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frattempo, aveva pensato, con atto generoso, a procurarmi una modesta ma sicura indipendenza, avido di libertà, io raddoppiavo il lavoro, divisando di lasciare la villa fra poche settimane. Accadde allora un fatto strano e decisivo per il mio avvenire.

Qualche volta, per un’antica consuetudine, dovuta al desiderio amorevole del signor Filippo, lavoravo in giardino. Un giorno d’aprile, mentre stavo decifrando certe pergamene interessanti per l’archivio di famiglia, in un capanno già tutto vestito di verdura, mi vidi comparire dinanzi la signorina de Subeiras, sola. Credevo avesse a chiedermi, come talvolta soleva, un qualche consiglio intorno alle sue letture, ma, al contrario dell’usato, ella si mise a sedere nella poltroncina che sempre indarno le offrivo e alle mie parole: — In che cosa posso aggradirla, signorina? — rispose con voce tremante:

— Dovrei parlarle.

Nelle aiuole fiorivano a gara i giacinti, i tulipani e i narcisi; fra i boschetti si nascondevano le fragili corolle degli anemoni; intorno a noi era tutta una fragranza di viole, un fremito di primavera gioconda. Io posai il codice che m’era rimasto fra le mani sul tavolino e ritto dinanzi a lei mi misi in ascolto. Ella cominciò con grande titubanza:

— Il colloquio che sono venuta a chiederle, Alvise, è molto grave e può avere una notevole influenza sulla mia vita