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Eravamo soli. Allora Emilia con grande fatica m’interrogò:

— Hai viaggiato molto? dov’eri?...

Io non potei rispondere. Ella insistette, cercando d’indovinarmi collo sguardo. Io mi copersi il volto colle mani.

— Eri a Venezia — disse, come fra sè, con tranquilla certezza.

Vi fu un lungo silenzio, poi, vedendomi angosciato ella ripigliò con qualche sforzo:

— Non t’accorare, Curzio, non temere di farmi male. Soffersi in passato quanto si può soffrire quaggiù, ma non soffro più ora. Tutti gli umani dolori si vanno dissipando dinanzi al consolante pensiero dell’altra vita. Non domando più nulla, sono in pace con Dio. Ma tu, Curzio, tu sei ancora nella battaglia delle passioni, tu devi ancora soffrire, piangere e disperarti. Mi fai pena... perchè... non ho mai cessato d’amarti... soltanto l’amor mio non è più terreno, è un bene che dovrò portar meco nel tempo e nell’eternità...

— Non dir così, Emilia! — io risposi con infinita amarezza.

— Io non bramo più la vita e sono contenta del mio destino.

— Emilia, Emilia, tu non devi, non devi morire! — diss’io, desolatamente, perchè l’idea di perderla in quel modo mi straziava.

Allora io sentii la sua mano ardente cercare la mia.