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cerbava; avrei voluto trovare degli argomenti di corruccio contro di lei e sempre più vedevo risplendere sulla sua fronte un raggio di generosa indulgenza. Povera Emilia! ella conosceva il segreto dell’amore che non passa!

Irene mi scriveva lettere di fuoco. Indarno le raccomandavo d’usare qualche precauzione: ella non poneva mente a nulla. Tre o quattro volte eravamo riusciti a combinare un incontro, di poche ore, nelle piccole città vicine ove mi chiamavano, di quando in quando, gli affari di casa. Dopo questi ritrovi in cui il desiderio di rivederci si faceva sempre più violento, Irene aveva dovuto andare con la sua compagnia a Torino e mi chiamava insistentemente per preparare una rappresentazione della mia «Eva.»

Una sera comunicai ad Emilia questa notizia, le dissi che dovrei recarmi fra breve a Torino anch’io. M’aspettavo che mi proponesse di venir meco, ma non vi pensava nemmeno.

Ella domandò soltanto:

— Sarà un’assenza breve?...

— Non so, Emilia. Devo incontrarmi con degli amici ai quali ho promesso di leggere il mio nuovo lavoro.

— Temo sempre che tu sogni un bene che quaggiù non esiste, — ella disse, persistendo nel suo antico principio.

— Credo che tu abbia ragione, Emilia, e certo il mio ingegno non asseconda le mie aspirazioni...