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prima attrice, ma si rallegrò udendo che non esigevo quel sacrifizio. Il giorno appresso fui costretto di accompagnarla in varii negozi; non vedevo nè capivo nulla. Ella mi guardava, di tratto in tratto, con un’aria di tristezza. Verso le quattro mi feci annunziare dalla signorina Saradia ma ell’era sofferente, non poteva ricevermi. Quella sera doveva andare in scena il mio dramma. Un’angustia mortale mi prese, un terrore dell’insuccesso e di tutte le sue conseguenze: mi pareva di soffocare. Tornai da Emilia, dissimulando la mia pena e la seguii macchinalmente ai giardini, ove aveva espresso il desiderio di fare una passeggiata. Era un giorno mitissimo di marzo: il paesaggio risorgente alla vita, nella freschezza del verde novello, nella fragranza degli alberi in fiore, faceva palpitare il mio cuore fino allo spasimo. Alle otto andai al teatro Manzoni, affidando Emilia ed Alwine alla cura dei miei amici. Prima ch’io partissi, ella mi abbracciò, mi fece un augurio; era forse più turbata che commossa. La sua presenza in un palco di seconda fila, per quanto ella si studiasse di rimanere nascosta, lungi dall’animarmi, mi toglieva il coraggio, mi faceva perdere anche quel po’ di fiducia in me stesso che m’era rimasta. Nel primo atto ove la figura d’Eva comincia a delinearsi, Irene fu profondamente umana e vera. Nel secondo e nel terz’atto le situazioni un po’ ardite suscitarono qualche contrasto, ma l’incarnazione d’Irene, nel tipo da me sognato, fu così