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volto una grande mestizia. Quel velo d’appassionata malinconia rendeva la sua bellezza ancor più meravigliosa. I suoi occhi possedevano una tale magìa che ogni artifizio riusciva superfluo anche per la scena; la sua voce di contralto aveva dei fremiti improvvisi, degli accenti così profondi che io la sentivo risuonare, entro di me, come sulle corde d’un istrumento che vibrasse in virtù d’una forza arcana; nella sua conversazione capricciosa era un irresistibile fascino: ora languida come per improvvisa stanchezza, ora ardente d’un fuoco contenuto, quella strana creatura suscitava un tumulto nel cervello e nel cuore.

Sapevo che Irene aveva rifiutato una brillante proposta di matrimonio per non rinunciare all’arte sua, e ch’era rimasta insensibile all’omaggio di molti ammiratori, ma sentivo, altresì che quella gelosia di se stessa, quella persistente alterezza, derivavano dalla solitudine dell’anima e che anche ella al pari d’Eva, incontrando l’uomo atto a comprenderla, avrebbe tutto dimenticato, sentivo che in quella superba e libera figlia della natura l’amore doveva essere una cosa divina. La sua presenza mi dava un senso d’ineffabile gioia. Sarei morto volentieri in quell’ora, dopo quel successo, lì accanto a lei, sotto l’impero del suo irresistibile sguardo, piuttosto che tornare alla realtà della mia vita.

Quando risalii le scale e rientrai nella camera che occupavo vicino a quella d’Emilia, mi parve,