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Io mi chinai, riverente, dinanzi a quella moribonda cui, più infelice che corrotto, avevo fatto tanto male, e ella, vedendo lo strazio del mio cuore, generosa fino all’ultimo sacrifizio, si sollevò, con uno sforzo supremo, e mi baciò sulla fronte. Ma le sue labbra erano fredde, il suo respiro era affannoso. Ella ricadde spossata sui guanciali, con un piccolo gemito. Atterrito io la chiamai:

— Emilia! Emilia!

Le labbra si mossero per la risposta, che non venne, la testa si piegò con un abbandono ancor più grave, sulle guance scarne un improvviso pallore si diffuse, lo sguardo parve perdersi nell’ infinito.

Io mi sentii drizzare i capelli sulla fronte, tornai a chiamarla disperatamente, ma ella non poteva più rispondermi, era morta.

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Quand’ebbi finito di leggere il manoscritto, la mattina, per tempo, andai in cerca del mio povero amico. Curzio passeggiava in giardino. Ci demmo la mano in silenzio; egli mise il suo braccio entro il mio, e insieme c’inoltrammo fra le ombre del parco. Mi pareva che la confidenza ci avesse resi fratelli. Dopo un lungo intervallo, seguendo quasi il corso dei propri pensieri, egli mormorò:

— Io le ho chiuso gli occhi, io l’ho messa nella sua piccola bara, io l’ho vista seppellire nel cimitero d’Arvaz..... Sono sicuro che Emilia è morta per me. Anche Alwine n’è persuasa..., io le strappai

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