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— Irene Saradia non ha mai voluto esprimersi su questo scabroso argomento.
— Sente? — io soggiunsi.
— Per la donna l’amore è come il destino e sul destino non si ragiona — ella rispose gravemente.
Erano le parole d’Eva queste e Irene le ripeteva con uno strano lampo di dolore negli occhi.
Poco tempo dopo tutti partirono e noi rimanemmo soli.
Sopra un tavolino, in un vasetto snello di Murano, alcune giunchiglie appassivano, mandando un odore inebriante.
— Non vi fanno male questi fiori? — domandai.
— Oh no! io ho bisogno del profumo dei fiori...
Qual seduzione per me in quello sguardo, in quel sorriso, in quella voce appassionata, profonda!
Irene vestiva di nero. La vita di trina, chiusa da bottoni di brillanti, accollata ma un po’ trasparente, lasciava intravedere la morbida bianchezza delle spalle e delle braccia mirabili; i capelli, contorti in un nodo serpentino sulla nuca gentile, le cingevano la fronte d’un leggero e dorato diadema; gli occhi grandi ardevano, nel nativo pallore del volto, come due fiamme, e la bocca, dolce insieme e sdegnosa, aveva dei moti involontari quasi proferisse inaudibili parole.
Leggiadramente reclinata sul divano, ell’appoggiava la testa ad un piccolo cuscino bianco, sul quale erano ricamati degli strani cypripedium bruni e gialli; due rose pallide illanguidivano,
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