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trionfo, ma anche stavolta la mia contentezza fu in parte offuscata. Mia madre aveva voluto assistervi in segreto. Più sensibile d’Emilia alle compiacenze dell’applauso, ma non meno severa nel giudizio, ella non aveva saputo dissimularmi la sua disapprovazione.

Crucciato da una nuova amarezza, presi la scusa di certi impegni letterarii per allontanarmi anche da lei. Io la vedevo pochissimo, non potevo udire la sua voce, nè sostenere il suo onesto sguardo senza sentirmi turbato da un’indefinibile pena; e poi, ella mi chiedeva continuamente d’Emilia e io non ero in grado di parlarne.

Una sera d’agosto, dopo aver passeggiato insieme nel parco del Valentino, Irene ed io eravamo tornati in carrozza al suo alloggio in via Dora Grossa. L’arte era stato l’argomento principale del nostro colloquio, avevamo discusso la mia nuova commedia di soggetto femminista e fissati certi cambiamenti mercè i quali ella mi prometteva il successo.

Una lampada, velata di rosa e mezzo nascosta fra due mazzi lussureggianti di fiori estivi, spandeva una blanda luce nel salottino d’Irene; dalle finestre aperte, a traverso le cortine, veniva, misterioso, il chiarore lunare. Sdraiata in una poltrona, colle sue bianche mani fra le mie, ella mi diceva tante frementi parole e io le baciavo pazzamente quelle belle mani gemmate, espressive anch’esse come la parola. Le tuberose ch’ella por-