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sia, e mi allontanai desolato, pentito quasi di una colpa. E talora la dolce immagine m’appariva per i luoghi più tumultuosi, impensatamente; spariva tra la folla; mi lasciava doloroso come se mi fosse crudelmente strappata una parte di me dopo un istantaneo gaudio di tutto il mio essere.

Nè avevo un ritratto di Ortensia!

A me non era lecito possederne nemmeno il ritratto, mentre Roveni poteva vederla, udirne la voce ogni giorno. La lontananza e il tempo assopirebbero in cuore ad Ortensia il ricordo di me; a ragione alleandosi alla giovinezza, che in lei domanderebbe amore vivo e fervido, la persuaderebbe che io stesso l’esortavo a consentire a Roveni.

A’ poco a poco ella avrebbe nel cuore l’accensione della nuova e più vigorosa fiamma, non più contenuta....

Io l’avevo baciata sulla fronte: Roveni le carpirebbe sulle labbra il primo bacio, le prime ebbrezze....

A questo pensavo! Con che tormento, con che strazio! Era debolezza, questa? Ancora m’infliggevo lo strazio degli ultimi giorni di Valdigorgo preparandomi al giorno in cui apprenderei che Roveni aveva il diritto di possederla.... Volevo, dovevo dominare in me, così, la gelosia: Roveni possederebbe Ortensia interamente! E correvo al di là di quel mio soffrire, al di là di quel giorno forse non lontano per la felicità di Ortensia, cercando d’immaginare me stesso rassegnato, pacato nell’animo. Rivedrei Ortensia moglie e madre; potrei un giorno, senza rancore e pago della felicità di lei, accogliere tra le mie braccia i suoi figliuoli....

Era debolezza, questa?