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ne rivedevo con lo spirito impaziente, la simpatica figura.

Quando scesi alla stazione di N..., ove dovevo prendere una carrozza per recarmi a Villa Subeiras, un uomo, sul fiore degli anni, ma d’aspetto sofferente, vestito di nero e coi capelli un po’ brizzolati, mi si avvicinò, stendendomi le braccia.

— Andrea!

— Curzio! Sei tu!

— Son io. Non mi riconosci più eh? È di gran tempo che non ci vediamo!

Alvise mi sembrò difatti molto mutato. Il suo volto così baldo un giorno di ardente giovinezza era assorto in una severa concentrazione, gli occhi conservavano il loro sguardo or distratto, ora sfavillante, ma sull’ampia fronte, fra i sopraccigli un pensiero fisso, angoscioso forse, aveva tracciato una piega di dolore.

Egli m’accolse con affetto, evitando di parlarmi di sè, chiedendo invece con premura delle cose mie.

Alcuni minuti dopo, correvamo insieme in un elegante landò, lungo vie polverose, nella vasta pianura fertile di messi ondeggianti. In capo ad un’ora apparve, fra i campi, una macchia pittoresca d’alberi e di grandi cespugli e i cavalli si fermarono dinanzi ad un cancello dalle punte dorate sul quale stava scritto con grandi lettere: Villa Emilia.

Vedendomi intento a quel nome, egli disse semplicemente: