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occupazioni, attendendo, nelle ore libere, ad uno studio sulla commedia italiana nel seicento, per il quale la biblioteca mi forniva valide notizie.
La sera si raccoglievano nella villa gli alti funzionari dei paesi vicini, qualche sindaco di buona famiglia, un paio di sacerdoti, il medico, alcuni signori dimoranti in campagna. Durante quelle riunioni Emilia mi guardava, di tratto in tratto, con una certa insistenza, ma mi rivolgeva di rado la parola; due o tre volte, però, mi chiese con grande interesse di mia madre, e a Natale, quando andai a Torino per salutarla, volle che le recassi una focaccia fatta proprio con le sue mani.
Dicevasi, in quel tempo, che la mano della signorina Subeiras, la quale portava seco un ricchissimo patrimonio, tosse ambita da molti più o meno sinceri ammiratori. Io ne vidi comparire parecchi alla villa e partirsene senza speranza: Emilia non voleva abbandonare suo padre.
Mi trovavo da sei mesi circa, in casa Subeiras quando il signor Filippo, còlto in mia presenza, da sincope cardiaca, stramazzò al suolo e spirò fra le braccia della sua atterrita figliuola, lasciandola sola al mondo. L’infelice fanciulla desto in me una viva compassione, e non potendo offrire miglior conforto al suo tacito dolore, vegliai insieme a lei la salma ch’ella aveva pietosamente composta tra i fiori.
Straziata, ma sempre presente a se stessa, Emilia dava prova d’una mirabile fortezza d’animo.