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466 il filocolo

concreata nequiza a niuna delle dette cose porse udienza, né concedette occhio, per che io con affanno in tribulazione disperato rimasi, morte per mia consolazione cercando, la quale mai avere non potei, non essendo ancora il termine di dover finire venuto. Il quale volendo io, sí come Dido fece o Biblide, in me recare, e giá levato in piè da questo prato, ov’io piangendo sedeva, mi sentii non potermi avanti mutare, anzi soprastare a me Venere, di me pietosa, vidi, e disiderante di dare alle mie pene sosta. I piedi, giá stati presti, in radici, e ’l corpo in pedale, e le braccia in rami, e i capelli in fronde di questo arbore trasmutò, con dura corteccia cignendomi tutto quanto. Né variò la condizione di esso dalla mia natura, se ben si riguarda: egli verso le stelle piú che altro vicino albero la sua cima distende, sí come io giá tutto all’alte cose inteso mi distendeva. Egli i suoi frutti di fuori fa durissimi, e dentro piacevoli e dolcissimi a gustare. Oimè, che in questo la mia lunga durezza al contrastare agli amorosi dardi si dimostra, la quale v’elessero gl’iddii ch’io ancora avessi, ma l’agute saette, passata la dura e rozza forma di me povero pastore, trovarono il core abile alle loro punte. Questo mio albero ancora in sé mostra le fronde verdi, e mostrerá mentre le tristi radici riceveranno umore dalla terra circustante, in che la mia speranza, molte volte ingannata, non ancora esser secca, né credo che mai si secchi, si può comprendere. E se voi ben riguardate, egli ancora mostra del mio dolore gran parte: che esso, lagrimando, caccia fuori quello che dentro non può capere; e come questo legno meglio arde che alcun altro, cosí io, prima stato ad amare duro, poi piú che alcun amante arsi, e per ogni piccolo fuoco si mi raccendo come mai acceso fossi. Né il dilettevole odore ch’io porgo poté mai fare tanti di quello disiderosi, ch’io altro che a quella, per cui questa pena porto, mi dilettassi di piacere. Potete, adunque, per le mie parole e per me comprendere quanta poca fede le mondane cose servano agli aspettanti, e massimamente le femine, nelle quali niuno bene, niuna fermezza, niuna ragione si trova. Esse, schiera senza freno, secondo che la corrotta volontá le