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grado di scrivere e finii collo stracciare la pagina in un impeto di sdegno.

Quel giorno mi sentii, per la prima volta, profondamente infelice. Emilia avrebbe voluto ch’io fossi il compagno indivisibile delle sue letture, delle sue passeggiate, d’ogni suo diletto. Sebbene questo bisogno, così naturale all’amore, avesse per me l’apparenza d’una indiscreta pretesa mi sforzavo d’assecondarlo affinchè la serenità della nostra vita non avesse a intorbidarsi.

Ell’era molto sofferente e alterata in volto, solo nei suoi buoni occhi fedeli, ardeva, come un raggio, l’animosa speranza della maternità.

Fu in una nebbiosa mattina di novembre, dopo due giorni di gravi ambasce, che nacque il povero figliuoletto mio. Quando presi fra le braccia quell’esile bambino provai nell’anima uno schianto di tenera tristezza: egli somigliava a me, ma nelle piccole e scarne membra era appena un soffio di vita, la sua fragile esistenza non pareva alimentata dalla fiamma vivificante dell’amore.

All’udire i primi vagiti della sua creatura, Emilia s’illuminò d’un sorriso d’ineffabile ma tanto più fuggevole gioia. Il piccino visse appena un mese: nè le cure degli specialisti, nè lo sviscerato amor materno valsero ad agguerrirlo per le battaglie della vita.

Come tutti i dolori profondi il dolore d’Emilia era calmo e muto. Ella si vinceva per amor mio, ella sapeva nascondere e reprimere le sue lacrime