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tutt’a un tratto, che la realtà mi piombasse con un peso insopportabile sul capo. Emilia non dormiva, stava seduta sul letto con le mani conserte, aveva dinanzi a sè il suo libro prediletto: L’Imitazione.
Era affettuosa, ma molto seria; io l’abbracciai, esortandola a riposare, portai il lume dietro un paravento onde non potesse leggermi in volto lo stato dell’anima, è le rimasi d’accanto finché si addormentò.
Il giorno seguente incontrammo Irene nel corridoio e passammo senza fermarci.
Irene mi guardò con degli occhi strani.
— E molto bella anche da vicino, la Saradia — disse Emilia tranquillamente — poverina, mi ±a compassione, quella bellezza le recherà sventura.
— Sventura?... perchè? è una fanciulla onesta che ama la sua arte sovra ogni cosa e che passerà di trionfo in trionfo...
— Non dubito punto della sua onestà, ma non credo che l’illibatezza del costume possa conciliarsi a lungo con la vita dell’attrice, è una vita che io non riesco a comprendere.
— Tu sei come un fiore dell’Alpe, Emilia — diss’io sforzandomi, come sempre, di reprimere l’irritazione ch’ella suscitava in me — tu hai bisogno di vederti dinanzi il consueto paesaggio, il noto e sereno orizzonte... questa vita piena d’emozioni t’opprime, ti fa male, non è vero?