Pagina:Turco - Canzone senza parole.djvu/248


— 240 —


quattro giorni e quattro notti al capezzale della diletta ammalata che s’andava lentamente affievolendo. Di tratto in tratto i suoi occhi velati ci cercavano, a vicenda, come se volessero unirci. Ella morì tranquilla, colla bianca testa appoggiata al seno di Emilia la quale raccolse, con figliale pietà, il suo ultimo respiro. Tre giorni dopo ripartimmo per villa Subeiras senza che avessi potuto rivedere Irene. Però le scrissi subito, le confidai tutto lo strazio della mia situazione. Ribelle a qualunque freno, Irene mi mandò delle lettere ardenti in cui la sua anima selvaggia più che mai si rivelava. Io leggevo e rileggevo pazzamente, nel silenzio del mio studio, le parole di fuoco, le dolci e appassionate parole sature di malia. Non era più Irene, era la mia Eva fatta viva e palpitante che mi chiamava.

Intanto la buona Emilia vestita severamente a lutto, grave ma serena, ormai, nella sua afflizione, vegliava intorno a me con raddoppiate cure; ella s’occupava dei particolari materiali della vita, circondandomi di squisite attenzioni, metteva ogni giorno dei freschi fiori dinanzi al ritratto della madre mia, era tutta compresa del mio dolore.

— Curzio, perchè ti concentri così? perchè non vieni un poco in giardino con me? non senti, il caldo è passato, l’aria è buona e vi sono tutte le aiuole fiorite...

— Sto bene qui, Emilia, sto bene solo.

E ella se n’andava, con un sospiro, con lo sguardo triste, col passo affaticato.