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morte, il mio frac; la cravatta bianca, tutti gli altri oggetti bianchi mi sembravano anch’essi simboli di morte e di sepoltura; ini rimproveravo acerbamente d’essere stato troppo debole, d’aver dato l’intera mia vita per la vanitosa speranza di rendere felice una donna, quando il primo elemento della felicità, l’amore mi mancava; mi pareva di trovarmi in una cella senza uscita, fra quattro muri contro i quali dovessi infrangere la testa, come un pazzo travagliato dalla più funesta allucinazione. Alcune volte fui sul punto di scendere, di chiamare Emilia, di confessarle tutto... L’avessi pur fatto! Ma l’idea d’affliggerla e di cagionare anche a mia madre un grave dolore, bastò per trattenermi.

All’alba, dopo aver passeggiato su e giù con questo martirio nell’anima m’affacciai alla finestra, e la cruda brezza del mattino, soffiandomi bruscamente in faccia, mi ridestò all’immutabile realtà delle cose.

Mandai il cameriere a prendere le notizie della mia fidanzata con la quale non dovevo incontrarmi che al momento della partenza per il paese d’Arvaz. Ella mi fece dire da Alwine che aveva dormito tranquillamente. Da li ad un’ora ci rivedemmo nell’atrio. Non volendo tornare alla villa dopo la funzione civile, Emilia portava già il vestito bianco, il velo da sposa, la ghirlanda di fiori d’arancio in testa, ma la piccola figura nuziale che doveva commuovere in quel momento il mio cuore d’una