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libro quinto 555

romane quivi, lungamente stettero sospesi, tanto che l’oscura notte loro sopravvenne. Per la qual cosa, lasciate star quelle, tornarono a’ tesi padiglioni dicendo: «Fin domattina c’indugiamo a pigliar partito, e forse in questo mezzo Domeneddio provvederá alla nostra ignoranza».

Entrati ne’ padiglioni costoro, e dopo alquanto datisi al sonno, a Biancofiore in fulvida luce un giovane di grazioso aspetto con una giovane bellissima accompagnato, di vermiglio vestiti, apparvero, e nel suo cospetto si fermarono, i quali Biancofiore parea che riguardasse, e tanto belli e tanto lucenti li vedesse, e tanto lieti in se medesimi, quanto mai veduto avesse alcuna cosa. E volendo dimandare chi fossero, il giovane cominciò a dire: «O bella e graziosa donna, nella pia opera affaticata questa passata sera col tuo marito ricogliendo gli spartí membri, a’ quali le ruinose acque hanno lungamente perdonato per la tua futura venuta, separa le sante reliquie dalle inique, ché non è giusta cosa che una terra l’une e l’altre occupi». A cui Biancofiore parea che rispondesse: «O glorioso giovane, a ciò non sa la mia poca discrezione pigliar consiglio, perciò che, sí come io ho veduto, piú alle giuste che all’ingiuste niuno segno dimora; ma se a te piace, poi che una pietá meco insieme hai, andiamo, e mostramele, e meco insieme le scegli». A cui il giovane: «Senza me le conoscerai; abbandona i pigri sonni, e col tuo marito leva su, e con Menilio tuo zio, e a ricoglierle andate. Voi le vedrete tutte vermiglie rosseggiare, sí come di foco fossero, e quelle che cosí fatte vedrete, securi vivete che siano de’ romani giovani morti in questo luogo, le quali poi che raccolte avrete, con diligenza le renderete a Roma, di cui vivi furono i corpi. E acciò, o giovane, che tu piú lieta viva, chi io sia io mi ti manifesto e apromiti, e sappi che io fui Lelio tuo padre, e questa che tu meco vedi, della cui bellezza tu tanto ti maravigli, fu ed è Giulia la tua madre, e come cari e fedeli nel mondo fummo a Dio con puro cuore servidori, cosí gloriosi viviamo nella vita alla quale niuna fine sani giá mai. La qual cosa, acciò che tu mi creda, poi c!1e tu tutte le vermiglie ossa avra1