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tava in seno, tra le falde del vestito rosso, mandavano nn effluvio inebriante e il mio amore ingigantiva per la voluttuosa complicità dell’ora notturna.

Bussarono. Entrò la cameriera dicendo che una persona chiedeva di me con grande premura. Uscii. Era un messo che da parecchie ore mi atava cercando da parte della madre mia ammalata. Destato dal mio morbido sogno, come se una mazzata m’avesse colpito in pieno petto, mi congedai rapidamente da Irene e partii correndo.

Erano quattro giorni che non vedevo mia madre. Il suo aspetto mi rivelò la fatale verità. Sempre un po’ debole di salute, ella soggiaceva ad una bronchite cronica, la quale s’era incrudita con acutezza mortale. Quando m’avvicinai al suo letto, m’accorsi, tuttavia, che una morale angustia esacerbava i patimenti della malattia e la consueta tenerezza dello sguardo materno mi parve velata da un’ineffabile mestizia. Da sua voce stessa aveva, un altro accento; la mano, solita ad accarezzarmi, giaceva inerte sulle lenzuola.

Nella notte rimanemmo soli. Tutt’a un tratto ella si sollevò con degli occhi che non dimenticherò mai, tanto il loro sguardo veniva da lontano, come dal mondo dei misteri, e disse:

— Io parto per sempre, Curzio,, e non rimpiango la vita perchè sono stanca. Mi pesa soltanto di doverti abbandonare, ma non ti lascio solo, ti resta la buona Emilia.