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ore fisse, ai colloqui col ragioniere e coi fattori di campagna, alle nostre conversazioni della sera. A Milano avevo meditato il soggetto d’una nuova commedia, ero impaziente di tracciarne la linea generale, di distribuire certe scene, e il costante silenzio d’Emilia, questa prova palese della sua contrarietà, mi faceva male e nel tempo istesso, per la contradizione delle umane cose, m’eccitava a scrivere. Con Emilia mi sforzavo tuttavia d’apparire ilare ed amorevole, ma quella simulata contentezza mi dava rimorso e più volte fui sul punto di dirle:
— Ho ceduto alla tua proposta generosa per debolezza, per vanità forse, soprattutto per il desiderio di renderti felice, ma io non posseggo gli elementi di felicità ai quali tu aspiri; bramerei amarti e non so; il tuo cuore buono e semplice, la tua mente retta e positiva non sono fatti per comprendere i tumulti della mia indomita giovinezza e io non posso piegarmi alle esigenze d’un matrimonio di ragione. Tu hai creduto avvolgermi in un serto di rose, e m’hai cinto, senza volerlo, d’una pesante catena. Le necessità della vita domestica inceppano il mio pensiero, le abitudini mi ripugnano, il mio ideale non è la pace, è la lotta; sono un ambizioso e ho bisogno dell’amore che intende, non già delle tiranniche affezioni che inceppano la via.
Fors’ella, la mite Emilia sarebbe venuta meno dinanzi a quella brutale dichiarazione, ma io avrei