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volta, nelle «Anime solitarie» e ebbi da Anna Marr un’impressione violenta, indimenticabile.
Quando la udii e la vidi nelle prove dell’Eva un fremito m’invase da capo a piedi: ella si rinnovava nelle sue parti per una mirabile potenza intuitiva. Non era più Irene Saradia, era Eva stessa, la creatura selvaggia e primitiva, figlia del libero pensiero, che aveva tormentato la mia fantasia, come un’insistente visione, e che mi stava dinanzi viva e palpitante.
Molto indocile, Irene si concedeva spesso la libertà di fare dei cambiamenti, che io accettavo di buon grado, m’aveva perfino suggerito d’abbreviare un dialogo, per la rapidità dell’azione, e io l’avevo tagliato, senz’altro.
Dopo l’ultima prova, mentre mi rallegravo con lei nell’effusione dell’animo, Irene mi guardò coi grandi occhi di fuoco e mi disse:
— Vedete, Alvise, Eva era una cantante, io sono un’attrice, v’è poca differenza: come lei sono sola, senz’affetti, coll’arte mia...
— E col vostro sogno...
— Il sogno ha condotto Eva alla morte... e noi tutte morremmo se ci fosse dato leggere chiaramente nel cuore dell’uomo. Voi avete delineato la figura d’Eva per un istinto artistico, Alvise, ma forse non potete interamente comprenderla... bene, l’uomo non c’intende mai.
— Difatti ho conosciuto Eva oggi soltanto e l’ho veduta viva...