altra tal volta dall’una essendo cacciata. Per che, dall’affanno riscaldate e da Lieo e da’ solari raggi, per cacciare quel caldo, le fresche ombre di questo luogo cercarono. Nel quale entrate, l’una chiamata Alleiram dove codesto marmo dimora, non essendovi esso, essa si pose a sedere; la seconda, Airam chiamata, qui a fronte, dove le vecchie radici del melogranato vedete, s’assise; la terza, il cui nome era Asenga, dal sinistro, Annavoi la quarta dal destro d’Alleiram si posero, le contrarie mani d’Airam tenendo ciascuna. E quivi riposando i corpi, a’ lascivi ragionamenti non diedero riposo, ma cominciando i sommi iddii a dispregiare, sé e le loro lascivie lodando, l’una dicendo e l’altre ascoltando, cosí cominciarono a ragionare, e prima all’altre Alleiram, parlando in questa forma:
«Giá ne’ semplici anni mi ricorda aver creduto questo luogo molto essere da riverire, dicendo alcuni, d’una semplicitá meco compresi, che qui Diana, dopo i boscherecci affanni, col suo coro veniva a ricreare, bagnandosi, l’affaticate forze: e tali furono che dissero, ma falso, che Atteone qua dentro guardando, essendoci ella, meritò divenire cervo. Qui ancora le ninfe di questo paese testavano riposarsi, qui le naiadi e le driadi nascondersi; ma la mia stoltizia ora m’è manifesta, ora veggio quanto poco lontano veggono gl’ingannati occhi de’ mondani, li quali con ferma credenza, a diverse imagini faccendo diversi templi, quelle adorano, dicendole piene di deitá. O rustico errore piú tosto che veritá! Elli hanno appo loro gl’iddii e le dee e’ celestiali regni, e vannogli fra le stelle cercando. E che ciò sia vero, rimirinsi i nostri visi, adorni di tanta bellezza, che nullo verso la poria descrivere: ella avria forza di muovere gli uomini a grandissime cose. Quali iddii dunque o quali dee, qual Venere, qual Cupido, qual Diana piú di noi è da esser riverita? Folle è chi crede altra deitá che la nostra. Noi commoveremmo i pacifici regni a battaglie, e ne’ combattenti metteremmo pace a nostra posta: quello che gl’iddii non poterono fare, avendo Elena porta la cagione. Quali folgori, quali tuoni poté mai Giove fulminare, che da temere fossero come la nostra ira? Marte non fa se non secondo che noi commettiamo. Cessi adunque questo luogo da essere riverito, se non per amore di noi: e che ciò sia ragione, io vi mostrerò la mia forza maggiore che quella di Venere essere stata, e udite come.
Quanto io sia di sangue nobilissima non bisogna dire, ch’è manifesto, né alcuno di quelli che iddii si chiamano, con giusta ragione potrebbe mostrare piú la sua origine che la mia antica. Io similemente in dirvi quanto in ricchezze abbondi non mi faticherò, però che è aperto Giunone a quelle non potere dare crescimento discernevole con tutte le sue. La copia de’ parenti è a me grandissima: e oltre a tutte le cose che nel mondo si possono disiderare, sono io bellissima come appare, e nel piú notabile luogo della mia cittá situata è la lieta casa che mi riceve. Davanti la quale niuno cittadino è che sovente non passi; e quelli forestieri, i quali per terra l’oriente e il freddo Arturo ne manda, e l’austro e ’l ponente per mare, tutti, se la cittá disiderano di vedere, conviene che davanti a me passino, gli occhi de’ quali tutti la mia bellezza ha forza di tirare a vedermi. E ben che io a tutti piaccia, però tutti a me non piacciono; ma nullo è ch’io mostri di rifiutare, anzi con giochevole sguardo a tutti egualmente dono vana speranza, con la quale nelle reti del mio piacere tutti li allaccio, non dubitando di dare, né di prendere amorose parole. E se le mie parole meritano d’essere credute, vi giuro che Cupido molte volte, per lo piacere di molti, s’è di ferirmi sforzato, ma né lo spesseggiare né il gittare de’ suoi dardi, né lo sforzarsi, mai ignudo poterono il mio petto toccare: anzi, faccendo d’essere fedita sembiante, ho ad alcuni vedute le sue ricchezze disordinatamente spendere credendo piú piacere. Alcuno altro, dubitando non alcuno piú di lui mi piacesse, contra quello ha ordinato insidie; e altri donandomi mi credono avermi piegata. E tali sono stati, che, per me se medesimi dimenticando, con le gambe avvolte sono caduti in cieca fossa: e io di tutti ho riso, prendendo però quelli a mia sodisfazione i quali la mia maestá ha creduti che siano piú atti a’ miei piaceri. Né prima ho il fuoco spento, ch’io ho il vaso dell’acqua appresso rotto, e gittati i pezzi via. Tra la quale turba grandissima de’ miei amanti, un giovane, di vita e di costumi e d’apparenza laudevole sopra tutti gli altri, mi amò, il cui amore conoscendo, il feci del numero degli eletti al mio diletto, e ciò egli non senza molta fatica meritò. Egli, prima che questo gli avvenisse, poetando, in versi le degne lodi della mia bellezza pose tutte. Egli di quelle medesime aspro difenditore divenne contra gl’invidiosi parlatori. Egli, occulto pellegrino d’amore, in modo incredibile cercò quello che io poi gli donai, e ultimamente divenuto d’ardire piú copioso che alcun altro che mai mi amasse, s’ingegnò di prendere e prese quello ch’io con sembianti gli volea negare. Mentre che questi dilettandomi mi teneva, non però mancò l’amore suo verso di me, anzi sempre crebbe: le quali cose tutte io fermissima, resistente a Cupido, non guardai, ma come d’altri molti avea fatto, cosí di lui feci gittandolo dal mio seno. Questa cosa fatta, la costui letizia si rivolse in pianto. E, brievemente, egli in poco tempo di tanta pietá il suo viso dipinse, che egli a compassione di sé moveva i piú ignoti. Egli si mostrava, e con prieghi e con lagrime, tanto umile quanto piú poteva, la mia grazia ricerçando, la quale acciò ch’io gli rendessi, Venere piú volte s’affaticò pregandomi e talora spaventandomi e in sonni e in vigilie. Ma ciò non mi poté mai muovere: per che rimanendo ella perdente, il giovane, che si consumava, trasmutò in pino, e ancora alle sue lagrime non ha posto fine; ma per la bellezza ch’io posseggo, io prima dove l’albero dimora non andrò che in dispetto di Venere farò piú inanzi al dolente albero sentire la mia durezza, ch’io colle taglienti scuri prima il pedale, poi ciascun ramo farò tagliare e mettere nell’ardenti fiamme. Ben potete per le mie parole aver compreso quanta sia la potenza di Venere, la quale non de’ minori iddii, ma nel numero de’ maggiori è scritta, e per conseguente possiamo di ciascun altro pensare: e però se non possono, non debbono essere di cosí fatto nome né di tanti onori riveriti. Noi che possiamo, noi dobbiamo essere onorate: e che io possa giá l’ho mostrato, e ancora, come detto ho, piú aspramente intendo di mostrarlo’.
Aveva detto costei, quando Asenga, che alla sua sinistra sedeva, cosí cominciò a dire: ‛Veramente ingiuria senza ragione sosteniamo; e ben che ogni potere agl’iddii, sí come voi dite, falsamente s’attribuisca, ancora con questo alle dee e a loro è attribuita ogni bellezza. E prima diciamo della Luna, la quale non si vergognò per adietro d’amare e senza vergogna sostenere d’essere bella chiamata. Or non c’è egli ogni mese mille volte manifesto il suo viso variarsi in mille figure, fra le quali molte una sola ne è bella, e quella è quando essa, apposita al suo fratello, tutta quanta ci si mostra lucente, ancora che allora non so di che nebula ne mostri il suo viso dipinto? Ciascun’altra stagione, da questa infuori, difettuosa e laida ci appare, né ci si mostra, se ben riguardiamo, se non la notte bella, nel quale tempo le piú laide si possono, senza essere conosciute, tra le bellissime mescolare. Ma s’egli avviené, che tra lei e Febo alcuna volta la terra si ponga, noi la veggiamo di sozza rossezza tutta contaminata. Perché, adunque, è bella Giunone similmente ed Apollo, se da un poco d’austro sono turbati, e guaste le loro bellezze per li suoi nuvoli? Diana non dico, perciò che da presumere è che, se stata fosse bella, non avria consentito che Atteone, per averla veduta, fosse diventato cervo, ma che avesse parlato e narrato la sua bellezza agli ignoranti avria consentito. E piú possiamo ancora di lei dire che, perciò che ella conobbe piú la sua rustichezza essere atta alle cacce che ad amare, però quell’oficio si prese. E come di queste diciamo, cosí di Venere possiamo dire, la quale se sí bella come si conta fosse stata, saria sí piaciuta ad Adone, che egli pauroso di perdere per morte sí bella dea, avrebbe i suoi sani consigli seguiti. E similemente possiamo di molte altre dire quello che di noi non avviene. Io, bellissima, continuo bella nella mia forma mi mostro, né cambio viso né figura perch’io cambi stagione; né si patisco eclissí come la luna fa, né mi nocciano i nuvoli d’austro, né li rischiaramenti d’aquilone mi giovano come ad Apollo e a Giunone fanno, anzi, e con quelli e senza questi, continuo bella mi dimoro. Né similemente mai al viso d’alcun riguardante mi nascosi, né mi nasconderei, ma sentendomi com’io mi sento bella, mi diletto da molti essere amata e guardata. Io non comandai, né pregai, né consigliai mai cosa che essa non fosse con sollecitudine messa ad effetto e osservata: dunque, piú tosto io ch’alcuna delle sopradette sono da essere chiamata Dea’. E qui si tacque.
Dappoi che Asenga tacque, Airam, non meno che la prima superba, lodandosi oltre a modo, cosí cominciò a parlare: ‛Seguitando io voi la impotenza degl’iddii e ’l difetto delle loro bellezze a confermare, cosa da non sostenere in sí alto nome senza effetto, piú della loro mancanza vi narrerò. Essi, come voi sapete, delle future cose veridici provveditori si fanno, di quelle porgendo risponso a’ dimandanti, aggiugnendo che le presenti senza mezzo conoscono, e che in memoria ritengono le passate; ma questo non è vero, e però non si dee sostenere: e se, come giá si disse, avessono forza, gli oltraggi, che tutto giorno sentono, senza punizione non passerieno. Similmente se le bellezze loro le nostre avanzassero, contenti ne’ loro termini non quelle per le mondane abbandonerebbero, sí come molte volte hanno fatto e fanno. Se sí provvidi fossero come si tengono giá, non agl’ingegni delle semplici giovani si lascerebbero ingannare, né quelle con ingegni ingannerebbono. Se forti, perché in toro Giove mutarsi per ingannare Europa? Se belli, perché in oro per ingannare Danae? Se savi, perché non provvedere all’impromessa fatta all’amata Semele? Niuna di queste cose è in loro, e voi le due avete. mostrate, e io mostrerò la terza. Io non, meno bella d’Alcitoe, amata in prima da molti e poi da Febo, con discreto stile amando, mai ad alcuno il mio cor non patefeci, ma per non disciogliere da’ miei legami alcuno, quelli, che tal volta piú m’erano in odio, con piú lusinghevole occhio riguardava. Del numero de’ quali Febo, provveditore de’ futuri accidenti, fu. Oh, quante volte egli, per piú lungo spazio potermi vedere, con lento passo menò i suoi cavalli per mezzo il cielo, e ritennegli alcuna volta con adirata mano, cosí affrettandosi essi com’erano usati d’andare alle onde d’Esperia! E spesso, non avendo ancora loro rimessi i freni, in quelli medesimi si crucciò, volenteroso di cercare l’Aurora prima che il convenevole. Oh, quante volte si dolsero con lamentevoli voci le notti a Giove, dicendo che la ragione del loro spazio Febo occupava! E mi ricorda ancora che tanto fu un giorno il diletto che di mirarmi prendeva, che egli ebbe presso che smarrito l’usato cammino. E se non fosse stato il romore di Cinosura, che, vedendolo di lontano, temette le sue fiamme e il fece in sé ritornare, egli pure avrebbe la seconda volta arso il cielo, e io di ciò mi avrei riso, se fulminato fosse caduto sí come il figliuolo. Io non so se fu mai savio come si dice, ma se cosí fu, non so dove egli la sua scienza mandasse, che egli sempre con ferma fede credette sé essere singulare signore dell’anima mia. Esso, cercatore di tutto il mondo, portava seco d’ogni parte que’ doni ch’egli credeva che mi dovessero piú piacere, e con quelli s’ingegnava di servare l’amore mio verso di lui, e per quelli tentava sovente di volere quel diletto il quale egli avuto di Climene, piú oltre non la richiese. Ma io, piú provida delle cose che deono avvenire di lui, essendo egli ancora del tutto dal mio cor lontano, ben che altro disiderio che di lui avere non mostrassi, con belle ragioni e con impromesse prolungando le dimandate grazie, il tirai lungo tempo, quelle altrui concedendo perché piú m’era a grado. Egli forse di se medesimo ingannato, mi si credeva per la sua bellezza piú ch’altro piacere: ma non solamente sotto quella si ristringono l’amorose leggi. Questo gli recitò Venere, conscia, sí come io aveva voluto, di lei fidandomi de’ miei segreti, e insegnogli il luogo degli amorosi furti, il quale egli dalla somma altezza vide: per che quasi di grieve dolore turbato piú giorni luce non porse; ma la mancante natura supplicando a Giove, si dice che nell’usato oficio il fece tornare: né mai da quell’ora inanzi con diritto occhio non mi guardò, anzi passando avanti a me traverso, quasi sdegnoso ancora mi guarda, di che io poco mi curo. Ora poi che cosí colui che ha voce di tutte le cose vedere fu da me gabbato per senno, che si faria degli altri iddii che tanto non veggono? Credibile è che molto peggio se ne farebbe e fa, per che a me pare che se noi non sopra loro meritiamo, almeno loro pari reputare, senza alcuna ingiuria di loro, ci possiamo: e se l’avviso mio non manca, possibile ci fia levare la falsa fama che gli chiama iddii, e porla a noi; né fia chi il contradica, solo che della nostra grazia vogliamo far degni i disianti di quella’.
Risero delle parole di costei le stolte compagne; dopo alquanto la quarta di loro, chiamata Annavoi, disse: ‛Perché in tante parole ci distendiamo? Veramente in tutti né potenza né senno, né bellezza dimora: e ancora piú, essi, detti misericordiosi da tutti i viventi, di quella misericordia niente hanno. Pietá niuna in loro si trova: in loro si trovano tirannie; essi usurpatori sono dell’altrui cose. E che feci io in dispetto di Diana, la quale vendicatrice dea è chiamata? Non le tolsi io con la mia bellezza e con la forza della mia lingua, delle quali due cose fui sopra tutte le partenopesi giovani dotata, cinque fedelissimi servidori l’uno dopo l’altro, avvegna che d’eta fossero dispari, perciò che i due giá vicini erano all’arco sopra al quale l’umane forze non s’avanzano ma vengono mancando, e gli altri due ancora quelle guance mostravano che dalla madre recarono, e ’l quinto non piena la barba a maggior quantitá serbava per iscemarla? Certo sí. Costoro e con la bellezza degli sfavillanti occhi miei e con la dolcezza del mio parlare, per lo quale meritai Serena essere chiamata, legai io sí nelle mie reti, che avendo io loro fatti gittare gli archi co’ quali prima per li boschi servivano Diana, prima de’ loro tesori con soave mano li privai, e quelli sotto la mia balia ascosi, cavando loro poi dal sinistro lato i sanguinosi cuori, li lasciai senza vita. Quale vendetta mai di questo si vide? Niuna certo: e perché? Perché la potenza della parte offesa non era tale, e le vendette seguono i meno possenti. Io tal quale sia essa non la curo: e cessi dal mio petto che io mai piú in tale errore viva, che dii o dee creda che sieno, o li coltivi, o loro porga prieghi. Noi siamo dee, e quelli uomini che ci piacciono nostri iddii: e quali celesti regni piú belli che questi nostri si poriano trovare? Noi siamo tra quelle cose di che coloro, i quali l’errore rustico chiama iddii, si tengono signori. Chi dubita che miglior partito non abbia chi nella sua cittá guernito dimora, che di lontano agognando se ne chiama signore? Noi belle, noi savie, noi possenti siamo e saremo quanto il secolo si lontanerá, e degne dí quell’onore che Giove e gli altri ingiustamente s’hanno usurpato’. Tacque costei; e giá la seconda volta nell’usato ordine ricominciavano il maladetto parlare con piú aspre parole, quando gl’iddii né piú né meno che i cittadini della cittá, le cui mura subito sono assalite dal nascoso aguato de’ nemici, corrono or qua or la senza ordine, e con fretta ora entrando ora uscendo dalle case prendono l’arme, e cercano senza troppe parole la loro difesa, correndo a’ dubbiosi luoghi, fecero ne’ celestiali scanni da subita ira commossi, forse non meno infiammati, che quando dal bestiale ardire de’ giganti fu il cielo assalito. Li quali cosí corsi dierono pauroso suono, e chiusero il mondo d’oscuri nuvoli, né a niuno vento fu tenuta la via: e crucciati tutti discesero sopra questo luogo, le cui ire temendo la terra tremò forte. Ma essi lasciato il furore, si dice che prima Venere con Cupido in questo luogo entrarono, né trovarono però il malvagio colloquio cessato, anzi quelle ferme in quello, senza paura alcuna del divino giudicio, dimoravano. Qui Venere non salutò, né fu salutata; ma volta ad Alleiram disse: ’Dunque, iniqua giovane, prendi tu gloria d’aver dispiaciuto a noi, e insuperbisci per la tardata vendetta, e minacci di peggio operare? Or non pensi tu che con riposato andamento noi procediamo delle nostre ire alla vendetta, poi il tardato tempo con accrescimento di pena ristoriamo? Tu rea di gravissimo peccato, ora riceverai guiderdone. Tu rifiutatrice de’ nostri dardi, diverrai fredda e impassibile a quelli ricevere: né piú avanti piacerai, né vedrai chi per te offenda altrui, o muova briga, o sé dimentichi, né piú di cotali riderai, né eleggerai, né romperai vasi. E come giá tu niuna compassione avesti verso chi quella meritava, cosí molti, sappiendo i tuoi casi, forse di te compassione avranno: ma niente ti gioverá, ché come altri a te per pietá giá porse prieghi, cosí a te fia tolto di poterne porgere. E sí come io non ti potei a’ miei voleri recare, cosí me a’ tuoi non conducerá né uomo, né dio. E prima le lagrime di colui che giá fu tuo finiranno, e torneragli la perduta allegrezza per piú dolce oggetto che tu non fosti, che tu solamente in isperanza ritorni di ritornare nella perduta forma. E le laude giá dette della tua bellezza in amorosi versi, altro titolo che della tua prenderanno, né mai ti fia possibile il piú nuocergli che nociuto gli abbi: anzi se la mia deitá merita di conoscere alcuna delle future cose, tu, vaga di riavere la sua grazia, di quella patirai difetto, e sí come mi pare, misera conoscerai quanta sia la mia potenza da te con parole orribili dispregiata. Tu dura e immobile a’ miei voleri, in durissimo marmore ti muterai, e questa grotta neila quale tu siedi ti fia eterna casa ’; e piú non disse. Queste parole udendo Alleiram mutò cuore, e sariasi volentieri voluta pentére, ma non aveva il tempo. Ella volle con alta voce dimandare mercé, ma il sopravvenuto freddo, che giá alla lingua cosí come agli altri membri aveva tolta la possa, nol sofferse: la pigra freddezza con disusato modo nel ventre ritirò le dilicate braccia e le candide gambe, e in picciol spazio niuna cosa della bella giovane si saria potuto vedere se non un bianco tronco, il quale in durissimo marmo mutato, come voi vedete, fu trovato. E se forse alcuna rossezza in quello vedete, dicesi che Lieo gliela diede, di cui piú copiosa che il convenevole dimorava, quando qui piú furiose che savie vennero vagando.
Mentre che cosí Venere parlava ad Alleiram, Airam dubitò forte, e volle fuggire dal luogo, ma le gambe, davanti snelle, giá fatte pigre barbe di questo albero, la ritennero. E Febo venuto presente con soave voce cosí le cominciò a dire: ‛Adunque, o giovane, d’avermi ingannato, il tuo cuore celandomi e togliendomi i cari doni, ti vanti? Male e poco senno è contra lo stimolo recalcitrare, ma acciò che a te non paia che noi le malfatte cose impunite lasciamo, come avanti contasti, tu prima per lo tuo parlare sarai punita, sí come Perillo da Fallaris per lo suo medesimo artificio fu. E giá in albero parte convertita, tutta in quello, prima ch’io mi parta, ti muterai, e poi perciò che tu avesti ardimento di dire di volere essere nostra pari, tu li tuoi pedali avrai torti, né fia loro lecito il potersi troppo in alto distendere, ma piú tosto fieno sí bassi, che con poco affanno da terra ciascuno piccolo uomo coglierá i tuoi pomi. E come tu de’ miei doni ti dicesti occulta sottratrice, cosí de’ tuoi frutti gran parte gitterai alla terra prima che maturi li vegga: né quelli che rimarranno, senza vederli io, maturerai giá mai. E farò che, come tu del tuo cuore fosti a ciascuno occultatrice, i frutti tuoi, come il dolce tempo. della loro maturazione sentiranno, cosí incontanente aprendosi in piú parti, a me e a chi vedere li vorrá mostreranno le loro interiora. E della tua corteccia, perciò che sovra tutte l’altre bellezze la tua esaltasti, farò che chi alcuna cosa in oscuro colore vorrá del suo mutare non possa senza il sugo di quella’. E mentre che egli queste parole diceva, il miserabile corpo a poco a poco stremandosi, li suoi membri riduceva a questa forma che voi vedete questo granato. Né prima che in questo albero fosse mutata, le fu possibile dire una sola parola, e manco poi.
Asenga, nel mezzo di queste due, paurosa né fuggiva, né chiedeva mercede. E chi poria davanti dell’ira degl’iddii fuggire? La Luna turbata le sopravvenne, dicendo: ‛O misera, quale cagione a contaminare la nostra bellezza ti mosse? Mai da noi offesa non fosti, fuori solamente se noi a’ tuoi furtivi amori avessimo giá porta luce, fuggendola tu; ma perché di ciò a te dispiacessimo, ad infinita gente ne piacevamo: né però fu che alcun tempo a te, e all’altre di ciò dilettandosi, non lasciassimo luogo atto a’ vostri falli. Tu noi mille forme mutare in un mese confessi, tra le quali una volta bella e non piú appariamo, e a te continua bellezza essere affermi; ma tu in picciolo pruno voltata, partorirai fiori alla tua bellezza simili, i quali di mostrare quella una volta l’anno saranno contenti, e poi che le loro frondi poco durabili cadute saranno, e in quel colore che per eclissi ne dicesti rivolgere, maturandosi le tue bocciole, torneranno: e quelle tanto dal tuo pedale sieno guardate, quando le frondi, di verdi in gialle divenute, fieno dal primo autunno percosse’. E questo detto, il bel corpo in gracile frutto mutossi, a cui le gambe in pilose barbe e le braccia in pungenti rami, e la verde vesta in verdi frondi si mutarono, e ’l candido viso e le belle mani bianche rose sopra quelle rimasero in questo luogo.
Diana, la cui ira non molto era mancata, stette sopra la timidissima Annavoi, dicendo: ‛Ancora che la vendetta s’indugi, non menoma il dolore del dolente ricevitore di quella. Tu perfida ucciditrice de’ miei soggetti, sempre il commesso male mostrerai. Tu in esiguo corpo e debile a ciascuno offenditore, ti muterai, e nella sommitá di quello partorirai un fiore chiuso, il quale in cinque frondette verdi mostrerei le tre varie etá de’ miei sudditi, e aperto paleserei li mal tolti tesori, dintorno a’ quali i cinque cuori de’ miei soggetti si vedranno’; né disse piu. Questa subitamente in quella forma e in quel modo in che Asenga, si mutò; ma i fiori furono diversi, ché dove Asenga in bianco fiore con molte frondi, Annavoi in vermiglio con cinque sole, e in mezzo gialla, si trasmutò. E questo fatto, gl’iddii tornarono ne’ loro regni, e l’aere cacciò i suoi nuvoli e rimase chiaro».
Con meraviglia e fuori d’ogni credere ascoltò Filocolo infino a qui la parlante giovane, dicendo poi: «O giusta vendetta, quanto devi essere temuta da ciascuno, che queste cose ascolta! Assai sostenne la divina pietá, ché certo la menoma delle molte parole meritava maggior pena!». E con voce da questa assai diversa seguí queste altre parole: «O superbia, pericolosa pestilenza del tuo oste, maladetta sia tu! Tu, a te iniqua, non sostieni compagno. Tu, non conoscente, se’ de’ meriti guastatrice, invocatrice d’ira e suscitatrice di briga; chi seco ti tiene non sará savio, poi che tu, piú altera che possente, hai vestite le tue armi, e con gli occhi ardenti spaventi il mondo. Tu ti credi con le corna toccare le stelle, e, parlando aspro, col muovere impetuoso, rigidamente operando cacci davanti a te i meno possenti; ma la vendicatrice giustizia di te contenta l’animo de’ sofferenti, cosí dopo pochi passi torna la tua potenza come vela che per troppo vento, l’albero rotto, ravvolta cade. Tu simile a’ robusti cerri, prima ti rompi che tu ti pieghi a’ soffianti venti. Male per loro s’armarono queste misere delle tue armi. Male ancora le tue corna si posero. Giusta vendetta l’ha umiliate come degne». E queste parole dette, si rivolse al carro della luce, e videlo giá il meridiano cerchio aver passato, e declinare cosí il caldo come i raggi, per che a’ compagni tempo di tornare alla cittá disse che gli pareva, ma prima con queste parole parlò dicendo: «O sacro fonte, veramente delle dee luogo e guardatore delle loro vendette, per quella pietá che giusta ira le mosse ti priego, se per te Idalagos può alcun soccorso avere, donaglielo, e provisi alquanto la tua dolcezza ad ammollire l’acerba durezza della bella pietra da lui infino all’estremo dolore amata». Alle cui parole, se possibile fosse stato le interiora del marmo vedere, vedute si sarieno tremare, ma la morbida durezza del bianco aspetto, temendo forse la sua faccia, quello non lasciò palesare. E questo detto, Filocolo colle giovani uscí di quella, e al chiaro giorno rivenne.
Il debito ringraziare alle giovani da Filocolo fatto, mostrò quanto gli fosse stato caro la dimostrazione della fonte fattagli da loro e similmente il chiarimento delle degne mutazioni: dopo il quale, da loro con piacevoli parole prese congedo, verso la cittá co’ suoi ritornando. Alla quale ancora non pervenuto, di lontano conobbe Galeone, a lui carissimo per lo non dimenticato onore, al quale egli sopravvenne avanti che da lui conosciuto fosse. Ma non prima Galeone lo conobbe che con riverenza il ricevette: e partita la maraviglia, e l’amorose accoglienze finite, Galeone voltò i passi, e con Filocolo alla cittá ritornò, de’ suoi felici casi contento, ben che a’ suoi contrarii alquanto la sforzevole entratrice invidia aggiugnesse dolore.
Tornati alla cittá, Filocolo dimandò che fosse della bella Fiammetta, per adietro stata loro reina nell’amoroso giardino, alla cui dimanda Galeone subito non rispose, ma abbassò la fronte, e con dolore riguardò la terra. A cui Filocolo disse: «O caro amico, come prendi tu ora turbazione di ciò che giá mi ricorda ti rallegravi? Quale è la cagione? Non vive Fiammetta?. Allora Galeone dopo un sospiro disse: «Vive, ma la fortuna volubile m’ha mutata legge, e tale la mi conviene usare, che assai piú cara mi saria la morte».«E come?», disse Filocolo. A cui Galeone: «Quella stella, al chiaro raggio della quale la mia picciola navicella aveva la sua proda dirizzata per pervenire a salutevole porto, è per nuovo turbo sparita: e io misero nocchiero rimaso in mezzo il mare sono da ogni parte dalle tempestose onde percosso, e li furiosi venti, a’ quali niuna marinaresca arte mi da rimedio, m’hanno le vele, che giá furono liete, levate, e i timoni, e niuno argomento è a mia salute rimaso: anzi mi veggio da una parte il cielo minacciare, e dall’altra le lontane onde mostrare il mare doversi con maggiore tempesta commuovere. I venti sono tanti ch’io non posso né avanti né indietro andare, e se potessi, non saprei qual porto cercare mi dovessi. E ancora che la morte mi fosse cara se mi venisse, nondimeno me pure spaventa ella sovente sopra le torbide onde con le sue minacce, e gli iddii hanno rivolti gli occhi altrove, e a’ miei prieghi turati gli orecchi, e li falsi amici m’hanno lasciato, e il buono aiutare non mi pote: quale io stea omai pensatelovi».
Filocolo, che giá tali mari avea navicati, a se medesimo pensando, di Galeone divenne pietoso, e disse: «Giovane, a quel maestro, che ha piú volte operando la sua arte esperta, si puote e deesi credere con piú giusta ragione che a quello o che La sperimenta o sperimentare la dee, né questo si può negare. Sono adunque i mutamenti della fortuna varii, e le sue vie non conosciute. Giá fu che io con piú tempesta ne’ mari dove il tuo legno dimora mi trovai che tu non ti trovi, e certo non poteva sperare se non morte, né altro dintorno mi vedea, quando subitamente in porto di salute mi vidi con tranquillo mare. E tu ti devi ricordare, non sono ancora molti anni passati, quanto la tua vita alla mia fosse contraria, quando ti specchiavi nel tuo disio, e io pellegrino con grieve doglia ignorava ove il mio fosse; e ora il mio veggio e tengo, e tu quello che avevi non tieni: per che, a me riguardando, devi sperare bene. La tua doglia è grandissima: e chi dubiterá che dopo altissimi monti non sia una profonda valle? Io, il quale ho corso diversi e dolenti mari, e a cui né scoglio né secca né porto s’occulta, in quelli voglio della tua navicella essere nocchiero, e spero con quell’arte che io a salutevole porto pervenni, te dalle pestilenziose onde trarrò quando ti piaccia». «Adunque disse Galeone, «o signor mio, nelle tue mani sia la vita mia.»
Finito il ragionamento, e Filocolo dimorato alcun giorno con Galeone, lo stretto vincolo del paterno amore lo cominciò a strignere, e con intera volontá disiderava di rivedere i parenti, e cosí propose e comandò che verso Marmorina si prendesse il cammino, e seco menò Galeone, disideroso della futura sua salute. Elli passarono, o Capis, la tua cittá Capo di Campagna; e le fredde montagne, fra le quali Sulmona, ubertissima di chiare onde, dimora, si lasciarono dietro, e pervennero al luogo ove l’uccello di Dio, mutato in contrario pelo, da rustica mano si doveva ancora portare in insegna. E quindi partiti, passarono l’alpestre montagna, e trovarono l’onde dolci del Tevere; e passando avanti, i gelati monti trovarono ancora tiepidi delle battaglie che i perugini videro. La sera del secondo giorno alle graziose montagne pervennero, che nel futuro da’ vecchi doveano pigliare eterno nome. Quivi venuti, Filocolo si ricordò di Fileno, il quale in fonte lasciato aveva sopra il cerruto poggio, e disideroso di rivederlo, lá egli e’ suoi compagni n’andarono, non avendo ancora il sole di quel giorno l’ottava ora toccata.
Li grandi arnesi s’acconciarono al riposo de’ caldi giovani, e sopra le verdi erbe fra salvatichi cerri presono il cibo, dopo il quale, in picciolo spazio, con non pensato passo la notte loro sopravvenne, e il cielo pieno di chiare stelle dava piacevole indizio al futuro giorno. Per che Filocolo vicino alla fontana, sopra un praticello pieno di verdi erbette, fece chiamare Biancofiore, alla quale era ignoto il luogo dov’ella fosse, e con parole piacevoli cosí le cominciò a dire: «O lungamente da me disiderata giovane, dira’mi, per quell’amore che tu mi porti, il vero di ciò ch’io ti di manderò?» «Sí farò», disse Biancofiore.
A cui Filocolo seguí: «Etti uscito della memoria Fileno, a cui tu con le proprie mani donasti per amore il caro velo? O sospirasti mai per lui poi che di Marmorina temendomi si partí?». A queste parole dipinse Biancofiore il suo candido viso per vergogna di bella rossezza, ma le notturne tenebre le furono graziose, e quella celarono, e rispose cosí: «Signor mio, a me sopra tutte le cose caro, e a cui niuno mio segreto deve essere ascoso, assai volte di Fileno mi sono ricordata e mi ricordo. E come potrá egli mai dalla mia mente uscire, con ciò sia cosa che ancora mi spaventi la rimembranza della pistola ch’io da te ricevetti, turbato per la falsa opinione avuta di me per lo ricordato velo, il quale io, costretta dalla tua madre, donai, non per mia voglia? Ma veramente mai amore per lui sospirare non mi fece: anzi giuro che se lecito fosse odiarlo, io chiederei di grazia agl’iddii che la sua memoria levassero di terra». Disse allora Filocolo: «Sariati caro vederlo?». A cui Biancofiore: «Certo sí, nella vostra grazia; e la cagione che a questo mi moveria non saria amore ch’io gli porti, ma sola pietá de’ suoi parenti, la vita de’ quali io reputo che simile a quella de’ vostri sia, con ciò sia cosa che egli a’ suoi unigenito sia, sí come voi ai vostri: voi per me lasciaste i vostri dolenti, ed egli senza alcuna colpa, ma per sospecione di me meritò la vostra ira. Amommi, e però fu tolto al padre. Ora che avria la fortuna fatto a lui nocente, se egli m’avesse odiata? Concedano gl’iddii e a voi e a me che da tutti siamo di buono amore amati, e se essere non può che amati siamo di qualunque amore, e amiamo noi ciascuno come si conviene. «Ottimamente parli» disse Filocolo, e io la mia grazia e la tua presenza gli renderò, certo della tua fede, della quale ben fui per adietro certo; ma noi amanti ogni cosa temiamo, e però odiai. Come Febo ne renderá il nuovo giorno, rendute grazie agl’iddii che prima di te mi diedero speranza buona, ti farò lui vedere, il quale per dolore in su questo poggio in fontana si convertí.»
Posaronsi la notte nel salvatico luogo sotto le tese tende, difesi da’ sopravvegnenti casi da’ loro sergenti; ma venuto il nuovo giorno, il duca, Ascalione e gli altri compagni insieme con Galeone furono a chiamare Filocolo, il qual levato, fece l’antico tempio mondare sí come l’altra volta, e fatto accendere fuochi sopra gli umidi altari, e fatti uccidere piú tori per salvazione di sé e de’ suoi compagni, con puro core offerse a’ fuochi le debite interiora di quelli, rendendo con queste voci grazie de’ ricevuti beneficii: «O sommo Giove, governatore dell’universo con ragione perpetua, e tu, o santa Giunone, la quale con felice legame congiugni e servi i santi matrimonii, e tu, o Imeneo, degno ed eterno testimonio di quelli, lodati siate voi! Ora per voi sento pace, e ho la lunga sollecitudine abbandonata, perciò che gli occhi miei veggono ciò che per adietro lungamente disiderarono, e le mie braccia stringono la loro salute. E tu, o santissima Venere, madre de’ volanti Amori, insieme col tuo amante Marte, ricevete i nostri sacrificii, li quali sí come a protettori e a guidatori delle nostre menti afferiamo. E voi qualunque iddii del solitario e diserto luogo siete abitatori, e da cui la veridica promessione ricevemmo, prendete olocausto in riconoscenza di tanto dono. E tu, o cielo, adorno di molte stelle, ricevi con tutti i tuoi iddii le nostre voci. E tu terra co’ tuoi, e similmente co’ suoi il verdeggiante mare, e della nostra salvazione visitati con possibili sacrificii vi rallegrate, e per inanzi di bene in meglio ne prosperate, acciò che nelle nostre bocche sempre cresca la vostra loda». Biancofiore, Glorizia, Ascalione, il duca e gli altri compagni e servidori di Filocolo, tutti ginocchioni nel tempio davanti a’ crepitanti fuochi dimoravano, seguendo con tacita voce ciò che Filocolo alto diceva nel cospetto degl’immortali iddii. Ma finite le divote orazioni, e levati da quel luogo, ordinarono, ad onore di quelli, giuochi con solenne ordine, e di quindi se ne vennero sopra la bella fontana, alla quale venuti, sopra la verde erbetta che i margini di quella adornava, Biancofiore prima e poi ciascuno degli altri si posero a sedere, e videro quella per li due luoghi del mezzo, sí come usata era per adietro, bollire. Di che Biancofiore, che ancora veduto non l’aveva, si maravigliò, e pensando allo stato di Fileno nel quale giá per adietro veduto l’avea, e a quello in che ora il vedeva, pietosa senza fine quella riguardando divenne, e parlato avria la sua pietá dimostrando, se non che avanti di lei cominciò verso Filocolo Menedon a dire queste parole: «O grazioso signore, debita pietá mi muove, la quale, dentro al cuore, del misero Fileno mi porge compassione, pensando che gli avversarii fati tanto tempo fuori della sua forma in questa l’abbiano tenuto: e certo se benivoli mi fossero gl’iddii, io gli pregherei per la sua salute, dove a voi dispiacere non credessi, perciò che egli mi fu assai caro, e a voi non dovria giá dispiacere, perciò che se voi avete i vostri disii ricevuti, degli altrui danni non dovete essere vago». «Non m’aiutino essi gl’iddii» disse Filocolo, «se la salute di Fileno non disidero, e se quella non mi fosse cara se la vedessi.»
Mentre che cosí sopra la chiara onda si ragionava, quella tutta commossa nel mezzo, di sé mandò fuori una pietosa voce, e disse: «O tu il quale da debita pietá de’ miei danni se’ mosso a sí bene di me parlare, e la cui voce riconoscere mi pare, se ’l lungo dolore, o voce a quello ch’io credo simile, non m’inganna, gl’iddii mettano i tuoi piaceri avanti, e te guardino da simile caso, acciò che mai non provi quello di che se’ con ragione pietoso. Io ti priego per quella pietá che di me nel tuo petto dimora, se io mai ti fui caro, che quello che poco inanzi dicevi metti avanti, acciò ch’io cosí ti possa vedere come t’odo parlare, e adempiasi quel che la speranza mi promette». Menedon e gli altri a questa voce tutti attoniti diventarono, ancora che altra volta l’avessero udito parlare, e tacquero alquanto, e poi Menedon ricominciò: «Niuna ammirazione ho se la mia voce conosci, però che si com’io credo, le avversitá non danno a chi le riceve dell’amico oblianza; ma dimmi, se non t’è grave, qual via sia a’ tuoi beni piú utile, acciò che io per quella correndo ti riduca nel pristino stato». A cui Fileno: «Oimè, quanto lontano a quello mi sento! Una sola cosa mi manca, la quale avendo viverei contento, e quella è la grazia del signor mio Florio, figliuolo dell’alto re Felice, a cui io giá ti conobbi compagno: me ne sieno testimonii gl’iddii che fedelmente l’amai e l’amo! E non è lungo tempo passato che i miei dolori moltiplicarono, sentendo io da un giovine, nato vicino a Marmorina, che quinci passò, com’egli aveva la sua bella Biancofiore perduta, e pellegrinando con dolore la ricercava: e se egli quella riavesse, certo io conosco gl’iddii si misericordiosi, che essi mi renderebbero la perduta forma. Quella sola dunque mi procaccia con valevoli prieghi, quella mi racquista se mi vuoi trarre d’affanno. E se tu, o giovane, disideri forse di sapere perché io la perdessi, tel dirò. Certo io non sacrilegio, non tradimento, non omicidio, non ribellione commisi, perché giustamente movessi il mio signore ad ira, ma come giovane amai: e cui? Non sua nemica, ma quella giovane ch’egli sopra tutte le cose del mondo amava: io dico Biancofiore, la cui bellezza quanti la vedevano tanti ne innamorava. E certo io ignorava che egli lei amasse, ché se saputo l’avessi, ben che il cuore dell’amor di lei portassi ferito, con forza mi sarei infinto di non amarla. E quantunque io pur molto l’amassi, guastava però il mio amore la sua fermezza, la quale si dice che mai per alcuno accidente non mutò cuore: certo no! E se io il bel velo ebbi, il quale col mio non tacere mi fu di tanto male, quanto io sento e ho poi sentito, cagione, ella invita, comandandoglielo la reina, mel concedette: adunque per amore puoi vedere ch’io mi dolgo. Oimè, che se l’ira d’uno potesse trarre amore del cuore d’un altro, io direi che lecito gli fosse stato l’adirarsi; ma quella in me misero il multiplicò, né l’ha però scemato il lungo esilio. Ora quali cose sono con maggiore appetito disiderate che quelle che sono molto vietate? Veramente io ti giuro, che mai il mio pensiero non si distese tanto avanti ch’io sconcia cosa da Biancofiore disiassi, né disidererei giá mai, sentendo sí com’io sento che ella sia da lui sopra tutte le cose amata. Né mi pare ingiusta cosa a dire ch’egli piú si debba contentare che io la amassi che se io la odiassi. E se quel c’ho detto non si concede, e dicasi pure ch’io gravemente abbia fallato, o consentasi, e sia a chi si pente largito perdono. Giove perdona e ciascuno altro iddio a’ suoi offenditori, quando, riconosciuto il fallo, pentendosi dimandano perdono. Veramente mi saria grazia, s’io fallai, che il mio signore mi perdonasse, ché s’io non fallai, avendomi in ira, mancherebbe di suo dovere. Tanto è la grazia grande quanto è il perdono. Niuna ragione vuole che grado si senta del non ricevuto beneficio. S’io fossi in Marmorina e servissilo, e avessi la sua grazia intera, di ciò il mio servigio sentirei dovere rendere grazie. Oimè, che a’ signori dovria essere spesso caro il fallare de’ soggetti per poter perdonare, acciò che perdonando la loro grande benivolenza si mostrasse. Sanno bene gl’iddii, conoscitori degli occulti cuori, che io tal guiderdone del mio amore non meritai, ma forse altro peccato a sí fatta pena, sotto questo titolo d’avere Biancofiore amata, non senza ragione, m’ha menato. Bella vittoria e grande è il perdonare. Dunque per onore del mio signore, e per lo mio utile il priega: e se tanto di me ti cale, non ti paia l’affanno, che non fia piccolo, malagevole, acciò che me possa rendere lieto a’ miseri parenti, ignoranti de’ miei angosciosi fati. Per merito del quale bene, se ’l farai, spero che lungamente gl’iddii ti serveranno lieto a’ tuoi, se gli hai».
«Non fia si lungo come pensi l’affanno», rispose Menedon alla fonte. E volto a Filocolo, a cui niente riferire bisognava, che tutto aveva udito, con umili prieghi gli domandò che la sua grazia gli rendesse, e con Menedon ciascuno degli altri in merito del lungo affanno similemente la dimandarono. A’ quali Filocolo liberamente la concedette, giurando per se medesimo che di perfetto amore l’ameria per inanzi, e le preterite cose sí come fanciullesche metteria in oblio: di che tutti il ringraziarono. E Filocolo a Biancofiore commise che sí lieta novella narrasse all’aspettante, la quale graziosa non aspettò il secondo comandamento, ma voltato sopra la fonte il viso, riguardando in essa, disse: «O giovane, che nelle liquide onde la tua forma nascondi, confortati, la grazia del tuo signore t’è renduta: e però sicuro nella sua presenza ti presenta». La chiara fonte sí tosto come in sé ricevette la bella imagine della sua donna, la conobbe, e lasciato l’usato bollore, con soave movimento intorno a quella mostrava festa, e la voce entro per le dolenti caverne rendeva letizia, per che il misero cosí parlò: «O immortali iddii, a’ quali niuna cosa si occulta, sia la vostra inestimabile potenza lodata. Io per la vostra benignita quella dolcezza ho gustata, che la nemica fortuna mi tolse quando Marmorina abbandonai, e quella donna, per cui l’amara iniquitá sostenni, la riavuta grazia m’ha annunziata. Piacciavi adunque misericordiosamente operare che io nella prima forma tornando lieto a’ cari amici mi presenti». Egli diceva ancora queste parole, quando i circustanti videro le chiare acque coagularsi nel mezzo e dirizzarsi in altra forma abbandonando il loro letto erboso, né seppero vedere come subitamente la testa, le braccia, il corpo, le gambe e l’altre parti d’un uomo, di quelle si formassono, se non che, riguardando con maraviglia, co’ capelli, con la barba e co’ vestimenti bagnati tutti trassero Fileno dal cavato luogo, e davanti a Filocolo il presentarono. Al quale egli, come il vide, s’inginocchiò davanti, e con pietose voci dimandò perdono, e appresso di Filocolo la benivolenza, le quali cose benignamente Filocolo gli concedette. Egli fu di nuovi vestimenti vestito e adorno, e li ravviluppati capelli e la malestante barba furono rimessi in ordine, levandone le superflue parti, e lieto si diede con gli altri cavalieri a far festa, maravigliandosi non poco qual caso quivi gli avesse menati insieme con Biancofiore. Il cui viso poi ch’egli ebbe veduto, stimandolo piú bello che mai gli fosse paruto, contento tacitamente si dispose al vecchio amore, credendo senza quello niuna cosa valere.
Queste cose cosí faccendosi, s’udi nel luogo un grandissimo romore, come di gente che, combattuuto, avesse la vittoria del campo acquistata. Del quale Filocolo co’ suoi si maravigliò, e dubitando alquanto dimandò Fileno se noto gli fosse e che significasse il romore, e chi il facesse. Al quale Fileno rispose sé molte volte simili romori avere uditi, ma per chi fatti fossero del tutto ignorava. Allora sí come a Filocolo piacque, il duca Feramonte e Massalino, sopra forti cavalli, armati e accompagnati da molti de’ sergenti, andarono per conoscere la cagione di tanto romore, e usciti dal folto bosco videro nel piano, alla riva del picciolo fiume, dall’una parte e dall’altra molta gente rustica nel sembiante, a’ quali non tenda né padiglione era, ma tagliati rami davano loro le disiate ombre; né alcuno v’era che di cappello d’acciaro o d’elmo rilucesse, né che cavallo facesse fremire nel povero campo, né tromba risonare, ma rozze corna movevano la disordinata gente a’ suoi mali; e quasi la maggior parte delle loro arme erano bastoni, e poche spadette tenevano occupati i loro lati, le quali poche non avevano forza di piegare i solari raggi in altra parte, che dove il sole gli mandava. I loro scudi erano ad alcuni le dure scorze del morbido ciriegio, ed altri si capriano di quelle della robusta quercia, e alcuni forse piú nobili gli avevano, ma si affumicati, che in essi niun’altra cosa che nera si vedeva. In luogo di balestra usavano frombole, e i loro quadrelli erano ritondi ciottoli; le loro lance si prendeano da’ fronzuti canneti. Archi erano loro assai, le cui saette in luogo di ferro erano appuntate col coltello, né era loro bandiera alcuna, fuori che una di tela assai vile, la quale mezza bianca e mezza vermiglia si mostrava al vento, credo piú tosto di pecorino sangue tinta che di colore; e simigliantemente l’avversa parte l’aveva di tanto diversa, che all’una era il bianco di sopra e all’altra era di sotto: e di dietro a queste ora qua, ora la, quale poco e quale assai correvano disordinati.
Come il duca e Massalino videro i rozzi popoli, di loro si risero, e alquanto gli riguardarono, e giá avevano determinato di ritornarsi indietro, quando Massalino disse: «Perché non andiamo noi a loro, e di loro condizione ci facciamo certi, acciò che tornando a Filocolo, il quale di tutto loro essere ci dimanderá, non sappiendogliela ridire, non siamo da lui scherniti?». «Andiamo», rispose il duca; e verso quelli che giá mostravano di loro dubitare, con segno di pace s’appressarono, e con graziosa voce, non mostrando d’avere la loro picciola condizione a schifo, gli salutarono, e quelli, che sopra la riva del fiume dimoravano dal lato del bosco, dimandarono chi fossano e perché quivi stessono, e quale era stata la cagione del loro romore poco avanti. A’ quali uno di loro, il quale forse aveva degli altri il maestrato, cosí rispose: «Noi, li quali voi qui vedete, siamo abitatori d’un picciolo poggio qui vicino, il quale gli antichi nostri chiamarono Calone, e noi da quello Caloni ci chiamiamo, popolo robusto e fiero nelle nostre armi, e niun altro è a cui il lavorio della terra meglio sia noto, né ch’a fatica in ciò a comparazione di noi possa durare: e la cagione per che qui dimoriamo è acciò che passare possiamo questo fiumicello e di sopra a quel terreno cacciare m perdizione la gente che ivi vedete, la quale nuovamente venuta qui, un poggio simile al nostro, che in nostra iurisdizione era, s’ha preso, e abitalo oltre il nostro volere, e chiamansi Cireti. I quali, sí come voi vedete, a contradirci il passo qui a fronte a noi sopra la rivera si sono posti, né in alcuna parte possiamo su per quello andare che essi non ci vengano tuttavia davanti. Il gran romore che fu poco avanti fu per due che nell’acqua si combattevano, a conforto de’ quali ciascuno col gridare aiutava il suo, ma ultimamente il nostro ebbe vittoria, per che di quercia l’incoronammo, come la vedere il potete». Disse allora Massalino: «Secondo ch’io avviso, voi dovreste con pace poter sostenere che coloro abitassero il loro poggio, per che sí gran popolo non mi parete che soperchio terreno senza quello che coloro hanno preso non abbiate, ma ne avete tanto che senza coltura la maggior parte veggiamo». «Certo» disse il villano, «piú contrarieta di sangue che vaghezza di terreno ci muove a queste brighe, per mio avviso.» «Che contrarietá di sangue» disse Massalino, «è tra voi? Non siete voi tutti uomini, e _in una contrada abitanti, e in un luogo?» «No», rispose colui; «noi fummo dell’antica cittá di Fiesole, e allora di quella uscimmo quando Catelina, de’ nostri mali singulare cagione, superato da Antonio e da Afranio ne trasse i nostri antichi, i quali della mortale battaglia appena campati qui fuggirono, e quasi in dubbio della loro salute abitarono quel poggetto che davanti vi dissi, sotto quel nome che avete udito che ci chiamiamo. Ma costoro, non è gran tempo passato, quando Attila guastò la nuova cittá da’ romani fatta a’ piè della nostra, temendo le fiamme e l’ira del tiranno, qui fuggirono, e senza alcuno congedo abitarono il paese prima da noi occupato: per che noi, a giusta ira mossi, ogni anno a quello che ora ne vedete ne siamo e saremo infino a tanto o che noi di questo paese fuggendo gli cacceremo o che essi noi e le nostre case renderanno vinti.»
Udite queste cose, il duca Feramonte e Massalino si partirono da loro e tornarono a Filocolo, e ciò che udito avevano e veduto gli dissero: di che Filocolo si rise, e volle andare a vedere. E venuto ad essi, tanto con parole gli commosse che essi presero ardire, e si misero a passare il fiume, il quale non sopra la cintura gli bagnava. Ma essi non furono giunti all’altra riva, che i loro avversarii armati vennero loro incontro, e in mezzo al fiume cominciarono senza ordine la loro battaglia forte, co’ duri bastoni lacerando le salvatiche armi e i loro dossi. Arco né frombola non ci avea luogo per la loro vicinitá; e se alcuna spada v’era, o dava in fallo o se feriva si torceva. L’acqua che giá piú rossa che bianca correva, gl’impediva molto, e tal volta i piú codardi faceva valorosi combattitori, nella molle arena ritenendo i loro piedi, i quali per lo duro campo sariano fuggiti. Ma poi che per lungo spazio combattendo ebbero durato, tornandone molti dall’una parte e dall’altra magagnati, avendo Filocolo assai riso co’ suoi compagni de’ modi nuovi di costoro, col suo cavallo entrò nell’acqua, e li pochi rimasi alla battaglia divise, e ciascuno pari fece al suo campo tornare. Ritornati cosí costoro, non dopo molto spazio le risa di Filocolo si voltarono in pietá, vedendo i magagnati dolersi e senza alcuno compenso a’ loro mali. E perciò che a lui pareva di ciò essere stato cagione, si pensò di volergli pacificare, e in ristorazione de’ loro danni fare una terra nella quale sicuri vivessero sotto savio duca: e questo narrando a’ compagni, da tutti fu lodato.
Allora Filocolo fece a sé chiamare dell’una parte e dell’altra i principali, e la cagione dimandò della loro discordia. De’ quali l’uno perché combatteva, l’altro perché si difendeva narrarono interamente, a’ quali Filocolo disse: «O miseri uomini, poveri e d’avere e di consiglio, perché al piccolo numero di voi, lo quale ha piú tosto d’aumento bisogno che d’altro, combattendo cercare distruzione? A voi dovria bastare seguire di Saturno la dottrina, senza volere di Marte usurpare l’oficio, perciò che in voi né nobiltá di core, né ordine, né senno, né arme non dimora. Voi combattete acciò che soli qui rimagnate in questo piano, ma non vi avvedete che, se questo continuate, in brieve tempo il piano di voi rimarra solo, e le case che avete con affanno fatte e che dovreste in pace abitare, gente strana verrá che senza affanno le si goderá. Ora fu dagl’iddii data alla terra l’ampia superficie, perché un popolo solo la dovesse abitare? Non vi bastava il luogo che possedete? Che vi faceva se costoro alquanto da voi lontano si posero a dimorare, i quali, pensando che vostri antichi fratelli furono, se ben si guarda, dovevate nelle vostre case proprie ricevere? Pensando che similmente voi cosí come essi fuggitivi veniste in questo luogo, e quella ragione ci avevate che essi ora per loro difendono? Io pietoso de’ vostri danni voglio che l’uno all’altro perdoni le ricevute offese, e che sia tra voi vera e perfetta pace: e cosí come voi foste fratelli, cosí ricominciate, e de’ due popoli piccoli e cattivi divegnate uno grande e buono. E io, acciò che l’uno non isdegni andare a casa dell’altro ad abitare, vi darò nuova abitazione, la quale vi cignerò di profondi fossi e d’altissime mura e di forti torri, e in quella vi donerò armi, per le quali, se alcun vicino invidioso del vostro luogo ve lo volesse torre, il potrete difendere. Io vi darò similmente chi vi guiderá con ragionevole ordine, e le vostre quistioni con diritto stile terminerá, e sotto la cui protezione sicuri viverete come uomini: e oltre a questo, vi donerò doni, pe’ quali ornare vi potrete e parer belli quando gli altrui paesi visitare vorrete». Davanti al viso del magnifico uomo niuno seppe che dirsi, ma contenti dell’alte promessioni, strignendo le spalle, dopo alquanto risposero: «Messere, noi faremo ciò che voi vorrete». E tornato ciascuno a’ suoi queste cose riferí. E quali migliori novelle potevano loro essere contate? Essi, poco davanti in tanta discordia, insieme nel cospetto di Filocolo tutti vennero, e quelli che impotenti erano per i ricevuti colpi vi si fecero portare, e gittatiglisi a’ piedi, con una voce tutti la profferta grazia dimandarono, la quale Filocolo disse di fare. E fattigli entrare nel santo tempio, prima per la futura pace offersero sacrifici agl’iddii e quella con orazione divota dimandarono, e poi in presenza degl’iddii e di Filocolo e de’ suoi compagni baciandosi tutti insieme giurarono mai per accidente alcuno tal pace non rompere, ma intera fra essi e’ loro successori servarla, e sempre essere a Filocolo, o a chi per lui vi rimanesse, soggetti.
Queste cose fatte, Filocolo rimaso in sollecitudine d’osservare le promesse cose, co’ suoi compagni cavalcò per la contrada salvatica, esaminando con gli occhi e con la mente qual luogo piú alle nuove mura fosse atto, appresso il quale insieme andavano Fileno e Galeone simile cosa guardando. E avendo per lungo spazio attorniato il paese, Galeone disse a Fileno: «Perché Filocolo sopra questo poggio, dove questo cerreto dimora, non edifica la nuova terra? Niuno luogo ho veduto ancora in queste parti tanto atto a tal mestiere: questo tutta la contrada signoreggia, questo è forte luogo e bello, questo è d’acque abbondevole, sí come molti piccioli rivi ne mostrano. Questo è quasi in mezzo tra l’una abitazione e l’altra de’ due popoli divenuti uno. Niuno difetto è qui, per lo quale piú tosto sia da cercare altro luogo. Esso è similmente dall’orientale plaga vicino al fiume ove fu la sconcia zuffa di costoro, e ’l mezzogiorno da loro il veloce fiume chiamato Elsa. Io direi che questo fosse il migliore luogo che avere si potesse in questa parte». Questo diviso piacque a Fileno, e parve loro di dirlo a Filocolo. Le quali cose come Filocolo udi, cosí acconsenti al loro consiglio dicendo: «Veramente cosí è come voi dite, e qui per lo vostro consiglio fermeremo a’ villani la nuova terra».
Chiamaronsi i villani come a Filocolo piacque, e l’antica selva, dove mai scure non aveva suo taglio provato né dente d’alcuna bestia fatto offesa, per paura degl’iddii, credendo i circustanti che qualunque fronde di quelle fosse piena di deitá, comandò che si tagliasse tutta, ma prima con pietosa orazione scusandosi agl’iddii, se in essa forse alcuni n’abitassano, cosí dicendo: «O iddii di questo luogo abitatori, se alcuno ce ne abita, perdonatemi la nuova ingiuria la quale io non arrogante contro alla vostra potenza commetto sí come Erisitone fece, ma disideroso di darvi per abitacolo piú fruttuosa selva che di cerri, fo questo». E dette queste parole, con le proprie mani faccendo quello che molti dubitavano di fare, a tutti porse ardire.
Tagliato l’antico bosco, Filocolo, pietoso de’ disperati popoli, pensò al loro riposo con sollecitudine, disiderando poi di rivedere il padre. Ma Biancofiore da altra sollecitudine era molestata; e Glorizia, che il dolce aere della vicina Roma sentiva, accesa d’ardente disio di rivedere quella oltre all’usato modo, dimorando sola un giorno con Biancofiore, cosí le cominciò a dire: «O giovane donna lungamente per lo mondo errata, come non ti strigne l’amore della tua patria? Come non disideri tu di vedere la tua Roma la quale tu mai non vedesti? Or non ti saria egli caro vedere gli stretti parenti del tuo padre, e quelli della tua madre, i quali tu non conosci né essi te? Tu ora se’ a quella vicina, né puoi a vederla niun tempo eleggere migliore: e certo quello che fu in disiderio agli strani, posti nell’ultime parti de’ regni, dei quali ancora ti vedrò coronata, ben dee essere a te, di lei figliola, in volontá: preegane il tuo Florio che di quindi ci andiamo, il quale niuna cosa pare che tanto disideri quanto il piacerti. E se egli forse per la nuova impresa vuole pure essere qui, e, questo fornito, non vuole piú tempo mettere in mezzo a rivedere il padre, concedati almeno che in questo mezzo noi possiamo andare a vederla. Noi, accompagnate dal suo e tuo maestro Ascalione, staremo poco a tornare qui, ché certo quinci partendoci non si vedrá il sole sei volte nuovo, prima che tu vedrai i tuoi strettissimi parenti e di Roma grandissimi prencipi. Vedrai le grandissime nobiltá della tua terra, tra le quali il gran palagio ove i romani consigli si facevano, e similmente il Coliseo, e Settensolio, fatto per gli studii delle liberali arti. Vedrai la sepoltura del magnifico Cesare tuo antico avolo, posta sopra l’acuto marmo di Persia; e vedrai la colonna d’Adriano e l’arco adorno delle vittorie d’Ottaviano. O quante cose mirabili ancora, vedute queste, ti resteranno a vedere! Io poi da tutti i tuoi parenti conosciuta, darò con le mie parole ferma fede che tu di Lelio e di Giulia sia stata figliuola, e sarò creduta, però che i miei parenti, ancora che al tuo servigio io sia, non sono ignobili. Ed essendo tu riconosciuta da’ tuoi, sarai ricevuta negli antichi palagi, e intorniata di nobilissime donne, le quali per lo grande amore che ti avranno e per le tue bellezze ti guarderanno per maraviglia, faccendoti ciascuna onore a prova, e sarai da tutte tacitamente ascoltata narrando i tuoi casi, i quali esse ascoltando spanderanno lagrime d’amore baciandoti mille volte, e appena parrá loro che tu con esse sia, tanto fia il disiderio loro d’essere teco. E i fratelli del tuo padre, lieti di sí bella nipote, ordineranno feste, parendo loro avere racquistato il perduto Lelio, e saranno molto piú di te ora contenti che se picciolina t’avessero avuta, e massimamente sentendo la veritá della tua virtuosa vita, laudevole infra le dee del cielo, e ancora veggendoti sposa di Florio, figliuolo di sí alto re, com’è quello di Spagna: e piú si rallegreranno, sentendo che corona d’oro sia alla tua testa apparecchiata quando il vecchio re morisse, ancora che molti de’ tuoi antichi la portassero. Perché mi fatico io di dirti quanto tu dell’andarvi diverrai contenta, con ciò sia cosa che io mai la menoma parte dire non te ne potrei? Però andiamoci, ché, se niuna altra cosa te ne seguisse, se non che tu conoscerai te non essere quella che forse tal volta la coscienza ti dice, per le udite parole sí vi dovresti tu volere andare. E con tutte queste cose ancora farai tu me lieta piú ch’altra femina fosse mai, però che io rivedrò i miei, i quali forse giá è lungo tempo dierono per me pietose lagrime, credendo ch’io fossi morta. Non essere a’ miei prieghi dura, io te ne priego, ma se io mai grazia da te meritai, concedi questo ch’io con tanti prieghi t’addamando».
Glorizia tacque, e Biancofiore cosí le rispose: «O donna, a me piú cara che madre, e cui io sola per madre riconosco, perché con tanto affetto priego sopra priego aggiugnendo mi prieghi, né piú né meno come se tu avessi in me sí poca fede che incredibile ti fosse che io per te non facessi ciò che per me si potesse operare? Tu disideri d’essere in Roma, e a me t’ingegni, dov’io d’esservi non disiderassi, di farmelo dísiderare con le tue parole, le quali in veritá il gran disio, ch’io aveva di vederla, assai m’hanno acceso: e se io mai disiato non l’avessi, vedendolo a te disiare, sí lo disidererei; ma come posso io mettere ad effetto, se non quanto piace al mio Florio? Non sai tu che per matrimoniale legge gli sono legata? Io non posso, né debbo far piú ch’e’ voglia, però che egli è mio signore per molte ragioni. Non fu’ io in casa sua nutricata? Non sono io da lui per tutto ’l mondo stata ricercata? Non m’ha egli con pericolo della sua propria persona tratta delle mani della canina gente, ov’io era in servaggio venduta? Non sono stata io per lui due volte liberata da morte? Non sono io similmente sua sposa? Dunque seguire i suoi piaceri deggio, non egli i miei. Se tu vuoi ch’io il prieghi, ben so che nulla cosa è che al mio priego e’ non facesse; ma io debbo guardare di che lo priego, però che sovente priegano alcuni di cose che pregando a sé negano il servigio. Come potrei giustamente pregare Florio che a Roma venisse, con ciò sia cosa che egli m’abbia detto, giá è assai, che egli sopra tutte le cose del mondo disidera di rivedere il vecchio padre, della cui morte egli dubita molto, per lo dolore nel quale egli il lasciò, quando da lui per cercar me si parti? Dirogli io: ‛Cerchiamo prima Roma’, sappiendo ch’egli altro disidera? E se, come tu dí, la magnificenza e la bellezza di Roma ha potere di trarre a sé gli uomini di lontani paesi a farsi vedere, dunque quanto maggiormente deve potere, veduta, ritenergli? Ecco che Florio a’ miei prieghi vi venisse, e di quella vago oltre alla sua intenzione vi dimorasse, e in questo tempo alcuna novitá nel suo regno nascesse, la quale egli andandovi trovasse, non direbbe egli: ‛Per te, Biancofiore, m’è questo avvenuto, che mi tirasti a Roma ’? E s’egli il dicesse, qual dolore mi saria maggiore? E forse ancora per quello che il suo padre fece al mio, dubita di venirvi, e non senza ragione: però ch’io ho giá udito che i romani niuna ingiuria lasciano inulta. Ma tu dí: ‛Andiamo noi senza lui’; ora non pensi tu come egli mi ama, e che mai da sé partire non mi lascerebbe, a cui, per l’essere noi divisi, tanta noia quanta tu sai è avvenuta? Certo egli tenendomi in braccio appena mi si crede avere, e continuamente dubita che li contrarii fati non tornino che me gli tolgano; e non una ma molte volte m’ha detto che mai altro che morte non ne dividerá, la quale gl’iddii facciano lungo tempo lontana da noi. E s’egli pure avvenisse che senza sé in alcuna parte mi fidasse, non è alcuna ove egli piú tosto non mi lasciasse andare che a Roma, però che egli s’imaginerebbe che i miei parenti a lui mi togliessono, e ad altrui mi dessono, la qual cosa io mai consentirei: dunque seguitiamo prima i suoi piaceri, però che si conviene lasciargli prima rivedere il vecchio padre e la dolente madre e il suo regno, i quali veduti, con piú audacia gli dimanderò Roma vedere co’ miei parenti. Tanto abbiamo sostenuto, ben possiamo questo piccolo termine sostenere, e io te ne priego che infine quell’ora, per amore di me, con pazienza sostenga il tuo disiderio».
Non parlò piú avanti Glorizia, se non: «Quanto ti piace t’attenderò»; e tacitamente da lei partendosi, fra sé disse: «Quello Dio il quale io adoro e in cui spero, tosto la mi faccia rivedere». Sopravvenuta la notte, Biancofiore nel dilicato letto si diede al notturno riposo: la quale poi che de’ gradi con che sale ebbe passati cinque, nel sonno furono da Biancofiore mirabili cose vedute. A lei pareva essere in parte da lei non conosciuta, e vedere quivi davanti da sé sospesa in cielo una donna di grazioso aspetto molto, e le bellezze di quella le sue in grandissima quantitá le pareva che avanzassero; a cui ella vedeva sopra la bionda testa una corona di valore inestimabile al suo parere, e i suoi vestimenti vermigli e percossi da una chiara luce fiammeggiavano tutto il circustante aere, de’ quali niuna parte era senza adornamento di nobilissime pietre e d’oro; e nella destra mano le vedeva una palma verde, simile da lei mai non veduta, e la sinistra teneva sopra un pomo d’oro, che sopra il sinistro ginocchio si posava, e sedeva sopra due grifoni, i quali verso il cielo volando, tanto l’avevano verso quello portata, che le pareva che la sua corona con le stelle si congiungesse, e sotto i suoi piedi teneva un altro pomo, nel quale Biancofiore rimirando estimava che tutte le mondane regioni descritte vi fossero e potessonsi vedere. Ella vide similmente dal destro e dal sinistro lato di costei un uomo di grandissima autorita ne’ suoi sembianti; ma quelli che dalla destra della bella donna sedeva, le pareva che fosse antico, e negli atti suoi modesto molto, similmente come la donna incoronato di corona significante incomparabile dignitá, il quale era vestito di vestimenti bianchi, ben che un vermiglio mantello sopra quelli avesse disteso, e sopra uno umile agnello le pareva che si sedesse, nella mano destra tenendo due chiavi, l’una d’oro e l’altra d’argento, e nella sinistra un libro, e i suoi occhi sempre aveva al cielo. Ma certo colui che dalla sinistra della donna sedeva, era d’altro aspetto: egli era giovane e robusto e fiero ne’ sembianti, incoronato d’una corona tanto bella che quasi con la luce che da essa moveva e la donna e ’l vecchio tutti faceva risplendenti, ed era di vermiglio vestito come la donna, e sedea sopra un ferocissimo leone, nella sinistra mano tenendo un’aquila e nella destra una spada, con la quale in quel ritondo pomo che la bella donna sotto i piedi teneva, faceva non so che rughe. Le quali cose Biancofiore con ammirazione riguardando, e massimamente la bellezza della gentil donna, fra sé le pareva cosí dire: «O bella donna, la quale nel viso non sembri mortale, beato colui che tale singulare bellezza possiede quale è la tua. Certo io non vorrei per alcuna cosa che cosí com’io ti veggio il mio Florio ti vedesse, però che mi parrebbe essere certa che di leggieri me per te mettesse in oblio; ma caro mi saria molto conoscerti, acciò che la degna laude che tu meriti, con la mia voce manifestassi agl’ignoranti». Queste parole dette, pareva a Biancofíore che la donna cosí le parlasse: «O cara figliuola, tanto si stenderá la mia vita quanto il mondo si lontanerá, e allora che tutte le cose periranno, e io le mie bellezze, che secondo la tua estimazione hanno giá molti fatti beati e fanno e faranno, solamente che di quelle si trovino disianti, le quali però sí come tu imagini, non hanno potenza di nuocere alle altrui. Tu disiderosa nel tuo parlare di conoscermi, il dí passato rifiutasti di venirmi a vedere e conoscere. Io per te perdei il tuo padre e la tua madre, e tu il difetto di loro non vuogli rintegrare. Se io ti paio cosí bella come tu dí, come a vedere non mi vieni? Ora io voglio che tu sappi ch’io sono la tua Roma. E se gran parte dei peccati del tuo suocero, per costui (volgendosi al vecchio), davanti la maestá del sommo Giove deleta non fosse, il tuo Florio la spada di quest’altro ancora torrebbe: però viemmi a vedere senza alcun indugio, ché il tuo fattore vuole, e non senza gran bene di te e del tuo marito». E questo detto sparí, né piú avanti la vide Biancofiore: per che rimase stupefatta nel sonno di tanta bellezza. Dopo picciolo spazio si svegliò, né piú dormi per quella notte: anzi, sopra ciò che veduto avea, pensosa stette infine che il sole apparve. Allora ella e Florio levati, e venuti a’ verdi boschi, e rimirando i nuovi tagliatori, ciò che Glorizia il passato giorno le aveva parlato e quello che la notte avea veduto detto e udito gli raccontò: e, dopo ciò che detto le aveva, intimamente pregandolo, se essere poteva senza disturbamento del suo avviso, che essi avanti a tutte l’altre cose dovessero visitare Roma, la quale mai veduta non avevano. Molto si maravigliò Filocolo di ciò che da Biancofiore udí raccontare, e udendo il suo disio cosí acceso d’andare a Roma, mutò disio, e rispose: «Biancofiore, cara sposa, tanto m’è caro quanto a te piace: tutta a tuo volere sia la nostra andata, quando ordinato avrò quello che i fati hanno voluto ch’io incominci». A cui Biancofiore disse: «Signor mio, a tua posta e l’andare e ’l dimorare sta; ma se di ciò il mio disio si seguisse, il piú tosto che si potesse saremmo in cammino». «E sí faremo noi, rispose Filocolo. Egli s’era giá al piccolo monte levata tutta la verde chioma, e niuna cosa alta sopra quello si vedeva se non le mura del vecchio tempio, quando Filocolo, fatti prendere i buoi, primieramente con profondo solco segnò i fondamenti delle future mura, e appresso ordinò i luoghi delle torri, e le mura in qual parte aperte, per dar luogo agli entranti, dovessono rimanere. E similmente divisò le diritte rughe, e quali luoghi per eterne abitazioni rimanessero. E fatto questo, chiamò a sé Galeone, a cui egli disse: «Giovane, tu, secondo il tuo parlare, ami crudelissima donna senza essere da lei amato; e se io ho bene le tue parole per adietro notate, come giá ti fu caro l’essere subbietto ad amore, cosí ora carissimo partirti da lui del tutto ti saria: la qual cosa a fare, ottimo oficio t’ho trovato, quando ti piaccia. Io, come tu vedi, la nuova terra ho cominciata, la quale producere a fine, concedendolo gl’iddii, ho proposto, e con ciò sia cosa che sollecitudine mi stringa maggiore, questo affatto intendo di commettere altrui, e, insieme col quale, il dominio del luogo concederò a chi lo prenderá. Se tu lo vuoi prendere, la sollecitudine tua converra essere molta, e in molte cose e diverse, le quali avendo, la vaga anima per forza abbandoneni gli amorosi pensieri, e quegli abbandonando, metteni in dimenticanza, e, dimenticati, potrai dire te essere dalla infermita che sostieni liberato, e fuori delle mani della crudele donna. E non ti sia noia se io edificatore ti faccio di mura, e se gente rozza e grossa ti do a governare piú tosto che terra fatta con gente ordinata, la quale alla tua gran virtú conosco si converria, però che se io ti dessi quelli a reggere, il loro ordine e la loro mansuetudine poco affanno o niuno daria alla tua mente, e cosí in quelli pensieri ove dimori, in quelli perseverando staresti, né mai liberato saresti da amore. Ma costoro inordinati e materiali sovente ti moveranno ad ira, la quale tu paziente sosterrai, e la loro inordinatezza ti sará materia di pensare come a ordine gli potresti recare: da’ quali pensieri, e d’altri molti, quello che giá ti dissi ti seguirá. A diverse infermitá, diversi impiastri adopera il savio medico: prendi questo alla tua per mio consiglio, se disideri di sanare».
Galeone, udendo il savio consiglio e conoscendo la liberalitá di Filocolo, e similmente il perpetuo onore e l’utile che di ciò che Filocolo gli profferea gli poteva seguire, gli rispose: «Signor mio, a molto piú valoroso di me sí alto oficio converria, il quale ancora, sí come voi dite, ottimo rimedio conosco alla mia infermitá, e però in luogo di grazia singulare da voi il ricevo, apparecchiato ad ogni riconoscenza che voi vorrete di tanto dono, e lá dove io insofficiente fossi, quant’io posso di voto priego gl’iddii che in luogo di me al mio difetto suppliscano, e voi lungo tempo conservino in vita, sempre di bene in meglio aumentandovi». Concessegli adunque Filocolo il luogo, e dei suoi tesori gran parte gli fece donare, acciò che la cominciata opera potesse magnificamente compiere: e fatti convocare tutti e due i pacificati popoli, i quali del nuovo luogo dovevano essere abitatori, a Galeone fece intera fedeltá giurare, e promettere che essi lui e per signore e per difenditore avrebbero sempre, né i suoi comandamenti in niuno atto trapasserebbono: i quali se passassono, secondo il suo giudicio del passamento sosterriano la punizione; e quelle leggi, che egli desse a loro, serverieno, ed essi e i loro discendenti. Cosí similemente Galeone promise di servarli, di governarli e guardarli, come cari fratelli e subbietti, da qualunque persona che ingiustamente offendere li volesse Allora Filocolo disse a Galeone: «Omai edifica, e di bene in meglio la tua terra, la quale tu chiamerai Calocipe, accrescerai». E fatti i suoi arnesi acconciare, e a ciascuno vietato che senza sua licenza chi e’ fosse non manifestasse ad alcuno, essi in abito di pellegrini montarono a cavallo, e accomiatati da Galeone, cavalcarono inverso Roma.
Rimase Galeone col rozzo popolo chiamato Calocipe, e il primo comandamento fatto da lui alla nuova gente fu che essi dentro al cerchio fatto per le mura future, dovessero le loro cose recare, e in quello abitare co’ loro figliuoli e con le loro famiglie: di che egli fu ubbidito senza niuno indugio, faccendo a distensione de’ solari raggi e del lacrimoso verno case di giunco assai rozze e di terra e di bovino sterco mescolato murate. Questo fatto, egli fece i profondi fondamenti cavare, e di cotti mattoni fece fare bellissime mura, delle quali circuí tutta la nuova terra, faccendo a quella otto porte, e ciascuna di sopra ad essa aveva una fortissima ed alta torre, e dopo questo, ampissimi fossi aggiunse al circuito. Ella pareva giá terra, e di lontano le merlate mura si potevano guardare: per che egli pensando che le mura senza uomini e gli uomini senza arme niuna cosa a resistenza de’ nimici valeano, a ciascuno uomo all’arme possente in prima donò arme, mostrando a loro con poca fatica come vestire e usare le dovessero, e poi riparò il vecchio tempio con gran divozione dedicandolo a Giove; e quivi i sacerdoti ordinò, ammaestrati a sacrificii statuiti per lui al sommo Giove; e similmente i giuochi da Filocolo ordinati rinnovò, e quelli comandò che si facessero ciascun anno, entrante il sole nel suo Leone. Queste cose cosí fatte, gli piacque nella piú alta parte della sua terra edificare a sé reale abituro, il quale magnifico fece, e, sopra esso dimorando, . potea tutto il suo popolo vedere: nella gran corte del quale aveva ordinato di dare leggi al popolo, per le quali esso debitamente vivesse. E giá veggendo a ciascuno avere la rustica casa in bello abituro conversa di pietre e di mattoni cotti a simiglianza del suo, e le rughe essere diritte e piene di popolo contento, volle loro dare modo di vestimenti, e diede, acciò che uomini e non selvagge fiere paressero. Similmente statuí loro ferie, nelle quali cessare le fatiche dovessero e darsi a’ riposi; ed egli similmente a diversi studii delle liberali arti ne dispose alcuni, e altri alle meccaniche. E nel lungo spazio volle che con ordine costoro serrati nel picciolo cerchio, sicuri la notte dormissero contenti di tal reggimento, e conoscenti che divenuti erano uomini per la discrezione e sollecitudine di Galeone: ed egli similmente di tali subbietti si contentava, vedendogli abili e disposti a qualunque cosa che egli voleva. Che piú dirò di lui? Egli in tale ordine e disposizione il luogo recò in pochi anni, che le mura ampliare si convennero, le quali poi invidiate ne’ futuri tempi, miseramente caddero sotto altro duca.
Il pellegrino Filocolo in pochi giorni pervenne a Roma, e in quella tacitamente entrò; e sí come a lui piacque, in un grande ostiere smontò vicino agli antichi palagi di Nerone, e quivi dimorò alcun giorno, senza essere conosciuto. Avvenne che andando Filocolo con Ascalione e col duca e con Fileno e con gli altri in pellegrina forma, vedendo le mirabili cose di Roma, Menilio Africano, a Lelio stato fratello, si scontrò con loro, e vide Ascalione, la cui riconoscenza non gli tolse l’abito pellegrino, ma ricordandosi lui essere stato congiunto di stretta amistá con Lelio, con alta voce chiamandolo disse: «O santo Ascalione, or privami la tua santitá delle tue parole, perché peccatore io sia? Perché sí largo passi senza parlarmi?». Allora Ascalione, che ben lo riconosceva, si volse e disse: «Dolce amico, tutto il contrario mi faceva dubitare di parlarti». Elli s’abbracciarono quivi molte volte, e insieme gran festa si fecero, ripetendo i tempi preteriti; ma dopo l’amichevoli accoglienze, Menilio domandò chi fossero i compagni, al quale Ascalione rispose: «Questi sono giovani miei amici, i quali udendo la gran fama della vostra cittá, meco, pellegrino, pellegrinando vollero venire a vederla, e giá qui dimorati siamo piú giorni, e omai credo ci partiremo». Disse allora Menilio: «Ora conosco che solo l’amore di Lelio mio fratello alla mia casa ti menava, e non il mio, poi che, lui tolto di mezzo, alla nostra casa disdegni di venire. Oimè, come tu gravemente offeso m’hai, essendo altrove dimorato in Roma, che meco! Io ti priego per quella fede che tu a Lelio portasti, che tu e tuoi compagni ad esser meco vegnate, mentre in Roma a dimorare avrete». A cui Ascalione assai disdisse, pregandolo che di ciò nol gravasse, con ciò fosse cosa che a’ compagni forse non fosse piacere, però che le donne d’alcuni erano con essi loro. A cui Menilio disse: «E le donne di loro con le mie staranno, e voi meco». Ascalione non potendosi da’ prieghi di Menilio difendere, con licenza di Filocolo a quello che Menilio volle consentí, e tutti insieme con Biancofiore e con Glorizia entrarono nel gran palagio per adietro stato di Lelio, nel quale le donne dalle donne e gli uomini dagli uomini onorevolmente ricevuti furono. Onorati cosí costoro da Menilio, tenendo Ascalione stato di maggiore di tutti, come a Filocolo piacque, egli in se medesimo rimembrando le passate cose, si cominciò a dolere, veggendosi per l’antica amicizia di Lelio onorare da’ fratelli, ed egli aveva avuto paura di dare sepoltura al morto amico essendovi presente, avvegna che tardi gli fosse noto: e similmente a Giulia piú benivolo non essersi mostrato, e a Biancofiore nelle sue avversitá: e le cose che giá di lei aveva dette per ritrarre Filocolo da tale amore, ora gli cominciarono a dolere. Egli fece a Filocolo vietare a Glorizia che in nulla maniera a Biancofiore dovesse narrare chi coloro fossero co’ quali albergati erano, sappiendo bene che essa gli conosceva. Ma a Filocolo, dopo alcun giorno, vedute le magnificenze de’ due fratelli, cioè di Menilio e di Quintilio, ed essendogli molto piaciute, e similmente l’onore che ad Ascalione e a loro tutti era fatto, e quello che Cloelia, di Menilio sposa, stata per adietro di Giulia sorella, e Tiberina, moglie di Quintilio, facevano a Biancofiore e a Glorizia e all’altre che con Biancofiore erano, venne volontá di sapere chi costoro fossero, e dimandonne Ascalione. A cui egli rispose: «Non sai tu, caro figliuolo, dove tu se’ e in casa di cui?». «Certo» disse Filocolo, «in Roma so ch’io sono, e in casa di Menilio; ma chi essi si siano non so: e s’io il sapessi, a che fare te ne dimanderei?» Disse allora Ascalione: «Ora sappi che di costoro fu fratello Lelio, il padre di Biancofiore, il quale dal tuo padre fu ucciso, e quella donna chiamata Cloelia, la quale tanto Biancofiore onora, sorella carnale fu di Giulia sua madre. Vedi ove la fortuna ci ha mandati! Io penso che senno sarebbe omai di partirei, però che di leggieri, se conosciuti fossimo da loro, potremmo in questa fine del nostro cammino ricevere impedimento: e io ho veduto, e molte volte udito, nave correre lungo pileggio con vento prospero, e all’entrare del dimandato porto rompere miseramente. La fortuna c’è in molte cose stata contraria: che sappiamo noi se ancora la sua ira verso di noi è passata? Da fuggire è la cagione acciò che l’effetto cessi». Queste parole udendo Filocolo si maravigliò molto, pensando alla grande nobilta de’ zii di Biancofiore, e alla miseria in che la fortuna l’avea recata, ponendola nella sua casa come serva, e cosí da tutti reputata; e molto in se medesimo si contentò che donna di cosí nobile progenie gli fosse dagl’iddii per amante mandata e poi per isposa: e con Ascalione delle iniquitá del padre e della madre verso di lei usate si dolse, e piú che mai le biasimò, e poi con turbato viso gravemente riprese il suo maestro riducendogli a memoria ciò che per adietro sconciamente della giovane aveva parlato, e disse che meritamente gl’iddii dovriano a costoro notificare chi tu se’, acciò che dove tu onore ricevi, fossi, come hai servito, guiderdonato. Poi con piú temperato viso disse: «Veramente io dubito che conosciuti siamo in questo luogo, perciò che costoro hanno sangue romano: essi non rimettono mai l’offese in oblio senza vendetta. Se io forse da loro fossi conosciuto, io credo che non mi riguardassero perch’io loro congiunto sia: ma com’io mi potrò ancora partire senza la loro pace, o almeno senza la loro conoscenza, la quale io in niuna parte posso meglio che qui trattare?». Ascalione, che tutte le sue parole ascoltava, e niente si turbò per riprensione udita, però che giá debita compunzione per se medesimo aveva presa della commessa colpa, cosí gli disse: «Filocolo, tu e i tuoi compagni siete giovani, e per diverse parti del mondo sconosciuti siete pellegrinanti, per la qual cosa alcuna persona non è che vi riconosca per quelli che siete: però se di qui partirti disideri, far lo possiamo, né fia chi saputo abbia chi voi siate. Se la conoscenza e la pace de’ tuoi parenti disideri, non è prima da chiederla che i loro animi si conoscano: e però taciti dimoriamo come infino a qui dimorati siamo, e infino a tanto che mi parlano d’alcuna cosa per la quale io possa a ragionare de’ tuoi fatti debitamente venire, o che io, eleggendo debito tempo, ne parli a loro, o che alcun’altra via ci si prenda migliore, per la quale i loro intendimenti possiamo conoscere, li quali conosciuti, quello che operare deggiamo conosceremo». A questo s’accordò Filocolo, e lasciarono il lungo consiglio.
Dimorando adunque costoro, per conoscere di loro operare il meglio, Filocolo solo con Menedon dall’ostiere si partirono un giorno, e soletti andavano le bellezze di Roma mirando, le quali saziare non si potevano di guardare, lodando la magnanimitá di coloro che fatte l’aveano fare e de’ facitori il magistero. E cosí andando pervennero al bellissimo tempio, che del bel nome di colui s’adorna che prima del diserto comandò penitenza a’ peccatori, annunziando il celeste regno essere propinquo, e di Laterano nominato dal rabbioso Nerone, e in quello entrato, e rimirando di quello le gran bellezze, in una parte videro effigiata di colui la figura che fu dell’universo salute. Questa si pose Filocolo con ammirazione grandissima a riguardare, e qual fosse la ragione delle forate mani e de’ piedi e del costato pensare non sapeva, per che sopra questo imaginando dimorava sospeso. Nella qual dimoranza stando, un uomo antico, non troppo di bella apparenza, in iscienza spertissimo, il cui nome, second’egli poscia manifestò, era Ilario, disceso da parenti nobilissimi da Atene, quivi con Bellisano, patrizio di Roma, e figliuolo dell’inclito imperatore Giustiniano, venuto, e all’ordine de’ cavalieri di Dio scritto, forse a guardia del bel luogo deputato, gli sopravvenne, e vide Filocolo cosí quell’imagine riguardare. Ma avanti che alcuna cosa gli dicesse, il guardò molto, e parvegli nello aspetto nobile e di grande affare, per che con reverenza, non conoscendolo, cosí gli cominciò a parlare: «O giovane, con molta ammirazione l’effigie del creatore di tutte le cose riguardi, come se mai da te non fosse stata veduta». A cui Filocolo graziosamente rispose: «Senza dubbio, amico, ciò che tu di è vero; e però che io mai piú non la vidi, con ammirazione ora la riguardava». «E come può essere» disse Ilario, «che tu molte volte non l’abbia veduta, se de’ servatori della sua legge se’?» «Certo» disse Filocolo, «né lui come giá dissi piú vidi, né quale sia la sua legge conosco». «Adunque qual legge servi tu, o cui adori?», disse Ilario. A cui Filocolo rispose: «La legge che i miei predecessori servarono e che ancora i popoli del paese ond’io sono servano, io servo: e da noi è adorato Giove, e gli altri immortali iddii posseditori delle celestiali regioni, a’ quali, quante volte di loro abbiamo bisogno, tante volte accendiamo fuochi sopra i loro altari e diamo incensi, e le dimandate cose riceviamo». Dunque tu idolatro se’ della setta de’ Gentili?»»Cosí sono come tu dí», rispose Filocolo. «Ora ignori tu» disse Ilario, «che noi codesta setta abbiamo degnamente in odio, sí come eretici e operatori delle cose spiacenti a Dio? «Non lo ignoro», rispose Filocolo. «Dunque» disse Ilario, «come sicuro qui Gentile vivi tra ’l popolo di Dio? Non sai tu che come voi a noi ponete insidie, cosí a voi potrebbero da noi essere parate? Ma che? Per nulla di questo ti dimando, ché chi alla salute dell’anima non ha cura, come è da presumere che egli di quella del corpo si deggia curare? Poi che tu la nostra legge non servi, non contaminare il nostro tempio sacro, escitene fuori.» A cui Filocolo disse: «Male può trovare persona la cosa che mai non li fu nota; forse se io questa vostra legge udissi, o quello ch’io dovessi credere mi fosse mostrato, poria essere che, dannando la mia, seguirei questa, e con voi insieme del popolo di Dio diventerei». «Giá per udirla, se mai piú non la udisti, non perderai» disse Ilario, «io la ti mostrerò tutta, avvegna che a ben volerlati fare intendere, mi converria distendere in parole molte, le quali dubito che ti sariano tediose ad udire.» A cui Filocolo disse: «A te non sia affanno il dire, che a me mai l’ascoltare non rincrescerá».
«Adunque» disse Ilario, «sediamo, e colui cui tu hai infino ad ora riguardato, il quale di tutti i beni è donatore, e in cui presenza noi dimoriamo, mi conceda che fruttuose siano le mie parole.»
Posersi a sedere Filocolo e Menedon, e Ilario in mezzo di loro, nel cospetto della reverenda imagine. A’ quali parlando Ilario con soave voce mostrò chi fosse il creatore di tutte le cose, e come senza principio era stato, cosí niuna fine era da credere a lui dovere essere; e dopo questo loro dichiarò di tanto fattore le prime opere, cioè il cielo e la terra, con ciò che in essi di bene e di bellezze veggiamo o sentiamo, o vedere o sentire si può. Egli loro mostrò appresso la creazione de’ belli spiriti, i quali non conoscenti prima contro al loro fattore alzarono le ciglia, per la qual cosa eterno esilio meritarono de’ beati regni, essendo loro per perpetuo carcere l’infimo centro della terra dato. E dopo questo narrò come a ristorazione de’ voti scanni, il primo padre con la sua sposa furono formati in Eden e messi in paradiso; e come fatto fu loro dalla divina voce il mal servato comandamento, il trapassare del quale a loro e a’ loro successori guadagnò morte e affanno. Piacquegli ancora di dire quanto il principio della prima etá fosse da’ seguenti variato, mostrando come ai loro digiuni le ghiande solevano e gli altri pomi dare salutevole conforto, e come i correnti fiumi davano piacevole beveraggio agli assetati, e l’erbe soavissimi sapori; e come semplici vestimenti contenti gli copriano, e come ciascuno sol la sua contrada conosceva senza cercare l’altrui, e come i terribili suoni delle battaglie tacevano e l’armi non erano e l’arte di quelle non si sapeva, per che la terra il beveraggio dell’umano sangue non conosceva; e come ai seguenti di costoro, a’ quali si semplice vita bastava, non bastarono gli ordini della natura, né la lussuria, né ’l vero loro Dio per adorare, ma passando nell’una e nell’altra cosa i termini meritarono l’ira del sommo fattore, per la quale il mondo allagò, riserbato solamente da Dio un padre con tre figliuoli e con le loro spose, perché erano giusti, nella salutifera arca, con l’altre cose necessarie alla mondana restaurazione. Appresso questo, mostrò loro con aperta ragione l’uscimento dell’arca lontanamente stata a galla, e ’l nascimento dei popoli discesi da Cam, da Sem e da Iafet, e l’edificazioni della gran torre e dell’altre cittá fatte da’. rifiutanti l’ombre degli alberi. E il primo trovamento di Bacco schernitore del suo primo gustatore, e le varie maniere de’ vestimenti e de’ loro colori, e i cercamenti degli altrui paesi, e quali fossero i fedeli servadori de’ piaceri di Dio, e quali da quelli deviassero, e niuna notabile cosa lasciò a narrare che stata fosse infino al tempo del primo Patriarca. Qui posto alla prima e alla seconda etá fine, della terza cominciò a parlare, e le cose state fatte da Abram e dal fratello e dal figliuolo e dal nipote tutte disse, insieme con le vedute e udite da loro. E contando del duodecimo fratello, trenta denari dagli altri venduto, narrò le sue avversita e l’uscimento da quelle e ’l salimento alla sua gloria; e ’l passamento del popolo di Dio in Egitto dietro a lui, e quello che seguí appresso, e quanto i discendenti vi stessero, e sotto quale servitu mostrò aperto, infino alla nativitá di colui che, dall’acque ricolto, da Dio i dieci comandamenti della legge ricevette, da’ quali, quelle che noi oggi serviamo, tutte ebbero origine. E questo detto, seguí quanti e quali fossero i segni fatti nella presenza del crudo prencipe, che oltre al loro volere nella provincia d’Egitto gli teneva racchiusi. Né tacque come sotto la sua guida esso popolo, per dodici schiere passando il rosso mare, uscissero da quello con secco piede, avendo la notte per pedoto una colonna di fuoco e ’l giorno una nuvola, e similemente come seguiti dagli avversarii, nelle acque rosse quelli rimasero. Mostrò ancora quanta e quale fosse la vita loro nel diserto luogo, e come, morto il primo legista, sotto il governo di Iosué rientrarono in terra di promissione, e quivi con quali popoli avessero giá cominciate le battaglie, dicendo loro ancora con quanta reverenza trovata fosse e servata e riportata l’arca santa. E come lo sciolto popolo si reggesse, e sotto quali giudici, e chi fra loro con divina bocca parlasse, e di che, disse, e come e1li disiderassero re e fosse loro dato, narrò infino a David. Qui alla terza etá pose fine e cominciò la quarta, le avversitá di David e le sue opere tutte narrando, dicendo all’altre principali come Micol acquistasse, e quello che per Bersabea operasse, né tacque cl’Assalone come morisse e per che, né della mirabile forza di Sansone, né dell’alta sapienza di Salomone, mostrando com’egli a Dio il gran tempio di Ierusalem avea edificato, e con questa l’altre sue operazioni tutte. E per conseguente de’ suoi discendenti e degli altri prencipi successori disse ciò che stato n’era, e che operato aveano: e de’ profeti stati in loro tempi, infino che a1la trasmigrazione di Babillonia pervenne. Quivi la quinta etá cominciò, della quale a dire niuna cosa lasciò notabile, infino alle gloriose opere de’ Maccabei, le quali furono non poco da commendare. E con tutto che egli tutte queste cose del popolo di Dio narrasse, non mise egli in oblio. però le notabili cose state fatte per gli altri di fuori da quello, ma pe’ suoi tempi ogni cosa narrò. Egli mostrò come di Nembrot fosse disceso Belo primo re degli Assiri, il cui figliuolo Nino era stato primo travalicatore de’ patrimoniali termini, con mano armata soggiogandosi l’oriente. E disse ciò che Semiramis aveva giá fatto, e degli altri ancora successori ciò che vi fu notabile, e come per trecento re, l’uno succedente all’altro, il reame era pervenuto a mano di Sardanapalo, il quale i bagni e gli ornamenti delle camere e il dilicato dormire e i piacevoli cibi trovò, al quale Ciro re di Persia tolse il regno, e similmente a Baldassar, di Nabucodonosor re di Babillonia successore, insieme con Dario re de’ Medi, e a’ Medi saggiogato rimase. Né lasciò a dire che il regno de’ Medi cominciò sotto Arbato, e che Arbato fu il primo re, e dopo il settimo re pervenne ad Alessandro, e similmente quello de’ Persi, del quale Ciro fu il principio e Dario fine, tra l’uno e l’altro avuti undici re, il quale Alessandro discese da’ greci re, de’ quali il primo fu Saturno cacciato da Giove. E mostrò ancora loro da costui, lasciante a Tolomeo quello per ereditá, essere ricominciato il regno degli Egizii, finito poi nel tempo di Cleopatra per la forza de’ romani, che ’l soggiogarono; e narrò come degli argivi il primo re fu Inaco, e de’ Lacedemoni Foroneo, primo donatore di legge a’ suoi popoli. E non di meno mostrò a che tempo l’antica Tebe s’era edificata, e chi fossero i suoi re, e sotto cui distrutta. E similmente della gran Troia, e de’ suoi reali e della sua distruzione disse. Né mise in oblio di narrare Giano essere d’Italia stato il primo re, e Romolo di Roma, contando di quella le notabili edificazioni. E disse d’Agialeo stato primo re de’ Sicioni. E molte altre cose recitò laudevoli intorno a quelle, del giudaico popolo: mostrando ancora i diversi errori di molti erranti e non sapienti, che e come agli idoli sacrificare s’era pervenuto dagli antichi, abbandonata la diritta via. Ma parendogli delle vecchie cose avere assai detto, quelle lasciando disse: «Giovani, ciò che davanti detto avemo poco è a quello, che dire intendiamo, necessario di sapere, ma vuolsi credere, ed è introducimento a ciò che dirvi credo appresso: e però ascoltate e con diligenza notate le mie parole».
«Quanto sia stato nelle cinque eta passate, io credo con aperta ragione aver mostrato» disse Ilario; «ora alla sesta piena di grazia, nella quale dimoriamo, con piú lento passo ci conviene procedere, e dicovi cosi. Come voi poteste nel principio del mio parlare comprendere, se bene ascoltaste, uno è il creatore di tutte le cose, a cui principio non fu né fine sará mai, il quale, da sé gittate le superbe creature, volle di nobile generazione riempire i voti luoghi, e creò l’uomo, al quale morte annunziò se il suo mandato passasse, com’io vi dissi. Ma quegli, vinta la sua sposa dalle false seduzioni dell’eterno nemico, piacendo a lei il trapassò, per che cacciato con lei insieme del grazioso luogo, agli affannosi coltivamenti della terra venne, e morí, e noi, sí come suoi successori, corporalmente tutti moriamo. Ma però che le nostre anime, fatte da Dio alla sua imagine, tutte andavano a’ dolenti regni de’ malvagi angeli, non tanto giustamente col corpo vivuta, e a niuna era possibile per suo merito il risalire colá donde peccando era caduta, il creatore di quelle per sua propria benignitá verso noi divenne pietoso, e nel principio di questa sesta etá, regnante Ottaviano Augusto e tenente tutto il mondo in pace quieta, il suo unico Figliuolo volle che s’incarnasse in una vergine di reale progenie discesa, il cui nome fu ed è Maria, alla quale in Nazaret, cittá di Giudea, per convenevole messo il fece annunziare. Dal quale essa rassicurata, al volere del suo signore si dispose, dicendo: ‛Ecco l’ancilla del signore, sia a me secondo la sua parola!’. La quale risposta fatta, e operante la virtú del Santo Spirito, l’unico Figliuolo di Dio fu incarnato. Alla quale incarnazione niuna naturale operazione fu mescolata, né opportuna, se bene si guarda. Fu adunque la incarnazione, come detto v’ho, del Figliuolo di Dio, il quale poi benigno e glorioso nacque, acciò che poi e passione e morte sostenendo le nostre colpe lavasse, e facessene possibili a salire a quella gloria donde ne cacciò disubbidendo il primo padre. Non che Dio non avesse con la sua parola sola potutone perdonare e rifarci degni, che bene avria potuto, però che nella sua potenza ogni cosa s’inchiude, ma egli fece questo acciò che piú apertamente la benivolenza, la quale ha continua verso di noi, ne dimostrasse, e acciò che noi piú pronti a’ suoi servigi ci disponessimo, veggendone tanto dono conceduto senza averlo servito, ma piú tosto disservito. Incarnato adunque costui, le leggi della presa carne. seguendo, nove mesi nel ventre della Vergine fè dimora, la quale venendo con Giuseppe suo sposo, uomo di lunghissima eta (il quale abbandonare l’avea voluta per la conosciuta pregnezza, se l’ammonizione dell’angelo non fosse stata), da Bettelem in Ierusalem a pagare una moneta, ché dieci piccioli valeva detto danaro, sí come Ottaviano avea mandato comandan1ento, acciò che il numero de’ suoi sudditi sapesse, menando un bue e un asino seco: il bue per vendere acciò che le spese sostentasse del parto, e l’asino per alleviare l’affanno del cammino. Sentendo la Vergine il tempo del partorire, cosí andando, a una grotta, la quale lungo la via era dove i viandanti soleano tal volta le loro bestie legare per fuggire l’acqua o il caldo, o per riposo, entrarono, però che per i molti andanti ogni casa era presa. Quivi poveramente la notte si riposarono, la quale giá mezza passata, la Vergine, come con diletto carnale non aveva conceputo, cosí senza alcuna doglia pose il suo santo portato: il quale, acciò che dal freddo che era grande il guardasse, povera di panni, nel fieno, che davanti al bue e al l’asino era, involse. E che deono fare gli uomini, poi che quelle bestie, conoscendo il Salvatore del mondo, s’inginocchiarono, quella reverenza faccendogli che ’l poco loro conoscimento amministrava? In quell’ora si udirono gli angeli discendere dal cielo, cantando ‛Gloria in excelsis Deo’ , con quanto di quello inno si legge: poi in quell’ora si videro per lo mondo mirabili cose, e massimamente in questa cittá. Ora non ruinò egli quella notte il gran tempio della Pace, il quale, secondo a’ romani dimandanti fu risposto, doveva tanto durare che la Vergine partorisse? Perché essi, imaginando quella mai non dover partorire, nella sommitá della porta di quello scrissero il tempio della Pace eterno: e sopra le ruinate mura fu poi edificato un altro salutifero tempio, da colei nominato che Vergine partori. Ora, non l’imagine di Romolo re de’ romani cadde, e tutta si disfece? Certo sí. Or non l’imagini fatte a dimostrazione delle lontane provincie a’ romani suddite tutte si ruppero? Certo sí: né restò al mondo alcuno idolo intero. Quella notte oscurissima divenne chiara come un bel giorno, e una fonte d’acqua viva in liquore d’olio in questa cittá si converse, e olio corse tutto quel glorioso giorno infino al Tevere. E apparve a tre re orientali stanti sopra il vittoriale monte, quel giorno medesimo una stella chiarissima, nella quale essi videro un fanciullo piccolo con una croce in testa, e parlò a loro che in Giudea il cercassero. E quel giorno medesimo, avvegna che alcuni dicano che prima, apparvero in oriente tre soli, i quali, poi che veduti furono, in un corpo tutti e tre ritornarono, pe’ quali assai aperto l’essenza della Trinita si manifestò. E certo Ottaviano Augusto volle da’ romani essere adorato per iddio, ma egli discreto i consigli della savia Sibilla dimandò; alla quale, venuta a lui il giorno di questa nativitá gloriosa, egli disse: «Vedi se alcuno deve nascere di me maggiore, o se io per iddio a’ romani mi lascio adorare?». La quale nella sua camera dimorando, in un cerchio d’oro, contro il sole apparito, gli mostrò una vergine con un fanciullo in braccio, la quale egli con maraviglia riguardando, s’udi dire: ‛Haec est Ara coeli’, né vide chi lo dicesse. A cui poi la Sibilla disse: «Quegli è maggiore di te, e lui adora». Le quali parole udite, egli gli offerse incenso, e in tutto a’ romani rinunziò d’essere adorato per iddio, però che mortale e non degno di ciò si sentiva. E in questo medesimo giorno apparve un cerchio, il quale tutta la terra circuí, fatto a modo che iri; e le vigne d’Engaddi, le quali profferano il balsamo, fiorirono quella notte, e dierono frutto e liquore. E pochi di avanti questo, si trovò che arando alcuno con buoi, essi buoi dissero: ‛Gli uomini mancheranno e le biade aumenteranno ’. Similmente i pastori, che in quella notte guardavano le loro bestie, essendo loro dagli angeli annunziato il nascimento del garzone, andando in quella parte, trovarono vero ciò che loro era stato detto, e adoraronlo. In quella notte similmente si trovò che quanti Gomorrei erano, tanti ne furono estinti, avendo Dio quel peccato oltre agli altri, e meritamente, in fastidio: e dicesi che vedendo Iddio quel vizio contro natura nella natura umana operarsi, per poco rimase di non incarnarsi. Dunque tante cose e molte altre che avvennero, le quali a contare troppo saria lungo, mostrarono bene che il Creatore e il Salvatore del mondo era nato: e se forse mirabile vi pare che tanto uomo in sí strema povertá nascesse, la cagione vi tragga di maraviglia. Egli è signore di tutte le cose, e credibile è che, se voluto avesse, poteva ne’ gran palagi, tra molti panni, nelle infinite dilicatezze, nascere, e avere molte balie, ma acciò che l’umiltá mostrasse a tutti dovere esser cara, cosí bassamente cercò di nascere, e per molte altre cagioni, le quali con piú disteso stile ancora vi mostrerò, il fece. Nato adunque cosí costui, fu nell’ottavo giorno della sua nativitá circonciso, secondo la giudaica legge. E i tre re d’oriente con doni, seguendo la veduta stella, il vennero a visitare: e giunti in Ierusalem, Erode, re di quella, dimandarono di lui, il quale, non conoscendolo, e di lui dubitando, perciò che udito aveva il re de’ Giudei dovere nascere, disse: «E’ non è qui, andate e trovatelo, e da me tornerete, acciò ch’io, da voi sappiendo ove egli sia, vada e adorilo». I quali usciti da Ierusalem, e riveduta la stella, in Bettelem lo trovarono, e adoraronlo, e gli offersero oro, incenso e mirra: e ammoniti nel loro sonno dall’angelo, per altra via alle loro regioni tornarono. Il quarantesimo giorno venuto, fu offerto al tempio, e dal vecchio Simeone, la sua venuta aspettante, fu ricevuto, allora ch’egli incominciò: ‛Nunc dimittis’. Erode poi, veggendosi da’ tre re schernito, comandò che tutti i garzonetti di Giudea gli fossero presentati; ma Giuseppe ammonito da divina ammonizione, col fanciullo e con la madre fuggi in Egitto: e gli altri presi da Erode furono uccisi, credendo tra quelli avere il nato fanciullo morto. Ma in processo di tempo, essendo egli giá nei dodici anni, nel tempio di Dio co’ dottori della giudaica legge disputò, leggendo quella. E poi vita umana veramente senza peccare infino al trentesimo anno quella notte similmente si trovò che quanti Gomorrei erano, tanti ne furono estinti, avendo Dio quel peccato oltre agli altri, e meritamente, in fastidio: e dicesi che vedendo Iddio quel vizio contro natura nella natura umana operarsi, per poco rimase di non incarnarsi. Dunque tante cose e molte altre che avvennero, le quali a contare troppo saria lungo, mostrarono bene che il Creatore e il Salvatore del mondo era nato: e se forse mirabile vi pare che tanto uomo in sí strema povertá nascesse, la cagione vi tragga di maraviglia. Egli è signore di tutte le cose, e credibile è che, se voluto avesse, poteva ne’ gran palagi, tra molti panni, nelle infinite dilicatezze, nascere, e avere molte balie, ma acciò che l’umiltá mostrasse a tutti dovere esser cara, cosí bassamente cercò di nascere, e per molte altre cagioni, le quali con piú disteso stile ancora vi mostrerò, il fece. Nato adunque cosí costui, fu nell’ottavo giorno della sua nativitá circonciso, secondo la giudaica legge. E i tre re d’oriente con doni, seguendo la veduta stella, il vennero a visitare: e giunti in Ierusalem, Erode, re di quella, dimandarono di lui, il quale, non conoscendolo, e di lui dubitando, perciò che udito aveva il re de’ Giudei dovere nascere, disse: «E’ non è qui, andate e trovatelo, e da me tornerete, acciò ch’io, da voi sappiendo ove egli sia, vada e adorilo». I quali usciti da Ierusalem, e riveduta la stella, in Bettelem lo trovarono, e adoraronlo, e gli offersero oro, incenso e mirra: e ammoniti nel loro sonno dall’angelo, per altra via alle loro regioni tornarono. Il quarantesimo giorno venuto, fu offerto al tempio, e dal vecchio Simeone, la sua venuta aspettante, fu ricevuto, allora ch’egli incominciò: ‛Nunc dimittis’. Erode poi, veggendosi da’ tre re schernito, comandò che tutti i garzonetti di Giudea gli fossero presentati; ma Giuseppe ammonito da divina ammonizione, col fanciullo e con la madre fuggi in Egitto: e gli altri presi da Erode furono uccisi, credendo tra quelli avere il nato fanciullo morto. Ma in processo di tempo, essendo egli giá nei dodici anni, nel tempio di Dio co’ dottori della giudaica legge disputò, leggendo quella. E poi vita umana veramente senza peccare infino al trentesimo anno uno di loro annunziò. Dopo la qual cena, lavati a tutti i piedi, andò in un orto fuori della cittá ad orare con alcuni di quelli; ma colui che il tradimento aveva ordinato, venuto quivi co’ sergenti del prencipe de’ Farisei, tradendolo, con gran romore e furore come un ladrone fu preso. E se egli avesse voluto fuggire, niuno era che il tenesse, quando tramortiti caddero tutti nel suo cospetto; ma egli sollecito alla nostra redenzione, stando fermo, rendute loro le prime forze, si lasciò pigliare: e volete udire piú benignitá di lui? Avendo Simon Pietro, uno de’ suoi discepoli, il quale egli capo degli apostoli e suo vicario l’aveva ordinato, tagliato l’orecchia a uno de’ servi del prencipe, ammonendolo che il coltello riponesse, l’orecchia sanò al magagnato. Fu adunque cosí preso costui e menato nel cospetto di Caifas e d’Anna, i quali a Pilato il mandarono, di lui porgendo false accuse, come quelli che per invidia la sua morte cercavano, pensando che se egli vivesse tutto il loro popolo trarrebbe alla vera fede da lui predicata, ed essi ne rimarriano senza. Pilato, il quale quivi per li romani era preside, infino alla mattina legato il tenne. La mattina udendo ch’era Galileo, il mandò a Erode, disideroso di vederlo, il quale poi a Pilato, vedutolo, il rimandò: e stato lungamente suo nemico, per questo, suo amico divenne. Pilato non trovando in lui alcuna colpa, il voleva lasciare, ma il gridante popolo lo spaventava, ond’egli, fattolo flagellare duramente, credendo che ciò bastasse, il volle a loro rendere, i quali gridando la sua morte, a quella il condussero e in croce in mezzo di due ladroni il crocifissero, schernendolo e dandogli aceto e fiele a bere con una spugna: sopra la quale croce egli morí. Quello che, morendo costui, avvenne, ascoltatelo. Egli tremò la terra fortissimamente; le pietre, senza essere tocche, si spezzarono in molte parti; il velo del tempio di Salomone si divise per mezzo; li monumenti s’aprirono, e molti corpi risuscitarono; il sole oscurò, essendo la luna in quintadecima, e tutta la terra universalmente sostenne tenebre per piú ore: le quali cose Dionisio veggendo, essendo in Atene, e della nostra setta, disse: «O il signore della Natura sostiene ingiuria, o il mondo perirá tutto». E Longino, cieco cavaliere, ferendo con la sua lancia il santo costato di quello, sentí sangue e acqua venire giuso per la lancia, perché agli occhi ponendosene riebbe la vista. Il centurione, stato avanti degli schernitori, vedendo queste cose, confessò lui veramente essere stato Figliuolo di Dio. Dunque dove tali e tante cose si videro, ben si può credere colui Figliuolo di Dio e Redentore di noi essere stato. Venuto il vespero, fu il beato corpo deposto dalla croce da Nicodemo e da Giosef d’Arimatia, e con odorifere cose involto in un mondo lenzuolo, fu posto in una sepoltura nuova, la quale da armate guardie e suggellata fu guardata, acciò che i suoi discepoli, i quali tutti abbandonato l’aveano quando fu preso, non venissero e furasserlo, e poi dicessero: ‛Risuscitato è’. Ma la santa anima sí tosto come ella il corpo abbandonò, cosí discese alle eterne prigioni, e rotte le porte della potenza dell’antico avversario, trasse i santi padri, i quali in lui venturo debitamente credettero, e, aperta la celestiale porta infino a quel tempo stata serrata, nella gloria del suo Padre gli mise. Poi il terzo di ritornando al vuoto corpo, con quello veramente risuscitò, e piú volte apparve e a’ suoi santi discepoli e ad altri. E dopo il quarantesimo giorno, vedendolo tutti i suoi discepoli e la sua madre, al cielo se ne salí, faccendo loro annunziare che ancora a giudicare i vivi e i morti ritornare dovea. E dopo il decimo giorno tutti del Santo Spirito gl’infiammò, per lo quale ogni scienza e ogni locuzione di qualunque gente fu a loro manifesta: e predicando la santa legge, tutti per diverse parti del mondo n’andarono.»
«Ora» disse Ilario, «avete udito quello che noi crediamo, e chi adoriamo e le cui leggi serviamo. Udito avete la cagione della sua incarnazione, alla quale né per angelo né per altra creatura si poteva supplire se non per questa. Udito avete la gloriosa nativitá come fosse, e la sua concezione. Udito avete la virtuosa, laudevole e miracolosa vita di lui, l’affannosa e vituperosa fine, e la crudele morte ch’egli per noi sostenne, e similmente l’ampia redenzione; la vittoriosa resurrezione, e la mirabile apparizione, e la gloriosa ascensione vi ho mostrato, e ultimamente la donazione graziosa dello Spirito Santo, e annunziato v’ho il futuro giudicio: le quali cose se ben pensate, vero Dio e vero uomo incarnato, nato, vivuto, passo, morto e risuscitato essere il conoscerete. Né vi si occulterá ne’ vostri pensieri quanto la sua infinita pietá sia stata verso di noi, il quale per la nostra salute diè se medesimo. E se è gran cosa o quando un servo per liberazione del signore, o l’uno amico per l’altro, o l’uno per l’altro fratello, o ’l padre pel figliuolo, o il figliuolo per lo padre morte riceve, quanto è maggiore il signore, per lo servo liberare, vituperosa morte prendere? Noi servi del peccato, tanto perfettamente da lui fummo amati, che egli non disdegnò l’altezza de’ suoi regni abbandonare per pigliare carne umana, acciò che possibile si facesse al patire e al pigliare morte per la nostra redenzione. Adunque non vi vinca la terrena cupiditá, alla quale giá le vostre false e abominevoli leggi sono piú atte che la nostra, ma cacciate da voi i giuochi dello ingannevole nimico delle nostre anime, e nuovi davanti a Dio vostro Creatore vi presentate.»
Ascoltarono con gran maraviglia Filocolo e Menedon le dette cose da Ilario, e quelle notarono, parendo loro, come erano, grandissime: e visitando poi Ilario piú volte, ogni fiata ridir se ne facevano parte, né niuna cosa rimasa decisa fu che essi distesamente ridire non si facessero, e come e quando e dove di tutte si facevano narrare. Le quali udite tutte, Filocolo dimandò Ilario in che la credenza perfetta di chi salvare si vuole si ristringesse. A cui Ilario cominciò cosí a dire: «Noi prima fedelmente crediamo, e poi semplicemente confessiamo un solo Iddio eterno, incommutabile e vero, in cui ogni potenza dimora. Crediamo lui incomprensile e ineffabile Padre, Figliuolo e Spirito Santo, tre persone in una essenzia e in una sustanzia, ovvero natura semplice; e noi crediamo il Padre da niuno creato, il Figliuolo dal Padre solo, e lo Spirito Santo da ciascuno procedere: e che come mai non ebbero principio, cosí sempre saranno senza fine. Crediamo lui di tutte le cose principio, e creatore delle visibili ed invisibili, delle spirituali e corporali. Crediamo lui dal principio aver creato di niente la spirituale e corporale creatura, cioè l’angelica e la mondana, e appresso l’umana, quasi comune di spirito e di corpo. Crediamo che questa santa ed individua Trinitá al profetato tempo desse all’umana generazione salute, e l’unigenito Figliuolo di Dio da tutta la Trinitá comunemente dalla Vergine, cooperante il Santo Spirito, fu fatto vero uomo di razionale anima e di corpo composto, avendo una persona in due nature. Egli veramente ne mostrò la via della veritá, con ciò fosse cosa che, secondo la divinitá, immortale e impassibile fosse, secondo l’umanitá si fece passibile e mortale. Il quale ancora per la salute dell’umana generazione crediamo che sopra il legno della croce sostenesse passione, e fosse morto, e discendesse all’inferno, e risuscitasse da morte e salisse al cielo. Crediamo veramente che egli discendesse in anima, e risuscitasse in carne, e salisse al cielo parimenti con ciascuna. Crediamo che nella fine del secolo egli verrá a giudicare i vivi e i morti, e a rendere a ciascuno secondo le sue opere, o buone o ree che state sieno, e cosí a’ malvagi come ancora a’ buoni, i quali tutti coi propri loro corpi che ora portano risurgeranno, acciò che sí come avranno meritato ricevano: quelli con Pluto in pena eterna, questi con Giove in gloria sempiterna. Crediamo ancora de’ fedeli una essere l’universale chiesa, fuori della quale niuno crediamo che si salvi, nella quale esso Dio è sacerdote e sacrificio, il cui corpo e sangue nel sacramento dell’altare sotto spezie dí pane e vino veramente si contiene, transustanziati il pane in corpo e il vino in sangue per divina potenza, acciò che a compiere il ministero della vita togliamo del suo quello che egli del nostro tolse; e questo sacramento niuno può fare, se non quel sacerdote che dirittamente è ordinato secondo gli ordini della chiesa, li quali egli agli apostoli concedette e a’ loro successori. Crediamo similmente al sacramento del battesimo, il quale ad invocazione della individua Trinitá, cioè Padre, Figliuolo e Spirito Santo, si consacra nell’acqua, cosí a’ piccoli come a’ grandi: e a chiunque egli è, secondo la forma della chiesa, dato, giova a salute. Dopo il quale ricevuto, s’alcuno cadesse in peccato, crediamo che sempre per vera penitenza possa tornare a Dio: e non solamente le vergini e le continenti, ma ancora i coniugati per diritta fede, piacenti a Dio, crediamo potere ad eterna beatitudine pervenire. E cosí a te, e a qualunque altro che di quella vuole essere partecipe, conviene credere, dannando ogni altra opinione che alcuni altri avessero avuta e avessero delle predette cose, sí come eretici e contrarii alla diritta fede».
«Grandissime cose e mirabile credenza ne conta il tuo parlare» disse Filocolo a Ilario, «le quali tanto piene d’ordine, di santitá e di virtú veggio, che giá disidero con puro animo essere de’ tuoi; ma senza li miei compagni, co’ quali riferire voglio l’udite cose, niuna cosa farei, ancora che faccendola senza loro conosco che saria ben fatto.» A cui Ilario disse: «Giovane, confortati nelle tue parole, e teco i tuoi compagni conforta, fuggendo le tenebre, nelle quali colui, cui voi orate, vi contiene: venite alla vera luce da cui ogni lume procede, e a chi per nostra e per la vostra salute se medesimo diede a obbrobriosissima morte. Correte al santo fonte del vero lavacro, il quale, lavando l’oscura caligine dalle vostre menti, vi lascera conoscere Dio, il quale le orazioni de’ peccatori esaudisce nel tempo opportuno. Assai è tra i miseri miserabile colui che puote uscire d’angoscia ed entrare in festa, se in quella pure miseramente dimora. Venite, adunque, e lavatevi nel santo fonte, e di quelle tre virtú nobilissime, Fede, Speranza e Caritá vi rivestite, senza le quali, come niuno può piacere a Dio, cosí a chi le veste impossibile è che gli eterni regni siano serrati. Dunque v’è lecito venire il donatore di tutti i beni a servire, e la prigione eterna fuggite mentre potete. Né vi faccia vili Ja poca autoritá, che forse io confortante dimostro, ché le parole da me dette a voi non sono mie, anzi furono de’ quattro scrittori delle Sante opere del nostro fattore, de’ quali ciascuno testimonia quello che parlato vi ho, e con loro insieme molti altri, i quali, avvegna che fossero piú e diversi, uno solo fu il dittatore, cioè ’l Santo Spirito, la cui grazia discenda sopra voi, e vi dimori sempre».
Partironsi adunque Filocolo e Menedon da Ilario, sopra l’udite cose molto pensosi, e ripetendole fra loro piú volte, quanto piú le ripetevano tanto piú piacevano: per che essi in loro deliberarono del tutto di volere alla santa legge passare, e di narrarlo a’ compagni proposero. E accesi del celestiale amore, tornarono lieti al loro ostiere, dove essi il duca, Parmenione, Fileno e gli altri trovarono aspettargli, maravigliandosi della loro lunga dimora cosí soli. Co’ quali poi che Filocolo fu alquanto dimorato, non potendo piú dentro tenere l’accesa fiamma, chiamatili tutti in una segreta camera, cosí loro cominciò a parlare:
«Cari compagni e amici, a me piú che la vita cari, nuovi accidenti nuove generazioni di parlari adducono, e però io sono certo che voi vi maraviglierete assai di ciò che al presente ragionare vi credo; ma perciò che da nuova fiamma sono costretto, e secondo il mio giudizio lo debbo fare, non tacerò ciò che il cuore in bene di voi e mio conosce. Noi, come voi sapete, non siamo guari lontani al giorno nel quale il terzo anno compierá che voi per amor di me seguendomi lasciaste, sí come io, le case vostre, e in mia compagnia, non uno solo, ma molti pericoli avete corsi, pe’ quali io ho la vostra costanza e la fedele amicizia conosciuta, e conosco perfetta, e senza fine ve ne sono tenuto. Ma come che l’avversitá sieno state molte, prima da Dio e poi da voi la vita e ’l mio disio riconosco: per le quali cose mi si manifesta che se io a ciascuno di voi donassi un regno, quale è quello ond’io la corona attendo, non debitamente vi avrei guiderdonati; ma il sommo Dio provveditore di tutte le cose, e degli sconsolati consiglio, ha parati davanti agli occhi miei di gran meriti alle vostre virtú, i quali da lui, non da me, se ’l mio consiglro terrete come savi, prenderete, e in eterno sarete felici. E acciò che le parole, le quali io vi dirò, non crediate che io da avarizia costretto muova, infino da ora ogni potenza, ogm onore, ogni ricchezza che io ho e che avere deggio nel futuro tempo nel mio regno, nella vostra potenza rimetto, e quello che piú vostro piacere è liberamente ne facciate come di vostro: e ciò che io in guiderdone de’ ricevuti servigi v’intendo di rendere si è, che io annunziatore dell’eterna gloria vi voglio essere, la quale a voi e a me, se prendere la vogliamo, è apparecchiata, e dirovvi come». E cominciando dal principio sino alla fine, ciò che Ilario in molte volte gli aveva detto avanti si partisse, quivi a costoro disse, come se per molti anni studiato avesse ciò che dire a loro intendeva. E mirabile cosa fu che, secondo egli disse poi, nella lingua gli correano le parole meglio che egli prima nell’animo non divisava di dirle; la qual cosa per infusa grazia da Dio essere conobbe, seguendo dopo queste parole dette: «Non crediate, signori, che io come giovane vago d’abbandonare i nostri errori sia corso a questa fede senza consiglio e subito, ma sopra di questo molto ho vegghiato, e molto in me medesimo ciò che vi parlo ho esaminato, e mai contrario pensiero ho trovato alla santa fede. E poi penso piú inanzi che dove il mio consiglio non bastasse a discernere la veritá, dobbiamo credere che quello di Giustiniano imperatore, il quale, in uno errore con noi insieme, quello lasciando, ricorse alla veritá e in quella dimora, come noi sappiamo, gli fu bastevole. Dunque de’ piú savi seguendo l’esempio, niuno può degnamente essere ripreso, o fare meno che bene. Siate adunque solleciti meco insieme alla nostra salute».
I giovani baroni, che ad altre cose credevano costui dovere riuscire nel principio del suo parlare, udendo queste cose si maravigliavano molto, e guardando al ben dire di costui, similmente si com’egli conobbero grazia di Dio nella sua lingua essere entrata; e i nobili animi, i quali mai da quello di Filocolo non erano stati discordi, cosí come nelle mondane e caduche cose avevano con lui una volontá avuta, similmente di subito con lui entrarono in un volere della santa fede, e ad una voce risposero: «Alti meriti ne rendi a’ lunghi affanni. Sia laudato quel glorioso Dio, che con la sua luce la via della verita t’ha scoperto. Fuggansi le tenebre, e te, essendo duce, seguiamo alla luce vera. I vani iddii e fallaci periscano, e l’onnipotente, vero e infallibile Creatore di tutte le cose sia amato, onorato e adorato da noi. Venga il nuovo e vivo fonte, che dalle preterite lordure, nelle quali come ciechi dietro a cieco duca siamo caduti, ci lavi, e facciaci Dio essere manifesto».
Levansi lieti i giovani dal santo parlare, e tra gli altri, piú che alcuno, Ascaione, però che il suo lungo disio, il quale per tiepidezza mai mostrato non avea, vede venire ad effetto. Ed essendo giá tempo piú di dormire che di ragionare, Filocolo entrò nella sua camera, e con Biancofiore cominciò le sante parole a ragionare, la quale da Cloelia sua zia, santissima donna, di tutte era informata; ma udendole a Filocolo dire, contenta molto gli rispose: «Quello che tu ora vuoi che io voglia, ho giá piú giorni disiderato, e dubitava d’aprirti il mio talento: però qualora ti piace, io sono presta, e giá mi si fa tardi, che sopra me senta la santa acqua versare, e che nella salutifera legge divenga esperta». Queste parole udendo Filocolo contento ringraziò Dio, e ne’ pensieri della santa fede il piú della notte dimorò, con disio aspettando il giorno, acciò che in opera mettesse il suo diviso, con la sua sposa e i suoi compagni.
Rendé la chiara luce di Febo i raggi suoi confortando le tramortite erbette, e Filocolo di quella vago, levato con Menedon tornò lieto ad Ilario, il quale sopra la porta del santo tempio trovarono: e lui salutato, con esso passarono nel tempio, e con chiara veritá ciò che fatto avevano gli narrarono, e come i loro compagni di tal conversione letizia incomparabile avevano avuta e mostrata, per la qual cosa disposti alla predicata credenza erano del tutto. Allora Ilario, lietissimo di tanta grazia, quanta il datore di tutti i beni aveva nelle sue parole messa, ringraziò Dio e disse a Filocolo: «Dunque niuno indugio sia a questo bene; chiama i tuoi compagni, e ricevete il santo lavacro». A cui Filocolo rispose: «Cosí farò, ma prima, ove io di voi fidare mi possa, alcun mio segreto vi vorrei rivelare, acciò che, sí come all’anima porto avete salutifero consiglio, cosí similmente provveggiate al corpo». «Ciò mi piace’ disse Ilario, «e con quella fede a me parla ogni cosa che teco medesimo faresti, sicuro che mai per me niuno il sentirá.» Perché Filocolo cosí cominciò a dire:
«Caro padre, io, il quale voi in abito pellegrino cosí soletto vedete, ancora che a me non stia bene a porgervi queste parole, ma costretto da necessita le dico, sono di Spagna, e figliuolo unico di re Felice signoreggiante quella; e nelle fini de’ nostri regni, come alcuni m’hanno detto, è un tempio ad uno dei dodici discepoli del figliuolo di Dio dedicato, al quale i fedeli della santa legge che voi tenete e ch’io tenere credo, hanno divozione grandissima, e sovente il visitano; e avendo a quello uno di questa cittá nobilissimo singulare fede, il cui nome fu Lelio Africano, con piú giovani a visitarla si mise in cammino, e con lui menò una sua donna, il cui nome era Giulia. Né erano ancora pervenuti a quello, che essendo al mio padre stato dato ad intendere che suoi nemici erano e assalitori del suo regno, passando essi per una profonda valle, da lui e da sua gente furono virilmente assaliti: e per quello che io inteso abbia, egli co’ suoi mirabilissima difesa fece, ma ultimamente tutti, nel mezzo de’ cavalieri del mio padre, che di numero in molti doppii loro avanzavano, rimasero morti, tra’ quali Lelio similmente fu ucciso. Dopo cui in vita Giulia rimasa, e gravida, per singulare dono, per la sua inestimabile bellezza, fu alla mia madre presentata, la quale da lei graziosamente ricevuta e onorata fu: e di ciò mi sia testimonio Dio ch’io dico il vero. Era similmente la mia madre pregna, e amendue in un giorno, la mia madre me, e Giulia una giovane chiamata Biancofiore partorí, e rendé l’anima a Dio, e sepellita fu onorevolmente in un nostro tempio secondo il nostro costume. Noi, nati insieme, con grandissima intelligenza nutricati fummo, e in molte cose ammaestrati, e, sí come ora io credo, volere di Dio fu che l’uno dell’altro s’innamorasse, e tanto ci amammo, che diverse avversitá, anzi infinite, n’avvennero. Ma ultimamente il mio padre, credendo lei di vile nazione essere discesa, acciò che io per isposa non la prendessi, né che mai davanti la mi vedessi, come serva la vendé a’ mercatanti, e fu portata in Alessandria, e a me dato a vedere ch’era morta. Ma io poi la veritá sappiendo, con ingegno, con affanni e con infiniti pericoli seguendola la racquistai, e per mia sposa la mi congiunsi, e lei amo sopra tutte le cose del mondo. E certo io n’ho un piccolo figliuolo, appena che il sesto mese compiuto, e ’l suo nome è Lelio, e però che del padre di Biancofiore valore oltre misura intesi, cosí il chiamai. Ella ed egli sono qui meco. E dicovi piú, che la fortuna n’ha portati ad essere in casa di Quintilio e di Menilio, fratelli carnali, secondo che io ho inteso, di Lelio; ma giá non ne conoscono, né Biancofiore di loro conosce nessuno, né sa chi essi sieno, avvegna che con lei sia una romana, la quale con la madre fu presa, e che sempre con essa è stata, il cui nome è Glorizia, la quale tutti conosce, e a lei, per mio comandamento, li tien celati. Quello adunque perché io queste cose vi ho detto è che, prendendo il santo lavacro, dubito non mi convenga palesare, e, palesandomi, costoro la vendetta della morte del loro fratello sopra me non prendano: e, d’altra parte, ancora che io senza palesarmi, potessi il santo lavacro pigliare, si mi saria la pace di tanti e tali parenti carissima, né senza essa mal volentieri mi partirei, se per alcun modo credessi poterla avere. E avvegna che io nella morte del loro fratello non sia colpevole, e che il mio padre disavvedutamente ciò facesse, mi metterei a ogni sodisfazione che per me si potesse fare molto volentieri. Certo la vita di Lelio mi saria piú che un regno cara: Dio il sa. Voi, adunque, discreto dimostratore della vita di Dio, quella del mondo non dovete ignorare, ché chi sa le grandi cose, le piccole similmente deve sapere. Udito avete in che lo vostro consiglio a me bisogni: dunque, per amore di colui alla cui fede recato mi avete, vi priego che al mio bisogno, utile consiglio porgendo, provvediate».
Ilario ascoltò con maraviglia le parole di Filocolo, e piú volte reiterare se le fece, né alcuna particolarita fu ch’egli sapere e udire non volesse, e dell’alta condizione di Filocolo, e del basso stato che egli mostrava quivi ebbe ammirazione, e penò assai a crederlo, e poi cosí gli rispose: «La tua nobilta mi fa piú contento d’averti tratto d’errore, che se tu un particolare uomo fossi; e allora che tu sarai uomo di Dio, sí come tu se’ dell’avversaria parte, io t’onorerò come figliuolo di re si dee onorare. E certo se io noto bene le tue parole, lunga è stata la sofferenza di Dio, che di tanti e tali pericoli ti ha liberato, sostenendo la vita tua. Ma nullo altro merito ti ha tanta grazia impetrata, se non la conversione alla quale ora se’ venuto, di che tu, se ’l conosci, molto gli se’ tenuto: e veramente di ciò che tu dubiti è da dubitare, ma confortati, che io spero che lui, che di maggiori pericoli t’ha tratto, similmente di questo ti libererá. E io ci prenderò modo utile e presto, come tu vedrai, però che Quintilio è a me strettissimo amico, né niuna cosa voglio che egli similmente non voglia, per che di leggieri la loro pace avrai. Ma certo tanto ti dico: siati la tua sposa cara, né guardare perché in guisa di serva la sua madre alla tua fosse donata: ella fu del piú nobile sangue di questa cittá creata, sí come de’ Troiani i Giulii, e ’l padre fratello di costoro, in casa di cui tu tacitamente dimori, trasse origine dal magnanimo Scipione Africano, l’opere e la nobiltá del quale risonarono per tutto l’universo. E acciò che tu non creda che io forse meno che il vero ti dica, tu lo vedrai. Egli è in questa cittá patrizio Bellisano, figliuolo di Giustiniano imperatore de’ romani, il quale alla cattolica fede, sí come avanti ti dissi, venne non sono ancora molti anni passati, dirizzando lui Agapito sommo pastore: il quale Bellisano è di lei congiuntissimo parente: io il farò a te benivolo, come colui che come padre m’ubbidisce, e farollo al tuo onore sollecito, insieme con Vigilia qui sommo pontefice e vicario di Dio. Dunque confortati e spera in Dio, che il sole non vedra l’occaso, che tu conciliato sarai co’ fratelli del tuo suocero».
Niuno indugio pose Ilario alla sua promessione fornire; ma partito Filocolo, mandò per Quintilio e per Menilio, che a lui insieme con le loro donne venire dovessero. I quali questo udito, maravigliandosi che ciò esser volesse, prima essi e appresso le loro donne v’andarono, lasciando sola Biancofiore con Glorizia; e venuti a lui nel gran tempio, in una parte di quello, cosí Ilario disse loro: «Mirabile cosa è a’ miei occhi pervenuta oggi, come udirete. Questa mattina andando io per questo tempio, un giovane di piacevole aspetto assai, con un suo compagno, cosí, come io, andava, al quale io donde egli fosse dimandái; ed egli mi rispose: ‛Di Spagna’. Per che io entrando in ragionamento con lui delle cose di quei paesi, per avventura mi venne ricordato Lelio vostro fratello, il quale la rendé l’anima a Dio, e dimandandolo se di lui mai alcuna cosa sentito aveva: al che e’ mi rispose che, vigorosamente combattendo, dall’avversaria parte non conosciuto fu morto, e che dietro a lui rimase una bellissima donna chiamata Giulia, e gravida, la quale una fanciulla, il cui nome egli non sa, partorendo, di questa vita passò nelle reali case del re di Spagna. E in quel giorno similmente la reina del paese, a cui donata era stata, un figliuolo fece. Il quale, secondo che colui mi narra, crescendo, e con la giovane insieme nutriti, di lei molto s’innamorò e ultimamente, oltre a’ piaceri del padre, per isposa se l’ha copulata: e dopo la morte di lui, come unigenito la sua fronte ornerá della corona del regno, e la reina con lui insieme viverá. Le quali cose udendo, mi furono care, e ve le volli fare sentire, però che quinci possiamo conoscere Dio i suoi mai non abbandonare: ché, s’egli a sé chiamò Lelio, egli vi donò una che ’l numero delle corone della vostra casa aumenterá, di che mi pare che vi deggiate contentare, avendo novellamente una reina per nipote ritrovata, della quale niuna menzione era tra voi. E, secondo che il giovane mi dice, il marito di lei assai vi ama, e ciò manifesta un piccolo figliuolo, il quale poco tempo ha che gli nacque di lei, il quale per amore del vostro fratello chiamò Lelio. Egli senza comparazione la vostra conoscenza disidera, e sariagli sopra tutte le cose cara la vostra pace, e se avere la credesse, volentieri vi verria a vedere; ma sentendo la vostra potenza, con ragione teme non sopra di lui la morte del vostro fratello, alla quale egli, non nato ancora, niente colpò, voleste vengiare: per che a me parrebbe che a lui come innocente si dovesse ogni cosa dimettere, e riceverlo per parente, e dargli la vostra pace, e cosí la vostra cara nipote vedreste reina.
L’antica morte, per le molte lagrime sparte per adietro, non rintenerí i cuori con tanta pietá, che per l’udite parole agli occhi venissero lagrime, anzi riguardando l’uno l’altro e stando per ammirazione alquanto muti, non seppero tristizia della ricordata morte mostrare, né letizia della viva nipote; ma poi Quintilio disse: «Quanto dura e amara ne fu la morte del nostro fratello, tanto ne saria dolce e cara la sua figliuola vedere, e tenere come nipote; ma come senza vendetta si possa sí fatta offesa mettere in oblio non conosco, avvegna che dire possiamo il giovane innocente, e i piaceri di Dio convenirsi con pazienza portare: il quale è da credere che come egli combattendo consentí ch’ei morisse, cosí vivendo l’avria potuto fare essere vittorioso. Non per tanto ciò che tu ne consiglierai faremo, se dí che altro che nostro onore non sosterresti». A cui Ilario cosí rispose: «Veramente in tutte le cose vorrei l’onore vostro. Io conosco che in questa cosa voi potete molto piacere a Dio, e senza vostra vergogna, la quale, ancora che ella ci fosse, dovreste prendere per piacergli, se voi volete a voi grandissima gloria e consolazione acquistare. A Dio potete piacere, il giovane ricevendo in Roma, il quale, tenendo per difetto d’ammaestramento contraria legge, a quella di Dio di leggieri verrá, e similemente la vostra nipote, e per conseguente tutto il loro grandissimo reame. Che vergogna non vi fia il pacificamente riceverlo è manifesto: voi state in pensiero di vendicare la morte di Lelio, la quale non vendicata vergogna vi reputate. Ora non la vendicò egli avanti che morisse? Egli col suo forte braccio uccise un nipote del nemico re e molti altri, e quando pure vendicata non l’avesse, a Dio si vogliono le vendette lasciare, il quale con diritta stadera rende a ciascuno secondo che ha meritato. Che consolazione e che gloria vi fia vedervi una nipote in casa reina, pensatelo voi! Egli ancora se ne poria aumentare la nostra republica, però ch’egli potrebbe il suo regno al Romano Imperio sottomettere come giá fu: per che a me pare, e cosí vi consiglio, che s’egli la vostra pace vuole, che voi glieta concediate, e qui esso venendo onorevolmente il riceviate». A questo niuno rispondeva; ma Cloelia udendo che viva fosse la sua cara. nipote, di cui mai alcuna cosa piú non aveva udita, accesa di focoso disio di vederla, con assidui prieghi cominciò a pregare Menilio e Quintilio che la loro pace concedessero al giovane, secondo il consiglio d’Ilario, e facessero in Roma la cara sposa venire. Per che Menilio, dopo alquanto, conoscendo la veritá che Ilario loro parlava, e vinto da’ prieghi della sua donna, disse: «E come si poria questa cosa trattare? Con ciò sia cosa che esso a noi non manderebbe, perché dubita, e noi a lui non manderemmo, però che contrarii sono alla nostra fede, e i mandanti offenderiano». A cui Ilario: «Se la vostra pace volete rendere al giovane, e promettermi che venuto egli qui come parente il riceverete e avretelo caro, io credo sí fare con la speranza di Dio, che tosto lui e la vostra nipote e ’l piccolo Lelio vi presenterò». «E noi faremo ciò che tu divisi», rispose Menilio. E andati davanti al santo altare, dinanzi alla imagine di Colui a cui la morte per la nostra vita fu cara, per la sua passione e risurrezione giurarono in mano d’Ilario che qualora egli la loro nipote e il marito e ’l figliuolo di lei loro presentasse davanti, che essí come carissimi parenti gli riceverebbero e onorerebbero, e piú, che ciò che Lelio con Giulia giá possedette loro donerebbono. «Niuna cosa piú vi dimando» disse Ilario; «andate, e quando io vi farò chiamare verrete a me.» Per che costoro da Ilario partiti, verso la loro casa tornarono.
Biancofiore rimasa con Glorizia sola nel gran palagio del suo padre, essendo giá in Roma dimorata molti giorni co’ suoi zii, senza conoscerne alcuno, non osante di dire alcuna cosa a’ dimandanti, o di dimandare, tutta in sé ardeva di disio di conoscere i suoi, i quali Glorizia per adietro le aveva detto, per che cosí a Glorizia cominciò a dire: «O Glorizia, o donna mia, dove sono i grandi parenti, i quali giá mi dicesti che io qui troverei? Ove i molti abbracciari? Ove la gran festa della mia venuta? Oimè, io non ho ancora niuno veduto, né tu mostrato me ne hai alcuno. Deh, perché alcuno almeno non me ne mostri? Io dubito che tu non m’abbi gabbata, e datomi ad intendere quello che non è vero, per venire a vedere la tua Roma, ov’io a nessuno ancora ti vidi parlare. Certo io mi pento giá d’essere qui venuta per tal conveniente, che io non conosca né sia da alcuno conosciuta, ché in verita giá per vedere alti palagi e intagliati marmi non avrei il mio Florio dal suo intendimento svolto». A cui Glorizia rispose: «Tanto a te e a me convien sostenere, quanto piacere sará di Florio, che taciturnitá n’ha imposta». E fra sé di dire come dalla sorella carnale della sua madre e da’ fratelli del suo padre era onorata, tutta ardea, e similmente di farsi a Cloelia conoscere, a cui piccola giovane era stata congiunta compagna, e ora, piú d’anni piena, da lei non era riconosciuta, e ancora alcuno de’ fratelli le pareva di aver veduto in compagnia di Menilio; né d’avere avuto ardire d’abbracciarlo, tutta si consumava. E stando essa e Biancofiore in questi ragionamenti, sopravvenne Cloelia, da loro lietamente ricevuta, e ruppe i loro parlari, loro narrando ciò che udito aveva. A’ quali ragionamenti Filocolo sopravvenne: e se non fosse che a Biancofiore accennò, che giá costei le pareva riconoscere per zia, quivi erano scoperti. Ma Biancofiore, vedendo Filocolo, chetò alquanto l’ardente disio, sperando che tosto con li loro si rivedrebbono.
Fece Ilario richiamare a sé Filocolo, e come egli nelle sue mani dei suoi parenti la pace aveva giurata gli narrò: della qual cosa Filocolo contentissimo, che fare dovesse li domandò. A cui Ilario disse: «Giovane, io ho promesso farti qui di Spagna venire, e però acciò che essi, alquanto la tua venuta tardandosi, piú nel disio s’accendano di vederti, va, e co’ tuoi compagni per modo convenevole prendi congedo, e fuori di questa cittá ne va a dimorare in alcun luogo vicino, nel quale tu sí cheto stia, che la fama di te non pervenga a’ loro orecchi: e quivi tanto aspetta, che io per te mandi. E quando il mio messaggiero vedrai, allora come figliuolo d’alto re che tu se’ t’adornerai, acciò che con la tua sposa magnificamente e con la tua famiglia venga, e io, sí come tu vedrai, a’ tuoi parenti sicuro ti presenterò».
Senza niuno indugio partitosi Filocolo da Ilario, e tornato all’ostiere, narrò a’ suoi compagni che far dovevano, e similmente a Biancofiore e a Glorizia, acciò che malcontente nel piccolo spazio non dimorassono. Per che veduto luogo e tempo, Ascalione disse a Menilio che partire loro conveniva: e preso da lui congedo e da Quintilio, e Filocolo e gli altri compagni similmente rendendo degne grazie del ricevuto onore, e Biancofiore e Glorizia da Cloelia e da Tiberina ancora s’accomiatarono, con pietose lagrime partendosi. E saliti sopra i buoni cavalli, con tutta la famiglia e ’l piccolo figliuolo, che al primo loro ostiere era rimaso, si fece venire co’ grandi arnesi, e cercarono Alba, antica cittá da Enea edificata, alla quale assai tosto pervennero: e quivi stando celati, attesero il messaggio d’Ilario.
Ilario che alli presi fatti era sollecito, avendo con molti altri ragionamenti gli animi di Menilio e di Quintilio accesi d’ardente disio di veder Filocolo e la loro nipote e ’l piccolo Lelio, e parendogli tempo, per singulare messo a Filocolo annunziò che la futura mattina venisse senza alcuno indugio. E questo fatto, andato a Vigilia sommo sacerdote, e avvisatolo della venuta del giovane prencipe, e della cagione, con umili prieghi ad ovviarlo il commosse con eccellente processione, e dopo di lui il vittorioso Bellisano a simile cosa richiese: il quale, udendo chi ’l giovane fosse, graziosamente il promise. Allora Ilario mandò per Menilio e per Quintilio, e loro la venuta di Filocolo annunziò, confortandogli che onorevolmente gli uscissero incontro e che graziosamente il ricevessero.
Venuto il grazioso giorno, bello per molte cose e da Biancofiore e da Glorizia sopra tutte le cose disiderato, Filocolo comandò che il grande arnese si caricasse e alla cittá n’andasse avanti: la qual cosa secondo i suoi comandamenti fu fatta. Ed egli, lasciato il pellegrino abito, d’un bellissimo drappo a oro si vestí, e fra’ suoi compagni stette sopra un gran cavallo, bellissimo a riguardare come il sole, nell’aspetto mostrando bene quello che era, da molti sergenti intorniato e da’ suoi compagni onorevolmente seguito: e dopo loro, e davanti, scudieri e altra famiglia assai bene e onorevolmente adorni cavalcavano. Appresso i quali Biancofiore, vestita d’un verde velluto adorno di risplendente oro e di preziosissime pietre, messe con maestrevole mano i biondi capelli in dovuto ordine e sopra essi un sottilissimo velo, e sopra a quello una nobilissima corona, cara e per magistero e per pietre che grandissimo tesoro valeva, veniva, tanto bellissima che ogni comparazione ci saria scarsa. E dall’una parte a piccolo passo cavalcava Ascalione, e dall’altra le veniva il duca: e dopo loro Glorizia magnificamente con molte altre donne, d’Alessandria venute in loro compagnia, e in braccio portava il piccolo garzonetto. Menilio, che in sollecitudine d’ovviare Filocolo dimorava, come vide il giorno, cosí con Quintilio e con molti altri parenti e amici e compagni e con Ilario onoratamente molto, salirono a cavallo, e con istrumenti molti e con gran festa ad ovviare Filocolo uscirono, e appresso di loro Cloelia e Tiberina in guisa di grandissime principesse ornate: e dai nobili uomini di Roma e da molte donne accompagnate, di Roma cavalcando uscirono, non credendo Cloelia poter pervenire a tanto che la sua cara nipote vedesse: la quale ella non conoscendo, né da lei conosciuta, tanti giorni veduta avea. E cavalcando cosí costoro verso Filocolo, e Filocolo verso loro, non molto lontani a Roma, da lungi si videro i cari parenti, per la qual cosa Ilario, a tutti andando inanzi, come vide Filocolo, dismontò da cavallo, e Filocolo, vedendolo dismontare, similmente discese, e Menilio e Quintilio giá discesi s’appressarono ad Ilario. A’ quali Ilario disse: «Nobili giovani, ecco qui il figliuolo di Felice re di Spagna, e sposo della vostra nipote, onoratelo e pacificamente il ricevete come avete promesso, e come dovete». E a Filocolo disse: «Altissimo prencipe, ecco qui li zii della tua sposa, come degni li riconosci, e cosí gli onora». E posta la destra mano diFilocolo nelle destre di Quintilio e di Menilio si tacque, e le trombe e gli altri strumenti infiniti riempierono l’aere di lieto suono. Essi allora s’abbracciarono e baciaronsi in bocca, e fecersi maravigliosa festa, ben che alquanto Menilio e Quintilio stupefatti fossero, ricordandosi che poco avanti loro oste era stato, e non l’avevano conosciuto. E non essendo ancora a cavallo rimontati, Biancofiore sopravvenne, la quale veggendo il suo signore a piè, dismontò di presente, e Ilario, presala per mano, e di braccio a Glorizia recato in braccio a sé il piccolo Lelio, nel cospetto di coloro la menò dove Cloelia e Tiberina con l’altre donne giá giunte e dismontate onoravano Filocolo, e disse: «Signori e donne, ecco qui Biancofiore vostra nipote, e ’l piccolo Lelio suo figliuolo». A questa voce furono rendute mille grazie a Dio, e Menilio e Quintilio con tenero amore abbracciarono la loro nipote, sopra a tutte le cose del mondo maravigliandosi della sua bellezza. E Cloelia, che mai vedere non la credeva, l’abbracciò mille volte e baciandola, di tenerezza lagrimando, tutto il bel viso le bagnò, e simile fece Tiberina, e molte altre donne a lei congiuntissime parenti, dolendosi del tempo che con loro non conosciuta da esse era stata. Poi Cloelia preso in braccio il grazioso garzonetto, con maravigliosa festa mirandola, ringraziava Dio dicendo: «O dolce signore Iddio, ormai consolata viverò ne’ tuoi servigi, poi che Lelio e Giulia renduti m’hai». La festa fu grande: e chi la potria interamente narrare? Chi pellegrinando alcuna volta per lungo tempo andò, tornando alla sua casa, quale essa fu può pensare. La qual cosa faccendosi, essi rimontarono a cavallo, e Filocolo dall’una parte, e il duca dall’altra accompagnando Cloelia cavalcavano; Tiberina in mezzo di Menedon e di Massalino veniva; Menilio e Quintilio, che della bellezza della loro nipote non si potevano ricredere, accompagnavano Biancofiore, e Parmenione e Ascalione Glorizia, che il piccolo Lelio portava, tanto contenta, quanto mai fosse stata, da Cloelia senza fine onorata e riconosciuta: e l’altre nobili donne da nobili uomini accompagnate, delle grandissime bellezze di Biancofiore e della magnificenza di Filocolo ragionando, cavalcarono infino all’entrata della nobile cittá. Quivi Vigilio, sommo pastore, giá venuto trovarono, al freno del cui cavallo videro Bellisano e Tiberio nobilissimi romani: il quale come Filocolo di lontano vide, lasciate le donne, da cavallo dismontò, e, inginocchiandosi, gli fece debita riverenza, e poi umilmente a baciargli i piedi corse. Poi volto a Bellisano, il quale egli ben conosceva, inchinandosi molto, l’abbracciò, e poi dirizzandosi si baciarono e fecersi graziosa festa, e Tiberio fece il simigliante: e Biancofiore similmente a cavallo discesa, e trattasi la ricca corona, di lontano debita riverenza fece al santo padre. Al freno del quale, rinunziandolo Vigilio, Filocolo con Bellisano volle essere, reputando sconvenevole cosa che il figliuolo di tanto imperatore andasse a piè ed egli a cavallo, e, concedendolo Tiberio, vi fu: e cosí infino.al santo tempio, ove la predicazione della santa fede udita avea da Ilario, andarono, al quale tutta Roma era corsa per veder lui e Biancofiore similmente. Quivi pervenuti, ognuno dismontò da cavallo, ed entrò nel santo tempio, ove onorevolmente da Ilario era apprestata la santa fonte con l’acqua per battezzarli, nella quale prima che altro si facesse, Filocolo e il piccolo Lelio e tutti i suoi compagni, nel cospetto di tutti i romani, da Vigilio ricevettero, nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, il battesimo, confessando la santa credenza, e rinúnziando la iniqua legge. Nella qual fonte Filocolo il suo appositivo nome, cioè Filocolo lasciò, e Florio, suo nome naturale, riprese. Biancofiore similmente con le sue donne in piú segreta parte simile lavacro con divoto core ricevette, e rivestiti tutti, con la benedizione del santo padre si partirono. E accompagnati da Bellisano, da Tiberio e dagli altri romani prencipi, con grandissimo onore e festa, a’ grandi palagi di Menilio pervennero.
Quivi pervenuti e saliti alle gran sale, si ricominciarono le mirabili carezze e feste. E Menilio e gli altri, parlando con Ascalione, escono di dubbio udendo la cagione per che l’altra volta a loro si tenessero celati: e rimasti contenti, niuno ad altra cosa che a festeggiare intende. Florio, dell’avvenute cose oltre misura contento, quivi la sua magnanimitá comincia a mostrare, e i gran tesori lungamente guardati dona e spende, pure che prenditori li sieno. Niuno gli va davanti, che senza dono si partisse, e ’l simigliante il duca e gli altri fanno: e quasi niuno è in Roma che per ricevuto dono o molto o poco non sia loro tenuto. Ampliasi la loro fama, e come iddii vi sono riveriti. Niuno v’è che non s’ingegni di piacere a loro e di servirgli: e questo aggrada molto a Menilio e a Quintilio, e lieti vivono di tale parente, e con gli altri faccenda festa, quella lungamente fanno durare.
Glorizia, onorata molto da Cloelia, dalla quale veramente fu riconosciuta, disiderosa di rivedere il padre e la madre e’ suoi, con licenza di Biancofiore, accompagnata da molti, ricercò i suoi palagi, nei quali due fratelli solamente nati avanti di lei lasciò nel suo partire, e ora pieni di molti gli ritrovò. Ella due sorelle giá grandi, e co’ figliuoli, e tre fratelli piú che gli usati vi vide, e, non conosciuta, non è chi le parli. Il padre vecchissimo giaceva, e appena vedeva alcuna cosa. Sempronio di lei maggior fratello, il quale ella bene riconosceva, ma egli lei no, però che nell’aspetto nobil donna gli parea, e vedea di bellissimi vestimenti ornata e accompagnata da molti valletti, l’onorò e dissele: «Gentil donna, cui addimandate voi?». A cui Glorizia: «O caro mio fratello Sempronio, or non mi conosci tu? Or non vedi tu che io sono la tua Glorizia, la quale sí piccola da voi mi partii seguendo Giulia e Lelio al lontano tempio? Come voi ora non mi riconoscerete? Certo io riconosco bene voi». A cui Sempronio: «Gentil donna, a cui che il cianciare stia bene, a voi molto si disdice, e non è atto di nobile donna andare gli antichi dolori delle morte persone, per modo di beffa, ritornando a memoria; noi vi siamo, in quanto vi piaccia, e fratelli e servidori, e la nostra casa è ai vostri piaceri apparecchiata, ma cessi Iddio che sotto colore di Glorizia noi qua entro ricevere vi vogliamo, però che giá Apollo è oltre venti volte tornato alla sua casa, poi che Glorizia mutò vita, secondo noi ben sappiamo, che molto la piangemmo come cara sorella, e questo ancora a tutta Roma è manifesto; e sappiamo ancora Domineddio ora non essere in terra sceso a risuscitarla. Voi sete errata: guardate che caso non vi faccia meno che bene parlare». Allora Glorizia, tutta nel viso cambiata per le due sorelle di lei e per li tre fratelli nati dopo la sua partita, i quali ella non conoscea, e per gli altri circustanti, dopo un gran sospiro disse: «Oimè, fratello, or come mi parli tu? Sono io femina a cui in alcun atto la gola leda? Certo per singulare grazia di Dio questo conosco, che tra l’altre io sono una delle piú modeste. Oimè, perché io le mie case ricerco, m’è detto che io meno che bene parlo? E piú m’è detto che io, che mai non morii, giá è gran tempo fui morta pianta e sepellita. Deh, Dio! come può egli essere che Cloelia, a cui niente io per consanguineita attengo, m’abbia riconosciuta, e i miei fratelli non mi conoscono, anzi mi scaccino?». Ma poi, lasciando del dolersi i sembianti, passò piú avanti dicendo: «Io sono Glorizia, e vivo, né mai morii. Onoratemi nella mia casa come degna. Mostratemi Lavinio mio padre, e Vetruria mia madre, e fate venir Curzio mio promesso marito, il quale io giovane qui con voi e con Afranio mio fratello lasciai». Sempronio, udendo questo, piú si cominciò a maravigliare, e piú fiso mirandola, quasi giá la veniva affigurando; ma la memoria del falso corpo, per adietro da lui sepellito, non gli lasciava credere ciò che vera imaginazione gli rapportava. Il vecchio padre udí la questionante figliuola, e la voce, non udíta da gran tempo, riconobbe, e giá quasi gli fu manifesto essere per adietro stato ingannato; e a sè chiamato Sempronio, gli comandò che, dentro, a lui menasse la donna, la quale non prima alla sua poca vista fu palese, che egli, come poté, grave la corse ad abbracciare, dicendo: «Veramente tu se’ Glorizia mia cara figliuola». E narratole come morta pianta l’aveano, senza fine la fecero maravigliare, e poi dolere della trapassata madre, e rallegrare della multiplicata prole, a’ quali faccendola nota con intera chiarezza, con festa a Curzio suo marito, il quale lei credendo morta un’altra n’avea menata, che poco tempo era passato che similmente morta s’era, la rendé, con cui ella felicemente e lungamente visse.
Ricevuta Glorizia, e riso molto di questo accidente da. Biancofiore e da Cloelia alle quali essa lo narrò, e durante ancora la festa grande di Florio, Ascaione, giá molto pieno d’anni, infermò, e dopo lunga infermitá, in buona disposizione rendè l’anima a Dio. Il cui passare di questa vita senza comparazione a Florio dolse, ma fattolo di nobilissimi vestimenti vestire, e a guisa di nobile cavaliere adornare sopra un ricchissimo letto, vergognandosi di spander lagrime nella presenza de’ circustanti, quindi comandò a ogni persona partire, e solo rimaso, con amarissimo pianto bagnando il morto viso, cosí cominciò a dire: «O singulare amico a me intra molti, a cui sempre le mie avversitá furono tue, dove se’ tu? Quali regioni, o Ascalione, cerca testé la tua santa anima? Certo credo le celestiali, poiché la tua virtu le meritò. O caro amico, quanto amara cosa da me t’ha diviso? Dove a te il ritroverò io simile? Chi, se la fortuna contraria tornasse, di vivere mitissimamente mi daria consiglio, come tu facesti piú volte, essendo amore di morte nel mio misero petto? Chi alle mie gravi avversitá ad aiutarmi a sostenere gli avversarii fati sottentrerebbe, come me tu sostentavi? Oimè, che queste cose sempre mi saranno fitte nell’intime midolle, e prima il mi spirito le sottili auree cercherá, ch’elle passino dalla mia memoria. Alcuni vogliono lodare per amicizia grandissima quella di Pilade e d’Oreste, altri quella di Teseo e Peritoo mirabilmente vantano, e molti quella d’Achille e di Patroclo mostrano maggiore che altra; e Maro, sommo poeta, quella di Niso e d’Eurialo, cantando, sopra l’altre pone, e tali sono che recitano quelle di Damone e di Fizia avere tutte l’altre passate: ma niuno di quelli che questo dicono la nostra ha conosciuto. Certo niuna a quella che tu verso di me hai portata si può appareggiare. Se Pilade Oreste furioso lungamente guardò., egli però te non passò di fermezza. E chi fu alla mia lunga follia continua guardia se non tu? E quale piú dirittamente si può dite folle, o fa maggior follia, che colui che oltre al ragionevole dovere soggiace ad amore sí come io feci? Se Peritoo ardí di cercare dietro a Teseo le infernali case, di sé piú maraviglia che odio mettendo nel doloroso Iddio, gran cose fece; ma tu non dietro a me, anzi davanti hai tentate pestilenziose cose, e da non dire, per farmi sicuro il passare. E se Achille animosamente la morte di Patroclo, con cui egli era sempre vivuto amico, vendicò, tu piú robustamente operasti, accendo sí con la tua forza che io non fossi morto. E se Niso, morto Eurialo, volle con lui morire, potendo campare, in ciò singulare segno d’amore verso lui mostrando, e tu similmente potendo te salvare, vedendo me nel mortale pericolo, a morir meco, se io fossi morto, eri disposto, e io l’udiva. E chi dubita che tu ancora, con isperanza che io mai non fussi tornato, non fossi per lo mio capo entrato, come Fizia per Damone entrò, del suo tornare, per la stretta amistá, sicuro? Oimè, che singulare amico ho perduto! Tu quanto piú l’avversitá mi infestava, tanto piú a’ miei beni eri sollecito. Niuna cosa celavi tu tanto che essa a me non fosse aperta e molte cose al mio petto fidatamente davi a tener coperte, e tu similmente eri colui a cui io tutti i miei segreti fidava, però che tu dolce amico non eri di quelli: che cosí vanno con l’amico, come l’ombra con colui cui il sole fiede, tra’ quali se alcuna nube si oppone che privi la luce, con quella insieme fugge. Tu cosí nell’un tempo come nell’altro, sempre fosti eguale. O nobile compagno, il quale mai la tua volontá dalla mia non partisti, ove pari a te ritroverò? O discreto maestro, e a me piú che padre, gli ammaestramenti di cui seguirò io? Sotto cui fidanza viverò io omai sicuro? Certo io non so! Chi mi fia fido duca negli ignoti passi? A cui per consiglio ricorrerò? Non so! Chi mi ripresenterá al mio padre, il quale, sentendo te meco, di rivedermi vive sicuro? Certo s’egli la tua morte sapesse, egli si crederia avermi perduto. Oimè, quanta amara mi pare la tua partenza! Or fosse piaciuto a Dio che la morte teco mi avesse tratto! Io vi verrei contento sí come colui che della sua Biancofiore ha avuto il suo disio ritrovandola, e poi la santa fede prendendo è da ogni sozzura lavato. Appresso con cosí fatto compagno, partendomi di questa vita, non Peritoo ardí di cercare dietro a Teseo le infernali case, di sé piú maraviglia che odio mettendo nel doloroso Iddio, gran cose fece; ma tu non dietro a me, anzi davanti hai tentate pestilenziose cose, e da non dire, per farmi sicuro il passare. E se Achille animosamente la morte di Patroclo, con cui egli era sempre vivuto amico, vendicò, tu piú robustamente operasti, accendo sí con la tua forza che io non fossi morto. E se Niso, morto Eurialo, volle con lui morire, potendo campare, in ciò singulare segno d’amore verso lui mostrando, e tu similmente potendo te salvare, vedendo me nel mortale pericolo, a morir meco, se io fossi morto, eri disposto, e io l’udiva. E chi dubita che tu ancora, con isperanza che io mai non fussi tornato, non fossi per lo mio capo entrato, come Fizia per Damone entrò, del suo tornare, per la stretta amistá, sicuro? Oimè, che singulare amico ho perduto! Tu quanto piú l’avversitá mi infestava, tanto piú a’ miei beni eri sollecito. Niuna cosa celavi tu tanto che essa a me non fosse aperta e molte cose al mio petto fidatamente davi a tener coperte, e tu similmente eri colui a cui io tutti i miei segreti fidava, però che tu dolce amico non eri di quelli: che cosí vanno con l’amico, come l’ombra con colui cui il sole fiede, tra’ quali se alcuna nube si oppone che privi la luce, con quella insieme fugge. Tu cosí nell’un tempo come nell’altro, sempre fosti eguale. O nobile compagno, il quale mai la tua volontá dalla mia non partisti, ove pari a te ritroverò? O discreto maestro, e a me piú che padre, gli ammaestramenti di cui seguirò io? Sotto cui fidanza viverò io omai sicuro? Certo io non so! Chi mi fia fido duca negli ignoti passi? A cui per consiglio ricorrerò? Non so! Chi mi ripresenterá al mio padre, il quale, sentendo te meco, di rivedermi vive sicuro? Certo s’egli la tua morte sapesse, egli si crederia avermi perduto. Oimè, quanta amara mi pare la tua partenza! Or fosse piaciuto a Dio che la morte teco mi avesse tratto! Io vi verrei contento sí come colui che della sua Biancofiore ha avuto il suo disio ritrovandola, e poi la santa fede prendendo è da ogni sozzura lavato. Appresso con cosí fatto compagno, partendomi di questa vita, non vedute, Florio di grazia impetrò dal sommo pastore che Ilario con lui dovesse andare, acciò che nelle cose da lui ignorate fosse da Ilario chiarificato, e insegnategli, e appresso perché egli quella che a lui aveva predicato, predicasse al vecchio padre e a molti popoli del suo regno, e a quelli che si convertissero desse battesimo. E concedutogli da Vigilio e preso commiato, con la sua benedizione si partí. Nella cui partenza, Bellisano con molti altri romani nobili uomini andarono con lui infino fuori della cittá, e similmente Cloelia e Tiberina con Biancofiore. Ma Florio, ringraziando Bellisano e gli altri nobili e accomiatatosi da loro, si partí, cavalcando con Menilio e con Ilario, i quali seco menava. E Biancofiore appresso, con pietose lagrime promettendo di ritornar tosto, lasciò Quintilio suo zio, e Cloelia e Tiberina, seguendo Florio suo marito.
Cavalcati adunque costoro verso Marmorina piú giorni, e a quella giá forse per una dieta vicini, piacque a Florio di significare al padre la sua felice tornata per convenevoli ambasciatori, la quale esso attendeva e sopra tutte le cose disiderava, avendo da’ marinari de’ tornati legni interamente saputa la sua fortuna, della qual saria stato contento, se la nobiltá di Biancofiore avesse saputa, ma per quello dolente vivea, ben che con disiderio attendesse il figliuolo: e con tutto che Florio suscetta avesse di lei graziosa prole, gli andavano per lo iniquo cuore pensieri di nuocerle ancora. Andarono adunque i mandati al vecchio re, e lui d’etá pieno trovarono salito sopra un’alta torre del suo real palagio, e sopra quella stando, rimirava i circustanti paesi, acciò che di lontano potesse conoscere la venuta del suo figliuolo. A cui i mandati ambasciatori lietamente di quello la venuta annunziarono, aggiungendo come loro fu imposto, che con ciò fosse cosa ch’egli la verace credenza battezzandosi avesse presa, che similmente a lui dovesse piacere di pigliarla nel suo venire, se non che mai nella sua presenza non tornerebbe. Le quali cose udendo il re, in prima della sua venuta allegrissirilo, come l’altre cose ascoltò, divenne turbatissimo e con gran romore, alzando la grave testa, disse: «O misera la vita mia, perché figliuolo mai d’avere disiderai niuno? Prima ch’io l.avessi, chi era piú di me felice? Ben che io il contrario reputassi, tenendo che alla mia felicitá niuna cosa se non figliuoli mancasse, e che senza quelli nulla fossi, avutolo, che felicitá si fosse mai non conobbi! Oimè, ora non fosse mai nato, che certo ancora col mio nome durerebbe l’effetto. Io, misero, nella sua nativitá mi potei uno «IN» aggiungere al santo nome, acciò che in misero l'avessi mutato, come la fortuna mutò le cose. Io non mi credetti avere bastone alla mia vecchiezza, ed io gravissimo peso v’ho trovato aggiunto. Questi dalla sua puerizia cominciò quella cosa a fare, per la quale io dovea vivere dolente, ed essendo infino a qui tristo, di lui e della sua pellegrinazione sempre temendo, vivuto, credendo per la sua tornata alquanto menomare la mia dogli, l’ho accresciuta, ed egli l’accresce continuo. Sia maladetta l’ora ch’egli nacque, e che io prima d’averlo disiderai! Egli da me s’è lungamente tolto, e ora in eterno a’ nostri iddii s’ha furato, e me similemente vuole loro torre; ma elli non sará cosí, né mai farò cosa che gli piaccia, e cessino gl’iddii che io di farla abbia in pensiero. Dunque ha egli i nostri veraci iddii, da’ quali egli ha tanti beni ricevuti, abbandonati per altra legge, e ha creduto a’ sottrattori cristiani, de’ quali maggiori nemici non ci conosce? Ora ha egli messo in oblio la santa Venere, la quale, secondo che io udii, gli porse celestiali armi a difendere l’amata Biancofiore contra ’l mio volere? Ha egli dimenticato Marte, il quale non isdegnò abbandonare i suoi regni per venirlo ad aiutare nell’aspra battaglia campale, ov’egli, se l’aiuto di quello non fosse stato, saria morto rimaso? Ha egli dimenticati gl’iddii, da cui prima risponso ebbe della perduta Biancofiore? O quelli che lui nello acceso fuoco difesero? Ora sia la loro potenza maladetta, poi che da lui tanto sostengono. A loro avviene e a me similemente come a colui che nel suo grembo con diligenza i serpenti nutrica, che egli ha il primo morso dal velenoso dente. Quando riceverei egli mai dal nuovo Iddio tante grazie, quante da quelli, ch’egli ha abbandonati, ha ricevute? Certo non mai. Io non credo che egli fosse mio figliuolo: e certo non è; ma piú tosto dalle dure quercie e dalle fredde pietre fu generato,, e dalle crudeli tigri bevé il latte. Mai niuna afflizione il fè pietoso, ma sempre quelle cose che egli ha sentito che noiose mi siano, ha operate: e però guardisi mai inanzi a me non apparisca; niuno nemico di me potrá aver maggiore. Egli continua tristizia dell’anima mia fu, la quale divisa dal corpo trista n’andrá agl’infernali iddii: i quali, per nuova credenza abbandonati, mi facciano ancora di vederlo turpissimamente morire essere contento!».
Tacque il re, e costoro la fiera risposta udita, gli si levarono davanti, né a rispondere poterono tornare a Florio, per la sopravvenuta notte. Ma la reina, la quale non picciola cura stringea di sapere del figliuolo novelle, veggendo costoro partiti dal turbato re, a sé li fece chiamare, e da loro particolarmente dello stato del figliuolo s’informò, e dell’essere di Biancofiore: delle quali cose di tutte saria stata contenta, se la nuova ira del padre non fosse stata per la nuova legge del figliuolo novellamente presa. Ella, udendo che per quella sí aspramente il padre da sé l’accomiata, e lui d’altra parte fermo di non venire davanti a lui, se la presa legge non prende, per doglia vorria morire. Ma dopo lungo pensiero, con dolci parole priega gli ambasciatori che la adirata risponsione del padre non portino al figliuolo; ma mitigandola si gli dicano che egli nella sua presenza venga, però che il re prima nol vedrá che egli si muterá d’animo, e il debito amore che tra loro dee essere senza niuna sconcia parola o altro mezzo gli concederci. «Certo qualora il vecchio re» dicea la reina, «vedrá la chiara giovinezza del figliuolo, egli lieto in se medesimo disidera di piacergli, né niuna cosa sará ch’egli a lui domandi, ch’esso non disideri di adempierla. Dunque venga, che molte cose a’ principali si concedono, le quali l’uomo non si vergogna di disdire a’ medianti.» Con molte altre parole ancora la reina conforta i messaggi che il figliuolo a venire dispongano, disposta, se egli non viene, d’andare a lui vedere ove ch’e’ sia.
Era giá della notte gran parte passata, quando la reina da loro si partí, ed essi molto onorati, sí come ell’aveva comandato, andarono a dormire. Il vecchio re, a cui il riposo piú ch’altro porgea nutrimento alla debile vita, andato di grande spazio avanti a riposarsi, e rivolgendosi sopra i niquitosi pinsieri, in quelli s’addormentò, e piú fiso dormendo, sentí nella sua camera uno strepito grandissimo, simile a quello che suol fare squarciata nube: per che egli pieno di paura riscotendosi si svegliò, e la camera sua piena di mirabile splendore vide. E non sappiendo che ciò si fosse, prima ruina avendo temuto, e ora temendo fuoco, pavido cominciò a dire: «Or che è questo?». Ma poi che fuoco conobbe non essere, con aguto occhio cominciò a guardare per la luce, nella quale, o perché ella fosse molta, o perché la vista del re fosse poca, niuna cosa dentro vi discernea; ma bene udí alle sue parole rispondere: «Io sono colui che tutto posso, e a cui niuno pari si trova, e in cui il tuo figliuolo, con la sua sposa e co’ suoi compagni novellamente credono, a’ cui piaceri se tu benignamente non acconsenti, io il farò in tua presenza, o voglia tu o no, regnare tanto che deJ suoi giorni il termine fia compiuto, il quale niuno può passare: e te farò viver tanto, che tu la sua morte vedrai. Appresso la quale, la ribellione de’ tuoi baroni ti fia manifesta, i quali davanti agli occhi tuoi, contradicendolo tu, a poco a poco il tuo regno ti leveranno: e quello perduto, in tanta miseria viverai, che ’l morire di grazia mille volte il giorno dimanderai, né ti sará dato, prima che le mani t’abbia tu per rabbia rose; e dopo questo vituperevolmente morrai, e abominevole a tutto il mondo». E questo detto, ad un’ora tacque la voce e sparve lo splendore. Per che il re desto e pauroso, in sé molte volte ripeté l’udite parole dicendo: «Or chi potrebbe esser costui che tutto puote, e che si aspramente mi minaccia? Certo la sua venuta di Dio risembra, e similmente il partire! Dunque è da temere, e da fare tutti i piaceri suoi, anzi che incorrere nella sua ira: ma come gli farò, ch’io nol potei vedere né nol conosco?». E in questi pensieri stando, senza punto piú la notte dormire che dormito infino allora avesse, venne il giorno, ed egli si levò. E sappiendo che gli ambasciatori di Florio non erano partiti, a sé gli fece chiamare, e umilmente li pregò che di ciò che detto avea la passata sera niente al figliuolo narrassero, però che egli, spaventato con minaccie la notte dal novello Dio, avea mutato proposito, e però gli dicessero ch’egli venisse, e troverebbelo a ogni suo piacere disposto.
Allora si partirono costoro, e in brieve ritornati a Florio, ciò che fu loro imposto renderono: di che Florio contento, come di Marmorina per dolore uscito era vestito di violato, cosí in quella propose di rientrare vestito di bianco in segno di letizia e di puritá, e cosí sé e’ suoi fè vestire. E montati a cavallo tutti verso Marmorina cavalcarono, a’ quali i nobili uomini da Marmorina a cavallo, menando grandissima gioia e con istrumenti infiniti, uscirono incontro; né fu alcuna ruga in Marmorina che di nobili drappi non fosse ornata, per le quali le donne e i garzoni faccendo festa, attesero il loro signore, c1ascuno con la piú bella roba fattasi bella. Con la quale sí grande allegrezza Florio entrò in Marmorina sotto onorevole palio, e Biancofiore similmente dopo lui. E pervenuti al real palagio, ricevuti furono con mirabile allegrezza dal vecchio padre e dalla pietosa madre, e con loro insieme tra gli altri fu molto onorato Menilio: e i compagni di Florio prima dal re e dalla reina lietamente veduti, poi da’ suoi stretti amici e parenti con maggiore letizia furono ricevuti. Né niuna cosa è che non sia lieta in tutto il paese: solamente i grandi parenti del trapassato Ascalione piangono la morte del valoroso uomo, la quale giá in brieve non si mise in oblio.
Mentre la gran festa durò, e Biancofiore e dal re e dalla reina come figliuola onorata, da loro saputo che d’imperiale stirpe discesa era, dimandatole delle passate offese perdono, alle quali ella eterno silenzio dimandò e pregò che fosse, piú giorni trapassarono in festeggiare. Dopo i quali alquanto riposatosi il festeggiare, Florio dimandò che il re e la reina si disponessero a prendere la santa fede, sí come promesso avevano, e appresso loro tutto il marmorino popolo e l’altro rimanente del regno: a cui piacere il re si dispose in tutto. E fatto in una gran piazza ragunare la molta gente della cittá, tacitamente la predicazione di Ilario ascoltarono, dopo la quale il re prima e poi la reina e poi tutta l’altra gente, uomini e femine, piccoli e grandi, presero da Ilario il santo lavacro. La qual cosa fatta, Florio per tutto il reame mandò legati a seminare la santa sementa, e per tutto mandò comandando che chi la sua grazia disiderasse, prendesse il battesimo e abbattesse i fallaci idoli a reverenza fatti de’ falsi iddii: e de’ templi fatti a loro facessero templi al vero Dio dedicati, e lui adorassero e temessero e amassero. Il cui comandamento, non dopo molto tempo, per tutto fu messo ad esecuzione. Faccendosi la gran festa della nativitá di Florio, Sara, a cui notificato fu, acciò che il suo vanto adempiesse, una corona di grandissima valuta, venendo alla corte del suo signore, recò, e quella presentò a Biancofiore., la quale, di tanto dono ringraziandolo, benignamente la prese. E Massalino, che il suo vanto non aveva messo in oblio, i cari piantoni fece venire, e con lieto viso glieli presentò, a cui ella, ringraziandolo, disse mai ad arbore sí fatte radici non avere vedute: ‛ricca è la terra che le produce’. E in questa maniera la festa grande e notabile ricominciata, per lo preso lavacro, lungamente durò. E i paesani, che vedovi credeano rimanere di signore, ora riconfortati e lieti il rivedeano.
Quanta l’allegrezza di Florio fosse, dire non si potrebbe. Egli si vede la disiderata Biancofiore sposa, e di nobile stirpe, a lui ignota nel principio dell’innamoramento, discesa, e di lei un bellissimo figliuolo. Egli si vede, dopo molti pericoli, da tutti campato e al suo regno salvo tornato. Egli si vede il vecchio padre e la cara madre, i quali egli appena credeva ritrovare vivi. Egli si vede il molto popolo, e da tutti essere amato: e quello che sopra tutte queste cose gli era a grado era che della setta de’ fedeli a Dio era divenuto e con lui tutti i suoi seguaci. Nella quale letizia di tutte queste cose dimorando, chiamò a sé i cari compagni con lui stati nel lungo pellegrinaggio, de’ quali alcuno ancora alla sua casa non era tornato, e disse loro: «Signori e cari amici, è finito il lungo cammino, il quale noi è piú anni cominciammo: e, lodato sia Iddio, non invano avemo camminato! Ma ben che io la disiderata cosa abbia acquistata, la vostra fatica e la paura e l’affanno de’ corsi pericoli non è stata meno, ne’ quali mai da voi non mi vidi diviso, ma solleciti sempre per levare me da’ mali voi volenterosi conobbi a sostentarmi, le quali cose in me piú volte pensate, con ragione mi vi conosco obbligato. E però io qui giovane, e ancora sotto paterna potestá obbligato, piú lontano ch’io possa profferere non vi posso, ma a quello che per me si puote, tutto sono vostro, disposto a niuno pericolo né affanno rifiutare per voi giá mai. E dopo questo, se mai avviene che la mia fronte sostenga corona, io sia chiamato re e voi governate e possedete il reame, del quale se il nome come l’utilitá si può comunicare in molti, molto piú sono contento che di quello ancora cosí com’io godiate: e dove tutto questo a sodisfazione di tanto servigio non bastasse, che so che non basta, Dio per me vi rimeriti il rimanente. Siavi adunque lecito ormai a vostro piacere rivedere le vostre case, e far lieti i padri e le madri e gli stretti parenti e amici, i quali voi giá e cotanto tempo senza pigliar congedo per accompagnarmi abbandonaste. Né sia però la mia anima dalla vostra lontana, perché lontanandovi partiamo i corpi, ma sí congiunte, come per adietro state sono, le tenete sempre, tornando a rivedermi quando riveduti i vostri avrete: e riposatevi tanto che siano contenti».
La grande liberalitá di Florio, e il suo dolce parlare, gli animi prese de’ valorosi giovani, e a’ suoi servigi disposti legò con piú forte catena. Elli quasi a tanta profferta non sapeano che rispondere, che a quella loro paresse degno ringraziare, ma dopo alquanto spazio, ciascuno per sé, e tutti insieme dissero: «Florio, assai c’è caro, e di maggior beneficio il terremo, il guiderdone che Dio sí liberale giovane ci ha dato per signore, che della gran profferta, l’attenere della quale crediamo che saria molto, maggiormente ti siamo tenuti: Iddio il tuo regno e i tuoi beni aumenti sempre, e la grandezza della corona, che sará tua, con gloriosa fama prolunghi infino al gran giorno. Sempre saremo tuoi, e se’ l profferere altrui le sue cose non fosse arroganza, ci proffereremmo; ma poi che a te quello che a noi medesimi aggrada, cioè che noi le nostre case riveggiamo, con la giá conceduta licenza ci partiremo». E queste parole dette, pietá entrò ne’ fedeli petti: e abbracciandosi ciascuno, e da Biancofiore e dal re e dalla reina prendendo congedo, lagrimando si partirono, in sei parti dividendo la lunga e unica compagnia, tornando ogni uomo a’ suoi e alle sue case.
Stette Florio quanto il lagrimoso verno durò col suo padre e con la sua madre. E negli oziosi tempi narra loro i nuovi e perversi accidenti avvenutigli dopo la sua partita. Egli prima all’altre cose disse l’avversitá avuta della sua nave negli ondosi mari, e mostra loro come, quella da piú contrarii venti combattuta, ad alcun porto dirizzare non poté la sua prora; poi come dalle rotte onde del mare, ora dall’una parte ora dall’altra percossa, e talora da quelle coperta, piú volte perduta, e loro con lei insieme si riputavano, e come essendo loro dal vento levata la vela e l’albero tolto, e dal mare i timoni, e minacciando il cielo crudelissime tempeste, spesso aprendosi con grandissimi tuoni, quella per perduta giá vinti i marinari abbandonarono: e giacendo senza potersi aitare si concederono alla fortuna, la quale poi in Partenope con la giá rotta nave li trasportò. «Quivi» disse Florio, «ci ritenne contrario vento, tanto che cinque volte tonda e altretante cornuta si mostrò per tutto il mondo Febea.» Poi per molti mezzi mostrò come in Alessandria venisse, e quello che quivi facesse, e quanto vi stesse: con una verghetta che in mano teneva, disegnava loro l’alta torre da Sadoc guardata, e le sue bellezze contava, come colui che vedute l’avea. Poi con quella verghetta piú spazio pigliando, qual fosse e quanto il verde prato dimostra, e dove l’amiraglio sedesse, quando fra le rose nella cesta gli fu presentato davanti: e dice quanto la sua paura fosse sentendosi tirare i biondi capelli. Poi disegna da che parte della torre fosse su tirato, e come nella camera. di Biancofiore fosse messo, e quello ch’egli facesse, e che dicesse, e come stesse, tutto narra. Poi il principio della stata presura ignorando, com’egli collato giú dall’alta torre fosse con Biancofiore ignudo dice, e mostra con la verga in che parte del prato fosse il fuoco acceso intorno a loro due. E quando a loro l’oscura nuvola discese, e dove la battaglia d’Ascalione e de’ suoi compagni con gli avversarii fosse fatta per lo suo scampo; e conta come poi levato di pericolo, dall’amiraglio conosciuto fu onorato. Dice ancora della sua tornata, e del trovato Fileno, e della posta terra; e similmente come in Roma entrasse, e dove prima arrivasse, e come poi uscitone, e ritornandovi, fu onorato. Le quali cose il padre e la madre udendo, subitamente paurosi divennero, e quasi a’ partiti che disegnava, pareva loro vederlo. Poi lieti tornando de’ ricevuti onori, dimenticarono la paura, e lodarono Iddio che loro, non per loro merito, ma per sua benignitá renduto l’aveva sano e salvo.
Poi che la dolente stagione fu passata, e la dolcissima primavera recata da Febo avendo giá di nuove e belle erbette e fiori rivestita la terra e gli alberi, a Florio venne in disio di visitare il santo tempio, al quale Lelio non era potuto pervenire con la sua Giulia, e a ciò si dispose, e con Menilio e con Ilario entrò al disiato cammino, e con loro Biancofiore, e il vecchio re, che, lungo tempo in Marmorina dimorato, era volenteroso d’andare a Corduba. Ed egli e la reina insieme con Florio infino a quella andarono, e quivi essi rimasero, con loro ritenendo il piccolo Lelio, e Florio e’ suoi cavalcarono a vanti al loro viaggio.
Camminando costoro per alcuna giornata, partiti da Corduba lieti, e ragionando delle bene avvenute cose per adietro, essi pervennero a’ piè d’un altissimo monte, in una profonda valle, la quale tutta di ossa bianchissime biancheggiava: di che Florio molto si maravigliò e Menilio; e chiamarono a sé un vecchio scudiero, non sappiendo pensare essi ciò che si fosse, e dimandaronlo se mai udito avesse per che quel luogo d’ossa sí pieno si mostrasse. A’ quali il vecchio scudiero rispose: «Io molte volte ho udito il perché, e certo ancora mi ricorda ch’io il vidi». «E quale è la cagione», disse Fiorio? A cui lo scudiero, perciò che Menilio e Biancofiore vedeva, non rispose, ma stette alquanto, e poi cosí disse: «Signor mio, camminiamo avanti, e alla vostra tornata ve lo dirò». «In veritá noi non ci partiremo» disse Florio, «che tu nel dirai.» «E se col mio dire» disse lo scudiero, «io vi porgo turbazione, di ciò non sará mia colpa.» «No» rispose Florio, «sicuramente qual fosse la cagione interamente ne conta.» «Certo, signor mio» disse egli allora, «in questo luogo tra infinita moltitudine di cavalieri del vostro padre, da questo monte discendenti, e tre piccole schiere di Lelio, padre di Biancofiore, fu asprissima battaglia, e io la vidi: e ben che quelli di Lelio, e Lelio similmente, molti de’ vostri cavalieri uccidessero, vigorosamente difendendosi, ultimamente essi morti tutti qui rimasero, a’ quali non essendo sepoltura data, e de’ romani e degli spagnuoli insieme mescolati, consumate le carni qui l’ossa vedete.»
Udendo Menilio e Biancofiore queste parole, alquanto da pietá costretti sparsero molte lagrime, ma riconfortati da Florio, parendo loro il migliore di rimanere quivi quella sera, acciò che ricogliere potessero le sparte ossa, e poi metterle in santo luogo, fecero tendere un padiglione sopra un verde prato. E dismontati da cavallo, insieme con la loro famiglia, tutti per li campi andandole ricogliendo si misero; e di quelle ricolte fecero un monte grandissimo, e di portarle via deliberarono; ma Biancofiore disse: «Che portar vogliamo? Il nostro operare niente varrá; non sono qui cosí l’ossa de’ morti cavalli raccolte come quelle dei nobili uomini? Per niente affannare vogliamo: e però se distinguere le une dalle altre sapremo, l’umane portare ne potremo, se no qui tutte le sotterriamo, ché non è lecita cosa che con l’umane membra quelle de’ bruti animali occupino i santi luoghi». Alla qual cosa fare si misero, ma niente operavano, perché non sappiendo che farsi, né qual partito in ciò prendersi, parendo loro male di portare le bestiali ossa a Roma, e male di lasciare le romane quivi, lungamente stettero sospesi, tanto che l’oscura notte loro sopravvenne. Per la qual cosa, lasciate star quelle, tornarono a’ tesi padiglioni dicendo: «Fin domattina c’indugiamo a pigliar partito, e forse in questo mezzo Domeneddio provvederá alla nostra ignoranza».
Entrati ne’ padiglioni costoro, e dopo alquanto datisi al sonno, a Biancofiore in fulvida luce un giovane di grazioso aspetto con una giovane bellissima accompagnato, di vermiglio vestiti, apparvero, e nel suo cospetto si fermarono, i quali Biancofiore parea che riguardasse, e tanto belli e tanto lucenti li vedesse, e tanto lieti in se medesimi, quanto mai veduto avesse alcuna cosa. E volendo dimandare chi fossero, il giovane cominciò a dire: «O bella e graziosa donna, nella pia opera affaticata questa passata sera col tuo marito ricogliendo gli spartí membri, a’ quali le ruinose acque hanno lungamente perdonato per la tua futura venuta, separa le sante reliquie dalle inique, ché non è giusta cosa che una terra l’une e l’altre occupi». A cui Biancofiore parea che rispondesse: «O glorioso giovane, a ciò non sa la mia poca discrezione pigliar consiglio, perciò che, sí come io ho veduto, piú alle giuste che all’ingiuste niuno segno dimora; ma se a te piace, poi che una pietá meco insieme hai, andiamo, e mostramele, e meco insieme le scegli». A cui il giovane: «Senza me le conoscerai; abbandona i pigri sonni, e col tuo marito leva su, e con Menilio tuo zio, e a ricoglierle andate. Voi le vedrete tutte vermiglie rosseggiare, sí come di foco fossero, e quelle che cosí fatte vedrete, securi vivete che siano de’ romani giovani morti in questo luogo, le quali poi che raccolte avrete, con diligenza le renderete a Roma, di cui vivi furono i corpi. E acciò, o giovane, che tu piú lieta viva, chi io sia io mi ti manifesto e apromiti, e sappi che io fui Lelio tuo padre, e questa che tu meco vedi, della cui bellezza tu tanto ti maravigli, fu ed è Giulia la tua madre, e come cari e fedeli nel mondo fummo a Dio con puro cuore servidori, cosí gloriosi viviamo nella vita alla quale niuna fine sani giá mai. La qual cosa, acciò che tu mi creda, poi c!1e tu tutte le vermiglie ossa avra1 ricolte, alla destra parte del tuo letto farai cavare, e quivi il mio corpo cosí, come Giulia il vi pose, troverai col viso del suo velo ancora coperto, e l’armato corpo d’un verde mantello; il quale tu piglierai, e quello di Giulia togliendo da Marmorina, insieme in Roma gli sepellirai»; e piú non disse. Ma volendo giá dire Biancofiore: «O Giulia, cara madre, fammiti toccare», la luce sparve e le sante persone, e il sonno si ruppe della giovane, la quale tutta stupefatta si levò senza indugio, e chiamò Florio e Menilio, e ciò che veduto e udito aveva per ordine disse loro: di che essi maravigliandosi assai ringraziarono Dio, e levati tutti e tre andarono senza alcun lume a fare il pietoso uficio. Essi non uscirono prima dai padiglioni che, la notte essendo molto oscura e non porgendo alcuna luce, videro la profonda valle per diverse parti tutta rilucere, ove un poco o ove un altro, sí come il cielo nel tranquillo sereno mostra le chiare stelle, e tutte l’accomunate ossa sparte trovarono, e mutate dal luogo dove lasciate l’avevano. Essi nel principio con paura di cuocersi, giravano ricogliendo le rosseggianti reliquie, e tutte quelle per diverse parti della valle sparte ricolsero di votamente, e quelle poste sotto diligente guardia, dove Biancofiore disse, cavarono. Né molto fu loro bisogno andare adentro, che essi trovarono il promesso corpo ancora e del velo e del mantello coperto, fresco come se quel giorno di questa misera vita passato fosse: il cui viso Biancofiore, ancora che morto fosse, al bello e lucente, che veduto aveva, raffigurato, bagnò di molte lagrime, nelle quali Menilio e Florio l.’accompagnarono, tanta pietá li strinse. Poi racconsolati presero quello, e rinvoltolo in un caro e mondo drappo, cosí armato come stava, il misero in una cassa, e l’ossa rosseggianti per la cavata terra, forse d’altri corpi in quello medesimo luogo sepelliti, per Giulia raccolte, aggiunsero all’altre.
Queste cose faccenda costoro, sopravvenne il chiaro giorno. Per la qual cosa essi, il corpo e l’ossa ricolte sotto sofficiente custodia lasciate, cavalcarono avanti al loro cammino, e poco distanti in brieve al dimandato tempio pervennero, nel quale essi entrarono e offersero grandissimi doni, e porsero pietose orazioni, e voltarono i passi loro. E venuti al luogo ove avevano lasciato il corpo di Lelio e le vermiglie reliquie, e quelle prese, senza ristare in alcuna parte, a Marmorina ne le portarono: e quivi con solennitá tratta dalla bella sepoltura Giulia, e acconciatala in una cassa, con l’altro corpo e con le vermiglie ossa a Roma ne le portarono, e quivi fatte grandissime e bellissime esequie, co’ loro padri le sepellirono. Le quali cose fatte, lasciata la non profittevole malinconia, lietamente veduti e ricevuti, a far festa co’ parenti loro si dierono. Stato Florio in Roma piú giorni in allegrezza e in festa co’ suoi, dalla cara madre un singulare messo gli venne, narrante il re suo padre grandissima infermita sostenere in Corduba, per la qual cosa egli senza indugio dovesse tornare. Le quali cose udite Florio, egli e Menilio con pochi compagni, lasciando Biancofiore con Cloelia, si misero in cammino, e con istudioso passo dopo molti giorni pervennero a Corduba, vivendo ancora il re, ma molto alla morte vicino: al quale essi intorno e con pietoso viso il suo essere dimandarono. Li quali quando il re vide, contento molto disse: «Omai, signor mio Domeneddio, prendi l’anima mia quando ti piace». Poi a Florio rivolto cosí parlò: «Caro figliuolo, da me sopra tutte le cose amato, io non posso piú vivere: la lunga etá e la grave infermitá mi mostrano la vicina morte, la quale certo non debbo mal volentieri prendere, poi che lungamente vivuto sono, e delle sue regioni ho piú tosto prese che ella delle mie. E avanti ch’ell’abbia la mia vita occupata, assai di quello ch’io ho disiderato e che ora fu, io non credetti mai vedere, ho veduto, però qualora viene io lietamente la riceverò. La quale poi che del mondo m’avrá tolto, e renduta l’anima al secolo futuro, tu del presente regno, del quale io lungamente re sono stato, prenderai la corona e il reggimento, per ch’io tra le altre cose principalmente ti priego e comando che tu prima te reggi e governi, sí che coloro, i quali tu avrai a reggere, di te non si facciano con ragione scherno, e questo faccendo, niuno sará che di ben essere retto non isperi. Siati la superbia nemica, e quanto puoi la fuggi, però che ne’ suggetti, seguendola, suole ribellazioni e indegnazioni di animo e inobbedienze generare: e poche cose sono nel cospetto di Dio tanto noiose quanto quella, però vivi umilmente, e co’ tuoi suggetti sii quanto si conviene familiare. Né l’iracundia sia o duri in te, la quale suole inducere subiti movimenti e sconci, li quali, poi passata, sogliano dolere. Niuna vendetta sia da te presa adirato, perciò che l’ira ha forza d’occupare l’animo sí che egli non possa discernere il vero: dunque passata quella, con discrezione procedi sopra quello per che t’adirasti. E ben che talora sia tal fallo, che aspra vendetta meriti, mitiga i tormenti, e dove si conviene perdona volentieri: egli è a’ signori gran gloria l’aver perdonato. Non ti muova invidia a dolerti degli altrui beni: ella suole, mostrando gli altrui regni piú che i suoi ubertosi, fare senza utilitá dolere altrui de’ beni del prossimo, e per conseguente disiderare la sua rovina: e di quella s’avviene fare lieto altrui. O che iniqua letizia è questa, e quanto da fuggire, con ciò sia cosa che le vie della fortuna sieno molte e varie, e trasbocchevoli i suoi movimenti! Tal rise giá degli altrui danni, che de’ suoi dopo picciol tempo pianse, e funne riso. Dolersi con giusto animo dell’altrui calamitá non fu mai male. Rallegrati adunque dell’altrui bene, e di quelli che tu possiedi ringrazia Dio. L’avarizia, divoratrice e insaziabile male, del tutto da te fa che lontana sia. Piú che tu abbia non t’è di necessitá disiare. I termini del tuo regno gran circuito occupano, i quali, se tu me ne crederai, d’ampliarli non entrerai in sollecitudine: spesse volte, per aver l’uomo piú che si convenga, quello che convenevolmente aveva, ha perduto. Né ti metta costei in disiderio di ragunar tesori, i quali amara sollecitudine sono dell’uomo: e, per quelli multiplicare in alto monte, fa fare forze a quelli i quali piú tosto per la loro vita poter governare ne bisognerebbero, che esser loro tolti quelli che hanno. Dispettevole cosa è nel prencipe l’avarizia, però che dal luogo ove essa dimora conviene che giustizia si parta. Grandi furono i miei tesori, né quelli vivendo ho spesi, né ora morendo mi possono un’ora di vita accrescere, né seguirmi. Sii tu adunque liberale, e col retto giudicio e onesto volere liberamente dona, e quelli co’ tuoi suggetti, non dimenticando gl’indigenti, godi; e guardati non forse tanto liberale essere disiderassi, che tu in prodigalitá cadessi, la quale a non meno mali altrui conduce che l’avarizia. Guardati similmente che l’animo l’accidia non ti occupi, la quale in pensieri suole altrui mettere molto sconci, e per conseguente all’operazioni: ella fa gli uomini molto miseri di cuore, e pigri a’ loro beni, le quali cose in signore né in alcuno altro sono in alcuna maniera da consentire. La faccia del prencipe deve esser lieta nel cospetto del popolo suo; e nelle convenevoli imprese deve essere magnanimo, esercitandosi sempre nel bene e fuggendo i vili e disonesti pensieri: la qual cosa e tu similmente fa. Sia il tuo esercizio continuo studio della virtú e nel ben vivere de’ tuoi suggetti, le cui utilitá e riposi piú che le tue medesime devi pensare. Sia il tuo studio in tenergli in uno amore, in una pace e in una unitá, però che il regno, in sé diviso, fia distrutto. Non sono i grandi onori largiti, né le gran cose commesse, perché ne’ morbidi letti dimoriamo oziosi; a noi per i popoli, sí come a’ pastori per le mansuete pecore, conviene vegghiare: la qual cosa, se saviamente viverai, farai. Quanto puoi ancora caccerai da te i golosi disii, i quali mettendo ad effetto deturpano il corpo e mancano la vita: e giá, come tu puoi avere udito, piú uomini uccise la cena che il coltello. I cibi con disordinato appetito presi superflui, generarono giá molti mali: l’uomo per quelli perde il lume della mente, e se medesimo non conosce, né Dio, che è peggio. E in cui che questo vizio sia da biasimare piú che in altrui, è in coloro che hanno altrui a reggere. Però usa i cibi acciò che tu viva, e non vivere acciò che tu i cibi usi. Poca cosa la natura contenta, oltre alla quale, quantunque si piglia genera danno, ed è chiamato con ragione vizio. Similemente ti sia la lussuria nemica, la quale, con ciò sia cosa che con tutti gli altri vizii da combattere sia, sola è da fuggire. Questa del corpo e della borsa nemica, con la sua corta e fastidiosa dolcezza è singulare laccio dell’antico nemico ad irretire l’anime de’ cattivi. Oh, quanti mali e quali giá costei ha fatti avvenire! E quel rettore che l’userá, dará a’ suoi uomini materia d’enfiare, de’ quali enfiamenti niuna altra cosa resulterá se non tradimento o insidie: però schifala da te. E la tua Biancofiore bellissima e d’alta schiatta nata, la quale tu lungamente hai amata, e con sollecitudine guadagnata, guarda e siati cara, e sola come si conviene ti basti senza piú avanti cercare. E siati a mente che il guardarsi da’ vizii non basta, senza operare le virtú, a gloriosa vita pervenire: e però, o caro figliuolo, imita quelle, e quanto puoi l’adopera. Laudevole cosa e necessaria molto nei prencipi è la prudenza, senza la quale niuno regno bene si governa. E similmente senza giustizia niuno regno dura: e poi che i ladroni, acciò che lungamente duri la loro compagnia, in molte cose i suoi ordini servano, quanto maggiormente i prencipi la debbono volere osservare! Adunque, e tu la serva, e a ciascuno con intera ragione il suo debito rendi: né ti muova amore, o odio, o amicizia, o parentado, o dono a giudicare con torta bilancia. E similmente ne’ grandi uomini fortezza d’animo si richiede, non forse, negli avversi casi mostrando trístizia, negli animi de’ suggetti pusillanimitá generino. E in tutte le cose fa che temperato sia: la temperanza in ogni cosa dimora bene. Ella multiplica le laudi e gli onori, e aumenta la vita, e la sanitá serva senza affanno. E vivi caritatevole, ciascuno come te medesimo amando, ma non i suoi vizii. E fedele a Dio nella sua misericordia spera, la quale la morte de’ peccatori non vuole, ma la vita, acciò che essi si pentano. E vivi, acciò che tu per queste possa all’eterna gloria pervenire, quando della tua vita i termini compierai, sí come io ho giá compiuti, per quello che mi paia sentire. E acciò che i vizii fuggire e le virtú seguire con intero animo tu possa, sempre davanti agli occhi porta la tua fine, la quale con diritto senno pensando, conoscerai di questo mondo niuna cosa portarne se non le buone e virtuose opere. E tra gli altri sia tuo pensiero questo, che queste cose, le quali tu possederai, e che io possedei, non ne sono date per nostra singulare virtú, nella quale gli altri uomini passiamo, anzi molte volte meglio che gli altri la nostra casa reggere non sapremmo, ma per divina grazia l’abbiamo a reggere e reggiamo. E però che graziosamente ricevute l’abbiamo, graziosamente ritenere e dare le dobbiamo. Adunque onestamente vivi, e altrui non ledere, e a ciascuno quello che è suo dá. E onora la tua madre sopra tutte le cose del mondo, acciò che per la sua benedizione, quando all’infallibile passo mi seguirai, meriti l’eterna gloria. E i tuoi figliuoli correggi e gastiga ne’ teneri anni, e ne’ virtuosi costumi gli fa esperti, acciò che la loro vita ti sia consolazione. E priegoti che l’anima mia, di me vecchio tuo padre, la quale in tanto t’ha sopra tutte le cose amato, che spesso per te sé a se medesima è uscita di mente, ti sia raccomandata». E queste parole dicendo, allentando a poco a poco la voce, finí le sante ammonizioni. E data al figliuolo la sua benedizione, e teneramente con lagrime baciatolo, gridò: «Io me ne vo»: e seguí poi: «O signor mio, ricevi nelle tue mani l’anima del tuo servo». E cosí dicendo rendé l’anima al suo Fattore. La qual cosa veggendo Florio, con pietosa mano, chiuse gli occhi al morente padre, e piangendo i lieti vestimenti abbandonò, e pigliò i lugubri con molti compagni, tra’ quali Menilio similmente li prese.
Ilario, il quale con somma sollecitudine avea al vecchio re i santi sagramenti della chiesa con divozione donati, poi che della presente vita passato il vide, sí come a Florio piacque, secondo la romana consuetudine mise in ordine le grandi esequie; e con molto onore, sí come a tanto re si conveniva, il fece sepellire nella maggior chiesa della cittá.
Pianselo Florio molti giorni; ma venuto il tempo che le lugubri vesti lasciare si doveanno e Florio fu riconfortato, i baroni e i grandi uomini del suo reame vennero nella sua presenza, acciò che, egli presa la corona, la debita fedeltá gli giurassero. Alla quale coronazione Florio fece chiamare Biancofiore, a cui la morte del re era per l’amore di Florio assai doluta, e con lei venne la valorosa donna Cloelia, e Tiberina, e Glorizia e altre donne di Roma, le quali Quintilio con Curzio e con Sempronio accompagnarono. E Galeone, a cui era in cura allora di fare edificare la nuova terra, udendo della coronazione di Florio la novella, lasciata stare ogni cosa, vi venne. E Fileno, il padre e la madre e i parenti lasciati, ancora vi venne, e il duca Feramonte ancora, e similemente Sara, Parmenione, Massalino e Menedon e qualunque altro grande del paese, ov’elli furono tutti da Florio lietamente e con onore ricevuti.
Il dolce tempo era, e il cielo tutto ridente porgeva graziose ore: Citerea tra le corna dello stellato Tauro splendidissima dava luce, e Giove chiaro si stava tra’ guizzanti Pesci; Apollo nelle braccia di Castore e di Polluce piú lieto ogni mattina nelle braccia della sua Aurora si vedea entrare; Febea correa colle sue corna acute lieta alla sua ritonditá. Ogni stella ridea, e il sottile aere confortava i viventi, e la terra niuna parte di sé mostrava ignuda, ma ogni cosa piena o d’erba o di fiori si vedeva, senza i quali niuno arbore si saria trovato, e senza frutto. Gli uccelli, che lungamente aveano taciuto, davano graziosi canti, né alcuna cosa era senza alcuno lieto segno, quando la gran festa della futura coronazione di Florio si cominciò per Corduba: le rughe della quale, da ciascuna parte ornate di drappi simili a quelli d’Aragne, tutte ridevano. Niuna casa, niuno luogo era senza maravigliosi suoni. I giovani e le donne lieti e riscaldati nel festeggiare, con graziose note cantavano gli antichi amori. Altri sopra i correnti cavalli, inghirlandati di novelle frondi, ornati sé e i cavalli di molto oro e di sonanti sonagli, correvano, e i vaghi occhi delle giovani tiravano a riguardarsi. Alcuni apparecchiavano le forti armi per mostrare in pacifiche giostre quanto essi sotto quelle erano poderosi. E altri divisavano altri giuochi, né niuno era senza festa. E le belle e molte brigate de’ festeggianti niuno riposo conoscevano, e ben che Febo co’ suoi cavalli si tuffasse nelle onde d’Esperia, non toglieva egli loro il festeggiare. A quello che il sole ascoso toglieva, supplivano l’accese fiaccole, graziose alle non cosí belle giovani. Ma poi che in cosí grande allegrezza, apparecchiate le necessarie cose, il determinato giorno della coronazione di Florio fu venuto, Florio vestito di reali vestimenti venne in una gran piazza accompagnato da’ nobili del reame, e quivi Ilario e ’l duca Feramonte, eletti da tutti gli altri in generale all’alto mestiere, celebrato il santo uficio, invocato divotamente il nome di Dio a sua laude e reverenza, del reame di Spagna con corona d’oro coronarono Florio, in cospetto di tutto l’infinito popolo, del qual le voci al cielo andarono sí alte, che opinione fu di molti che dentro passassero, dicendo ‛viva il nostro re’. Il quale, poi che la corona ricevuta ebbe, si fece venire avanti Biancofiore, e con le proprie mani di simile regno la coronò reina. Queste cose fatte, si ricominciò la festa grandissima, e le trombe e i molti strumenti sonarono, e l’armeggiare si cominciò grandissimo, e tanto e sí generale per tutto si fece, che niuna altra cosa si vide o sentí.
Florio, novello re, fattisi venire li raunati tesori dal padre, quelli liberamente dona a’ suoi baroni, e non consente che uomo senza grandissimo dono si parta da tanta festa. E poi con loro insieme per la terra andando, ovunque egli viene fa festa moltiplicare, e festeggia sempre avendo seco i cari compagni del suo pellegrinaggio, e quelli onora e sopra tutti gli altri vede volentieri, e a coloro da grandissimi doni: e a dare a ciascuno il suo regno gli pareva far poco. E durata per molti giorni la festa grandissima senza comparazione, gli amici e servidori del re Florio contenti disiderando di vedere le loro case cercano congedo, il quale il re Florio come può lieto concede. Galeone torna a Calocipe, Fileno a Marmorina, Menilio e Quintilio e gli altri giovani romani con le loro donne, e con grandissimi doni, lieti ricercano Roma, e con loro il reverendo Ilario. Il quale prima in quella non giunse, che con ordinato stile, come colui che era bene informato, in greca lingua scrisse i casi del giovane re: il quale con la sua reina Biancofiore ne’ suoi regni rimaso, piacendo a Dio, poi felice mente consumò li giorni della sua vita.
O piacevole mio libretto, a me piú anni stato graziosa fatica, il tuo legno sospinto da graziosi venti tocca i liti con affanno cercati, e giá il vento richiamato da Eolo manca alle tue vele, e sopra essi contento ti lascia. Fermati, dunque, ricogliendo quelle, e a’ remi stimolatori delle solcate acque concedi riposo, e agli scogli l’uncinute ancore, e de’ segati mari e della lunga via le meritate ghirlande aspetta, le quali la tua bellissima e valorosissima donna, il cui nome tu porti scritto nella tua fronte, graziosamente ti porgerá, prendendoti nelle sue dilicate mani, dicendo con soave voce: ‛Ben sia venuto’; e forse con la dolce bocca ti porgera alcun bacio. La qual cosa s’avviene, chi piú di se si potra dire beato? E certo se altro merito non ti seguisse del lungo affanno, se non che i suoi belli occhi ti vedranno, sí ti fia egli assai grande, e glorioso potrai dire il tuo nome tra’ navicanti. Ella, che io sempre figurata porto nell’amorosa mente, mai i tuoi versi non leggerá che di me, tuo autore, non le torni il nome nella memoria: la qual cosa mi fia grandissimo dono. Adunque se di me tuo fattore t’è cura, dimora con lei, ove io dimorare non oso, né di maggior fama avere sollecitudine, ché, con ciò sia cosa che tu, da umile giovane sia creato, ricercare gli alti luoghi ti si disdice: e però agli eccellenti ingegni e alle robuste menti lascia i gran versi di Vergilio. A te la bella donna si conviene con pietosa voce dilettare, e confermarla ad essere d’un solo amante contenta. E quelli del valoroso Lucano, ne’ quali le fiere arme di Marte si cantano, lasciali agli armigeri cavalieri insieme con quelli del tolosano Stazio. E chi con molta efficacia ama, il sulmontino Ovidio seguiti, delle cui opere tu se’ confortatore. Né ti sia cura di volere essere dove i misurati versi del fiorentino Dante si cantino, il quale tu sí come piccolo servitore molto devi reverente seguire. Lascia a costoro il debito onore, il qual volere usurpare con vergogna t’acquisterebbe danno. Elle son tutte cose da lasciare agli alti ingegni. La cicogna figliante negli alti palazzi e nell’alte torri discende a bere a’ fiumi. A te bisogna di volare basso, però che la bassezza t’è mezzana via. Alcione volando batte le sue ali nelle salate onde, e vive. A te è assai solamente piacere alla tua donna, a cui è lecito darti alto e basso luogo secondo che a lei è in piacere: dalla quale, per mio consiglio, mai non ti partirai. E ove staresti tu meglio che nel suo grembo? Quali mani piú belle ti potriano toccare, e occhi riguardare, o voce profferire le tue parole? Da cui se tu pure per accidente esci di mano, e agli altri occhi pervieni, con pazienza le riprensioni de’ piú savi sostieni, e secondo il loro diritto giudicio ti disponi all’ammenda. Al cinguettare de’ folli non porgere orecchie, che bassa voglia è. A coloro che con benivola intenzione ti riguardano, ingegnati di piacere, e i morsi dell’invidia quanto puoi schifa, ne’ denti della quale se pure incappi, resisti. Tu se’ di tal donna suggetto che le tue forze non debbono esser piccole. E a’ contradicenti le tue piacevoli cose, da la lunga fatica d’Ilario per veridico testimonio, e, nel cospetto di tutti, del tuo volgar parlare ti sia scusa il ricevuto comandamento, che il tuo principio palesa. Serva adunque i porti mandati, e de’ beni del tuo padre non essere detrattore: vivi, e di me tuo fattore sempre nella mente il nome porta, la cui vita nelle mani della tua amorosa donna conserva.