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480 il filocolo

quali due cose fui sopra tutte le partenopesi giovani dotata, cinque fedelissimi servidori l’uno dopo l’altro, avvegna che d’eta fossero dispari, perciò che i due giá vicini erano all’arco sopra al quale l’umane forze non s’avanzano ma vengono mancando, e gli altri due ancora quelle guance mostravano che dalla madre recarono, e ’l quinto non piena la barba a maggior quantitá serbava per iscemarla? Certo sí. Costoro e con la bellezza degli sfavillanti occhi miei e con la dolcezza del mio parlare, per lo quale meritai Serena essere chiamata, legai io sí nelle mie reti, che avendo io loro fatti gittare gli archi co’ quali prima per li boschi servivano Diana, prima de’ loro tesori con soave mano li privai, e quelli sotto la mia balia ascosi, cavando loro poi dal sinistro lato i sanguinosi cuori, li lasciai senza vita. Quale vendetta mai di questo si vide? Niuna certo: e perché? Perché la potenza della parte offesa non era tale, e le vendette seguono i meno possenti. Io tal quale sia essa non la curo: e cessi dal mio petto che io mai piú in tale errore viva, che dii o dee creda che sieno, o li coltivi, o loro porga prieghi. Noi siamo dee, e quelli uomini che ci piacciono nostri iddii: e quali celesti regni piú belli che questi nostri si poriano trovare? Noi siamo tra quelle cose di che coloro, i quali l’errore rustico chiama iddii, si tengono signori. Chi dubita che miglior partito non abbia chi nella sua cittá guernito dimora, che di lontano agognando se ne chiama signore? Noi belle, noi savie, noi possenti siamo e saremo quanto il secolo si lontanerá, e degne dí quell’onore che Giove e gli altri ingiustamente s’hanno usurpato’. Tacque costei; e giá la seconda volta nell’usato ordine ricominciavano il maladetto parlare con piú aspre parole, quando gl’iddii né piú né meno che i cittadini della cittá, le cui mura subito sono assalite dal nascoso aguato de’ nemici, corrono or qua or la senza ordine, e con fretta ora entrando ora uscendo dalle case prendono l’arme, e cercano senza troppe parole la loro difesa, correndo a’ dubbiosi luoghi, fecero ne’ celestiali scanni da subita ira commossi, forse non meno infiammati, che quando dal bestiale ardire de’ giganti