La passione di Curzio Alvise
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LA PASSIONE DI CURZIO ALVISE
Nella prima giovinezza, Curzio Alvise ed io, eravamo stati intimi amici, poi gli studi ci avevano divisi: egli seguiva a Firenze un corso di belle lettere, io frequentavo un’Università tedesca per poter restare in Germania quale assistente in una clinica medica. M’era pervenuta, a Berlino, la partecipazione del suo matrimonio con la signorina Subeiras, ch’io non conoscevo; avevo letto nei giornali italiani qualche recensione lusinghiera intorno ad un suo dramma; poi il silenzio epistolare, nella lunga lontananza, m’aveva fatto perdere le sue tracce. Ma la memoria d’Alvise viveva nel mio cuore col desiderio degli antichi confidenti colloqui. Tornato stabilmente in Italia, mi affrettai di cercarlo, e mi dissero ch’egli dimorava in Piemonte, nella villa Subeiras presso N... Mandai alcune righe a quell’indirizzo e egli mi rispose con un breve telegramma:
— Vieni, sono solo.
Curzio Alvise era figlio d’una gentildonna de decaduta e d’un popolano salito in buona condizione per virtù del suo ingegno, o accoppiava l’energia incorrotta dell’uomo primitivo all’innata cortesia del patrizio. Sognatore inquieto ma risoluto all’opera, tempra imperiosa e ribelle al convenzionalismo, egli possedeva il fascino di certe vergini nature in cui l’individualità del carattere rifulge limpida e geniale, fra le battaglie dello spirito, i focosi ardimenti, e la nobiltá delle risoluzioni estreme.
Come l’intelletto, così chiara egli aveva la fronte ben disegnata dai capelli neri folti e riccioluti; sulle labbra tagliate superbamente, come un modello di scuola, era una lanugine lieve; negli occhi grandi e grigi, uno sguardo lontano che rispondeva all’interno sogno, che destato all’attenzione delle cose, si faceva all’improvviso acuto, sfavillante; in tutto il volto d’un colore bruno e sano, un’irradiazione di virile bellezza varia quanto il pensiero.
Dal padre egli aveva ereditato la vigoria del corpo alto, forte e snello, dalla madre la grazia delle forme.
Le poche persone ch’egli veramente amava subivano, senza volerlo, il più dolce impero, perchè alla sua indifferenza sdegnosa verso il mondo egli sapeva contrapporre, negli affetti d’elezione, un ap.passionata intensità di sentimento.
Durante il viaggio, io pensavo con piacere a quest’amico dei miei vent’anni, fra tanti prescelto, ne rivedevo con lo spirito impaziente, la simpatica figura.
Quando scesi alla stazione di N..., ove dovevo prendere una carrozza per recarmi a Villa Subeiras, un uomo, sul fiore degli anni, ma d’aspetto sofferente, vestito di nero e coi capelli un po’ brizzolati, mi si avvicinò, stendendomi le braccia.
— Andrea!
— Curzio! Sei tu!
— Son io. Non mi riconosci più eh? È di gran tempo che non ci vediamo!
Alvise mi sembrò difatti molto mutato. Il suo volto così baldo un giorno di ardente giovinezza era assorto in una severa concentrazione, gli occhi conservavano il loro sguardo or distratto, ora sfavillante, ma sull’ampia fronte, fra i sopraccigli un pensiero fisso, angoscioso forse, aveva tracciato una piega di dolore.
Egli m’accolse con affetto, evitando di parlarmi di sè, chiedendo invece con premura delle cose mie.
Alcuni minuti dopo, correvamo insieme in un elegante landò, lungo vie polverose, nella vasta pianura fertile di messi ondeggianti. In capo ad un’ora apparve, fra i campi, una macchia pittoresca d’alberi e di grandi cespugli e i cavalli si fermarono dinanzi ad un cancello dalle punte dorate sul quale stava scritto con grandi lettere: Villa Emilia.
Vedendomi intento a quel nome, egli disse semplicemente:
— Era la mia signora.
— L’hai perduta?
— Perduta.
— La molto tempo?
— Sono due anni.
Le sue risposte laconiche non mi permisero di interrogarlo più oltre.
Intanto avevamo preso un lungo viale di tigli in fondo al quale appariva la facciata grigia della villa. Era una costruzione di buono stile, arieggiante il castello medioevale. Il largo fosso che una volta la circondava era stato colmato di terra e ridotto ad uso di giardino.
La carrozza s’inoltrò, passando sugli avanzi di un antico ponte levatoio, in un porticato che metteva al cortile interno tutto verde di rosai rampicanti, i quali salivano fino alle finestre, circondando le persiane di fiorite ghirlande. Smontammo e, subito, Curzio m’introdusse nell’appartamento a terreno, ch’era adesso, oltre i quartieri dei domestici, l’unica parte abitata della casa.
Vidi una camera da letto di stile antico, un gabinetto da bagno, un ampio studio e un salotto messo con femminile eleganza. In un angolo di questo, sovra un tavolino, era un paniere con entro non so qual ricamo cominciato. Scorgendo nel mio sguardo un’altra involontaria domanda, egli spiegò brevemente:
— Era il lavoro d’Emilia, qui è rimasto tutto al medesimo posto.
Poi aperse una bellissima porta di noce scolpito, e subito soggiunse:
— Questa è la biblioteca di casa Subeiras: vi troverai molte cose interessanti, anche delle opere moderne di medicina..... Ma lascia che prima ti conduca al tuo alloggio.
Salimmo la bella scala di marmo scuro e, infilando dei larghi corridoi, giungemmo all’ala destra ove Un cameriere vestito di nero ci aspettava. Trovai due stanzette deliziose. Affacciandomi alla finestra, sentivo l’olezzo d’una pianta di gelsomino azorico che allargava i suoi rami, tutti stellati di bianche corolle, sulla facciata; vedevo, nel sottostante giardino, le aiuole color di fiamma dei gerani e delle begonie e fra due gruppi di quercie secolari un lembo d’orizzonte ove la linea verde della pianura si perdeva nel cielo.
— Tu ami molto i fiori? — io chiesi.
— Non so... Ho forse imparato ad amarli e sono avvezzo a vederli... Emilia li coltivava con passione. Ciò che li abbellisce ai nostri occhi è senza dubbio il gentile rapporto ch’essi hanno con la donna... T’aspetto nel parco — riprese egli, troncando in fretta il discorso.
Quando scesi, Curzio fumava all’ombra di un platano gigantesco, con un bellissimo cane danese accovacciato ai piedi. In un boschetto, á poca distanza, un cameriere stava preparando la tavola. Desinammo così all’aperto, uno in faccia all’altro.
— Dunque tu vivi qui proprio solo? — osai domandargli.
— Solo, sempre. Questo cane è il mio fido compagno.
— Lavori?
— Quando posso, quando sono tranquillo... specialmente la notte.
— Una commedia?
— No, sto scrivendo un romanzo.
Io temevo che la mia presenza potesse distoglierlo dalle sue occupazioni, ma egli mi pregò di restare qualche tempo con lui.
— Voglio confidarti la mia storia — diss’egli ma non oggi, nè domani...
Intanto egli mi mostrò la villa con tutte le sue adiacenze, il parco, la serra, le fattorie, le cascine.
Nato con un’anima d’artista e con una forte ripugnanza alle cose positive, egli abbandonava la cura dei suoi beni ad un onesto amministratore, esigendo soltanto che intorno a lui tutto procedesse come nel passato, che il giardiniere colti vasse con la stessa solerzia gli alberi ed 1 fiori, che le persone di servizio attendessero con la stessa scrupolosa esattezza all’ordine della casa. All’entrata del paese d’Arvaz, il più prossimo alla villa, sorgeva da un anno un asilo infantile che la signora Alvise, nel suo breve testamento, aveva pregato il marito di far erigere e al quale egli dedicava indefesse cure.
Un giorno Curzio mi condusse anche nel cimitero del paese ov’era la tomba di casa Subeiras; m’additò un semplice cippo, adorno di freschi fiori, con una breve e severa epigrafe in memoria d’E- milia Alvise de Subeiras. Essa finiva con le pa- role del rito nuziale:
— Quod Deus conjunxit homo non separet.
— Ha voluto essere sepolta qui — mi disse — accanto ai suoi cari e presso la chiesuola ove sposammo.
— Ella t’amava molto?
— Molto.
Gli occhi di Curzio erano fissi, con una strana intensità, sul piccolo sepolcro.
— Non ne fui degno... — continuò egli, come fra se. — Ti farò la mia confessione. Non ne ho mai parlato con nessuno.
Ma non ebbe mai la forza di narrarmi la sua storia. Una sera mi portò un rotolo di carte.
— Ecco — disse — ho scritto minuziosamente, quello che mi sarebbe impossibile di raccontare. L’ho scritto per te, mi sono aperto e confessato perchè tu mi giudichi e mi condanni.
La notte, chiuso nelle mie camerette, io lessi con attenzione il racconto che fedelmente tra- scrivo cambiando soltanto i nomi.
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Venivo da Firenze, per raggiungere mia madre a Torino, quando, in un giornale, dimenticato da un viaggiatore nel mio compartimento, mi cadde sottocchio l’avviso di concorso per il posto che occupai presso il padre d’Emilia, qui nella villa. Si trattava di riordinare una biblioteca di circa 10,000 volumi e buon numero di codici ch’egli aveva ereditato da un suo fratello, uomo di scienze morto a Parigi. Il lavoro era lungo e non poteva durare meno di due anni, ma siccome la perdita prematura di mio padre ci aveva lasciati in condizioni poco buone io non esitai a offrire 1 miei servigi al signor de Subeiras e accolsi, con gioia la notizia ch’egli m’aveva prescelto fra diversi concorrenti. Un mese dopo, misi il piede per la prima volta in questa villa ove m’aspettava, invece d’un semplice compito letterario, l’arduo problema del mio destino.
La famiglia non si componeva che di tre persone: l’ex banchiere Filippo Subeiras, la sua figliuola Emilia, fanciulla di vent’anni e la signora Alwine Frühman, signora tedesca e un po’ anziana.
Un’epidemia difterica avendo rapito quasi Contemporaneamente, al signor Subeiras la moglie e due figliuoletti, egli s’era ritirato con la figlia superstite in campagna per vivere, in silenzio, di quell’unico affetto e del suo dolore. Alwine, la dama di compagnia, non aveva esitato a seguire nella solitudine quei poveri derelitti e a dividere un’esistenza dedicata in gran parte all’esercizio della carità.
Informato di questi particolari, io partii per villa Subeiras coll’animo predisposto a trovarvi un ambiente piuttosto serio, ma l’immaginazione fu di gran lunga superata dalla realtà.
Quando giunsi, in un nebbioso giorno d’autunno, padre e figliuola stavano giuocando agli scacchi, dinanzi al caminetto, e Fräulein Frühman. lavorava per i poveri accanto a loro.
L’accoglienza gentile ma compassata mi fece provare, subito, un senso d’arcana mestizia.
Filippo Subeiras non era privo d’ingegno, ma, egli aveva impiegato tutte le sue facoltà mentali nell’onesta speculazione e adesso le dedicava da buon dilettante a continui e fortunati esperimenti agricoli sulle sue terre. Conservatore ostinato, s’occupava di politica e di scienze sociali solo per trovare sempre nuovo argomento ai suoi instancabili rimpianti del passato, alla sua acerba disapprovazione del presente, al suo invincibile terrore del futuro.
Ma se l’intelletto di Subeiras era chiuso al sentimento della bellezza e dell’arte, egli confessava però volentieri la propria ignoranza e quest’è un merito che pochi possono vantare.
Emilia amava suo padre d’una tenerezza sviscerata, governava la casa con precoce accorgimento, faceva dei lavori meravigliosi ed era una appassionata cultrice di fiori. D’indole ordinata, paziente, riflessiva, ell’aveva saputo trar profitto dai suoi modesti studi e possedeva delle solide cognizioni, ma parlava poco e sempre sopra soggetti familiari. Severa, anzi un po’ intransingente nei principii, temperava quella naturale rigidezza con una saggia ed efficace bontà, coi nobili istinti dell’animo compassionevole e incline al sacrificio. Solo dinanzi alla ingiustizia e alla menzogna veniva meno il dolce riserbo di Emilia. Una volta, in mia presenza, entrò in una violenta collera, perchè una cameriera aveva mentito, ma seppe subito reprimere lo sdegno con la pieta. A tutti il suo cuore era prodigo d’attenzioni cortesi; ne facevo io stesso l’indiretta esperienza: la sua persona, nondimeno, non esercitava sopra di me la più lieve attrattiva.
Alwine era la creatura più originale che avessi mai incontrata. Più che renitente, refrattaria allo studio della lingua italiana, ella parlava quasi sempre il tedesco o l’inglese. Molto alta, d’una magrezza eccessiva, con mani e piedi più grandi del vero, la sua figura era dominata da un naso enorme sul quale, a conforto dell’esagerata miopia, certi occhialoni azzurri avevano messo stabile dimora. Ella raccoglieva sulla sommità della testa, in un povero ciuffo, i suoi radi capelli rossicci e aprendo la bocca mostrava due file di denti lunghi, sporgenti e d’un abbagliante bianchezza. Ma su quella bocca il sorriso era soave com’era soave l’anima d’Alwine; dai piccoli occhi, sotto le lenti, parlava un vivo intelletto d’amore.
Io ero troppo giovane, troppo inesperto per apprezzare le qualità dello spirito disgiunte dai pregi della forma esterna. Vivevo concentrato nelle mie occupazioni, attendendo, nelle ore libere, ad uno studio sulla commedia italiana nel seicento, per il quale la biblioteca mi forniva valide notizie.
La sera si raccoglievano nella villa gli alti funzionari dei paesi vicini, qualche sindaco di buona famiglia, un paio di sacerdoti, il medico, alcuni signori dimoranti in campagna. Durante quelle riunioni Emilia mi guardava, di tratto in tratto, con una certa insistenza, ma mi rivolgeva di rado la parola; due o tre volte, però, mi chiese con grande interesse di mia madre, e a Natale, quando andai a Torino per salutarla, volle che le recassi una focaccia fatta proprio con le sue mani.
Dicevasi, in quel tempo, che la mano della signorina Subeiras, la quale portava seco un ricchissimo patrimonio, tosse ambita da molti più o meno sinceri ammiratori. Io ne vidi comparire parecchi alla villa e partirsene senza speranza: Emilia non voleva abbandonare suo padre.
Mi trovavo da sei mesi circa, in casa Subeiras quando il signor Filippo, còlto in mia presenza, da sincope cardiaca, stramazzò al suolo e spirò fra le braccia della sua atterrita figliuola, lasciandola sola al mondo. L’infelice fanciulla desto in me una viva compassione, e non potendo offrire miglior conforto al suo tacito dolore, vegliai insieme a lei la salma ch’ella aveva pietosamente composta tra i fiori.
Straziata, ma sempre presente a se stessa, Emilia dava prova d’una mirabile fortezza d’animo.
Un vecchio cugino lontano che Subeiras aveva scelto quale esecutore delle sue ultime volontà, venne a stare qualche tempo nella villa e mi comunicò il desiderio della signorina ch’io conducessi a termine il lavoro iniziato. Non ebbi il coraggio di rifiutarmi, ma domandai un mese di riposo, non sembrandomi opportuno di rimanere in casa Subeiras in quei momenti di sì grave lutto. Quando vi ritornai, Emilia era sola con Fräulein Alwine; a me era stato assegnato un bell’appartamentino di tre stanze, nel quale, un cameriere, addetto alla mia persona, mi serviva anche nelle ore della mensa.
Tolta qualche escursione nelle città vicine, vivevo solitario come un trappista, e i convegni della sera non contribuivano certo a distrarmi. Dopo aver adempiuto ai più stretti obblighi della convenienza, Emilia pareva concentrarsi nel lavoro per i poveri, al quale attendevano con lena instancabile, quasi febbrile, le sue piccole mani, ma in realtà, ella stava tutta raccolta nel culto ardente e geloso della propria afflizione. Soltanto qualche volta io sentivo ancora posarsi sovra di me il suo sguardo con un’espressione di curiosità benevola, quasi di muta domanda.
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Era trascorso un anno. Il riordinamento faticoso della biblioteca volgeva al termine e, siccome un lontano parente di mia madre, morto in quel frattempo, aveva pensato, con atto generoso, a procurarmi una modesta ma sicura indipendenza, avido di libertà, io raddoppiavo il lavoro, divisando di lasciare la villa fra poche settimane. Accadde allora un fatto strano e decisivo per il mio avvenire.
Qualche volta, per un’antica consuetudine, dovuta al desiderio amorevole del signor Filippo, lavoravo in giardino. Un giorno d’aprile, mentre stavo decifrando certe pergamene interessanti per l’archivio di famiglia, in un capanno già tutto vestito di verdura, mi vidi comparire dinanzi la signorina de Subeiras, sola. Credevo avesse a chiedermi, come talvolta soleva, un qualche consiglio intorno alle sue letture, ma, al contrario dell’usato, ella si mise a sedere nella poltroncina che sempre indarno le offrivo e alle mie parole: — In che cosa posso aggradirla, signorina? — rispose con voce tremante:
— Dovrei parlarle.
Nelle aiuole fiorivano a gara i giacinti, i tulipani e i narcisi; fra i boschetti si nascondevano le fragili corolle degli anemoni; intorno a noi era tutta una fragranza di viole, un fremito di primavera gioconda. Io posai il codice che m’era rimasto fra le mani sul tavolino e ritto dinanzi a lei mi misi in ascolto. Ella cominciò con grande titubanza:
— Il colloquio che sono venuta a chiederle, Alvise, è molto grave e può avere una notevole influenza sulla mia vita
Io la guardai sorpreso e non seppi che cosa rispondere. Emilia proseguì:
— Io mi trovo in una condizione difficile, dolorosa e assai diversa da quella delle altre fanciulle. Sono sola al mondo: non v’ha peggiore destino di questo. Avrei potuto sposarmi, parecchie volte, ma ho sempre temuto, lo confesso, che la simpatia che mi si dimostrava fosse giustificata più che dalla mia persona dal triste patrimonio che tante crudeli sventure mi hanno lasciato in eredità. Preferii rimanere libera. Sola tuttavia non posso vivere, lo sento, e piuttosto che fare il sacrifizio della mia anima orgogliosa ad un calcolo volgare, ho risolto di transigere, con quelle leggi che condannano la donna a soffocare passivamente le proprie inclinazioni. Ho molto meditato e sofferto, Alvise, prima d’uscire dal silenzio e dal riserbo e vorrei che fin d’ora, ella sapesse comprendermi e anche compatirmi se non agisco con la correttezza che si compete ad una fanciulla mia pari.
— È saggio consiglio quello di seguire il proprio impulso senza rendersi schiavi delle convenzioni sociali — risposi, con crescente meraviglia, — d’altronde a me, signorina, non spetta di dare alcun giudizio.
— A lei più che a qualunque altro — ella disse, con un dolce sorriso, arrossendo.
Io m’inchinai ma rimasi impassibile e freddo e vi fu nel colloquio una breve, penosa pausa, dopo la quale, ella riprese alquanto turbata:
— Fra gli uomini che ho conosciuti, uno solo ha saputo ispirarmi quel sentimento di stima e di amicizia che deve destare in noi il compagno della nostra vita. Questo giovane non s’è mai curato di me, se non per debito di cortesia, ma nei giorni più strazianti del mio dolore ha voluto dividere meco, tacitamente, molte ore terribili e indimenti- cabili. A lui mi vincola, oltre quell’istinto del cuore che non si spiega, una riconoscenza pro- fonda... a lui sacrifico volentieri la naturale ritrosia dell’animo e rivelo con coraggio il mio segreto o la mia cara speranza...
Lo sguardo della signorina Subeiras mi cercava, timidamente. Povera Emilia, ella m’appare ancora qualche volta com’era quel giorno, ritta nella sua poltroncina di giunchi (non s’abbandonava mai ad alcuna posa languida o molle), vestita a bruno, colle mani convulse e strette... Vedendo ch’io me ne stavo silenzioso, ella proseguì con la voce ^alte- rata da una forte commozione:
— Devo esprimermi ancora più chiaramente? devo dirle anche il nome ?...
— Io? sono proprio io? — balbettai con anime non solo attonito ma anche renitente.
Ella annuì chinando gli occhi e soggiunse, non senza un certo imbarazzo:
— Non volevo scrivere nè farle parlare da altri, perciò ho dovuto venire io stessa...
— Sono così confuso, così sbalordito, signorina, che non trovo parole...
Mi pareva infatti di dover richiamare da quell’apparente sogno il mio pensiero alla realtà della vita. Il cuore agitato mi martellava in petto.
— Non posseggo alcuna esterna attrattiva, lo so, ma il mio cuore è assetato d’affetto e s’ella non ricusa la mia proposta, troverà in me una buona e tenera moglie — disse Emilia, coraggiosamente.
— Io sposare la signorina Subeiras! — esclamai — no, no, è un onore, una distinzione di cui mi sento affatto immeritevole.
Ella fece un cenno espressivo con la mano e continuò, non senza amarezza:
— Non dica così, Alvise. Un uomo come lei deve avere la coscienza del proprio valore.
— È appunto dinanzi alla coscienza che un tale matrimonio avrebbe bisogno di giustificazione.
Crudeli, crudeli parole erano le mie ma io sentivo un feroce istinto di sincerità. Ebbi anche il cuore di guardarla freddamente. Dalla sua fisonomia scorretta ma caratteristica, traspariva più che l’intelligente pensiero, la pura, quasi austera onesta dell’anima. Nondimeno ella mi sembrò, come sempre, assai brutta. Piccola e tozza, Emilia mancava, nelle forme, di ogni grazia, d’ogni leggiadria femminile. L’unica sua bellezza erano i capelli lunghissimi, bruni e folti, ma scevra affatto di vanità, ella li stringeva sulla breve fronte, come una benda, senza un ricciolo, senza un’ondulazione; negli occhi neri era una dolce espressione di tenerezza fedele, contradicente alla curva fiera dei sopraccigli, alla piega un po’ tenace delle labbra.
— Durante il mio soggiorno alla villa — io ripigliai, vedendola molto contristata da quelle parole — la sua benevola cortesia a mio riguardo, non si è smentita un solo momento, ma l’accerto, signorina che nulla, nulla mai m’avrebbe fatto pensare alla preferenza lusinghiera ch’ella volle accordarmi.
— E pure — disse Emilia, con un filo di voce — io mi sentii damarla il primo giorno ch’ella entrò in questa casa. E quando morì il mio caro babbo, che la teneva in grande considerazione, il mio affetto si confermò fra le angoscie della sventura. Non sono donna da amare due volte nella vita. Le cose forti sono le più profonde, Alvise, e non vengono così facilmente alla superficie.
Dinanzi a quella confessione così schietta e così nobile, il mio turbamento s’accrebbe fino allo spasimo, ina non seppi proferire la gentile, l’affettuosa parola alla quale Emilia aveva diritto. Ella vide quant’ero perplesso e angustiato, e, subito dimentica di sè, disse con grande bontà:
— M’accorgo che non è in grado di darmi una risposta.. se crede, Alvise, aspetterò. Qualunque decisione ella vorrà prendere, sono sicura che non avrò mai a pentirmi della confidenza che le feci, perchè la credo un uomo d’onore. Aspetterò due o tre giorni — riprese, vincendo nobilmente la giusta alterezza dell’animo. E, alzatasi, si mosse per rientrare in casa. Aveva la bocca contratta, il passo incerto e un grande pallore nel volto.
— È necessario ch’io possa riflettere — mormorai — ma vorrei che fin d’ora, signorina, si tenesse certa della mia devota gratitudine.
Ella mi rivolse un tristissimo sorriso. Povera Emilia, quant’era buona, quant’era magnanima! .. Ma io mi sentivo inasprito contro me stesso, contro il destino e contro di lei. Avrei bramato poter corrispondere almeno con una deferente affezione a quel suo generoso amore, ma il cuore mi s’irrigidiva in petto.
L’accompagnai un piccolo tratto, poi ella s’allontanò a lento passo con una malinconica dignitá nello sguardo.
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Dopo quel colloquio, io non ebbi un minuto d’esitanza. Vedevo tutte le cose con chiarezza e ancorché non potessi restare insensibile a una, proposta che doveva mutare per intero la mia sorte, sentivo che, nell’accettarla, io sarei disceso al livello dei volgari speculatori ai quali Emilia accennava e forse più basso ancora. Ma la sera, quando andai in giardino e vidi, fino a notte inoltrata, trasparire il lume dalle persiane nella camera della signorina Subeiras, il pensiero di quella creatura infelice che nella solitudine della sua vita, nell’amarezza di tante sventure m’aveva prescelto spotaneamente a compagno mi turbò, mi fece vacillare nella presa risoluzione. Ella forse vegliava, colla mente fissa nell’incerto avvenire, sperava forse che la mia titubanza fosse derivata dalla meraviglia o da un delicato riguardo dell’animo, e io ero costretto invece a rappresentare una parte da scortese cavaliere. La mia lotta nondimeno fu breve. Non è sempre vero, ahimè, che amore
.....a nullo amato amar perdona.
Io non potevo offrire ad Emilia quella corrispondenza di affetti ch’ella aveva il diritto d’esigere, la mia lealtà m’imponeva d’esprimermi francamente. Trascorso appena il secondo giorno le scrissi:
«Signorina,
«Dall’ora memorabile del nostro colloquio, non ho cessato di riflettere e d’interrogare me stesso La coscienza m’accerta ch’io non posseggo le qualità necessarie per renderla felice, egregia signorina, quant’Ella merita, e un sentimento d’onestà e di delicatezza ch’Eli a non vorrà, spero, disprezzare, mi costringe a ripetere che non mi ritengo degno della nobile e lusinghiera proposta che tanto m’onora. In questo momento doloroso, mi conceda d’esprimer! e, ancora una volta, la mia riconoscente e immutabile devozione.
«Attendo i di Lei ordini per poi lasciare al più presto questa casa ospitale alla quale mi legano tante care memorie e implorando un benevolo compatimento mi segno, ecc.»
Consegnai la lettera al cameriere e un’ora dopo mi pervenne la seguente risposta:
«Signore,
«Dimentichi, La prego, il colloquio ch’ebbe luogo fra noi. Io pure mi studierò di cancellarne dal cuore la penosa memoria. In quanto al lavoro della biblioteca, desidererei, se ciò non Le riesce di troppo grave disturbo, ch’Ella si compiacesse di condurlo al termine. Mi creda sempre di Lei
«Obbl.ma Emilia Subeiras».
Queste righe, così laconiche, così blande, mi rassicurarono sul conto della signorina Subeiras. Le mandai subito un biglietto in cui le dicevo che mi farei un dovere di compiere con la massima sollecitudine l’opera mia. E mi ci rimisi di lena. Due tre volte, dalla finestra, vidi Emilia aggirarsi fra le aiuole del giardino, ma non ebbi più il coraggio di scendere la sera. Un giorno m’imbattei nel corridoio in Fräulein Alwine che mi rivolse uno sguardo addolorato e un freddo saluto.
«È informata d’ogni cosa» dissi fra me, e mi studiai d’evitarla. Durante un’intera settimana non incontrai più nessuno, ma una mattina scorsi il medico entrare ad ore insolite nella villa, e, avendo chiesto al cameriere se vi fossero ammalati in casa, colui mi rispose:
— Come? non lo sa? c’è la signorina con la febbre.
— Colla febbre?
— Sissignore. Il dottore poc’anzi faceva il viso bujo.
— Dov’è Fräulein Frühman?
— Sempre dalla signorina.
— Dite alla cameriera che la preghi di venire in sala.
E scesi, agitatissimo. Fräulein Alwine non tardò a raggiungermi. Era molto angustiata.
— Dio buono — esclamai — che cos’è accaduto?
Ella fece un cenno espressivo con le mani.
— Febbre, febbre — mormorò — grossa febbre, Herr Doktor.
— Da quando? — domandai.
— Oh! tre giorni.
— E il medico è venuto soltanto ieri?
— Ja! io chiamato, non voleva, non voleva.....
— E che cosa dice il medico?
— Tice febbre infettivo...
— Ha fatto qualche strapazzo? ha preso freddo? è stata forse da qualche ammalato?
— Oh no.
Ella mi guardava con gli occhi pieni di lagrime e con una tale espressione di tacito rimprovero che ne rimasi mortificato.
— Voi sapete, voi sapete! — proseguì, prendendomi amorevolmente per un braccio.
— Io?
— Sì. Non dovrei tire, mein lieber Herr Doktor, aber es muss dock sein... Voi non avete cabito niente. Voialtri uomini non cabite mai niente. Scusate. Non dovrei tire... aber nein, das ist zu grausam... crudele, si dice, crudele.
Fräulein Alwine sempre così prudente, così ri- servata doveva avere delle forti ragioni per farmi quelle confidenze. Io non seppi che cosa rispon- derle, avevo l’attitudine d’un delinquente.
— Eine gute Seele — continuò — and so allein! — povera Emilia, così solo!
— Non è solo chi possiede una buona amica come lei...
— Oh! io vecchio, Herr Doktor. Voi siete gio- vane. Oh! se signorina sapesse! weh mir, weh mir!
Io me n’andai col cuore in tumulto, ma non trovavo pace in nessun luogo.
Quando il medico venne, a mezzogiorno, lo aspettai, per interrogarlo.
— È una forte febbre d’infezione — mi dis- s’egli. — Da qualche tempo la signorina Subeiras aveva perduto la sua consueta serenità. La set- timana scorsa la trovai in preda ad un grande abbattimento.. non può rassegnarsi alla perdita di suo padre...
— Non vi sarà pericolo, spero ?
— Pericolo? Mah! Non si può dir niente... Se la febbre incalza...
Difatti essa incalzò, rapidamente. Alle nove della sera il termometro segnava quaranta gradi. Nella casa cominciava a diffondersi un senso di spavento e d’angoscia. Io stava sempre nell’anticamera. Alle tre del mattino Fräulein Frühmann uscì per ordinare del ghiaccio e passando, mormorò:
— Ho detto ad Emilia che siete qui,, ella vi prega di coricarvi.
— Non posso. Non reggerei lassù. Vorrei fare qualche cosa anch’io, Fräulein . Mi mandi fuori, dal medico, in città, ove crede... disponga di me.
— Oh, crazie Voi potete stare a casa e far molto lo stesso. Voi potete cambiare vostra risoluzione e non esser tanto superbo. Vostra parola vale più di rimedio. Chinin, antipyrin... tutto niente, questo ci vuole! — E additava vivacemente il cuore. Poi soggiunse ancora una volta:
— Se la povera Emilia sapesse! weh mir, weh mir! - si mise un dito alla bocca e scappò via.
Sotto una forma esterna quasi ridicola, Alwine nascondeva un cuor d’oro: durante il mio soggiorno a villa Subeiras avevo avuto spesso l’occasione di convincermene.
Incapace d’un volgare pensiero, ch’agiva evidentemente per l’impulso d’un desiderio affettuoso, d’una gentile speranza. Forse, nel suo cervello romantico di tedesca, ell’aveva immaginato che la felicità dello spirito potesse costituire per la signorina Subeiras un elemento di fisica salvezza. Comunque fosse, il solo amore del bene induceva certamente la signorina Frühman a transigere col suo solito riserbo, con la squisita delicatezza del suo animo.
Il dubbio ch’Emilia avesse a soffrire nella salute per colpa mia non m’era mai balenato al pensiero, e senza fallo l’avrei respinto come uno sciocco suggerimento della vanità, ma le parole d’Alwine dovevano per forza turbarmi ed esse finirono col destare in me un senso strano di rimorso, una specie d’apprensione dolorosa.
L’inferma continuava a peggiorare e quella notte istessa, nell’angustia delle ore interminabili e tristi, io rivelai ad Alwine la tortura dell’animo mio. L’affetto d’Emilia cominciava a lusingare il mio amor proprio e ad impietosirmi il cuore.
Vi sono momenti fatali che decidono di tutta la vita, momenti in cui la verità delle cose ci sfugge e lo spirito si addormenta in ingannevoli sogni. Non voglio dilungarmi su ciò che accadde, su quella pericolosa dedizione di me stesso alla gravità incalzante dei fatti.
Il giorno appresso vi fu un notevole miglioramento nello stato dell’ammalata; la febbre diminuì, le condizioni generali divennero buone. Alwine mi recava, di tratto in tratto, notizie e saluti, mi prodigava sorrisi’ di benevolenza. Quando la guarigione fu assicurata, andai a Torino per parlare colla madre mia. Ella si sentì subito attratta da un vivo sentimento di gratitudine verso la signorina Subeiras che le sembrava il mio angelo tutelare nel mondo pieno di tentazioni.
In quel tempo, sperai anch’io di poter amare Emilia e fu con una sicurezza strana, con una specie d’esaltamento che la rividi dopo la sua malattia. L’avevano trasportata in giardino, sopra una sedia a sdrajo, in mezzo ad un boschetto di philadelphus fioriti e fragranti e Alwine era venuta a dirmi che, se volessi scendere, mi vedrebbe volentieri. Al mio apparire la signorina Subeiras arrossi vivamente e mi rivolse uno sguardo in cui si leggeva insieme all’ansietà una fierezza dolorosa. Io mi avvicinai sorridendo e dissi piano:
— Emilia! cara Emilia!
Non avevo mai osato chiamarla col suo nome. Ella ne parve commossa, i suoi occhi bruni si velarono di lagrime e dalle labbra ancora pallide esci come un soffio la timida domanda:
— E dunque?..
Io mi chinai a baciarle la mano.
Eravamo fidanzati e intorno a noi sorrideva la primavera nelle fiorenti aiuole, nei gorgheggi delle capinere, nella serenità luminosa del cielo.
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Siccome la cerimonia nuziale doveva aver luogo soltanto in ottobre, non parlammo con nessuno della nostra promessa di matrimonio; io rimasi alla villa e non tardai a riprendere la vita consueta alle cui monotone abitudini non s'erano aggiunte che due visite giornaliere ad Emilia. Invece di trattenerci in casa o nel giardino andavamo spesso a passeggiare nei dintorni insieme alla buona e fida Alwine che non capiva in sè dalla gioia.
Come si mostrò felice, Emilia, in quel tempo! Liet della sua contentezza, io mi lasciavo sfuggire. qualche tenera parola, vivevo in una incomprensibile illusione sopra me stesso. Furono tre mesi strani che il silenzio della campagna avvolse in un velo di pace apparente e traditrice.
Quando partii per Torino, alcune settimane prima del matrimonio, il distacco mi costò una certa fatica: Emilia ne soffriva assai, ma, come sempre, cercò di vincersi per non turbarmi.
Non so perchè, quel breve soggiorno in una grande città mi destò subito dall’inganno in cui ero caduto. Tornai alla villa, la vigilia delle nozze, e passai la serata con Emilia e con Alwine. Verso mezzanotte, prima di lasciarci provammo entrambi una intensa, ma ben diversa commozione: Emilia era tranquilla, fidente; nel mio cuore invece cominciava ad agitarsi una fiera tempesta. Feci tutti gli sforzi per dissimulare l’interno affanno, mi chinai sulla pura fronte della mia fidanzata e la baciai per la prima volta, ma appena fui solo, nelle mie stanze, mi gettai sul letto in un impeto di disperazione. In quella notte terribile lo stato della mia anima mi si rivelò con una spaventosa chiarezza. Vedevo, disteso sopra un mobile, come una fantasma di morte, il mio frac; la cravatta bianca, tutti gli altri oggetti bianchi mi sembravano anch’essi simboli di morte e di sepoltura; ini rimproveravo acerbamente d’essere stato troppo debole, d’aver dato l’intera mia vita per la vanitosa speranza di rendere felice una donna, quando il primo elemento della felicità, l’amore mi mancava; mi pareva di trovarmi in una cella senza uscita, fra quattro muri contro i quali dovessi infrangere la testa, come un pazzo travagliato dalla più funesta allucinazione. Alcune volte fui sul punto di scendere, di chiamare Emilia, di confessarle tutto... L’avessi pur fatto! Ma l’idea d’affliggerla e di cagionare anche a mia madre un grave dolore, bastò per trattenermi.
All’alba, dopo aver passeggiato su e giù con questo martirio nell’anima m’affacciai alla finestra, e la cruda brezza del mattino, soffiandomi bruscamente in faccia, mi ridestò all’immutabile realtà delle cose.
Mandai il cameriere a prendere le notizie della mia fidanzata con la quale non dovevo incontrarmi che al momento della partenza per il paese d’Arvaz. Ella mi fece dire da Alwine che aveva dormito tranquillamente. Da li ad un’ora ci rivedemmo nell’atrio. Non volendo tornare alla villa dopo la funzione civile, Emilia portava già il vestito bianco, il velo da sposa, la ghirlanda di fiori d’arancio in testa, ma la piccola figura nuziale che doveva commuovere in quel momento il mio cuore d’una infinita tenerezza, non ebbe per me alcun raggio d’idealità.
Nella carrozza ov’ella aveva preso posto con Alwine, montarono il cugino Subeiras e il medico del paese, nella mia un avvocato di N... e due amici venuti da Milano. Non avevamo fatto alcun altro invito.
La scena, nella piccola stanza dell’ufficio comunale ove un sindaco balbuziente ci unì dinanzi alla legge, mi parve un poco grottesca, per fortuna fu breve e l’impressione rimastami nell’animo, si dileguò quando, nell’entrare in chiesa mi giunsero all’orecchio i suoni mistici di un mirabile preludio del padre Martini. Al mio amico Marcello Nocera, ottimo musicista, era venuta la felice ispirazione di suonare l’organo. Quella musica mi scese nell’anima, suscitandovi un ardente bisogno del bene. Guardai Emilia che saliva i gradini del presbiterio, con passo fermo, sorreggendo con una certa cura il lungo strascico del candido vestito. Prima d’inginocchiarsi, ella sollevò verso di me le brune pupille, dallo sguardo fedele, ove una serena contentezza rifulgeva, ma non mostrò alcuna commozione per la geniale sorpresa di Marcello.
Il prete di campagna, un pio vecchio, pronunziava con voce tremula ma solenne le belle parole del rito nuziale.
— Quod Deus conjunxit homo non separet.
Questa sentenza mi diede un brivido di tristezza e di paura.
All’uscire della chiesa, mentre Nocera improvvisava una marcia di nozze, Emilia mi mormorò con tenerezza:
— Caro Curzio, come sei pallido!...
— Questi accordi penetrano nell’anima...
— Il tuo amico suona bene, non è vero? — ella rispose — peccato, io non capisco la musica.
E subito mi parve che nell’ora più memoranda della nostra vita, una grande distanza ci separasse.
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Dopo una breve colazione tra gli evviva dei pochi amici, partimmo per il nostro lungo viaggio lasciando la villa in custodia di Fräulein Alwine.
Eravamo soli, e il treno correva, correva come incontro ad un ignoto destino. Penso spesso al momento in cui presi Emilia fra le mie braccia, in cui cercai le sue prime innocenti carezze. Ero sincero e nessun rimorso turba per me quella ricordanza. Nelle infinite e strane fluttuazioni del mio pensiero, mi parve allora che la tenerezza fraterna e protettrice ch’Emilia m’ispirava, potesse tenermi luogo dell’amore. Ma fu breve inganno. La sua anima non aveva misteri per me. Natura integra e scrupolosamente onesta, ma punto elastica, Emilia si rivelava in un sol giorno. Le lotte dello spirito le erano ignote e la poesia infinita della sognante giovinezza si riduceva per lei ad una stretta cerchia di rette ma positive idee. Era come un libro, composto di poche, candide pagine sulle quali stavano scritte, in caratteri d’oro, delle grandi verità. Non vi erano nè pagine chiuse, nè pagine vuote, nè pagine velate, io avevo letto tutto, tutto sapevo chiaramente a memoria.
A me, un folle ardore palpitava in petto con la giovanile curiosità della vita; non potevo comprendere la grandezza d’animo che si nascondeva entro quell’umile forma; lo stesso affetto di Emilia così vergine e spontaneo, così sicuro ed immutabile nelle sue promesse, non suscitava nel mio cuore che dei sensi di blanda gratitudine; Quella creatura, priva di fantasia, non possedeva alcun fascino per me.
La donna che avevo sognata era bionda, slanciata, leggiadra e squisitamente sensibile alle arti. Fu in quel viaggio di nozze ch’io ne vidi sorgere più spesso che mai l’immagine pericolosa dinanzi al mio esaltato pensiero.
Lungo il Reno, nel Belgio, specie a Parigi, certe figure di donne destarono in me dei fremiti che prima non avevo mai provati.
Mi dedicavo ad Emilia, studiandomi di darle un’impressione di felicità, cercando di prevenirla in tutto, ma sebbene fosse cresciuta in mezzo alle ricchezze, mia moglie nulla esigeva per la sua persona. La cameriera non l’aveva voluta, perchè anche a casa se ne serviva pochissimo; accurata nel vestire non aveva mai una falda, un nastro, una trina fuori di posto; si pettinava da sè, con grande diligenza, ma sdegnava come una vanità colpevole, l’eleganza femminile e la passione della moda. Era un modello di lindura, ma mancava affatto di gusto.
Nei bauli regnava un ordine perfetto. Emilia non usciva dall’albergo senz’aver posto scrupolosamente in assetto tutta la roba nostra. Nelle spese stesse ella si lasciava dominare da questa esattezza; generosa in tutto, avrebbe ricusato di pagare un arancio qualche centesimo di più del suo valore per una invincibile ripugnanza all’inganno.
Dotata d’una grande resistenza fisica e d’una forte volontà, ella stava fuori da mane a sera senza provare stanchezza; bramosa di veder tutto, d’andare al fondo di tutto, ella consultava parecchie guide, prendeva delle note, voleva accertarsi del nome d’un pittore, del carattere d’uno stile, della precisione di certe date storiche. Prediligeva i libri di storia per l’amore della verità ch’era in lei ardente, e la sua tenacissima memoria assecondava con efficacia questa passione; apprezzava gli oggetti d’arte soltanto per il loro valore storico, ma era. incapace di comprenderne la vera grandezza; dal padre aveva ereditato una viva contrarietà per l’arte moderna come fosse un elemento di corruzione; amava poco il teatro che non era stata avvezza a frequentare, perchè nella commedia il soggetto le andava rare volte a genio, perchè la musica parlava un linguaggio per lei incomprensibile.
Era una donna nata per essere madre. Dal modo con cui guardava i bambini, da certe sue parole vaghe compresi già nei primi giorni quanto lo desiderasse; più tardi anche me lo disse con una commozione profonda. Io ero troppo giovane per aspirare alle gioie intime della famiglia: altre e ben diverse idee mi frullavano nel cervello. La vita febbrile di Parigi acuiva quell’interna esaltazione fino al parossismo. Avevo assistito ad una prima trionfale al Gymnase; un antico sogno di scrivere per il teatro cominciava a solleticare la mia nascente ambizione, tipi nuovi m’ondeggiavano come fantasmi nel pensiero, e la donna bionda e leggiadra v’appariva con un’insistenza così tormentosa che certi momenti mi pareva perfino di udirne il respiro lieve, d’aspirare il profumo dei suoi capelli d’oro.
Eravamo a Parigi da tre mesi, vivendo in tranquillo accordo, quando Emilia fu còlta da un insolito malessere e il medico mi consigliò di ritornare a villa Subeiras, affinchè la mia sposa potesse condurvi una vita tranquilla e metodica in attesa della sua futura maternità. Ella accolse quella speranza con un trasporto di gioia, e sebbene soffrisse molto, non l’udii mai movere un lamento. Il suo stato destava in me dei sensi di apprensione e di pietà; la consideravo come un essere fragile e sacro affidato alle mie cure, ma quanto dovetti sorvegliare il mio spirito ribelle per non venire mai meno a quella costante vigilanza!...
Quando vidi Emilia nella quiete della casa paterna, fra i comodi e gli agi del suo appartamento, con la fida Alwine al fianco, le visioni d’arte tornarono affascinanti, impetuose al mio pensiero e, resistendo alle affettuose proteste di mia moglie che rimpiangeva l’intimità dei giorni trascorsi, m’abbandonai con trasporto al piacere del lavoro. Chiuso nel mio studio, immerso nella meditazione del mio soggetto, andavo abbozzando le scene d’una commedia e la mia fantasia, obliosa di tutte le domestiche cure, divagava nei campi infiniti della passione umana.
Qualche volta un passo un po’ grave s’avvicinava, mi destava dal mio sogno; una mano bianca, fregiata dal solo anello nuziale, veniva a posarsi sulla mia spalla; una voce dolce ma un po’ dolente mi diceva:
— Che fai Curzio? Scrivi sempre... sempre chiuso in questa stanza, non ti vedo mai...
— Volevi che fossi un uomo ozioso, Emilia?
— Oh no! non ozioso, avrei voluto soltanto che tu vivessi un pochino anche per me...
— Sono tuo, lo sai, Emilia, — rispondevo io amaramente — ma devo scrivere perchè ho qui dentro una febbre che mi divora..
— Non l’avevi, una volta...
— Occupavo un posto in questa casa e mi stava a cuore d’adempiere lealmente al mio incarico; la febbre di scrivere c’era ma il dovere la teneva repressa. Ora non ho più alcun impegno fisso, sento il bisogno di fare qualche cosa, una cosa bella, nuova, grande vorrei fare, e se me ne derivasse un po’ di gloria, la gloria sarebbe tutta tua, la metterei come una corona, sul tuo capo, Emilia..
— La gloria è una cosa mutabile e capricciosa, ma gli affetti della famiglia sono un bene che nessuno ci può rapire — diceva ella con la più sincera convinzione — io non mi sento ambiziosa, io non aspiro alla tua gloria, Curzio, io aspiro all’amor tuo!
— Tu sei una donna e non puoi comprendermi! — esclamai, una volta, reprimendo a stento l’irritazione che mi sorgeva dal fondo dell’anima.
Ella mi guardò tristamente e mormorò:
— T’amo tanto!... è forse per questo mio grande amore che tutte le altre cose mi sembrano vane.
Io l’accarezzai, cercando d’acquietarla, poi subito la seguii in giardino ma fui lieto di veder sopraggiungere alcune signore del vicinato le quali costrinsero Emilia ad entrare nel salotto e permisero a me di tornare allo studio.
Avevo lasciato una scena nel punto culminante e volevo finirla, ma la visione m’era sfuggita, il dialogo che prima mi si svolgeva facile e chiaro nella mente diventava scialbo e stentato, la corrente era interrotta, non mi trovavo più in grado di scrivere e finii collo stracciare la pagina in un impeto di sdegno.
Quel giorno mi sentii, per la prima volta, profondamente infelice. Emilia avrebbe voluto ch’io fossi il compagno indivisibile delle sue letture, delle sue passeggiate, d’ogni suo diletto. Sebbene questo bisogno, così naturale all’amore, avesse per me l’apparenza d’una indiscreta pretesa mi sforzavo d’assecondarlo affinchè la serenità della nostra vita non avesse a intorbidarsi.
Ell’era molto sofferente e alterata in volto, solo nei suoi buoni occhi fedeli, ardeva, come un raggio, l’animosa speranza della maternità.
Fu in una nebbiosa mattina di novembre, dopo due giorni di gravi ambasce, che nacque il povero figliuoletto mio. Quando presi fra le braccia quell’esile bambino provai nell’anima uno schianto di tenera tristezza: egli somigliava a me, ma nelle piccole e scarne membra era appena un soffio di vita, la sua fragile esistenza non pareva alimentata dalla fiamma vivificante dell’amore.
All’udire i primi vagiti della sua creatura, Emilia s’illuminò d’un sorriso d’ineffabile ma tanto più fuggevole gioia. Il piccino visse appena un mese: nè le cure degli specialisti, nè lo sviscerato amor materno valsero ad agguerrirlo per le battaglie della vita.
Come tutti i dolori profondi il dolore d’Emilia era calmo e muto. Ella si vinceva per amor mio, ella sapeva nascondere e reprimere le sue lacrime cocenti per non affliggermi, ma spesse volte la trovai col corpo abbandonato sulla piccola culla dalla quale non aveva voluto ad ogni costo separarsi. Se quel bambino non fosse morto, torse l’amor materno avrebbe dato ad Emilia la forza di vivere per lui. Oh! con quale amarezza ricordo il giorno in cui Alwine ed io andammo ad accompagnare al camposanto d’Arvaz la piccola bara bianca in cui erano sepolte, per sempre, tante dolci speranze!
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Il mio dramma era finito. Avevo atteso a quel lavoro con tutto l’entusiasmo che può dare una tempestosa giovinezza infiammata dalla passione dell’arte.
Alla protagonista Eva Arnim avevo dedicato tutto il mio intelletto e tutto il mio cuore. Era una figura selvaggia che non ammetteva altra legge fuori dell’amore, che all’amore aveva dato ciecamente sè stessa fino alla morte.
Emilia s’era mostrata un po’ diffidente verso l’opera mia, nondimeno, quando seppe che ne avevo scritto l’ultima pagina, mi chiese di fargliela conoscere.
Eravamo soli, una sera, in un gabinetto, quando mantenni l’impegno. La buona Emilia allestiva una vesticciuola per i poveri. Il movimento e il rumore dei ferri da calza mi davano una tale molestia che dovetti pregarla di smettere.
Ardeva ancora in me la febbre della creazione; nella lettura ad alta voce il mio lavoro m’esaltava; mi pareva che la figura d’Eva si disegnasse sullo sfondo come una cosa viva. Emilia ascoltava con un’attenzione intensa, ma s’era fatta pallida, le mani le si agitavano convulse in grembo.
Dopo il second’atto ella m’interruppe:
— Il soggetto mi sembra molto arrischiato... ma forse.. nella conclusione...
— La conclusione è ancora più forte, cara Emilia — io risposi tranquillamente.
— Dunque la tua Eva è una donna senza principii, senza coscienza, e tu la difendi, tu l’assolvi come un complice.
— Il dramma è oggettivo. Io non la difendo, nè la condanno. Eva Arnim è un tipo, Uno studio, è una donna perla quale l’unico principio è l’amore. Ella non è priva di coscienza, soltanto la sua coscienza è diversa dalla tua...
Ella mi guardò, meravigliata e disse, con dolcezza:
— Continua, Curzio.
Il dramma correva rapido al suo fine ch’era la volontaria morte d’Eva.
Emilia m’aveva seguito sempre con la stessa intensità. Quando riposi il manoscritto ella domandò soltanto:
— L’hai destinato alla scena?
— Certamente, Emilia; non saresti contenta se questa mia speranza s’avverasse?
— Tu mi domandi, Curzio, e io ti rispondo sinceramente: no, non sarei contenta.
— Perchè, dimmi perchè?
— Le produzioni artistiche che non hanno uno scopo morale mi ripugnano, lo sai. Perchè tu, proprio tu devi creare una figura così ripulsiva? una suicida?....
— Le passioni esclusive e indomite non sono prive di grandezza...
— Grandezza tu dici? mi sembra grande colui che sa soffrire e morire in silenzio quando Iddio lo chiama... (oh quelle parole!).
— L’arte, Emilia, secondo me è fatta per rappresentare, non per insegnare... tu non vorrai ch’io scriva delle commedi ole per gli asili d’infanzia..
— Ciò che non mira unicamente al bene mi sembra inutile — concluse Emilia con un involontario rimprovero nello sguardo.
Io riposi il manoscritto con grande amarezza, m’alzai e andai a passeggiare in giardino. Mi sentivo più che mai infelice, mi pareva che mille legami diversi mi vincolassero da tutte le parti, che 11 mio cervello dovesse dibattersi entro una cerchia di ferro.
Questi accessi di ribellione e di tristezza non erano rari; Emilia me li leggeva in volto e cercava di rasserenarmi con carezze e con dolci parole. Ma quella sera ella non venne, e quando tornai in casa per darle la buona notte, la trovai nella sua camera da letto, inginocchiata dinanzi ad un antico Crocifisso d’avorio ch’ella teneva in gran pregio. Mi parve che avesse pianto e le lagrime che cercava indarno di reprimere, invece di commuovermi, m’irritarono.
— E inutile che tu pianga, Emilia, — le dissi freddamente — il mio dramma è finito, l’ho scritto per il teatro: esso deve andare in scena. Se tu mi chiedessi di rinunziare a questo mio divisamento, non potrei compiacerti, perchè non mi credo in dovere di cedere ad una femminile debolezza... E necessario ch’io abbia una mèta nella vita.
— Non ho mai pensato a chiederti dei sacri fizii, Curzio, — ella disse con grande bontà, alzandosi, — il tuo piacere è sempre stato la mia massima gioia. Credevo soltanto che tu potessi scegliere una mèta migliore. Temo sempre che l’arte diventi un ostacolo alla nostra contentezza. Non so perchè io abbia questo senso di paura, questo presentimento ch’essa debba dividerci Sarebbe così dolce la nostra intima vita lontani dal mondo....
— La famiglia, la quiete, la solitudine sono conforti che l’Uomo apprezza soltanto dopo la battaglia.... io anelo ad una vita intellettuale, larga, intensa — esclamai; — quand’ho lavorato, ho bisogno d’attingere idee ad una fonte viva, non posso disperdere tutta l’energia della mia giovinezza nei languidi ozii della campagna.... Ma è meglio che, su questo, non ragioniamo, Emilia, perchè non c’intenderemo mai...
— Fa, come ti piace, Curzio, — ella rispose sommessamente, sollevandosi per baciarmi in fronte. Oh! quanto è penoso il ricordo di quelle carezze!
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Il direttore della compagnia drammatica C.... che recitava al teatro Manzoni, aveva acconsentito ch’io gli leggessi il mio dramma. Andai apposta a Milano, ma dovetti attendere parecchi giorni prima ch’egli trovasse un’ora opportuna per quella lettura, finita la quale sollevò varie obbiezioni intorno al soggetto e non seppe darmi una risposta decisiva.
Facevano parte della compagnia lo Z.., attore notissimo per il suo talento, e Irene Saradia, un’attrice giovane che il direttore aveva scoperto in provincia, in un teatrino di filodrammatici. Incoraggiata dalle sue istanze, ella s’era messa in carriera, aveva esordito, con successo, da più d’anno e studiava indefessamente. La sua squisita tempra artistica le faceva presagire da tutti un glorioso avvenire.
L’«Eva Arnim» fu accettata in grazia sua. Ell’aveva scorso il mio lavoro, la parte della protagonista le era piaciuta e continuava a insisterò perchè si facesse la prova del dramma.
Scrissi ad Emilia che m’occorreva di restare assente qualche giorno da casa, poi pregai Z..., che avevo conosciuto a Firenze, di presentarmi alla signorina Saradia. Ell’alloggiava all’albergo Milano, con una cugina, sua solita compagna nella vita errante dell’arte.
Non dimenticherò mai il giorno in cui il mio sguardo s’incontrò per la prima volta con quella d’Irene.
La trovammo intenta a studiare la parte di Magda nella «Casa paterna». Era distratta e ci accolse con una certa freddezza. Poi la conversazione s’andò gradatamente animando.
Dal suo talento originale, dalla magìa della sua parola, dalla sua intellettuale e per me fulgida bellezza io rimasi ammaliato come da una sconosciuta gioia.
Ell’era bionda di quel biondo argenteo e fino che s’attribuisce alle fate; gli occhi grandi, d’un azzurro cupo, pronti a rispecchiare il perspicace pensiero, avevano dei riflessi verdi e neri come la laguna nelle ore misteriose del tramonto; il puro ovale del volto era s’affuso d’un pallore appassionato e, nella bocca mobile, ove il raro sorriso somigliava a un raggio d’amore, tutte le impressioni passavano, rapidamente, alternando una certa alterezza triste con la più schietta amabilità.
Uscii dal salotto d’Irene Saradia con l’animo fortemente agitato: ella m’aveva detto che aspettava con impazienza la prima della mia «Eva» e questo pensiero mi destava nell’anima una contentezza quasi angosciosa.
Il giorno appresso la udii recitare per la prima volta, nelle «Anime solitarie» e ebbi da Anna Marr un’impressione violenta, indimenticabile.
Quando la udii e la vidi nelle prove dell’Eva un fremito m’invase da capo a piedi: ella si rinnovava nelle sue parti per una mirabile potenza intuitiva. Non era più Irene Saradia, era Eva stessa, la creatura selvaggia e primitiva, figlia del libero pensiero, che aveva tormentato la mia fantasia, come un’insistente visione, e che mi stava dinanzi viva e palpitante.
Molto indocile, Irene si concedeva spesso la libertà di fare dei cambiamenti, che io accettavo di buon grado, m’aveva perfino suggerito d’abbreviare un dialogo, per la rapidità dell’azione, e io l’avevo tagliato, senz’altro.
Dopo l’ultima prova, mentre mi rallegravo con lei nell’effusione dell’animo, Irene mi guardò coi grandi occhi di fuoco e mi disse:
— Vedete, Alvise, Eva era una cantante, io sono un’attrice, v’è poca differenza: come lei sono sola, senz’affetti, coll’arte mia...
— E col vostro sogno...
— Il sogno ha condotto Eva alla morte... e noi tutte morremmo se ci fosse dato leggere chiaramente nel cuore dell’uomo. Voi avete delineato la figura d’Eva per un istinto artistico, Alvise, ma forse non potete interamente comprenderla... bene, l’uomo non c’intende mai.
— Difatti ho conosciuto Eva oggi soltanto e l’ho veduta viva...
— Eppure io non l’ho ancora trovata in tutta la sua efficacia. Domani, Alvise, domani io sarò Eva, assolutamente...
Irene parlava, parlava e, a poco a poco, una vertigine mi annebbiava il cervello. Mi parve tutt’a un tratto, che Emilia non avesse mai vissuto, che villa Subeiras fosse scomparsa, che per me non esistesse più nulla fuorché il teatro, il mio dramma e quella donna seducente. Mia Emilia doveva arrivare, quella sera stessa, con Fräulein Frühman e io avevo promesso d’andare alla stazione. L’ora passava: mi destai, con uno sforzo da quella strana ebbrezza, pigliai una carrozza, esortai il fiaccheraio a sferzare il cavallo e giunsi appena in tempo per ricevere le due viaggiatrici. Mi parve che Emilia venisse da un paese lontano, da un paese che non era il mio. La sua preoccupazione eccessiva per certi nonnulla della vita, per una cinghia rotta, per una macchia del suo ombrello, cominciò già ad infastidirmi. La condussi con un senso di riluttanza all’albergo Milano ove alloggiavo da qualche giorno io stesso.
Emilia mi rivolse poche domande intorno all’esito delle prove, s’informò piuttosto, con un certo interesse, degli attori e delle attrici, ma quando le dissi che Irene Saradia abitava li presso di. noi, allo stesso piano, tradì, suo malgrado, la viva contrarietà dell’animo per tutto quello che riguarda il teatro. Mi chiese subito se avessi gradito ch’ella facesse la conoscenza della prima attrice, ma si rallegrò udendo che non esigevo quel sacrifizio. Il giorno appresso fui costretto di accompagnarla in varii negozi; non vedevo nè capivo nulla. Ella mi guardava, di tratto in tratto, con un’aria di tristezza. Verso le quattro mi feci annunziare dalla signorina Saradia ma ell’era sofferente, non poteva ricevermi. Quella sera doveva andare in scena il mio dramma. Un’angustia mortale mi prese, un terrore dell’insuccesso e di tutte le sue conseguenze: mi pareva di soffocare. Tornai da Emilia, dissimulando la mia pena e la seguii macchinalmente ai giardini, ove aveva espresso il desiderio di fare una passeggiata. Era un giorno mitissimo di marzo: il paesaggio risorgente alla vita, nella freschezza del verde novello, nella fragranza degli alberi in fiore, faceva palpitare il mio cuore fino allo spasimo. Alle otto andai al teatro Manzoni, affidando Emilia ed Alwine alla cura dei miei amici. Prima ch’io partissi, ella mi abbracciò, mi fece un augurio; era forse più turbata che commossa. La sua presenza in un palco di seconda fila, per quanto ella si studiasse di rimanere nascosta, lungi dall’animarmi, mi toglieva il coraggio, mi faceva perdere anche quel po’ di fiducia in me stesso che m’era rimasta. Nel primo atto ove la figura d’Eva comincia a delinearsi, Irene fu profondamente umana e vera. Nel secondo e nel terz’atto le situazioni un po’ ardite suscitarono qualche contrasto, ma l’incarnazione d’Irene, nel tipo da me sognato, fu così potente ch’ella vinse il pericolo e, trionfando con efficacia sugli ostacoli, salvò il dramma. Se fu un successo lo dovetti in gran parte a lei e quando calò la tela io lo stesi ambe le mani, con un impeto di gratitudine ardente. Ella mi diede passivamente le sue, fredde come il gelo. Era smorta in viso, piangente, sopraffatta da un’emozione profonda.
— Credevo che non poteste nemmeno recitare, stasera — le dissi — quanto, quanto m’avete fatto soffrire, prima di darmi questa gioia!
— Io ho penato più di voi — ella rispose — è la vostra Eva che mi fa star male.
Quella sera stessa invitai gl’interpreti del mio lavoro ad una cena all’albergo Milano.
Nel pomeriggio avevo espresso ad Emilia quel mio desiderio di raccogliere gli artisti, quel bisogno di stare in mezzo a loro, chiedendole, timidamente, se non volesse prendere parte alla cena, ma ella, con mia sodisfazione, aveva ricusato, senza esitare. Quando la raggiunsi all’uscire del teatro era ancor più turbata di prima e chiusa in sè stessa. Non manifestava in alcun modo l’animo suo. La lasciai nel suo appartamentino, con la buona Eräulein Fruhman ch’era inorridita per il soggetto dell’«Eva Arnim», e non osando dire di più, mormorava ogni tanto fra sè:
— Schrecklich, schrecklich!
La cena fu molto animata. Io sedevo accanto ad Irene, che s’era riavuta ma che serbava in volto una grande mestizia. Quel velo d’appassionata malinconia rendeva la sua bellezza ancor più meravigliosa. I suoi occhi possedevano una tale magìa che ogni artifizio riusciva superfluo anche per la scena; la sua voce di contralto aveva dei fremiti improvvisi, degli accenti così profondi che io la sentivo risuonare, entro di me, come sulle corde d’un istrumento che vibrasse in virtù d’una forza arcana; nella sua conversazione capricciosa era un irresistibile fascino: ora languida come per improvvisa stanchezza, ora ardente d’un fuoco contenuto, quella strana creatura suscitava un tumulto nel cervello e nel cuore.
Sapevo che Irene aveva rifiutato una brillante proposta di matrimonio per non rinunciare all’arte sua, e ch’era rimasta insensibile all’omaggio di molti ammiratori, ma sentivo, altresì che quella gelosia di se stessa, quella persistente alterezza, derivavano dalla solitudine dell’anima e che anche ella al pari d’Eva, incontrando l’uomo atto a comprenderla, avrebbe tutto dimenticato, sentivo che in quella superba e libera figlia della natura l’amore doveva essere una cosa divina. La sua presenza mi dava un senso d’ineffabile gioia. Sarei morto volentieri in quell’ora, dopo quel successo, lì accanto a lei, sotto l’impero del suo irresistibile sguardo, piuttosto che tornare alla realtà della mia vita.
Quando risalii le scale e rientrai nella camera che occupavo vicino a quella d’Emilia, mi parve, tutt’a un tratto, che la realtà mi piombasse con un peso insopportabile sul capo. Emilia non dormiva, stava seduta sul letto con le mani conserte, aveva dinanzi a sè il suo libro prediletto: L’Imitazione.
Era affettuosa, ma molto seria; io l’abbracciai, esortandola a riposare, portai il lume dietro un paravento onde non potesse leggermi in volto lo stato dell’anima, è le rimasi d’accanto finché si addormentò.
Il giorno seguente incontrammo Irene nel corridoio e passammo senza fermarci.
Irene mi guardò con degli occhi strani.
— E molto bella anche da vicino, la Saradia — disse Emilia tranquillamente — poverina, mi ±a compassione, quella bellezza le recherà sventura.
— Sventura?... perchè? è una fanciulla onesta che ama la sua arte sovra ogni cosa e che passerà di trionfo in trionfo...
— Non dubito punto della sua onestà, ma non credo che l’illibatezza del costume possa conciliarsi a lungo con la vita dell’attrice, è una vita che io non riesco a comprendere.
— Tu sei come un fiore dell’Alpe, Emilia — diss’io sforzandomi, come sempre, di reprimere l’irritazione ch’ella suscitava in me — tu hai bisogno di vederti dinanzi il consueto paesaggio, il noto e sereno orizzonte... questa vita piena d’emozioni t’opprime, ti fa male, non è vero?
— Hai ragione, Curzio, mi fa male. Quando partiremo?
— V’è ancora una recita del mio dramma, Emilia, forse due, in questo momento non posso allontanarmi, lo vedi anche tu...
— Se credi, potrò tornare a casa con Alwine e tu verrai presto, non è vero, presto?...
— Appena sarò libero, Emilia...
Quella sera stessa ella ripartì alla volta di N..... Per il mio lavoro, per gli applausi lusinghieri coi quali era stato accolto, per quel mio primo passo fortunato nella carriera dell’arte, non una parola. L’abisso fra di noi era già scavato, soltanto la sua grande bontà fino allora era riescita a colmarlo. La povera Emilia era costretta a quel freddo silenzio dalla sua sottile coscienza, da un imperioso bisogno di rettitudine e di sincerità, ma ne soffriva acerbamente; io non potevo comprenderlo: dinanzi a lei mi sentivo inquieto, inasprito e il rimorso di quella mia intolleranza m’esasperava.
Appena tornato dalla stazione, il teatro essendo chiuso, feci una visita a Irene. Ell’era circondata da vari artisti. Un giovanotto che le sedeva accanto mi cedette il suo posto. Si parlò dell’arte drammatica, di letteratura, anche dell’amore. Genialmente colta, ma spesso molto sobria nella parola, Irene non aggiungeva che, di tratto in tratto, qualche frizzo spiritoso alla conversazione; quando il discorso cadde sull’amore, ella ammutolì.
— Vedi — disse un critico ad un giovane poeta — Irene Saradia non ha mai voluto esprimersi su questo scabroso argomento.
— Sente? — io soggiunsi.
— Per la donna l’amore è come il destino e sul destino non si ragiona — ella rispose gravemente.
Erano le parole d’Eva queste e Irene le ripeteva con uno strano lampo di dolore negli occhi.
Poco tempo dopo tutti partirono e noi rimanemmo soli.
Sopra un tavolino, in un vasetto snello di Murano, alcune giunchiglie appassivano, mandando un odore inebriante.
— Non vi fanno male questi fiori? — domandai.
— Oh no! io ho bisogno del profumo dei fiori...
Qual seduzione per me in quello sguardo, in quel sorriso, in quella voce appassionata, profonda!
Irene vestiva di nero. La vita di trina, chiusa da bottoni di brillanti, accollata ma un po’ trasparente, lasciava intravedere la morbida bianchezza delle spalle e delle braccia mirabili; i capelli, contorti in un nodo serpentino sulla nuca gentile, le cingevano la fronte d’un leggero e dorato diadema; gli occhi grandi ardevano, nel nativo pallore del volto, come due fiamme, e la bocca, dolce insieme e sdegnosa, aveva dei moti involontari quasi proferisse inaudibili parole.
Leggiadramente reclinata sul divano, ell’appoggiava la testa ad un piccolo cuscino bianco, sul quale erano ricamati degli strani cypripedium bruni e gialli; due rose pallide illanguidivano, tra le falde del suo vestito come se le morissero in seno.
Ella mi guardava intensamente, quasi per interrogarmi sull’estatico silenzio in cui ero piombato e anch’io mi sentivo morire Ad; un tratto Irene mi disse:
— Alvise, voi siete molto infelice.
— Perchè? — esclamai, sussultando.
— Perchè avete sacrificato il vostro maggior bene, la libertà.
— Come sapete voi? come potete saper questo? E il ricordo della buona Emilia, forse per l’ultima volta, si ribellò nella mia coscienza, insorgendo contro l’inquisitivo colloquio. Ella se n’accorse subito e riprese:
— Vi rincresce che v’abbia letto nell’anima? Voi forse non avevate il coraggio di confessarlo a voi stesso. Eppure è necessario che guardiamo bene in faccia al nostro destino, ond’esso non ci sorprenda disarmati e ci soggioghi. La via tempestosa dell’arte non s’accorda colla placida monotonia della famiglia e le blande aspirazioni della tiepida felicità domestica non possono avvicendarsi colle gioie ardenti, coi dolori atroci della vita pubblica. Vi rincresce che ve lo dica? non è la verità questa?
— È la verità e perciò non può mutare.
Ella mi guardò con un enigmatico sorriso e subito mi chiese:
— Tornate presto laggiù?
— Dove laggiù?
— Nella vostra villa, fra gli ozii della campagna.
— Appena finite le recito del mio dramma. È nel silenzio che si lavora e io corro al lavoro. La geniale interprete d’E va mi stará sempre dinanzi come una muta ispiratrice. Vorrei che mi riuscisse di plasmare una figura ancor più degna di voi! Se la troverò voi la farete rifulgere, voi le infonderete il soffio vitale, non è vero?
— Non so. Il desiderio mi porta lontana, molto lontana! — diss’ella.
— Verso il sogno, Irene?...
— Oh! il sogno!.. il sogno mi fa paura!
Ella s’era alzata di scatto. Un profondo turbamento le traspariva dal volto. Mi parve che volesse congedarmi e m’avviai verso la porta. Ella mi stese la piccola mano nervosa che sembrava presa da un gelo di morte.
— Addio, Eva! — diss’io.
— Addio, Aùtari... — ma questo ch’era il nome dell’amante d’Eva, le morì sulle labbra, con un impercettibile suono, e volgendosi, ella scomparve nella camera vicina. In quei giorni, sola, non potei rivederla mai.
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Richiamato ad Arvaz, dalle insistenti preghiere d’Emilia, trovai la vita campestre molto monotona. Non mi sapevo adattare alle solite abitudini, alle ore fisse, ai colloqui col ragioniere e coi fattori di campagna, alle nostre conversazioni della sera. A Milano avevo meditato il soggetto d’una nuova commedia, ero impaziente di tracciarne la linea generale, di distribuire certe scene, e il costante silenzio d’Emilia, questa prova palese della sua contrarietà, mi faceva male e nel tempo istesso, per la contradizione delle umane cose, m’eccitava a scrivere. Con Emilia mi sforzavo tuttavia d’apparire ilare ed amorevole, ma quella simulata contentezza mi dava rimorso e più volte fui sul punto di dirle:
— Ho ceduto alla tua proposta generosa per debolezza, per vanità forse, soprattutto per il desiderio di renderti felice, ma io non posseggo gli elementi di felicità ai quali tu aspiri; bramerei amarti e non so; il tuo cuore buono e semplice, la tua mente retta e positiva non sono fatti per comprendere i tumulti della mia indomita giovinezza e io non posso piegarmi alle esigenze d’un matrimonio di ragione. Tu hai creduto avvolgermi in un serto di rose, e m’hai cinto, senza volerlo, d’una pesante catena. Le necessità della vita domestica inceppano il mio pensiero, le abitudini mi ripugnano, il mio ideale non è la pace, è la lotta; sono un ambizioso e ho bisogno dell’amore che intende, non già delle tiranniche affezioni che inceppano la via.
Fors’ella, la mite Emilia sarebbe venuta meno dinanzi a quella brutale dichiarazione, ma io avrei detto la verità... ah no, non sarei stato ancora interamente sincero, ella avrebbe ancora ignorato che, da tre mesi, un’abbagliante immagine s’era impadronita degli occhi miei e che la vedevo ovunque come una visione ispiratrice al cui fascino più non mi riesciva di sottrarmi...
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Un giorno, scorrendo la posta, mi venne fra le mani una lettera con la scrittura larga, slanciata e il mio cuore tremò d’una colpevole gioia.
Non v’erano che poche righe:
Caro amico,
La settimana ventura parto per l’America. Prima di lasciare l’Italia vorrei salutarvi.
Irene Saradia.
Io non ebbi il coraggio di mostrare quella lettera ad Emilia e fu la prima finzione.
Da qualche tempo le avevo manifestato il desiderio d’andare a Milano per parlare con un editore intorno alla ristampa di certi miei articoli critici e colsi questo pretesto per giustificare la mia partenza.
Appena giunto, m’affrettai di recarmi alla casa ove Irene dimorava. Nel rivederci rimanemmo entrambi commossi e senza parole.
— M’avete chiamato... eccomi — diss’io, finalmente.
— Grazie. Non avrei potuto partire senza dirvi addio.
— Perchè, perchè questa fatale risoluzione?
— Seguo il mio destino. Farò la vostra «Eva» laggiù, al di là del mare.
Ella mi guardava con gli occhi luminosi. Nell’iride pareva che delle fiammelle s’accendessero, piene di mistero. La minaccia di non rivederla per molto tempo, forse mai più, mi metteva nell’animo una muta ambascia.
— I trionfi di cui godeste fin qui non vi bastavano? — domandai con grande amarezza.
— Io non cerco i trionfi, cerco l’oblio delle cose. Voglio rinnovare la mia vita.
— Vi segue parte della compagnia?
— Nessuno... tutta gente nuova.
— Sarete sola...
— La mia anima è sempre sola.
Vi fu un lungo, un pericoloso silenzio. Finalmente trascinato dal dolore e dall’invincibile passione, io le dissi:
— Perchè dunque mi hai chiamato? non sentivi da lontano tutte le angosce del mio amore?
Ella sollevò lo sguardo un po’ smarrito, le sue gote impallidirono, ma serbando all’apparenza una calma profonda ella rispose:
— Anch’io, Curzio, t’amo più della vita. Ma a che giova? Dobbiamo separarci. Ho voluto vederti ancora una volta prima che il mare grande e infinito ci divida..
Sembravamo sopraffatti entrambi da un abbattimento profondo. Forse un ricordo non ancora interamente assopito sosteneva la mia volontà, ma l’inevitabile destino di quell’imperioso amore era fra noi; ci sentivamo scolorire in volto, gli occhi ci si empivano di lagrime.
Tutt’a un tratto, nello sguardo d’Irene lampeggiò un tale ardore di dolorosa passione, che la vita mia, il passato, Emilia, tutto mi sfuggì dal pensiero su cui quella creatura meravigliosa e in cantatrice da gran tempo regnava.
Cademmo uno nelle braccia dell’altro in un ineffabile esaltamento di follia.
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Io rimasi alcuni giorni a Milano e indussi facilmente Irene a rompere il suo contratto per l’America.
Come l’editore era assente e non avevo potuto combinar nulla, scrivendo ad Emilia, mi valsi di quella scusa per il mio indugio a ritornare. Ella mi rispondeva dolcemente e tristemente, lamentando di non potermi raggiungere, per certi lavori di ristauro ch’erano cominciati nella villa e che desiderava sorvegliare ella stessa, lo scorrevo appena le sue lettere, poi le bruciavo con un senso di sgomento. In capo a due settimane, ella cessò di mandarmi le sue notizie. Assorto com’ero, dalla passione, alla prima, non m’accorsi nemmeno di quell’insolito silenzio, ma un giorno mi balenò alla mente il dubbio che qualche sospetto potesse essere penetrato nell’anima di Emilia, e preso da un’improvvisa angustia risolvetti di ritornare, per qualche tempo, a villa Subeiras, lottando contro me stesso e resistendo all’amore esclusivo e quasi feroce d’Irene la quale avrebbe voluto che spezzassi ogni legame per lei.
Trovai Emilia alquanto abbattuta. Ella m’accolse con la solita tenerezza ma io sentii che, nell’affettuoso saluto, le sue piccole braccia tremavano intorno al mio collo, vidi il suo dolce sorriso offuscato da un’ombra grave. Per quanto ella si sforzasse di dissimularla, ogni atto, ogni movimento tradiva in lei una segreta cura dell’animo. Non vi fu, allora fra noi, alcuna spiegazione, ma una notte, mentre stavo scrivendo ad Irene, Emilia entrò inaspettatamente nel mio gabinetto. Al vederla, con l’accappatoio bianco, così lieve nel passo, mi parve una fantasma.
— Ti disturbo, Curzio? — Ella domandò con la sua voce amorevole.
— Oh perchè? Soltanto m’hai fatto paura, a quest’ora insolita; ti credevo addormentata da un pezzo.
— No, non potevo dormire e sono venuta a salutarti e a vedere quello che fai. A chi scrivi così a lungo?
— A Irene Saradia — - io risposi, con un brivido. — Devo parlarle della mia nuova commedia.
— Ah!... dov’è la signorina Saradia?
— Ora è a Milano.
Quella specie di menzogna mi bruciava dentro, come un fuoco. Se Emilia avesse letta una sola frase di quella lettera la verità le sarebbe apparsa tutt’a un tratto.
La finzione mi ripugnava siffattamente, che l’avrei quasi desiderato. Ma Emilia con atto delicatissimo, si studiò d’evitarne la vista. Ella venne a sedersi accanto a me e mi disse:
— Curzio, hai dei nemici a Milano?
— No, ch’io sappia. Perchè?
— Perchè giorni sono ho ricevuto una lettera infame. Io non ci ho creduto, sai, Curzio, oh no, no, nulla potrebbe farmi dubitare di te, l’ho solamente serbata, per il caso che tu riconoscessi la scrittura... sarebbe una triste cosa che tu usassi qualche cortesia ad un malvagio che forse ti perseguita per invidia...
— Dov’è questa lettera?
— Vuoi vederla? vado a prenderla subito.
Ella scivolò via e tornò subito con la busta in mano. Era uno scritto anonimo e volgare le cui frasi banali io ben ricordo:
«Signora,
«Il cuore dell’uomo è mutabile e leggero. Diffidate e tenete gli occhi molto aperti, affinchè un giorno non cada, troppo all’improvviso, la larva a quell’infedele cui consacraste la vostra vita innocente.»
— Ma quest’è un’indegnità! — esclamai, riconoscendo la scrittura e lo stile d’un attore ch’era perdutamente innamorato d’Irene e facendo il foglietto a brani.
— Non è vero, Curzio? — rispos’ella, subito rasserenata — io non diedi importanza a quelle parole, tuttavia la vile allusione alla tua persona mi fece così male che non ebbi più la forza di venire a Milano... Volevo farti una sorpresa, sai... la lettera giunse il giorno destinato alla partenza, e non so perchè, mutai pensiero...
Così dicendo, si chinò sovra di me con rinnovata tenerezza.
Un sudor freddo mi bagnava la fronte, fui sul punto di svelarle tutto, ma se da un lato un bisogno violento mi spingeva a quella fatale confessione, dall’altro mi paralizzava la tema del dolore che le avrei recato. Finii col persistere nel silenzio, mi studiai di corrispondere alla sua amorevolezza, la esortai a coricarsi e a vivere tranquilla. Come sempre, ella seguì docilmente il consiglio e io rimasi lì dinanzi alla lettera, non ancora finita, col rimorso nell’anima e col mio invincibile amore.
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Il soggiorno di Villa Subeiras m’era divenuto insopportabile. Non potevo stare vicino a mia moglie, il suo sguardo innocente e fedele mi penetrava nelle viscere, la sua serena virtù m’ esacerbava; avrei voluto trovare degli argomenti di corruccio contro di lei e sempre più vedevo risplendere sulla sua fronte un raggio di generosa indulgenza. Povera Emilia! ella conosceva il segreto dell’amore che non passa!
Irene mi scriveva lettere di fuoco. Indarno le raccomandavo d’usare qualche precauzione: ella non poneva mente a nulla. Tre o quattro volte eravamo riusciti a combinare un incontro, di poche ore, nelle piccole città vicine ove mi chiamavano, di quando in quando, gli affari di casa. Dopo questi ritrovi in cui il desiderio di rivederci si faceva sempre più violento, Irene aveva dovuto andare con la sua compagnia a Torino e mi chiamava insistentemente per preparare una rappresentazione della mia «Eva.»
Una sera comunicai ad Emilia questa notizia, le dissi che dovrei recarmi fra breve a Torino anch’io. M’aspettavo che mi proponesse di venir meco, ma non vi pensava nemmeno.
Ella domandò soltanto:
— Sarà un’assenza breve?...
— Non so, Emilia. Devo incontrarmi con degli amici ai quali ho promesso di leggere il mio nuovo lavoro.
— Temo sempre che tu sogni un bene che quaggiù non esiste, — ella disse, persistendo nel suo antico principio.
— Credo che tu abbia ragione, Emilia, e certo il mio ingegno non asseconda le mie aspirazioni... ma vi sono, vedi, per l’arte, delle ore che possono valere anni di felicità..
— Ah! quando spero averti ritrovato, allora proprio mi sfuggi! — ella mormorò, appoggiando la testa sul mio petto.
— Ti prego, non intralciarmi la via coi tuoi continui lamenti., ho bisogno d’essere libero — io risposi crudelmente.
— Perdona, Curzio. È il mio cuore che parlava... — ella balbettò — sollevando la testa, di scatto, come se le facessi paura.
Troppo irritato contro me stesso per impietosirmi di lei, non seppi dirle un’amorevole parola di conforto, e non fu senza sforzo che le diedi partendo il solito tenero addio.
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A Torino, Irene era molto ammirata da tutti. Il suo valore artistico s’era nuovamente affermato. La prima sera la udii, recitare con Z... nella «Fedora». In certe scene la sua bellezza rifulgeva, quasi dolorosa, e io mi sentivo spesso torturato dall’efficacia del suo magico sorriso sul pubblico. Invano ella mi diceva nelle ore più dolci: — Non sai che vivo per te, che recito per te, che ogni mio pensiero e tuo?... La passione insodisfatta cercava sempre nuovi tormenti per alimentare se stessa.
L’«Eva Arnim» interpretata così sapientemente da Irene e dallo Z... mi valse un vero trionfo, ma anche stavolta la mia contentezza fu in parte offuscata. Mia madre aveva voluto assistervi in segreto. Più sensibile d’Emilia alle compiacenze dell’applauso, ma non meno severa nel giudizio, ella non aveva saputo dissimularmi la sua disapprovazione.
Crucciato da una nuova amarezza, presi la scusa di certi impegni letterarii per allontanarmi anche da lei. Io la vedevo pochissimo, non potevo udire la sua voce, nè sostenere il suo onesto sguardo senza sentirmi turbato da un’indefinibile pena; e poi, ella mi chiedeva continuamente d’Emilia e io non ero in grado di parlarne.
Una sera d’agosto, dopo aver passeggiato insieme nel parco del Valentino, Irene ed io eravamo tornati in carrozza al suo alloggio in via Dora Grossa. L’arte era stato l’argomento principale del nostro colloquio, avevamo discusso la mia nuova commedia di soggetto femminista e fissati certi cambiamenti mercè i quali ella mi prometteva il successo.
Una lampada, velata di rosa e mezzo nascosta fra due mazzi lussureggianti di fiori estivi, spandeva una blanda luce nel salottino d’Irene; dalle finestre aperte, a traverso le cortine, veniva, misterioso, il chiarore lunare. Sdraiata in una poltrona, colle sue bianche mani fra le mie, ella mi diceva tante frementi parole e io le baciavo pazzamente quelle belle mani gemmate, espressive anch’esse come la parola. Le tuberose ch’ella portava in seno, tra le falde del vestito rosso, mandavano nn effluvio inebriante e il mio amore ingigantiva per la voluttuosa complicità dell’ora notturna.
Bussarono. Entrò la cameriera dicendo che una persona chiedeva di me con grande premura. Uscii. Era un messo che da parecchie ore mi atava cercando da parte della madre mia ammalata. Destato dal mio morbido sogno, come se una mazzata m’avesse colpito in pieno petto, mi congedai rapidamente da Irene e partii correndo.
Erano quattro giorni che non vedevo mia madre. Il suo aspetto mi rivelò la fatale verità. Sempre un po’ debole di salute, ella soggiaceva ad una bronchite cronica, la quale s’era incrudita con acutezza mortale. Quando m’avvicinai al suo letto, m’accorsi, tuttavia, che una morale angustia esacerbava i patimenti della malattia e la consueta tenerezza dello sguardo materno mi parve velata da un’ineffabile mestizia. Da sua voce stessa aveva, un altro accento; la mano, solita ad accarezzarmi, giaceva inerte sulle lenzuola.
Nella notte rimanemmo soli. Tutt’a un tratto ella si sollevò con degli occhi che non dimenticherò mai, tanto il loro sguardo veniva da lontano, come dal mondo dei misteri, e disse:
— Io parto per sempre, Curzio,, e non rimpiango la vita perchè sono stanca. Mi pesa soltanto di doverti abbandonare, ma non ti lascio solo, ti resta la buona Emilia.
Io chinai la testa con la più profonda amarezza.
Ella tacque un momento: pareva che pregasse. Indi riprese con voce più forte, quasi autorevole:
— Ricordati, Curzio, che la fede coniugale è sacra.
— Mamma, perchè mi parli così?
— Perchè un uomo veramente onesto lo è in tutte le cose, senza eccezione.
Un brivido m’assalse; mi trovai in ginocchio e colla testa perduta fra le coltri in un singulto disperato. La mano già incerta della mia povera madre mi cercò, la sentii errare fra i miei capelli come quando ero bambino.
— Piuttosto di compiere un tradimento — disse ella — bisogna affrontare qualunque sacrifizio. La vera forza virile sta nel dominio delle proprie passioni. Le tue lagrime m’assicurano che la tua coscienza non è corrotta: con quest’ultima speranza, Curzio, ti benedico.
Io sentii fluire entro di me, con una muta angoscia, la potenza strana dell’atto benedicente.
La monaca che avevo fatto venire per assistere mia madre, entrò e non scambiammo altre parole intime. Vedendo che la cara inferma rapidamente peggiorava, pensai di telegrafare ad Emilia. Ella mi rispose subito e arrivò col primo treno. Era accoratissima. Nel vederla, mia madre si rasserenò e sorrise. Emilia dichiarò .di volerla assistere senza l’aiuto della monaca, dicendo che fra lei e me avremmo bastato a tutto. Passammo quattro giorni e quattro notti al capezzale della diletta ammalata che s’andava lentamente affievolendo. Di tratto in tratto i suoi occhi velati ci cercavano, a vicenda, come se volessero unirci. Ella morì tranquilla, colla bianca testa appoggiata al seno di Emilia la quale raccolse, con figliale pietà, il suo ultimo respiro. Tre giorni dopo ripartimmo per villa Subeiras senza che avessi potuto rivedere Irene. Però le scrissi subito, le confidai tutto lo strazio della mia situazione. Ribelle a qualunque freno, Irene mi mandò delle lettere ardenti in cui la sua anima selvaggia più che mai si rivelava. Io leggevo e rileggevo pazzamente, nel silenzio del mio studio, le parole di fuoco, le dolci e appassionate parole sature di malia. Non era più Irene, era la mia Eva fatta viva e palpitante che mi chiamava.
Intanto la buona Emilia vestita severamente a lutto, grave ma serena, ormai, nella sua afflizione, vegliava intorno a me con raddoppiate cure; ella s’occupava dei particolari materiali della vita, circondandomi di squisite attenzioni, metteva ogni giorno dei freschi fiori dinanzi al ritratto della madre mia, era tutta compresa del mio dolore.
— Curzio, perchè ti concentri così? perchè non vieni un poco in giardino con me? non senti, il caldo è passato, l’aria è buona e vi sono tutte le aiuole fiorite...
— Sto bene qui, Emilia, sto bene solo.
E ella se n’andava, con un sospiro, con lo sguardo triste, col passo affaticato.
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Finito il corso di recite a Torino, Irene s’era ritirata in un villino solitario, sul lago di Garda, e mi scriveva, quasi imperiosamente, di raggiungerla. Io non potevo nè lavorare nè chiudere occhio, mi sentivo impazzire.
Emilia, inquieta per la mia salute, m’esortava ogni momento di consultare un medico. Dopo essere stato chiuso in casa tutto il giorno, io passavo le notti in giardino farneticando; amavo perdermi nelle ombre fitte del bosco, sulle rive di un canale, qui presso, le cui acque torbide vanno lente lente al fiume e poi al mare. Parecchie volte, Emilia angustiata, venne a cercarmi.
Quando vedevo la figurina nera scendere di notte dai gradini della villa, e comparire da lontano, io fuggivo disperato come se fuggissi la mia coscienza, ma ella sapeva trovarmi, il suo cuore fedele e amante mi scopriva, ovunque. Ella mi prendeva dolcemente per la mano, come un fanciullo, e mi riconduceva in casa. Io mi lasciavo trascinare, ma una sorda ribellione s’agitava entro di me. Ella mi parlava con calma e con mitezza come si fa coi pazzi e cogli ammalati; la sua ragione, sempre desta, le permetteva di dominare sè stessa, e quella quiete mi esasperava al segno da togliermi il lume dell’intelletto.
Una notte, oh come lo ricordo!.... io perdetti interamente la coscienza delle cose, io mi svincolai, con impeto, dalla dolce stretta di quelle piccole braccia, le dissi delle parole incoerenti, le ordinai fieramente di lasciarmi solo. Ella mi guardò, sorpresa, si volse con un’impressione di terrore, e tornò con lento passo, singhiozzando, alla casa. Oh! quel singhiozzo!.... Non potevo sopportarlo e m’’inoltrai nel fitto del bosco. Le ultime parole di mia madre mi tornavano alla mente anch’esse con un’insistenza tormentosa, ma, tutt’a un tratto, mi parve udire il riso argentino d’Irene, e quel riso fresco, squillante, musicale, vincendo ogni altra sensazione dell’’accesa fantasia, sì sparse, come un concerto, entro le ombre profonde del parco.
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Il giorno appresso, mentre stavo nel mio studio, inerte, spossato nel corpo e nello spirito, Emilia, come di consueto, pian piano entrò.
— Non t’inquietare, Curzio — diss’ella, sforzandosi d’apparire calma — non ho che a rivolgerti poche parole... una domanda sola.... è necessario per la mia pace, fors’anche per la tua.....
Dissi fra me: «Il momento estremo è giunto» feci un sospiro di sollievo e con un cenno vago l’invitai a parlare.
Io ero seduto alla mia scrivania, ella in piedi a poca distanza. Mi sovvenne, con una straordinaria vivezza, del nostro primo colloquio in giardino. La sua mano s’era posata sulla spalliera della mia seggiola: sentii che tremava. Dopo un minuto di sospensione ella ripigliò:
— È molto tempo che mi sono accorta della tua.... freddezza verso di me. Ho creduto che fosse un giuoco dell’immaginazione, indarno ho voluto illudermi, Curzio, ancora una volta. Interrogo il mio cuore: non trovo che affetto; interrogo la mia coscienza: la trovo tranquilla. Che cosa posso dunque aver fatto, io povera donna, io la tua sposa, la madre del tuo figliuoletto morto, per ispirarti quest’avversione?... Un’ombra grave s’è posta fra di noi: se tu non hai il coraggio e la forza di disperderla, è necessario che noi ci spieghiamo, che prendiamo una qualche risoluzione... io non posso vivere così...
— È giusto, Emilia, dobbiamo risolvere; io sono disposto a darti tutte quelle spiegazioni che credi.... È giusto.
Ella mi guardò atterrita; forse aveva fatto quella proposta soltanto per mettermi alla prova.
— Tu sei una buona e virtuosa donna — io continuai, determinato di andare sino al fondo — ma io non sono degno di te. Te l’avevo detto. Tu generosa m’hai prescelto fra tanti, ma fu un crudele inganno il tuo. Io non ero l’uomo che tu avevi sognato e meritato. Io ero nato artista e tutte lo follie, tutte le ebbrezze dell’arte ardevano in me. Tu ami la vita quieta dei campi, io i tumulti delle grandi città, tu la regola, io l’eccezione, tu la legge. io la libertà, tu sei la ragione e io la fantasia, tu sei la virtù e io sono il peccato... La tua proposta, Emilia, pur onorandomi non m’ha reso migliore: io ti promisi, sull’altare, una fede che non ero certo di poter mantenere.
Un grido soffocato le sfuggi dal petto e quasi inconsciamente ella esclamò:
— Dio santo! tu ami Irene Saradia!...
La mano s’allentò dalla spalliera, la persona si ritrasse con spavento
— Lo so — diss’io, esasperato contro me stesso — io sono crudele, sono perverso, ma dopo tutto, l’ipocrisia è la peggiore di tutte le bassezze e il mio spirito vi si ribella.
— Tu l’ami? ripetè Emilia guardandomi con gli occhi smarriti.
Nella sua fisonomia v’era un’espressione così disperata che mi parve di essere un malfattore presso a commettere un delitto, ma stanco, sdegnato dalla lunga volgare finzione, non ebbi più la forza di persistervi, e assentii tacitamente.
Ella indietreggiò sollevando le mani tremanti con un atto non so più se di ribrezzo o di pietà, ei nostri occhi 8’ incontrarono con un diverso, indefinibile sguardo.
Emilia fu la prima a rompere il silenzio e disse con una calma mortale:
— Ora soltanto comprendo il mio errore, ma non v’è più rimedio, queste cose non passano che colla vita.
Allora io mormorai pressochè inconsapevole:
— Non potrai perdonarmi, Emilia, mai, mai perdonarmi?....
Ella stette un momento esitante, un momento solo. Poi, la sua fronte s’illuminò d’un raggio che veniva dall’alto.
— Perdonarti? — ella disse amaramente — a che giova perdonarti? Tu pensi a un’altra donna e il fatto non muta. Ma io ti perdono Curzio, perchè ti ho molto, molto amato!... A te sembra che non t’abbia mai compreso, ma nemmeno tu hai mai compreso me... Eravamo vicini, tanto..... e ora, un’infinita distanza ci divide... per sempre. Questo ti dico, che preferisco sapere tutto, conoscere tutto piuttosto che restare nelle angosce del dubbio, piuttosto ch’essere ingannata...
Ella parlava gravemente e colla voce rotta, il suo volto era d’un pallore spettrale.
Io stavo con la testa fra lo mani, le tempia mi martellavano come se qualche cosa dovesse spezzarsi entro di me.
— Oh Dio! — ella gridò tutt’a un tratto — e io che mi struggevo di tenerezza!
Io sorsi con impeto e — Lasciami partire — esclamai — lasciami andare lontano, lascia ch’io sfoghi tutta questa malvagia follia della mia giovinezza.... forse un giorno tornerò rinnovato... la tua virtù potrà purificarmi....
— No, Curzio, te lo domando in grazia, non partire. Tu lo sai, come non amo le scene volgari e tutto quello che rivela indebitamente la parte più debole e più intima dell’anima nostra, così mi ripugna che il mondo, sempre indiscreto, conosca il mistero profondo delle nostre afflizioni... Sii libero, ma rimani qui. In apparenza... vivremo come prima, io non ti recherò molestia, ora che so tutto non mi resta più nulla a chiederti... — e si mosse verso la porta.
— Emilia! — chiamai, fuori di me.
Ella si volse. Il suo volto da pallido s’era fatto bianco.
— Che cosa vuoi dirmi?....
Era ancora la voce dolce degli altri tempi, ma senza suono.
Io mi feci innanzi e non potendo prenderle le mani ch’ella quasi involontariamente ritirava, le baciai un lembo della veste.
Ella mi guardò meravigliata e a passo lento uscì.
Mi sembrò all’improvviso che quella piccola figura fosse cresciuta, che ingigantisse dinanzi a me. Mi sentivo venir meno. La sua grandezza d’animo mi umiliava, senza salvarmi.
Oh! se avessi potuto gettarmi fra le sue braccia e dirle: «Io sono guarito da quella folle passione, mi sento mutato, sento che potrò vivere tutto per te ed essere un fido e devoto compagno...» certa. mente ella, la buona Emilia avrebbe trovato, oltre la grandezza del perdono, anche quella dell’oblio. Ma io non ero ahimè, nè mutato nè guarito, Emilia ben lo comprendeva!
Nel piccolo portafogli, sul mio petto, io tenevo il ritratto d’Irene, ve lo sentivo come una bragia ardente; sentivo il fremito delle sue mani morbide passare entro i miei capelli che mandavano scintille, e la voce armoniosa mormorare parole nuove d’amore; sentivo la fiamma del suo incantevole sguardo in cui i miei occhi estasiati si perdevano come in un orizzonte senza confine....
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Quando Emilia ed io ci trovammo alla mensa, eredo che a ciascheduno di noi paresse vedere, dinanzi a sè, lo spettro del passato. Per fortuna Alwine era assente: non potemmo nè mangiare nè parlare.
Più tardi, scendendo nel mio studio, incontrai un domestico e una cameriera che portavano un oggetto nella guardaroba. Era la culla del nostro bambino che Emilia aveva sempre tenuta accanto al suo letto...
Entro la notte io risolvetti di partire. Non potevo più vivere a Villa Subeiras, avevo bisogno di andare in luoghi sconosciuti, fra gente straniera. Scrissi alcune righe ad Emilia per comunicarle questa mia determinazione per scusarmi se non potevo assolutamente acconsentire al suo desiderio. Ella mi rispose con la solita generosità: «Va e che il Signore ti protegga, ma non dimenticar mai che questa è la tua casa.» La scrittura era tremante, ma io rimasi impassibile; il mio cuore era come impietrito.
La mattina seguente lasciai la villa e andai errando, più giorni, di città in città, di paese in paese, senza direzione, senza scopo, senza veder nulla e nulla comprendere. Un istinto indeterminato, una vaga speranza mi spingevano verso l’ignoto, ma non mi dava pace nè il tumulto dei grandi centri nè il silenzio della natura. Ero andato verso il nord fino ad Amsterdam: colla stessa volubilità ridiscesi senza fermarmi sul Reno, per entrare nel Würtemberg. Da dieci giorni non avevo preso un giornale in mano, nè, per uno sforzo violento, avevo mai scritto ad Irene. A. Stoccarda, in un caffè nella Königsplatz mi cadde sott’occhio il Corriere della Sera. Mentre ne scorrevo distrattamente le pagine, il nome della compagnia C.... m'attrasse lo sguardo. Essa dava a Venezia un breve corso di recite, Irene Saradia aveva già suscitato, insieme al primo attore, un delirio d’entusiasmo. Senza riflettere più oltre, io partii subito per Bregenz, traversai, di notte, l’Arlberg e, percorrendo rapidamente il Tirolo, mi recai nel Veneto.
Giunsi a Venezia verso le sette della sera, appena sceso all’albergo, mandai a prendere un palco al teatro Rossini, ne trovai uno per caso, al terzo ordine.
Davano l’«Odette». Irene entrò in scena, volse subito lo sguardo verso di me, istintivamente. Io mi ritirai, non volendo essere veduto, ma ella mi cercava con gli occhi, sentiva la mia presenza ed era distratta. Dopo il second’atto, scesi sul palcoscenico, andai da lei nel camerino. La separazione era stata lunga, e il ritrovo ebbe qualche cosa di angoscioso. La commozione le fece trovare nella sua ultima scena degli effetti strazianti. Calata finalmente la tela la raggiunsi, l’accompagnai in gondola all’albergo, le narrai ogni cosa.
— Ebbene — mi diceva Irene — se tua moglie sa tutto; perchè non vi separate? perchè non la lasci?... che cosa sei tu per lei ormai?.... l’inganno e la finzione erano mezzi indegni di noi. Hai fatto bene a parlare e ora devi godere il frutto della tua schiettezza.
E mi rimproverava di non avere nè volontà, nè passione. Come Eva, ella concedeva all’amore tutti i diritti; dinanzi a quella volontà così imperiosa, a quella coscienza così impassibile, io rimasi ancora una volta sedotto e vinto.
Una mattina, prima dell’alba, ella volle che uscissi con lei in gondola
Nel bacino di San Marco, dormivano ancora ì piroscafi e i velieri, in un silenzio profondo, sulla laguna nera. Il barcaiuolo procedeva sicuro, nel canale di Chioggia, tra le due file dei pali biancheggianti al lume delle stelle. A_ poco a poco, in cielo, lo sfavillio si spense e una luce blanda cominciò a diffondersi dall’oriente sull’ampia distesa delle acque. Allora noi dicemmo al barcaiuolo che riposasse e egli s’addormentò. Spinta da una brezza leggera, la gondola andava avanti lentamente, senza ch’io avessi bisogno di guidarla col remo. Pareva che una forza arcana la dirigesse. Il mondo era svanito, noi soli dominavamo nello spazio colla nostra giovinezza ardente, col nostro invincibile amore.
— Come sarebbe dolce il morire in quest’ora, piuttosto che doverci sempre dividere — mi disse Irene, posando la sua testa bionda sul mio cuore che palpitava. — Curzio, Curzio! — soggiunse ella, con trepida voce, — partiamo insieme, andiamo coll’arte nostra, in un mondo lontano ove il nostro amore possa vivere liberamente! Dinanzi a questo grande, a questo infinito amore, tutto deve annullarsi; ogni legge sociale riesce meschina in confronto alla legge suprema della natura che congiunge due estranei in un’anima sola, all’improvviso, come due fuochi in un’unica fiamma.
E l’antico desiderio dell’America le tornava, lusinghiero, insistente. Io lo sentivo comunicarsi con lenta, ma sicura malìa, a tutto il mio essere. Mi sembrava che noi dovessimo sparire e che, dinanzi a quella soluzione estrema, Emilia potesse trovare, col disprezzo, anche la pace e l’oblio. Allora preferivo di gran lunga quel disprezzo alla sua generosa, ma umiliante pietà.
Per accondiscendere alle irresistibili preghiere d’Irene, le promisi di meditare quel giorno stesso il nostro piano.
Nell’ebbrezza del sognato avvenire, tacevamo entrambi, per non turbare il poetico mistero dell’ora mattutina. Ma all’improvviso, in quel silenzio, sullo sfondo vago dell’orizzonte mi apparve una strana visione: Emilia pallida, disfatta, abbandonata sui guanciali della piccola culla vuota. Rabbrividii. Irene mi domandò che cos’avessi.
— Nulla, Irene, nulla.
In quel punto un gabbiano passò, sovra di noi; le ali bianche luccicarono nel volo grave come fossero d’argento.
Il gondoliero s’era destato, la fragile barca, scivolando come una freccia, rifaceva il percorso cammino. Venezia pareva ancora sommersa fra i vapori grigi dell’alba.
L'Angelus suonava da tutti i campanili e il solenne concerto si spargeva, sull’acqua, come una musica celeste, senza forma e senza fine. Mi sovvenne, allora, d’una cosa alla quale da gran tempo non avea pensato, d’una breve, tenera preghiera che mi insegnava mia madre da bambino. Ma cercai di scacciare da me, con la funesta visione, anche l’inquietante ricordo, per corrispondere al luminoso sorriso d’Irene. La ricondussi al suo alloggio sulla Riva e, assicurandola che ci rivedremmo fra breve, mi diressi all’albergo Vittoria ov’ero solito prendere stanza quando mi recavo a Venezia. Il portiere mi venne incontro con un telegramma. Chi poteva conoscere il mio indirizzo e sapere ove fossi? Lo sguardo corse alla firma: Alwine Frühman. Ah! sì, soltanto il vigile, il perspicace affetto d’Alwine era stato in grado di trovarmi. Ella telegrafava: «Signora gravemente ammalata, Venga subito».
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Quando entrai, a notte, nella villa Subeiras un silenzio profondo m’accolse. Tutto sembrava morto. Nell’atrio nessuno. Salgo le scale col cuore in tumulto. Alwine s’affaccia al pianerottolo tutta alterata in volto. La interrogo con un canno, ella risponde con un altro cenno desolato. Nell’anticamera trovo una ragazza piangente.
— Dunque! — esclamo — parlate in nome del cielo! Sta così male?
— Molto, molto male — singhiozza la cameriera.
Io m’avvio verso la camera da letto d’Emilia. Alwine mi trattiene, mettendomi una mano sul braccio
— Non adesso, c’è il prete.
To caddi sopra un divano senza sapere quello che mi facessi. Il pensiero ch’Emilia potesse ammalarsi seriamente e morire non m’era mai balenato alla mente: dinanzi a quell’idea spaventosa io provai, in un momento solo, tutti gli spasimi del mio castigo. Passarono ore, minuti, non so. Ricordo ch’Alwine mi disse:
— Ho telegrafato in tanti luoghi... temevo di non trovarla...
Io non risposi. Non afferravo ancora, con chiarezza, la realtà di quel momento terribile.
Finalmente il prete uscì e rivolgendosi ad Alwine, senza vedermi, domandò:
— Il signor Alvise è arrivato?
— Eccolo.
Io m’alzai trasognato. Il vecchio sacerdote, quello stesso che ci aveva uniti in matrimonio, s’avvicinò a me, stendendomi le mani, guardandomi intensamente, con gli occhi dolci e buoni. come se volesse penetrarmi nell’anima Sapeva egli? Non potei comprenderlo.
— Entri, signor Curzio — mi disse — l’ammalata la desidera, e si faccia coraggio, c’è ancora molta speranza...
Io entrai, con indicibile trepidazione, nella camera buia ove Alwine s’era affrettata di precedermi, dicendo colla voce velata di lagrime:
— Er ist gekommen... er ist gekommen...
M’accostai al letto, tutto tremante. Ella vi giaceva con mortale abbandono. Mi salutò con un cenno lieve e triste; io le presi quella mano, gliela baciai. Un ardore intenso di febbre m’alitava incontro.
— Emilia!...
— Hai fatto bene di venire, Curzio — ella rispose piano.
Alwine le porse un cucchiaio di cognac, poi mi disse additando la bottiglia:
— Da qui a dieci minuti un altro — e sì ritirò.
Eravamo soli. Allora Emilia con grande fatica m’interrogò:
— Hai viaggiato molto? dov’eri?...
Io non potei rispondere. Ella insistette, cercando d’indovinarmi collo sguardo. Io mi copersi il volto colle mani.
— Eri a Venezia — disse, come fra sè, con tranquilla certezza.
Vi fu un lungo silenzio, poi, vedendomi angosciato ella ripigliò con qualche sforzo:
— Non t’accorare, Curzio, non temere di farmi male. Soffersi in passato quanto si può soffrire quaggiù, ma non soffro più ora. Tutti gli umani dolori si vanno dissipando dinanzi al consolante pensiero dell’altra vita. Non domando più nulla, sono in pace con Dio. Ma tu, Curzio, tu sei ancora nella battaglia delle passioni, tu devi ancora soffrire, piangere e disperarti. Mi fai pena... perchè... non ho mai cessato d’amarti... soltanto l’amor mio non è più terreno, è un bene che dovrò portar meco nel tempo e nell’eternità...
— Non dir così, Emilia! — io risposi con infinita amarezza.
— Io non bramo più la vita e sono contenta del mio destino.
— Emilia, Emilia, tu non devi, non devi morire! — diss’io, desolatamente, perchè l’idea di perderla in quel modo mi straziava.
Allora io sentii la sua mano ardente cercare la mia.
— Povero Curzio! come sei pallido! — ella mormorò con un accento di pietà profonda. — Vedi ho errato anch’io e lo riconosco. Non ho saputo assecondarti nei tuoi sogni d’arte: la gloria m’è sempre sembrata una chimera. Ho errato, lo comprendo, ma non c’è più rimedio. Tutto è finito.
— La nostra esistenza potrà rinnovarsi ancora, Emilia, e tu troverai la forza di dimenticare il passato — io dissi con un sincero desiderio.
Ella sorrise con molta dolcezza e sul volto trasfigurato, negli occhi ingranditi dal patimento qualche cosa di soprannaturale rifulse.
— No, Curzio. Nulla più si rinnova, tutto è finito — ella ripetè, sempre più calma
Il medico che avevo mandato a chiamare, interruppe il triste colloquio. Egli esaminò subito l’ammalata, non trovò alcun miglioramento.
— Si tratta d’una polmonite doppia — mi disse egli, quando lo seguii nella camera vicina — mi ha subito allarmato la sua comparsa in forma di influenza, per di più, le condizioni fisiche dell’inferma da qualche tempo erano poco rassicuranti...
Tre settimane or sono (il giorno della mia partenza!) la povera signora Emilia passò gran parte della notte in giardino, quantunque avesse molto piovuto. Mi disse d’aver sentito un gran. caldo, un’arsura tormentosa, un affanno come se soffocasse, Fräulein Frühman non potò indurla a
rientrare... cosa strana in una persona così ragionevole e saggia. Doveva. sentirsi molto male... Difatti l’influenza si manifestò subito. Io volevo scriverle in quei giorni, ma la signora me lo proibì e io non insistetti sperando che fosse cosa di breve durata. Ma ecco sopraggiungere, ad un tratto, questa febbre con sintomi così gravi!
D’accordo col dottore d’Arvaz telegrafai a Pavia per avere un altro medico. Egli arrivò entro la mattina, approvò il metodo di cura, ma potè darci poche speranze. La giornata fu agitatissima, lo stato del cuore era allarmante, la febbre incalzava.
Sempre presente a sè stessa, ma priva di forze, Emilia non parlava che collo sguardo.
Verso le undici della notte volle baciare Alwine e ringraziarla delle sue cure.
Fräulein Frühman, sopraffatta dall’emozione, s’allontanò piangendo.
Io ero in preda a un’atroce tortura.
— Non merito un tuo bacio, Emilia, — balbettai — lo so, io non merito che il tuo disprezzo, ma ho tanto bisogno di sentirmi ripetere che tu mi perdoni ..
— Oh! — mormorò ella con voce debolissima — lo sai che t’ho perdonato, Curzio. Chi realmente ama sempre perdona...
Quante battaglie, quante lotte, la buona creatura, assetata di giustizia, deve avere sostenuto con sè stessa, per assorgere ad un sì alto grado di perfezione e di virtù!
Io mi chinai, riverente, dinanzi a quella moribonda cui, più infelice che corrotto, avevo fatto tanto male, e ella, vedendo lo strazio del mio cuore, generosa fino all’ultimo sacrifizio, si sollevò, con uno sforzo supremo, e mi baciò sulla fronte. Ma le sue labbra erano fredde, il suo respiro era affannoso. Ella ricadde spossata sui guanciali, con un piccolo gemito. Atterrito io la chiamai:
— Emilia! Emilia!
Le labbra si mossero per la risposta, che non venne, la testa si piegò con un abbandono ancor più grave, sulle guance scarne un improvviso pallore si diffuse, lo sguardo parve perdersi nell’ infinito.
Io mi sentii drizzare i capelli sulla fronte, tornai a chiamarla disperatamente, ma ella non poteva più rispondermi, era morta.
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Quand’ebbi finito di leggere il manoscritto, la mattina, per tempo, andai in cerca del mio povero amico. Curzio passeggiava in giardino. Ci demmo la mano in silenzio; egli mise il suo braccio entro il mio, e insieme c’inoltrammo fra le ombre del parco. Mi pareva che la confidenza ci avesse resi fratelli. Dopo un lungo intervallo, seguendo quasi il corso dei propri pensieri, egli mormorò:
— Io le ho chiuso gli occhi, io l’ho messa nella sua piccola bara, io l’ho vista seppellire nel cimitero d’Arvaz..... Sono sicuro che Emilia è morta per me. Anche Alwine n’è persuasa..., io le strappai il geloso segreto della sua convinzione. Il corpo ha soggiaciuto all’abbattimento dello spirito. Morta di crepacuore!.... chi non l’ha provato non può comprendere che cosa sia questo tormento nella vita d’un uomo!.. Mai un rimprovero, mai una trista parola.., ell’ha soltanto perdonato..., e io sento ancora sulla mia fronte il bacio dell’oblio.....
Quel ricordo lo faceva rabbrividire.
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— E la tua commedia? — gli domandai, più tardi, sperando distrarlo dalla sua dolorosa preoccupazione.
— Oh! irremissibilmente caduta... — e, vedendomi meravigliato, soggiunse — l’avevo data alla compagnia C... e ne sostenne la prima parte la signorina P... un’esordiente.
— Dunque Irene Saradia?...
— Era già partita per un lungo viaggio all’estero...
— Non la rivedesti più?
— Sì, una volta. Le avevo scritto, ripetutamente, che non mi cercasse, che non ero più quello..., ma Irene non si dava pace. Ella si recò a N... per essere più vicina a me, prese alloggio in un albergo, e mi fece tali istanze perchè ve la raggiungessi che, dopo una lunga esitazione, m’arresi al suo desiderio.
Quando si convinse ch’ero venuto per dirle addio, Irene ebbe un impeto di ribellione ostile contro di me, e mi rimproverò di non averla mai amata. Poi, mentre stavo presso una finestra, guardando follemente nel vuoto, mi gettò le braccia al collo con un’angoscia disperata Io sentii l’effluvio inebriante dei suoi capelli biondi, io sentii il fremente ardore dei suoi baci e l’armonia magica dell’amorosa parola, sentii la tentazione rinnovarsi imperiosa e tutte le voluttà del senso e dello spirito riprendermi, in un momento solo, con violenza irresistibile, ma mi parve che una forza sovrumana mi svincolasse da quell’abbraccio.
Una morta era fra noi e in virtù di quella morta io vedevo chiaramente entro le tenebre della passione, sentivo che quella passione così ardente dinanzi all’ostacolo, resa libera da ogni freno e arbitra di sodisfare sè stessa per intero, avrebbe dovuto spegnersi nel più torbido disgusto, subendo con ciò il suo naturale, il suo giusto castigo, sapevo ormai qual’è l’amore che sopravvive al tempo e alle sue prove.
— La vita e la gloria ti stanno dinanzi, Irene — le dissi — io non ti porterei che sventura. Dobbiamo separarci.
— Crudele! — ella esclamò drizzandosi fiera mente.
— È vero, io fui crudele, ma non con te. Con te sono saggio.
— Curzio, Curzio — ella esclamò, stendendomi ancora una volta le braccia, tutta palpitante
Io indietreggiai verso la porta
— Curzio — ella ripetè follemente, sbarrandomi la via.
Ma la volontà aveva ripreso sovra di me tutto il suo impero, e per quanto il mio cuore fosse i straziato, un istinto più forte di qualunque umano allettamento m'aiutò a superare l’ultimo distacco.....
Mentre così narrava, un grande pallore s’era diffuso sul volto d’Alvise.....
— Tu l’ami ancora, Curzio? — io domandai non senza esitanza.
Egli mi rivolse uno sguardo smarrito, e in quegli occhi turbati da un’espressione indefinibile io lessi tutta l’intensità del volontario sacrifizio.
Poi egli rispose con una calma profonda:
— Sì, l’amo ancora.