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entrambi, per non turbare il poetico mistero dell’ora mattutina. Ma all’improvviso, in quel silenzio, sullo sfondo vago dell’orizzonte mi apparve una strana visione: Emilia pallida, disfatta, abbandonata sui guanciali della piccola culla vuota. Rabbrividii. Irene mi domandò che cos’avessi.

— Nulla, Irene, nulla.

In quel punto un gabbiano passò, sovra di noi; le ali bianche luccicarono nel volo grave come fossero d’argento.

Il gondoliero s’era destato, la fragile barca, scivolando come una freccia, rifaceva il percorso cammino. Venezia pareva ancora sommersa fra i vapori grigi dell’alba.

L'Angelus suonava da tutti i campanili e il solenne concerto si spargeva, sull’acqua, come una musica celeste, senza forma e senza fine. Mi sovvenne, allora, d’una cosa alla quale da gran tempo non avea pensato, d’una breve, tenera preghiera che mi insegnava mia madre da bambino. Ma cercai di scacciare da me, con la funesta visione, anche l’inquietante ricordo, per corrispondere al luminoso sorriso d’Irene. La ricondussi al suo alloggio sulla Riva e, assicurandola che ci rivedremmo fra breve, mi diressi all’albergo Vittoria ov’ero solito prendere stanza quando mi recavo a Venezia. Il portiere mi venne incontro con un telegramma. Chi poteva conoscere il mio indirizzo e sapere ove fossi? Lo sguardo corse alla firma: Alwine Frühman. Ah! sì, soltanto il vigile, il