In faccia al destino/Parte Terza

Parte Terza

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Parte Seconda

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PARTE TERZA.

I.


All’uscio di cucina il Biondo aveva attaccato il Lunario del Campagnolo: Sant’Antonio in rozza stampa, lunga barba col pastorale e il campanello; il porco a destra e a sinistra, in terra, il sacro libro e una gran fiamma; ai lati, l’ordine dei mesi con le insegne zodiacali, e, sotto, la leggenda che rammentava i mali dell’anno già caduto «nel numero dei più» promettendo migliore l’anno nuovo.

«Nel nuovo anno gli uomini fatti savi dall’esperienza, che è la miglior maestra della vita; abbandonate le malsane idee, che per un momento poterono turbare le menti umane sotto l’influsso di false massime, vivranno fra loro nella maggior concordia. Tutte il male non vien per nuocere. Avanziamoci fiduciosi incontro all’avvenire, e le nostre speranze non saranno deluse; dopo la scarsità avremo l’abbondanza....»

E sebbene non ancora a mezzo di quest’anno nuovo il Biondo si dolesse delle stagioni avverse all’abbondanza e del socialismo avverso alla concordia, io m’attenevo alla profezia e umilmente la rileggevo ogni dì: fatto savio ormai dall’esperienza; abbandonate ormai le malsane idee e le [p. 311 modifica]false massime, e quasi fiducioso nell’avvenire, io mi Mentiva in bastevole concordia col mio più fiero nemico e padrone: con me medesimo.

Concordia, intendiamoci, non era tranquillità, e di pensieri ne avevo anche troppi.

Ma senza dubbio il mutamento in me, da un pezzo incominciato, era grande; era divenuto così grande che non mi perdevo nemmeno a indagarne le cause. Quali esse fossero mi chiedo ora. Forse a riscuoter tutte le mie forze, accidiate da tanto tempo; a darmi resistenza per le fatiche del nuovo ufficio che esercitavo in campagne solitarie e lontane; a tenermi desto la notte dopo giornate laboriose per studiar quanto di medicina pratica o avevo disimparato o ignoravo; a ringiovanire insomma nella vita attiva senza sforzo di volontà, forse mi bastò il consiglio di Claudio, il dì della mia partenza per Molinella: — Lavoriamo! — ? Generoso esempio di un uomo la cui fibra non era stata infranta da tante batoste e dolori, la cui riconoscenza per me non era limitata dall’intenzione di sdebitarsi meco! Ma la virtù che mi rianimava doveva esser ben altra che quella dell’esempio; ben altra che il beneficio dell’attività!

E veramente nell’esercizio e negli obblighi di una professione gravosa, ingloriosa, angusta, molte volte sentii e vidi, al letto de’ miei squallidi malati, che il compito assunto per necessità era più importante, più attraente, più umano, più nobile che quello di tendere alle cose inafferrabili. Se non che mi accompagnava per tutto un sentore di lezzo, un’impressione di miseria avvilita e non domata, un’eco di minacce segrete e di odî già palesi. [p. 312 modifica]

Piuttosto m’eccitava dunque a una vita forte e utile la virtù del sacrificio da me compiuto a pro dell’amcizia?

Via! Contro le pene che mi dava il ricordo dei Moser, poco valeva la soddisfazione del servigio reso a Claudio. Per Claudio era già venuto il dì dell’ultimo strappo: dell’addio alla villa. Che cuore era stato il suo in quel giorno? E Ortensia, che era rimasta con lui fino all’ultimo momento?... Poi sapevo come Claudio, dopo aver trasferito la famiglia a Milano con la speranza di trovarvi subito impiego, consumava la smania di operare in una triste vicenda d’illusioni e delusioni.

Intanto Ortensia e Eugenia dimoravano a Milano, col pericolo d’imbattersi in Roveni o d’esserne insidiate. Senza dirle quale vendetta egli forse meditava, io, partendo, avevo scritto a Eugenia affinchè stesse in guardia; invigilasse soprattutto alla posta e sottraesse qualsiasi lettera indirizzata a Ortensia: dubitavo di una lettera anonima. Eugenia mi aveva risposto che seguirebbe attentamente il consiglio. Ma quel dubbio della lettera anonima mi era, in certi giorni, un’ossessione; mi affliggeva anche il timore che Eugenia potesse scoprire la calunnia incombente su di lei; e avevo un bel dirmi: «avvenga che può, coscienza ci assicura».

Ortensia non l’avevo più riveduta. Per ripugnanza che io assistessi più oltre alla sua distruzione, Claudio non aveva insistito che l’accompagnassi a Vialdigorgo, e io non avevo osato andar con lui, quasi a raccogliere riconoscenza. Così non potevo raffigurarmi Ortensia che con le attitudini e le parole dell’ultima volta che l’avevo vista, runica volta dopo tre anni; e mi ripetevo: «Quel [p. 313 modifica]giorno, lassù, pur nel momento in cui mi confidò il conflitto tragico dell’animo suo, pur quando disperata invocò il mio consiglio, qualche cosa di misterioso s’interpose a quella espansione».

Era stato l’ultimo rancore del male che le avevo fatto? Era stato l’orgoglio ferito dal soccorso che io promettevo alla sua famiglia o dallo stesso consiglio ch’ella si sentiva costretta a chiedermi? O quali altri sospetti ottenebravano l’anima dolorosa mentre l’agitava lo spavento del disonore paterno?

Questo, questo, il mio maggior tormento nelle tregue dalle fatiche quotidiane, o nelle notti insonni!

E quando non ne potei più, sapete che feci? Scrissi a Ortensia, col pretesto d’aver da lei notizie della famiglia. Per poco non mi rimproveravo di soverchia audacia! Ella rispose subito. A leggere e rileggere quelle poche righe — la prima lettera di Ortensia che io ricevevo! — facevo rabbia a me stesso; tentavo esprimere da poche parole un significato che non avevano; non sapevo persuadermi che dopo tanto amore e con tanto amore io dovessi rassegnarmi a una letterina di stile perfettamente amichevole. Stanco di me e della lettera, la stracciai; mi pentii d’averla stracciata. Affettuosamente — e a me pareva in modo freddo — Ortensia mi dava notizie di tutti: del padre sempre in speranze; della madre sempre fidente in giorni migliori; di sé che stava «discretamiente». Aggiungeva:

Si parla ogni giorno di voi, Sivori; se ne parla non solo come di un benefattore ma come di uno di noi, della nostra famiglia che sia lontano. [p. 314 modifica]

«Già, un fratello! — io gridavo a me stesso: — Ortiensia vuol dire che non mi ama più e che non mi amerà mai più!»

E con tutto ciò, con tutti questi contrasti, io.... non me la prendevo con Sant’Antonio! Ne consultavo il lunario! e senza ironia me ne ripetevo le parole: «Tutto il male non viene per nuocere. Bisogna aver fiducia nell’avvenire».

Quali dunque le cause o la causa del mio mutamento? Forse all’intendimento della vita e all’elevazione dell’animo, il dolore può anche più dell’amore? E una notte feci questo sogno:

Nella vecchia chiesa del paese, ove fanciullo io avevo pregato a fianco di mia madre, si celebravano nozze solenni. Il Biondo gongolava; la Rita piangeva di gioia.... Poi la chiesa con tutta la gente scomparve, e vidi una nota camera: Ortensia, con me, entrava pallida e arridente sposa nella camera dove mia madre era morta.


II.


Verso la fine d’aprile ricevei una lettera di Claudio per la quale mi convinsi sempre più che la fortuna lusingava e confermava le mie speranze.

Mi giungeva quella lettera in un giorno così luminoso di primavera! Leggendola su la porta di casa, con avanti a me il prato pieno di fiori mi balzava il cuore quasi a un portento.

Claudio mi pregava d’informarmi, con prudenza, se davvero si era costituito in Bologna un consorzio delle fabbriche di laterizi poste su le [p. 315 modifica]rive del Reno, e se davvero cercavano un direttore. Solo nel caso che queste notizie, da lui avute in segreto da un antico cliente, fossero certe, io avrei dovuto presentarmi al proprietario d’una delle fabbriche, che egli mi nominava, e fare il suo nome.

Come se tutto ciò fosse più che sicuro, e Moser già prescelto all’ufficio desiderato, pensai che i Moser verrebbero a dimorare vicino a me, a un’ora e mezza di viaggio. Figurarsi con che fretta corsi a Bologna!

Le notizie non erano del tutto conformi al vero. La concorrenza, che aveva rovinato Moser, angustiava anche nell’Emilia gli industriali in laterizi, e tra essi era corso il progetto di un concordato.

Ma due o tre dei più potenti non avevano ancora acconsentito e non parevano ben disposti. Perciò quelli che avevano fabbriche presso Bologna vagheggiavano una società fra loro. Le cose erano solo a questo punto quando io con un biglietto di presentazione, prudentemente richiesto ad un amico, mi recai dall’industriale nominato d Moser. Ma non ero un diplomatico, io, quale il cavalier Fulgosi; e dovendo dar ragione della mia visita, sostituii l’audacia alla prudenza e dissi a dirittura che l’ingegner Moser non sdegnerebbe assumere la direzione tecnica della nuova società, se si costituisse.

— Moser? — esclatmò il mio interlocutore — Moser che aveva la fabbricai a Valdigorgo? Quello che ha perfezionati i forni Hoffman?

Avevo fatto colpo. Subito dopo, l’altro cercò di attenuare in me l’impressione della sua meraviglia osservando, con bel garbo, che il fallimento del [p. 316 modifica]mio amico non lo raccomandavia troppo.... Opposi che Moser non si raccomandava quale amministratore, sebbene io sapessi chàe la colpa della sua sventura economica non era tutta di lui: si raccomandava come tecnico; e non dubitavo che qualche industriale di Lombardia o Piemonte non tarderebbe ad approfittare dell’opera sua. L’interlocutore fece una smorfia. In conclusione, dopo la visita e l’inchiesta, potei scrivere a Claudio un modesto: «Chi sa?». Ma non potevo credere che il nome e l’offerta di Moser dovessero affrettare la costituzione della società anonima): Fabbriche di laterizi in Valrenana.

Un telegramma mi richiamava a Bologna pochi giorni di poi. Si voleva sapere da me se mai...., se nel caso poco probabile, del resto, che si componesse la società...., l’ingegner Moser avanzerebbe pretese molto alte....: quale direttore tecnico.... solo tecnico.... Una domanda quasi per semplice curiosità: senza impegno! senza impegno!

Risposi che se la intendessero con lui; e s’intenderebbero forse.... (io almeno lo credevo...., speravo....) s’intenderebbero facilmente.

Passarono alcuni altri giorni senza che sapessi più nulla in proposito; finchè una cartolina di Claudio mi annunciava che egli veniva a Bologna a concluder l’affare.

Chi l’avrebbe mai detto? Costì, di dove partii per cominciare a far soldi, ci vengo per ricominciare!

Ma io non potei andar a Bologna nè egli recarsi a Molinella; non ci vedemmo.

Altro silenzio; un silenzio tuttavia pieno di questa attesa: «verranno tutti a Bologna!» [p. 317 modifica]

Per un po’ di tempo parve invece che Claudio volesse stabilirsi a Bologna solo, ed Eugenia, Ortensia e Mino dovessero far famiglia con Guido e Marcella. Finchè Eugenia mi scrisse:


Ortensia non vuol restar lontano da suo padre. Non le importa affatto di abitare in città anche d’inverno. Aiutate Claudio a trovar una villetta per noi, in un sobborgo vicino al luogo dove Claudio avrà l’ufficio.


Feci subito ricercane un’abitazione, che convenisse, nel suburbio a destra del Reno.

E non trovai. Ma Claudio, nei pochi giorni che precorsero alla sua assunzione all’impiego, cercò e trovò: una, villa — egli mi scriveva — a poco più di un chilometro dalla fabbrica ove risiedeva l’ufficio principale. Neanche distava molto dal sobborgo, ove Mino andrebbe a scuola; ed era prossima alla ferrovia alla strada carrozzabile, alle botteghe, alla chiesa; e, quel che più importava in bella e buona posizione, quantunque in pianura, e tutta rimessa a nuovo. Sembrava l’avessero fatta a posta per lui! Si chiamava nientemeno che la Ca’ rossa!

E come Dio volle, cioè ai primi di maggio, mi fu annunciata la partenza dei Moser da Milano.

Ortensia a Bologna! Potrei vederla! rivederla di frequente!... — E Roveni? — Ah che la mia consolazione era tale da lenirmi la spina che avevo nel cuore!

Non ero esente da ogni timore, ma la mia gioia era tanta da rappresentarmi il pericolo di Roveni come sempre più dubbio.

Quando Ortensia fosse vicina a me la difenderei meglio e mi difenderei meglio!

Mi giustificava, in ciò, la passione, m’illudeva [p. 318 modifica]la speranza d’aver abbastanza sofferto per mitigare il mio destino; l’energia ricuperata mi pareva bastevole a superar il destino, se mai mi tornasse avverso!


III.


La prima domenica di maggio vidi la Ca’ Rossa nella realtà, priva della poesia con cui me l’aveva descritta Moser. Di lontano, dalla strada appariva quale una vecchia casa di campagna messa a uso di villeggiatura e ritinta, se non di rosso, di gialliccio. Vi piombai inatteso durante l’intervallo fra due corse del tram a vapore. A scorgermi dal cancello — un cancello di legno — Mino, che giuocava alle bocce con un operaio, gridò: — C’è Sivori! c’è Sivori! — ; e Claudio, che assisteva alla partita, fumando, mi corse incontro anche lui; mi furono addosso, con abbracci soffocanti.

— Un saluto in fretta.... — rispondevo a quell’aggressione gioiosa. — Ho un malato grave laggiù.... Non posso trattenermi....

— Eugenia! Ortensia! Correte!; se no, scappa! — urlava Claudio.

— C’è Sivori! Sivori! — urlava Mino correndo intorno e tornando ad abbracciarmi.

Non ci eravamo visti da tanto tempo, noi due! Com’era cresciuto, il piccolo Mino! La commozione della nostra amicizia scusava il turbamento con cui mi presentavo a Eugenia ed Ortensia.

Erano uscite per la loggia, da una camera a terreno, ove scorgevasi della biancheria distesa [p. 319 modifica]su una tavola: Eugenia con un oh! di grata meraviglia; Ortensia pallida.... Nulla dell’impeto mal represso con cui era venuta a me a Valdigorgo; era pallida, quasi stanca, e mesto il sorriso.

— Come state, Sivori?

— Sapete che non vuol restar da noi oggi? — riprendeva Claudio. Ed Eugenia e Ortensia a una voce:

— Perchè?

— Perchè, perchè un povero diavolo laggiù ha bisogno del suo permesso per andare all’altro mondo! Gli credete? a costui?

— Sì — rispose, naturalmente, Ortensia.

— Non insistiamo — disse Eugenia — , se ci promettete di tornar presto.

Avrei voluto indugiarmi a discorrere con le signore; ma Claudio mi trascinò seco.

— Andiamo dunque! presto! a dare il tuo giudizio della Ca’ Rossa, che ho scoperta io e non tu! Cominciamo, signor critico, dall’esterno.

Intanto Mino aveva ripresa la partita; e madre e figlia ci accompagnarono un tratto ma ristettero dinanzi a pochi meschini vasi di gerani al sole.

— Il panorama non è molto vario — ammetteva Claudio. A levante erano la strada e l’ingresso; a mezzodì, di là dal prato, che una siepe di biancospino in fiore limitava, si estendeva la vigna: tra questa e l’orto, spaziante a ponente e a settentrione, scendeva una carraia....

— La carraia passa da quella casupola laggiù, dove sta l’ortolano vignaiuolo: colui, là, che gioca con Mino. E la carraia prosegue sino al fiume, e di là un sentiero lungo la riva, mi conduce, in due passi, alla fabbrica. Potevo essere più fortunato di così? [p. 320 modifica]

Io osservavo il solo albero del prato: un lazzeruolo a rami nodosi e involti.

— Fronte indietro!

Claudio ora m’indicava la disposizione degli ambienti.

— A terreno, loggia, salotto, camera da desinare, cucina; di sopra, a mezzogiorno, la camera di noi vecchi; quella di Mino, a ponente; quella di Ortensia a levante; quella dei forestieri, a nord. Va bene? Passiamo all’interno!

Su la porta l’ortolano trattenne Claudio per avvertirlo di non so che cosa, ed Eugenia, ch’era rientrata con Ortensia a continuar la faccenda della biancheria, colse il momento e mi disse, con commozione:

— Sivori: non ci siamo più riveduti dopo quanto faceste per noi....

— Non ne parliamo! — risposi io, mentre lo sguardo di Ortensia mi avvolgeva.

— Ma — ribattè Eugenia — noi dobbiamo dirvi anche a voce come vi siamo grati, tutti. — E si volse alla figlia quasi meravigliata del suo silenzio.

— Tutti; per sempre! — Ortensia disse con voce viva e forte.

Gratitudine viva nel cuore per sempre: così disse; così vedevo; ma nei begli occhi non era più l’anima di una volta.

— Non è uno scalone — disse Moser entrando, in fretta come era solito, e precedendomi per la piccola scala.

Appena di sopra entrammo nella camera matrimoniale.

— Il letto, vedi, è un documento storico. Però io ci sto da papa. [p. 321 modifica]

Anche il comò era massiccio e meschino....

— Quelle, guarda son le quattro stagioni.

Alludeva alle oleografie appese alle pareti. Dalla finestra si scorgevano, oltre la vigna, filari d’alberi e campi uguali sparsi di case e le torri e le cupole della città. Invece dalla camera di Mino non si scorgeva che un lungo camino a fuso sorgente tra il verde: era quello della fabbrica.

— Mio figlio ogni mattina potrà vedermi andare al lavoro e potrà pensare che lavorare non basta.... Via, via! — aggiunse Claudio rivelandomi, se già non me ne fossi avveduto, quant’era sforzata tutta quella vivacità di parole e di umore. — Via!: ecco la camera di Ortensia.

Su la soglia ristetti; ero trattenuto da un panico segreto e indefinibile.

— Ho fatto quel che ho potuto, per accontentarla.

Il letto in ferro, nuovo: bello il comò....

Una titubanza strana mi aveva trattenuto, quasi da una violazione. A Valdigorgo non ero entrato mai nella sua camera.... E mi affacciai anche là alla finestra, che aveva di contro lo squallido lazzeruolo.

Per la strada polverosa transitavano birocce e buoi condotti al macello, che mugghiavano.

....A Valdigorgo la sua finestra vedeva nel giardino le opulenti magnolie, gli abeti snelli dai rami digradanti. e copiosi, dalle molli frange ondulanti, e i vividi colori delle aiuole penetravano tutto quel verde: s’apriva la cerchia dei monti a concedere, nella bella conca, frescura di estate e tepore in primavera e in autunno: dal cielo puro, intensamente azzurro, e da oltre quei monti [p. 322 modifica]chiamava un’ignota, immensa felicità....

— Ah! Non è la sua camera di una volta! — disse il padre chinando il capo sul petto; abbattuto a un tratto dal pensiero della felicità sognata un tempo per la sua figliola.

— Andiamo! — feci io. Ma nel passare dinanzi al comò guardai alla fotografia che vi stava sorretta da un’umile cornice e il cuore mi palpitò. Era una piccola fotografia di Valdigorgo, e sotto al cristallo aderiva, nel mezzo, una fogliolina di trifoglio.... Quella? Quella che avevamo raccolta insieme, un giorno, al fosso delle lavandaie?

Il puerile segno di memoria imperitura indicava, forse un’illusione non perita del tutto?

— Andiamo! andiamo! — ripetei vivamente.

Nella loggia c’imbattemmo in Ortensia che usciva dall’altra camera ove portava, la biancheria. Ella ristette con noi alla ringhiera e forse avvertì che io aveva avuta un’impressione gradevole.

— Bisognerà aumentare i vasi del giardino — le dissi— ; mi permetterete, Ortensia, di mandarvi dei garofani della mia massaia.

E Moser:

— Sono straordinari i garofani della Pulicreta; rossi come i bargigli di suo marito!

— Qui la massaia sono io e faremo giardiniera la mamma. Vita nuova! — mormorò Ortensia con sorriso amaro. Mentre il padre entrava nella camera di Mino, ella aggiunse: — Vita di pianura.

— Ma non vita bassa. Anche qui proverete gioie; fors’e quali non avete provate mai!

Lo sguardo di Ortensiia m’interrogò profondamente per interpretare tutto il mio pensiero; [p. 323 modifica]poi, come non mi credesse, volse gli occhi altrove. Accanto a me, così, mi pareva bella di fierezza: l’esile ma alta e proporzionata persona aveva la nobiltà del portamento che è dono divino della natura; nè alcun poeta avrebbe potuto desiderare più bella fronte e più bei capelli per far di una strofa una corona.

La fierezza che un tempo era fugace ne’ suoi occhi e ne’ suoi «voglio», pareva in lei esser divenuta, ora, abituale.

— Dev’esser molto triste la Vostra pianura, laggiù!

— Triste — risposi — ; ma d’una tristezza pacata e dolce.

Passava in quel punto il fragore di un treno: ansioso, rapido, forte, violento, e scemava; poi, subito dopo, riprendeva intenso, più veloce, e ancora diminuiva, si perdeva; eppoi ancora, per un istante, un fondo e uguale roteare metallico, e, più nulla. Dall’orto venivan voci di donne, invisibili.

— È un’impressione curiosa! — disse Ortensia. — Qui, a me, mi sembra di udire la vita come se fosse lontana, lontana, fuori di me.... Non so spiegarmi!...

Indugiò prima di aggiungere:

— Mi sembra di udirla da una tomba.

Claudio tornava; e Ortensia, chiamata dalla madre, ridiscese.

— Che te ne pare di quella bambina? A vederla così pallida mi strozzerei — disse Moser, in cui era cessato l’impeto di pocanzi. — Ma qui avrà del sole, dell’aria, del verde.... Purché non le dispiacciano questi luoghi! Tu credi che non le dispiaceranno? che tornerà bianca e rossa.... [p. 324 modifica]come lassù?

— Certo!

— Falle un po’ di predica. Vogllo vederla correre; sentirla, cantare....

Infatti egli mi lasciò ancora solo con lei alla ringhiera, appena essa ebbe riposta nella camera della madre la roba portata di sopra.

— Ortensia — le dissi francamente. — Bisogna dimenticarla e riamare la vita!

Esclamò:

— Dimenticare? Ma la mia vita è nei ricordi!

Voglio ricordare tutto il bene che ho perduto, tutto il male che ho imparato! Quando non comprendevo nulla, quand’ero una ragazza senza giudizio, godevo di essere così; ora godo d’aver sofferto e di soffrire! Non c’è anche la voluttà del dolore? Io almeno, la provo. Voi, no?

E sorrise diversamente, cercando invano di mitigare quell’acerbezza. Proseguì:

— Sivori adesso mi consiglia una cosa da nulla: amare la vita! Andiamo! ditemi voi come si fa.... Che cosa si deve fare per mettere in pratica il vostro consiglio?

— Amare! — risposi. Non avevo trovata altra risposta; e il rossore che mi corse al viso e il tremito della mia voce le dissero quanto io l’amavo ancora.

Mi fissò; vedendo che non s’ingannava chinò gli òcchi. Indi riprese:

— Sarà un destino anche questo: che non s’intendano fra loro neppure le persone più affezionate. O la colpa è sol mia? Certe volte non comprendo nemmeno mio padre. Sono cattiva! Non comprendo come mio padre possa scherzare, fingersi allegro. E la fede della mamma, la sua [p. 325 modifica]rassegnazione, la sua religione mi fa dispetto, alle volte!... Dunque sono cattiva! Ma lasciatemi come sono; non mi inasprite di più se non potete comprendere il veleno che ho nel cuore, nel sangue!

— Tu hai sofferto molto — ribattei con fermezza — ; ma il bene che noi ti vogliamo è più grande d’ogni male che hai patito; il nostro affetto ti guarirà!

Mi fissò di nuovo per un istante. Quella mia fermezza le significava più che speranza una fede sicura; e la meravigliava, la stupiva.

— Non ci comprendiamo più — mormorò.

— Perchè? — le chiesi con forza.

— Oh Sivori; una spiegazione ci farebbe tanto male!

— È necessaria!

— Non ora! non ora! — ripetè con voce dolente, quasi pregando.

E si mosse.

Scendemmo.

A basso, sul punto di partire, volli che Claudio mi promettesse di venire a Molinella.

— Vi voglio là tutti, un giorno.

— Te lo promettiamo — ripeteva Claudio. — Credi non abbia voglia, io, di far un’improvvisata al Biondo e alla sua signora?

Eugenia sorrideva; per lei, che ci verrebbe, garantiva Mino saltandomi al collo.

E Ortensia mi die la mano. Fredda!... Ma nei suoi occhi non era più asprezza; la sua voce fu dolce salutandomi:

— A rivederci, Sivori! [p. 326 modifica]


IV.


Uscendo ai sole dai tuguri ove i malati gemevano o deliravano, ani pareva di gettarmi in un bagno che mi purificasse e ravvivasse d’un tratto. Più: certe volte la vita esterna mi colpiva con tal forza che ricevevo un’impressione quasi dolorosa, quasi di una ferita troppo presto esposta a un calore forte e improvviso.

Comprendevo ora come effetto d’una stessa necessità il fervore che agitava le messi sempre più rigogliose, che moveva i ragazzi e i vitelli a correre e a ruzzare nei prati e la vecchia Rita a cantare con la stessa anima dei passeri affaccendati intorno al tetto della mia casa. Nè io mi ritraevo più da quel fervore, non sfuggivo più a quella necessita; e mi chiedevo quante primavere resterebbero ancora ai miei sensi; e avvertivo in me un egoismo profondo e buono perchè naturale.

Ma abbandonandomi in questo sentivo che gran parte di me stesso mancava ancora a me stesso: sentivo che felicità mi era possibile e che felicità mi rapiva, mi strappava, divisa da me, Ortensia. La sete d’amore in quei momenti mi esasperava.

Se allora avessi avuto dinanzi a me Ortensia e mi avesse convinto che essa non mi amerebbe mai più, che io non saprei mai più ridestarla al mio amore.... che. avrei fatto?

Chi mi aveva condotto ad amarla in tal modo?

Lei! Lei mi aveva ridata la vita; per lei [p. 327 modifica]rivivevo così! Quale ragione, qual fatto, qual mistero o destino le dava il diritto dì ricacciarmi in una miseria peggiore della morte? Perchè ora non ci comprendevamo più? Non comprendeva Ortensia, la mia passione?

Passione che mi tribolava da tre anni; che costringeva un uomo di ormai quarant’anni a invocar la felicità, a chiamar lei, Ortensia, per nome come un ragazzo innamorato!

E in quelle tiepide notti di maggio, sotto il cielo stellato e la prima luna.... (perchè non era meco?).... io piansi.

Frattanto il Biondo e la Rita, avendo appreso che Moser era a Bologna con la famiglia, non mi davan più tregua. E: — Quando viene dunque a trovarci il signor Claudio? — E: — Verrà con la sposa, con i figlioli? — E: — Verrà anche la figliuola? Abbiamo tanta, voglia di vederla!

Scrissi a Claudio che non potevo per allora tornar alla Ca’ Rossa; che anzi non vi andrei più se prima non venissero loro a Molinella. Claudio finalmente mi annunciò la gita per il primo giorno che avrebbe un po’ di vacanza.

La domenica prossima? [p. 328 modifica]

V.


La sera dì quello stesso giorno che mi consolò la lettera di Moser, il caso (sempre il caso?) mi volle solo spettatore d’un fatto che restò quale orribile episodio di miseria e di sventura nella storia del mio paese. Lo narro perchè io, atterrito un tempo dal pensiero della morte, fin da esso derivai argomento d’esaltare la vita.

Ero tornato a casa da qualche ora e fumavo alla finestra della mia camera. Dalla luna quasi colma pioveva sul mondo una luce di letizia.

Mi giungeva il cricrire copioso e vasto dei grilli e il gracidare delle rane e il canto dei birocciai, dalla via maestra:

                    Guarda la bella notte e il bel sereno!
                         Quest’è una notte da rubar le donne:
                         Chi ruba donne non si chiama ladro;
                         Si chiama giovinetto innamorato....;

ma al di sopra e al di là di quelle voci era l’immenso sensibile silenzio della notte feconda, quando la natura raccoglie e rinfranca in segreto le sue molteplici forze e si prepara alle più rigogliose espansioni.

Improvvisamente, da sotto la finestra, il Biondo mi chiamò:

— Signor dottore!

— Che volete?

— C’è qui giù la Tisa dello Zingaro, che ha suo marito che sta male.

Bisognò discendere. E venne innanzi l’ombra [p. 329 modifica]della donna. Aveva due bambini, uno a destra e l’altro a sinistra; (entrambi divoravano il pane che loro aveva dato il Biondo. Il più grandicello, trattenendosi, porse il crostino alla madre e con un accento di meraviglia più che di gioia, esclamò:

— Mamma del panie!

Non sapeva credere che mangiava proprio del pane.

Senza badargli la donna, timida, mi rispondeva che suo marito aveva una gran febbre e pareva diventato matto.

Al solito: era tifo. Scrissi una ricetta e la consegnai al Biondo; poi dissi: — Andiamo!

Lo Zingaro, così soprannominato per il colore del viso e per la miseria, era un risaiolo che abitava in una lurida capanna presso il serbatoio della risaia.

A quella volta, io andavo innanzi, con la donna dietro: sola; i bambini affamati e assonnati li aveva lasciati al Biondo e alla Rita.

La donna raccontava:

— Tornò l’altra sera dal Traghetto....

— Cos’era andato a farvi?

— In prestito, signore, di un poco di farina gialla. Non avevamo più niente da mangiare; e qui nessuno ci fa credito, signore.

— Avrà bevuto dell’acqua laggiù.... Non lo sapete che è l’acqua che avvelena?

Forse la donna aveva tale speranza nel mio aiuto da esserne rianimata; o forse era in uno stato d’orgasmo, perchè mi rispose ridendo:

— Eh! lo credo anch’io che sarebbe meglio ber del vino!

Continuò: [p. 330 modifica]

— Quando fu a casa, e io facevo la polenta, cominciò a lamentarsi dal freddo, che per quanto fuoco mi facessi non si poteva riscaldare; e si mise a letto. In tutto ieri non volle mangiare. Ma questa sera mi sono preso paura; fa dei discorsi da matto.

Dopo ch’ella tacque, le chiesi se aveva solo quei due, figlioli.

— Ah! ne ho un altro di cinque mesi. L’ho lasciato a casa per far più presto. Dormiva.

Andavamo frettolosi; io ero incitato dalla donna che mi veniva dietro, quantunque ella tacesse e camminasse scalza. E volgevo il pensiero al disgraziato in preda alla febbre.

Se moriva, la poveretta era condannata all’elemosina. Ma la mia mente non poteva insistere in quella tristezza; invano il sentiero era oscurato ad ogni tratto dai pioppi, dalle acacie e dai giunchi: trapassando i rami e le fronde la luna, di là, pareva più fulgida, e nel chiarore diffuso sopra e intorno a mie fluiva quella pacata letizia l’illusione di una felicità tranquilla e uguale, per sempre.

Ortensia! Ortensia!

....Finchè tornai a riflettere, quasi rimorso, all’ufficio che dovevo compiere; e solo allora pensai che poteva essermi necessario un lenzuolo, per un impacco.

Chiesi alla donna:

— Un lenzuolo l’avete?

— Oh, signore! Dove vuol che l’abbiamo un lenzuolo? Sono tre anni che non ne ho più uno! Io stavo per dirle:

— Tornate indietro a prenderlo, a casa mia quando la donna fece: [p. 331 modifica]

— Cos’è là? — Tendeva la mano.

Un bagliore: dietro i pioppi che separavano il campo dalla risaia. Un biagliore d’incendio.

Che cosa poteva essere? Che cosa bruciava? Non era stagione da bruciar stoppie o rovi nei campi. Una cascina? una casa? Ma non ce n’erano da quella parte, non ce n’erano così vicine!... Il «capanno».... dello Zingaro?

— Brucia il capanno! — urlò la donna urtandomi, precedendomi, correndo.... Una furia; e gridava, forsennata, il nome del marito; invocava Dio, invocava aiuto. Le sue strida di «aiuto» trafiggevano quel silenzio atroce, quella serenità divenuta subitamente spaventosa.

Era vero: bruciava il capanno!

Muto, con lo sguardo teso al bagliore e alla distanza da superare, correvo io pure, e nell’approssimare mi pareva di scorgere l’ombra dell’uomo in delirio che agitasse le vampe dentro un cumulo denso e fondo. Era in salvo, l’infermo? O.... bruciava anche lui? Correvamo. E.... — il sangue mi si gelò nelle vene — : non mi aveva detto quella sciagurata che aveva lasciato a casa il figliolo più piccolo? «Dormiva».

Infatti chiamando aiuto, chiamando il marito quasi potesse udirla, essa teneva come sospese quelle terribili grida su di un grido che non osava gettare.... Oh tutto ciò straziava il cuore; gravava, enorme peso, sul capo!... Correvamo, correvamo.

Vicini, ormai: la donna tacque. Ad ogni nostro passo innanzi l’incendio, così luminoso di lontano, affoscava; le lamie rossastre tagliavano la fumana prorompendo dalla piccola finestra dalla porta, alzandosi sul culmine. [p. 332 modifica]

Era un soffoco di fumo greve, un tanfo di canne abbruciacchiate. E non una voce....; nessuno!

Morii?... Fossero almeno morti, prima...., d’asfissia!

Ah no!

Dio! Dio!... no; un vlgito! là! Dinanzi all’uscio, era; in un involto di cenci! Là era il bambino! Lo raccolse, la madre; riebbe la voce: un grido di gioia sovrumana: — El mi ragazzól! — mentre là dentro.... Nessuna altra voce!; muto, anche l’incendio.

D’impeto, senza coscienza del pericolo, avanzai alla porticella: ma fui respinto dal fumo infuocato, come per l’urto a una parete solida. Ritentai (la donna urlava adesso il nome del marito, strappava l’anima). Dovetti ritrarmi, appena in tempo! Con fracasso il tetto precipitò; l’abituro si sfasciò in una rovina fiammeggiante e fumante....

Non so dire in che modo urlava e che diceva quella donna frenetica col bambino in braccio; non posso ricercare quello che io provassi allora assistendo al fumare della rovina; a immaginare il corpo umano che si era contorto nelle fiamme; a comprendere la verità....

Compresi la verità a poco a poco. Un istinto di generosità paterna, l’amor di padre aveva spinto quell’uomo delirante a mettere là in salvo, dalla sua disperazione, la piccola creatura; poi, con mostruosa demenza egli aveva dato fine al male che lo affannava, aveva dato fuoco alla sua intollerabile miseria. [p. 333 modifica]

VI.


Al raccapriccio seguì tosto in me una commozione paragonabile a quella che proverebbe un credente nella subitanea rivelazione della divinità. Prevalse in mie alla visione orribile dell’incendio e della donna pazza per dolore e angoscia, l’immagine stupenda della madre che nel raccogliere salvo il suo bambino m’era sembrata impazzire di felicità; e più che la pietà del miserabile, perito orrendamente, poteva in me l’ammirazione per la forza arcana e portentosa che aveva costretto il misero padre ad esentare dalla distruzione la creatura del suo sangue. Mai, per nessun fatto che esaltasse l’amor di padre o di madre, mai io ero rimasto commosso in tal modo: una luce che non era di scienza mi illuminava ora il mistero della vita; e la ragione delle sue leggi imprescindibili e la ragione della morte mi si manifestava d’un tratto nella rivelazione del bene sommo conceduto ai viventi. Quanto affetto aveva condotto quell’uomo spietato verso sé stesso ad aver pietà del suo nato! Quanto affetto aveva sollevato la misera donna a dimenticar fino il padre dei suoi figli, che bruciava là sotto, perchè ella gioisse così, nell’istante che ricuperava il suo figliolo! Quale gaudio sublime è negato dunque a chi si rifiuta alla procreazione? che è mai la morte se non il mezzo a trasmettere questo, il maggior gaudio dell’esistenza?

Invece di dire: «la morte è necessaria a propagare la vita» si dovrebbe dine (io pensavo): la [p. 334 modifica]morte è necessaria a propagare la felicità dell’esistenza e la felicità si attinge soltanto nella procreazione.

A consolare gli uomini privati d’ogni fede la filosofia moderna ha detto loro: «La morte non esiste perchè la vita è continuo rinnovamento e continua trasformazione» .

Invece io pensavo: «La morte esiste, ma il più gran dolore che la morte può dare è nulla in confronto alla più gran gioia che dà la vita, e la più gran gioia della vita è nell’amore per le creature della nostra vita».

Ed io a quarant’anni, nella virilità piena, ignoravo quest’amore così grande che oltrepassa la capacità della vita individua; così grande da render riguardoso della vita l’uomo che con frenesia feroce la troncava in se stesso!

Un desiderio nuovo penetrava ora la mia passione, la rischiarava del tutto; m’infondeva un senso di vitalità potente: proverei le gioie dell’amore paterno; Ortensia sarebbe la madre della mia prole!

E per un contrasto men strano forse che naturale la memoria di mia madre, in quei giorni, mi accompagnava nei noti luoghi più viva che mai.


VII.


Avevo predisposti il Biondo e sua moglie alla visita che m’aspettavo ma avevo anche raccomandato loro di non far troppi preparativi e di fingersi ignari, per lasciar a Claudio il piacere dell’improvvisata. [p. 335 modifica]

La domenica, al giungere del secondo treno del mattino, il vecchio indossò la giacca da festa e calcò in capo la berretta nuova; la vecchierella, ben pettinata e tutta nitida, si strinse intorno al collo un fazzoletto di seta rossa che su l’invernale gabbano di flanella a scacchi e sotto il candor dei capelli dava segno di primavera e d’allegrezza; ed entrambi s’appiattarono in casa ad attendere, palpitando. Io guardavo di fuori, dal prato.

Ahimè! Il treno giunse; ristette; ripartì; e l’attesa fu vana.

Proteste e brontolio della Rita, che aveva fatto sin la torta! Ma il Biondo ripeteva:

— Volete scommettere che vengono con la corsa delle tre e mezza?

Ci colse. Poco dopo che fu passato quel treno, eccoli spuntare.

Ma non tutti: soli Claudio e Ortensia.

Andai alla loro volta. Moser più spontaneamente lieto di quel che non fosse stato da un pezzo, sbraitava:

— È un’ora che ti chiamo! Ho cominciato a chiamarti dalla stazione! Sei diventato sordo?

E Ortensia:

— Il babbo, se non ero io a trattenerlo, si metteva di gran corsa....

— Ma è l’ora questa?... — io dicevo. — E Eugenia e Mino?

Rispondevano insieme:

— Mino non ha meritato la vacanza....

— Non ha imparato la costituzione di Servio Tullio!

— La mamma ha dovuto restare a casa a far la guardia.... [p. 336 modifica]

— Ohe! Biondo! Pulicreta! Siete ancora al mondo? — urlava Moser.

Mormorava Ortensia.... (Come bella!... Vestita di chiaro; un po’ riscaldata in viso; e si levò l’ampio cappello, e il sole la irradiò):

— Il maestro ha riferito al babbo che Mino non ha voglia di studiare e che non passerà all’esame.... Non è da compatire? Ha sofferto anche lui; ora si distrae. Il babbo questa volta è stato inflessibile.... Ma — chiese forte — perchè dite che non è aria buona quaggiù?

— In primavera....

— L’aria! — m’interruppe Moser, — L’aria, sì, è sempre quella: un po’ pigra; ma buona anche qui, perchè, grazie a Dio, siamo in Italia! Il resto, bambina mia, è mutato. Tutto mutato.... Non vedi? Io non riconosco più nulla: mi sembra tutto vecchio!; fino quegli olmi giovani là mi sembrano decrepiti.

Non pensava che invecchiato era lui.

— Anche la casa è sempre quella, dici tu, Sivori? Ammetto: «Salve, dimora casta e pura!» Ma intanto il Biondo non c’è! la Pulicreta non si vede! Bisogna cantare, invece, il De profundis?... Ohe, Rita detta Pulicreta! Ohe tu che fosti il Biondo! Venite! Sorgete! Fuori!

E come Lazzaro all’imposizione di risorgere, il Biondo mosse la testa fuor della porta, poi uscì del tutto con la berretta in mano, inchinandosi al forestiere che fingeva di non conoscere. Moser rimase fermo, a bocca aperta.

Diceva il Biondo:

— Io lo ravviso...., questo signore...., e non mi posso ricordare.... Corpo....! Direi che ravviso anche quella signorina lì; e sono certo, certissimo di non averla mai vistai Certissimo! [p. 337 modifica]

Ma Claudio assalì il vecchio mentre faceva tal meditazione con le palpebre basse e l’obbligò a scoprir le pupille:

— Sei tu davvero?! il Biondo?!

— Ma è lei?!... Claudio! Ah corpo!... il signor Claudio! Rita! Rita! Venite a vedere chi c’è! II signor Claudio! il cacciatore! l’amico del signor Carlo....; — e intanto Moser per poco non 1e schiacciava abbracciandolo.

Ortensia sorrideva. Rise alla seconda scena, quando comparve la donna.

— Oh Vergine Santissima!: il signor Claudio!

— Oh Vergine Pulicreta!, come siete vecchia! Qua che vi abbracci anche voi.... — E staccandosi da lei: — Una bella vecchietta, però! Camperemo cent’anni, noi due!... Evviva!

E lei a ripetere: — Oh che matto! che matto!

Indi i complimenti alla signorina:

— Me ne rallegro tanto di vederla così bella! La mamma cosa fa? Sta bene?

— Su, presto! Dammi lo schioppo! Due colpi, prima d’andar in paese a trovar le vecchie conoscenze.

— Ma non si può, signor Claudio! È tempo proibito, adesso! — avvertiva il vecchio.

— Dammi il «catenaccio» ti dico!

Il Biondo dovè portargli lo schioppo secolare, che Claudio chiamava il «catenaccio».

Caricandolo — prima la polvere; poi la stoppa; poi i pallini, e ancora stoppa — Moser brontolava:

— Questo almeno non è invecchiato!

— Badi, signor Claudio, che ci sono i carabinieri; il delegato può credere che siano schioppettate di socialisti! — ammoniva ancora il Biondo. — Ai tempi che corrono.... [p. 338 modifica]

E io:

— Ti proibisco di tirare alle rondini!

Ne accennai il nido ad Ortensia.

— No! babbo! sii buono! — pregò essa con pietà che parve improvvisamente ridestata in lei.

— Hanno il nido!

— Lasciatemi fare! I rondoni sono scapoli!

E sparò contro una rondine, s’intende, senza colpirla.

Dopo che la colazione fu divenuta merenda e mentre Claudio e il vecchio s’incamminavano verso il paese, io e Ortensia prendemmo il sentiero più breve per giungere alla risaia. Ortensia non aveva notizia della sciagura dello Zingaro; nondimeno evitai la parte ov’era stato il «capanno» e la condussi a costa della landa, di dove più spaziava lo sguardo. Ella guardava, con poche parole: io godevo che lo splendore del giorno le penetrasse nello spirito. Mai più chiaro cielo; mai aria più aulente e quieta; mai più vivaci fiori nell’aperta piana, in cui il fieno maturava per la seconda falciatura.

La varietà dei colori assorgeva concorde dal verde come quella delle voci in una sinfonia meravigliosa: giallo di stelline, crocifere e ranuncoli; lilla di porrette; viola di morette, castagnole e salvie; bianco di magnugole e nigelle, ravizzi e narcisi; rosa di ginestrine, lupinella e trifoglio; rosso di serpillo, sorbastrella e papaveri; porpora di graziole; cilestre e azzurro di giacinti e fiordalisi, di poligole e bugiasse....; e margherite da per tutto! Quante!

Di tratto in tratto Ortensia si chinava a spiccare un fiordaliso, o un garofano, o un geranio campestre. Poscia tendendo la mano esclamò: [p. 339 modifica]

— Oh gettarsi là, in mezzo; a correre e cantare!...

— Va! — dissi io.

Ella sorrise triste:

— Non si può, senza calpestare.

Timidamente, nei tardi passi, io avvertivo che il suo sguardo era pieno di ricordi. Ma il suo sguardo era triste, mentre in me pareva approfondirsi la coscienza dello spirito, estendersi la capacità vitale d’ogni senso, vibrare ogni minima forza a una sconosciuta armonia. Che giorno!

Rapiva una letizia lieve quasi di sogno eppure tenace e valida; era un’illusione suscitata e mantenuta dalla divina realtà intorno; un vago desiderio, continuo, di continuo esaudito nel fluire degli attimi; e più che la promessa della semplice felicità umana, ferveva nel sole, nell’aria, nella terra palpitante di fecondità, una felicità certa e immnanente, naturale e sublime.

Ma Ortensia era triste....

Giungemmo all’argine. Quasi per frenare una sensazione troppo forte, essa teneva la mano contro il cuore: attese prima di salire e disse: — Qui l’aria mi sembra più greve.

— Anche pochi passi — diss’io — e saremo al serbatoio.

Di su l’argine mi domandò perchè la risaia era così divisa, in tanti quadri.

Risposi:

— Perchè il vento non agiti l’acqua e l’acqua non rompa le pianticelle ancora tenere.

— Ma dell’acqua ce n’è poca!

— L’acqua è ancora fredda, e, al contrario, la prima messe del riso ha bisogno di caldo.

Eran dimande e risposte che protraevano altre dimande e altre risposte. Io aggiunsi: [p. 340 modifica]

— V’immaginate la vita delle risaiole a strappare, a una ad una, le piante maligne, con l’acqua alle ginocchia, i piedi nel fango e il sole che batte sulla schiena?

— Disgraziate anche loro! — E accennando:

— Quegli alberi là?

— Sono i salici del serbatoio. Andiamo!

In breve fummo al luogo d’imbarco; lo schifo era legato a un piuolo....

— Mi fido poco io, di voi! — fece Ortensia per un istante eccitata dalla novità.

— Alla prova! — esclamai io sostenendola all’entrar nella barca; e sciolsi la corda.

Ai primi colpi di remo, ella fu persuasa della mia valentia.

— Bravo! — Poscia guardando intorno mormorò quasi vinta: — Bello!

Infatti anche l’acqua sembrava riposare e godere in distesa azzurra, chiazzata qua e là dal verde delle ninfee e sparsa di macchie, or scarse or copiose in cannucce e giunchi, e chiusa all’ingiro dalle sponde ombrose di salici; mentre la barca procedeva piano piano, soavemente, per quella frescura.

Canerini di valle s’elevavano con un vocìo sottile, così lieto da crederlo non voci di paura ma di più viva gioia nel volo.

Finchè la barca trovò adito in mezzo alla macchia più folta e ristette dove l’acqua, bruna bruna sotto l’ombra rivelava un brivido, al rezzo.

Udimmo uno sparnazzar d’anitre e di folaghe; poi, silenzio.

— Restiamo un poco? — io domandai.

— Sì.

D’improvviso, Ortensia esclamò: — Avete sentito? [p. 341 modifica]

Dopo un fruscio d’ali e di fronde udimmo un richiamo.

Io allora feci avanzare la barca perchè ella rimovesse le fronde. E gettò un grido di meraviglia.

Un nido di folaghe....

Ma era giunta, finalmente, l’ora. Ella lo sentiva; io ebbi un tumultuoso risveglio di tutto il passato: propositi, prove di abnegazione, battaglie; vittorie angosciose; angosce di lontananza; tormenti di gelosia; rimorsi; disperazioni; speranze; tutto, tutto sarebbe stato inutile se io in quell’ora non avessi vinto!

Abbandonati i remi afferrai la destra di Ortensia; la interrogai a lungo con lo sguardo prima di parlare.

Ella sostenendo il mio sguardo aspettò le parole che non poteva più evitare.

— E la spiegazione?

Arrossì. Chiese, risoluta:

— Volete soffrire? farmi soffrire? Ebbene, son pronta! Dite dunque, dite! Che cosa volete sapere da me?

— Perchè siete così mutata con me? Perchè mi guardate con diffidenza? Perchè non vedo più nei vostri occhi la luce d’un tempo? Perchè, Ortensia, mi hai detto che non ci comprendiamo più e non comprendi tutto il bene che io ti voglio?

Stringevo la sua mano con tremito convulso. Nella mia attesa doveva trasparire il timore d’una grande speranza che stia per mancare, di una disperazione forse che stia per prorompere: ella ritrasse la destra, la passò su la fronte come a diradare e schiarire una folla d’idee confuse; poi, pallida, ma con voce più ferma della mia: [p. 342 modifica]

— Sono mutata: è vero; ma non solo con voi, con tutti! Vi guardo così, come dite, perchè vi temo.

— Che male...? — Volevo dire che male potevo farle ancora.

M’interruppe:

— Vi temo perchè v’Illudete e la vostra illusione ci renderà più infelici tutti e due. Sì: non ci comprendiamo più. V’illudete! Credete che io possa tornare quella di una volta.... È impossibile! Riflettiamo, Sivori: che ero io una volta? Sciocca, ero. Dopo che la mamma fu guarita — vi ricordate? — mi poneva che avessero creato il mondo apposta per me, per la mia felicità. Quella mia spensieratezza, quella mia gaiezza vi fece vedere in me una ragazza diversa dalle altre.... Ma v’ingannaste: ero una cervellina come tante altre. Solo, avevo molto cuore. Voi mi attribuiste più intelligenza di quella che avevo e non conosceste il cuore che avevo: da qui tutto il male.

— Ah no! Se non avessi conosciuto il tuo cuore non avrei sofferto tanto; non ti avrei amata così! Tutto il male fu nel mio amore che non seppi nascondere; questa fu la mia colpa! Ma l’ho scontata.... Ortensia, Ortensia! Quanto soffrire! Se io fossi stato più forte, se non ti avessi indotta ad amarmi, la passione non avrebbe fatto cattivo un uomo che forse non era cattivo; non dovrei incolparmi della rovina di tuo padre....

— Non è vero....

— ....e tu forse.... — almeno io lo desiderai allontanandomi da te.... — tu saresti stata felice!

Ella appuntò l’indice della sinistra verso i miei occhi. [p. 343 modifica]

— Vedete? Ecco come mi avete conosciuta! Pensate anche adesso che io avrei potuto amare un altro come amai voi! Anche adesso ignorate il bene che vi ho voluto.... È una crudeltà! un’offesa! Mi difendo, ora! Dovete sapere tutto il male che mi avete fatto!

Sempre più concitata e pallida riprese:

— Sentite! Vi amavo fin da bambina! Per quello che udivo dire di voi da mio padre, da mia madre, vi avrei amato anche se non vi avessi mai visto; ma vi conoscevo. Ragazzetta, quando si parlava d’amori e di nozze, dicevo: «Voglio sposar Sivori». A diciassette anni, quando v’aspettavamo a Valdigorgo, dicevo: «Sono grande! sono una ragazza!, ma non voglio pensare a nessun altro che a Sivori, voglio pensare sempre a lui. Nessuna donna potrà mai dirgli, a Sivori, quel che gli dirò io un giorno: ho pensato sempre a voi; non ho mai pensato che a voi!» Veniste. Eravate così triste; infelice, malcontento di tutto. E mi diceste se volevo essere io la vostra sorella. Sorella! Avevo udito dirvi che bene sarebbe stato per voi quest’affetto; e mi parve una cosa sublime. Fui felice a scorgere il bene che vi facevo. Ma ero tanto inesperta! A poco a poco il mio affetto mutava, diveniva quale doveva essere, come era prima, ma più grande, molto più grande! E mi accorsi che anche voi mi amavate di più, in un altro modo. Oh allora! Il mio amore, diventò così grande che il bene di una sorella era nulla al confronto, era uno scherzo; un amore così grande che m’impauriva. Io vi amavo in modo che mentre sembravo così coraggiosa non osavo parlarvi, molte volte! molte volte tardavo a cercare di voi e avrei voluto [p. 344 modifica]nascondermi; e non potevo più vivere senza vedervi. Era un amore in cui entravano molte fanciullaggini, molte sciocchezze, forse; ma in cui c’era anche dell’orgoglio, della fede. Non pensavo più che poteste sposarmi: ve lo giuro! Mi bastava sapere che voi mi amavate. Non so esprimere quel che provavo: c’era in me una vita diversa, più forte.... Io, tanto inesperta, ingelosivo del vostro passato, io dubitai di non amarvi abbastanza! Così vi amavo! E mi abbandonaste! Non aveste pietà di me.... Speravate che io vi dimenticassi?

Il martirio cominciò invece con la vostra partenza! Non trovavo ragione del vostro abbandono. Le parole che mi diceste di ritorno dalla messa erano state un pretesto.... Come potevate credere, voi, che io potessi amare un altro? Un pretesto! Forse voi non volevate per moglie una giovinetta? Ma voi mi amavate: l’avevo visto! Il nostro amore, l’amore come io lo pensavo non doveva avere paure o riguardi: era un pretesto anche la differenza d’età! Perchè dunque? Voi nascondevate il vostro amore ai miei; pareva un delitto.... Ebbi un dubbio....

— Quale? — domandai ansioso, con un brivido nelle vene. (Non era forse, un dubbio suscitato dalla calunnia di Anna: che io fossi stato l’amante di sua madre?...)

— Dubitai aveste, lontano, una donna amata.... Mi sarei uccisa di rabbia; ma anche questo sospetto cadde. Il mio amore era superiore a tutto; doveva essere il solo, il vero amore anche per voi; e avrebbe dovuto infrangere ogni vincolo. Ridete! Mi appigliai a un’idea stupida: che mi aveste messo alla prova.... Mia madre si maritò a diciott’anni; quando io avrei la stessa età, [p. 345 modifica]sareste tornato per chiedermi ai miei in isposa. Pazza addirittura: vi aspettavo per il dì del mio compleanno! In questa speranza avevo ore di tal gioia, di tal fede che mi pareva di essere felice come da bambina. Ma queste furon poche ore; quante ore invece furono atroci!

A questo punto Ortensia passò di nuovo la mano su la fronte e disse:

— No. Son cose che non posso, non debbo confessarvi!

— Parla! — gridai io riafferrandole la mano e dimostrando con che passione l’ascoltavo. — Debbo saper tutto il male che t’ho fatto!

— Ma non tutto il male che m’han fatto gli altri.

Col brivido di pocanzi insistetti:

— Gli altri: chi? Anna Melvi? L’ho immaginata la sua perfidia.... Parla; di’ tutto!... Voglio saper tutto!

— No! — ripetè. — La perfidia di Anna aveva, del resto, lo stesso motivo del mio dolore, della mia disperazione. Anche per lei c’era un mistero. Perchè mi abbandonaste?

Gli occhi d’Ortensia mi fissavano con intensità.

Vedevo orrore nelle sue rimembranze le pensai ch’ella mi rinnovasse quella dimanda, conoscendo interamente la malignità di Anna. La fissai a mia, volta, e adagio, con voce divenuta sicura, e con la forza della coscienza le dissi:

— Ortensia! Io sono un miserabile risorto alla vita. Ma non si risorge alla vita senza riacquistare una fede. Almeno questo credo: che mia madre non sia morta del tutto. Il suo spirito aleggia forse intorno a noi. Ella forse mi ode. Ebbene: per l’anima di mia madre che io [p. 346 modifica]credo m’accompagni oggi teco, come in un consenso d’amore, per l’anima di mia madre io ti giuro, Ortensia che t’abbandonai solo perchè il mio amore non ti rendesse infelice, perchè tu fossi un giorno sposa felice d’un altro!

Un sorriso o uno spasimo prevenne su le labbra di Ortensia, queste altre parole:

— Nè io nè Anna potevamo credere a tanta generosità, a una rinuncia per beneficenza! Io avevo desiderato di morire.... Avevo messo l’amore a pari della morte: non potevo metterlo a pari dell’interesse! E Anna.... Oh Anna spiegava le cose dal punto di vista della sua bassezza.... — Così dicendo chinò il viso e si strinse convulsamente le mani, per frenarsi. Ma non potè non soggiungere: — Io non l’ascoltavo, Anna; però l’udivo e le sue parole eran veleno che m’entrava nel sangue.... Voi credete d’avere indovinato qualcuna delle sue insinuazioni? Che! furono piccoli morsi, soltanto, nei primi mesi. Dopo, diventarono ferite che mi squarciarono il cuore.

Tacendo di nuovo Ortensia accrebbe in me l’impressione del suo strazio.

Ma d’un tratto, con l’eccitazione a cui già l’avevo vista abbandonarsi a Valdigorgo, proruppe:

— Sì: avete ragione! Dovete saper tutto! Il vostro giuramento accresce i miei rimorsi, ma c’è la vostra parte di colpa da chiarire! Anna — sentite — mi diceva: «Sivori ti ha abbandonata?» Non le rispondevo; scuotevo le spalle. Essa sorrideva. Eppoi, dopo qualche tempo: «Sivori è rimasto fedele a qualche antica fiamma». Il mio interrogarla, conoscere la verità a prezzo del mio stesso dubbio! E che ne sapeva lei? Avrei voluto [p. 347 modifica]sangue; e tacqui sempre. Essa lasciò passare qualche tempo, eppoi: «Hai finalmente scoperto il mistero?» O mi compiangeva ridendo: «Povera bambina!» Finche disse: «Hai scoperto che l’antica fiamma di Sivori non è a Berlino?», e disse questo in un modo, in un modo.... Alludeva a persona vicina a persona che io conoscevo. A chi? a chi? Un’«antica fiamma».... Ah un pensiero orribile mi attraversò la mente! Non volli più vederla, colei, perchè ogni sua parola mi richiamava quell’idea orribile.... Mi accordai con Marcella per allontanare Anna da casa nostra. Ma incominciò la lotta che doveva durare non solo giorni; dei mesi! Pensavo: Sivori dice che il mondo è fango. C’è tanta cattiveria al mondo che Anna forse....

s’è intesa d’infamare mia madre! È impossibile! Chi non conosce che donna è mia madre? Con tutta l’anima respingevo il sospetto...., il solo sospetto che si potesse infamar mia madre. Capite? Questo solo sospetto! Ed era nulla! Temei, sperai impazzire perchè una voce diabolica mi suggeriva tutto quello che dicevate voi, esperto del mondo: al mondo tutto è brutto; tutto è finzione, menzogna! Ma se questo era vero.... Ecco, Sivori, a che fui condotta! Orribile! Era un’idea che mi balenava coi ricordi del vostro pessimismo, della vostra sfiducia di tutto e di tutti. «Se il mondo è fango.... non potrebbe esser vero.... quel che sembra dir Anna?» Che martirio! Se mia madre avesse visto, allora il mio martirio! Ma l’idea assurda, atroce dava la spiegazione del mistero: «Ecco perchè Sivori m’ha abbandonata!» Quante volte mi gettai nelle braccia della mamma per accarezzarla, per sentire il suo cuore, che mi perdonasse! E quante volte vi avrei scritto: — [p. 348 modifica]Carlo! impazzisco.... Tornate!... — Mi pareva che al solo vedervi mi sarei purificata l’anima e vi avrei perdonato tutto il male che mi avevate fatto, tutto il male che mi avevate insegnato!

Non resse più oltre; nascosto il viso con le palme, Ortensia singhiozzò. Io la pregavo, la scongiuravo di perdonarmi; non potevo dir altro: — Perdonami.

Ma furon pochi istanti; senza badarmi, volle pur dire come nel suo cuore aveva salvata la virtù di sua madre.

— Lottai; vinsi. Mi svegliai dal sogno. Avevo sognato che la vita, brutta per tutti, sarebbe stata bella per noi, per il nostro amore. In realtà, voi non mi avevate amata; mi eravate affezionato soltanto: sorellina! Non era stato dunque un abbandono, una fuga: era stata semplicemente una partenza, la vostra. E la malignità di Anna non aveva altro scopo che affliggermi per la simpatia che mi dimostrava Roveni. In realtà, io ero stata malata, ero malata; ma guarirei. Povera mamma! Una santa! Però dovevo imparare anch’io a stare al mondo! Non dovevo toglier subito ogni speranza a Roveni; e cercai di sopportare le sue maniere; di vincere l’antipatia che a poco a poco suscitava in me. Ma quando tentò d’imporsi con le minacce, quando tentò di profanare il segreto dell’anima mia, gli risposi no! Ricaddi; lottai di nuovo; dubitai di non guarire mai più e invocai una sventura. La desideravo per sottrarmi a quel martirio; per avere un dolore diverso.... Vi ho amato?

— Povera Ortensia! — io mormorai, con un nodo alla gola.

— La sventura venne. Voi tornaste. E io vinsi [p. 349 modifica]ancora: con la coscienza tranquilla potei chiamarvi fratello.... Non avreste dovuto esser altro per me; non sareste più altro. Così avevate voluto voi un giorno, così vi ripetei. Lo stesso vi ripeto oggi.... Dunque che pretendete?

— Che tu mi perdoni.....

— Vi ho già perdonato.

— Non mi basta!

— Io ho per voi la gratitudine dì una sorella che vi deve più della sua vita!

— Non mi basta! — gridai affannoso, fuori di me. — Non mi basta perchè io t’amo come tu mi amavi un tempo; e tu devi amarmi come io ti amo! Per il mio amore devi amarmi; per tutto quello che m’hai fatto soffrire, e non sai; per tutto quello che t’ho fatto soffrire! Devi amarmi per queste lagrime; per le ferite che m’hai inferte oggi; per la debolezza che un tempo mi faceva temiere e desiderare la morte e per la forza con cui oggi ti chiamo alla vita! Io debbo la vita a te; ma tu non hai il diritto di togliermela: me l’hai data non solo a prezzo d’amore, ma di dolore! Quando l’esistenza m’era divenuta un peso inutile, per te riacquistai la facoltà di amare; ma appresi anche che c’è qualche cosa di più alto dell’amore: il dolore. Mi sollevò il dolore; mi diede forza il dolore, mi diede fede e bontà il dolore! Ecco perchè devi amarmi come ti amo, come mi amavi!

Scuoteva il capo. Senza guardarmi mormorò:

— Sono forse in preda di una malìa? Mi pesa sul capo una maledizione? Credetemi, Carlo! non posso più amare così; non sono più degna di essere amata così! Nel cuore alle volte mi par d’avere una pietra, un pezzo di ghiaccio; mi pare [p. 350 modifica]di essere condannata a un’eterna tristezza. Quei fiori che abbiamo visti laggiù corale son belli!: ma non per me. Oggi è una giornata meravigliosa: ma non per me. Voi siete buono: ma non per me.... Ho nell’anima la vostra tristezza d’un tempo; la vostra disperazione.

Con le mani nei capelli esclamai:

— Adesso capisco tutto il male che ti ho fatto! — Vedevo la distruzione di quell’anima; irreparabile.

Meglio morire!

Oh morire tutti e due!...; travolgerla meco nel lago!...

Essa disse:

— A mio padre gli han confitto le spine nella fronte, ma poi gli han detto: sei una vittima. A mia madre le han gettato il fango addosso; ma lei lo ignora. Io sì che ho ingoiato tutto il fiele.... Come potrei amare? Che moglie, che madre sarei io? Che dovrei insegnare, io, ai miei figlioli? A odiare! Ho l’odio nel sangue, Carlo! Non posso più piangere.... E volete che ami!....

Travolgerla meco nel lago. Finire!

Di contrasto il pensiero mi ricorse a Eugenia.

— Tua madre.... Tua madre sa.... di me?

— Sa il bene che vi volli....

— Dunque anche tua madre benedirebbe il nostro amore!

Ortensia sembrò non udirmi. Immobile, tendeva lo sguardo, come perduto innanzi a sè, all’orizzonte. Il sole calava sanguigno e l’acqua ne rendeva quel rossore di sangue. A un tratto....

— Ortensia! — gridai — Ortensia! — l’invocavo ebbro di gioia. Non m’ingannavo!

I suoi occhi risplendevano dell’antica luce.... [p. 351 modifica]

Disse piano:

— Vi ricordate, quand’ero ragazzetta, quel giorno che ci sorprendeste sul prato del convento? Vi lasciammo lassù, solo. Ma io tornai da voi.... Era un tramonto così.... Come ero felice, allora!

Scoppiò in pianto dirotto. Salva! Io la trassi al mio petto, al mio cuore: salva!

E i miei baci ricuperarono quell’anima.


VIII.


In piedi su la porta di casa, con le mani ai fianchi, la Rita era contemplata di sottecchi dal marito, che col naso e i bargigli più rossi del solito e la berretta un po’ disorientata, le sedeva di fronte.

In quell’accordo idilliaco i coniugi aspettavano tornassi dall’aver accompagnati gli ospiti alla ferrovia per ammettermi al discorso, che ad essi suggeriva un’idea contemporaneamente venuta al loro pensiero.

Non sospettavano che la stessa idea fosse venuta anche a me; e a meravigliarli già bastava il fatto di esserne illuminati ambedue in una volta. Anzi la combinazione avrebbe avuto del miracolo se in essi fosse stata minor opinione della loro furberia e pratica del mondo. Però anche ai furbi bisogna prudenza quando hanno da aprir gli occhi a chi li tien chiusi di sua propria volontà.

E per aprir gli occhi a me, lui, il Biondo dagli occhi soppiattati, cominciò a dire alla moglie:

— Il signor Claudio dimostra più anni di quel che ha. [p. 352 modifica]

La moglie assecondava.

— Sicuro!; lo dico anch’io; è sempre un matto allegro; ma ha fatto i capelli bianchi.... Eh, a stare al mondo!...

— Un uomo troppo buono. Lo so io se ha del cuore! Quando gli ho detto della vedova dello Zingaro è andato subito al portamonete.... M’ha dato troppo, vi dico!

— Il Signore gliene renderà merito; gli farà crescer bene il figliolo; gli mariterà bene anche quest’altra figliola.

Pausa. Eppoi il Biondo, accomodandosi la berretta e sollevando le palpebre verso di me:

— Che bella ragazza!

— Bella e buona — aggiunse la Rita.

Io domandai:

— Come fate a saperlo che è buona?

— Si vede!

— È figlia di suo padre!

— Sta a vedere che il signor Carlo verrà a dirci lui, adesso, che è cattiva!

La Rita, così dicendo, rideva.

Proseguivano:

— Ha degli occhi che parlano.

— Ehm! Non vorrei io che invece di lei, poverina, fosse cattivo qualchedun altro con lei!

— Cosa intendete dire? — domandò, furbo, il marito.

— Niente! niente! Una mia idea...,

— A Molinella — affermò il Biondo — non c’è mai capitata l’uguale. Ce n’è, qui, delle ragazze che hanno una bella dote? Ma tutte búggere! aria! fumo!

— La più bella dote sta nell’affezione....

Bene! Ho un’idea anch’io, se volete saperla; [p. 353 modifica]che l’affezione c’è, a quest’ora, e come! Con quegli occhi che parlano.... Si vede!

— Ma siete matti da legare! — gridai io, finalmente. Press’a poco con lo stesso tono avevo dato un giorno dello sciocco al cavalier Fulgosi.

E la Rita: — Non ve l’ho detto che il cattivo questa volta è lui, il signor Carlo?

— Ma non sapete — gridai di nuovo — che potrei essere suo padre?

A questo grave argomento la Rita oppose un proverbio: «Se il marito non è in età, la moglie giudizio non ha». E il Biondo oppose un’argomentazione che tagliava la testa al toro, meglio del proverbio:

— Se lei, signor Carlo, avesse i miei anni, poh! avrebbe ragione di pensarci su; ma se io avessi i suoi...., ah! corpo di....! non ci penserei su tanto!

Quindi la Rita avanzò di due passi verso mie parlando più seriamente che mai.

— Vuol campar sempre solo come un cane? Quando siam morti noi, chi ci ha più, al mondo? — Dove vuol trovarla una ragazza così a ragione? — insistette il Biondo alzandosi e avvicinandosi anche lui per stringermi con la moglie come in una tanaglia.

Io finsi un principio di resa.

— E se la ragazza non mi volesse?

Peggio che peggio! Non concepivano nemmeno che una donna potesse rifiutar la fortuna di essere posseduta da me.

— Se questo fosse — disse il Biondo — mi sbattezzerei, quant’è vero Dio!

E la Rita scuotendo le spalle e abbandonandomi alla mia cattiveria: [p. 354 modifica]

— Ma lasciatelo cantare! Credete che non lo sappia che è innamorata cotta, la poverina?

Però il Biondo e la Rita sarebbero stati meno entusiasti di Ortensia quando avessero conosciuta questa lettera, che ricevevo il giorno dopo:


Carlo!

Vi ho promesso di scrivervi, ierisera, ma non vi ho detto il perchè.

Io vi voglio bene, vorrei correre da voi, dirvi: sono vostra per sempre e saremo felici!

Ma per quanto saremmo felici? Con quali dolori saremmo condannati a scontare la nostra felicità? Non di voi diffido! non di voi! Diffido di me e del destino. Non è debolezza che mi trattiene, credetemi, Carlo! È forza, è resistenza; perchè io non voglio veder soffrire per me, per causa mia!

Mi direte che saremo più infelici a non essere congiunti, a vivere separati così, poichè ci vogliamo bene; direte che io non vi amo come mi amate voi. Invece io sono orgogliosa del vostro amore e vorrei abbandonarmi a voi senza più temere, per la vita e per la morte!

Ma ora sento d’aver fatto più male io a voi che voi a me e temo di dovervene fare ancora. Temo, temo..., e vi scongiuro Carlo: riflettete! non sono più quella di una volta. Che non dobbiate pentirvi! Ve ne scongiuro piangendo, ora che posso piangere!

Ah per voi due, Biondo e Rita, questa ragazza ha meno giudizio di quel che pareva? Per voi, quando una ragazza ha chi le discorre di buon animo e lei gli vuol bene, non ci dovrebbero più essere tante dubbiezze?

Ortensia non dovrebbe piangere, ma cantare a squarciagola, come ai vostri vent’anni, o Rita?

Ebbene; sentite, cari vecchi! Io vi assicuro che Ortensia diventerà mia mogli!

....................


(E Roveni?) [p. 355 modifica]


IX.


La mia gran fede, che aveva riscossa e commossa quell’anima, la riscaldava a poco a poco.

Diverse espressioni ricorsero nelle sue lettere che significavano in lei il prossimo, compiuto ritorno a sè stessa. Questa, per esempio:


Ho sognato che mi passavi una mano su la fronte e così mi toglievi ogni antico male, ogni brutto ricordo. La dolcezza del sogno m’è rimasta tutt’oggi nelle vene; mi è parso di sognare tutt’oggi e di vivere in uno splendore.


Le mie visite non erano frequienti. Essa mi imponeva lo stesso riserbo che per il passato. Perchè?

Diceva: — Voglio aver la consolazione di dire io al babbo: «Io sono più ostinata di te, ma Sivori è più ostinato di noi due insieme! Si è messo in testa di sposarmi, e bisognerà cedere!»

Quando direbbe ciò?

Oh anche in questo indugio, che sembrava un capriccio, c’era tanta delicatezza! Prima di tutto io comprendevo tacitamente il perchè voleva rivelar lei al padre il nostro segreto.

Per quanto ottimista, Claudio come resterebbe se la notizia gli venisse da me o se Eugenia gli dicesse: — Sivori domanda, la mano di Ortensia? — D’un amico come me non era da dubitare gli domandassi in moglie la figliola in compenso dei quattrini che mi doveva; ma, insomma, per quei maledetti quattrini gli potrebbe essere amareggiata una gioia che Ortensia sperava piena e perfetta se lasciassi fare a lei. [p. 356 modifica]

Poi Ortensia non aveva torto del tutto quando esclamava:

— Abbiate pazienza, signor dottore! Volete che i miei credano che sono tornata buona solo per voi? che torno allegra, solo per voi, che non penso che a voi?.... Ho dei rimorsi — aggiungeva più piano. — Con mo padre, quando si sforzava di nascondere il suo dolore, ero sgarbata e urtante; avrei voluto vederlo soffrire come soffrivo io. E con la mamma, quando mi ribellavo alle sue parole di conforto, alla sua rassegnazione? Mi ricordo di certe sue occhiate che adesso mi sembrano quelle di una povera creatura ferita a morte, tant’ero irritata, cattiva!... No, Carlo: è troppo presto dire a lei e al babbo che sono disposta ad abbandonarli. Lasciamo passare almeno qualche mese, che s’avvezzino un po’ a questi luoghi, a questa solitudine....

— Ma credi che tua madre non ci legga in faccia il nostro segreto e non ne goda? — le dicevo io.

— Non importa! Vorrei anzi che indovinasse tutto; anche la nostra riserbatezza. Così si abituerà meglio all’idea del mio abbandono.

....Io andavo alla Ca’ Rossa due o tre volte la settimana.

O di giorno o di sera, erano ore di felicità.

Ivi, alla Ca’ Rossa, avanzando l’estate, mi ristoravo in quella frescura spirituale che v’infondeva la novella quiete.

Ortensia m’appariva più bella nella veste umile, con il lungo grembiule attinente alla persona ardita e disinvolta; e la gola, che sorgeva bianca dal corpetto un po’ scollato e la nuca scoperta sotto l’onda dei capelli copiosi strettamente [p. 357 modifica]raccolti, davan cenno di forme che la salute rifiorendo renderebbe in breve tempo perfette. Più era lieta se colta in faccende di massaia o di giardiniera. Perchè già il lazzeruolo proteggeva una corona di molti vasi in cui era solo da temere l’eccesso dell’acqua che Mino v’impartiva; ed erano questioni con la sorella, che pareva averli inventati lei i garofani e i gelsomini e l’arte di coltivarli!

Dall’altro lato della casa schiamazzavano galline in un piccolo recinto, e Ortensia sperava ricavar tante ova da farne spedizione fin a Milano; ma un cocodè poco naturale rivelava spesso che Mino a ber le ova cantava con la stessa gioia che le galline a farle. Ah quel Mino! A sentir lui non gli piacevan solo le ova fresche; gli piaceva anche l’astronomia. Nell’infinito riscintillamento di una sera senza luna accennai ad Ortensia massaia che anche in cielo passeggiava una chiocciola con un drappello di pulcini; e Mino cominciò a pretendere gli dicessi i nomi di tutte le stelle: tutte!

Infatti, oltre che la Stella Polare gli insegnai a riconoscere la smeraldina Vega e il rubicondo Antares, Arturo le il Delfino, e, benchè pianeti, Marte e Giove.

Disgraziatamente gli esami di Mino pretendevano ben altro!; e durante il giorno egli faceva altro che studiar grammatica, aritmetica e storia: martellava, inchiodava, impiastricciava dei più vivi colori certi fogli che avrebbero sbigottito fin un pittore impressionista. Incarcerato nella sua camera, vi declamava per cinque minuti i verbi irregolari o la costituzione di Servio Tullio; poi governava una tribù di formiche [p. 358 modifica]restìe ai suoi ordini. Redarguito, rispondeva piangendo d’aver appreso a scuola che chi studia troppo, muore; e poichè il troppo è relativo all’indole e al giudizio delle persone, asseriva in coscienza che studiare due ore al giorno era per lui uno sforzo; e gliene doleva sinceramente perchè avrebbe voluto diventar ingegnere navale o ufficiale d’artiglieria.

Di conseguenza, a luglio fu bocciato agli esami in tutte le materie (in astronomia non l’interrogarono). Dopo di che gli pesò addosso la minaccia di essere messo in collegio se non riparasse in autunno.

Perciò avrebbe studiato in luglio e in agosto più di due ore al giorno, a costo di morire, se per distrarsi dalla pesante minaccia del collegio non avesse anche studiato la marcia: reale al suono di un’ocarina di terracotta, e se non avesse dovuto perfezionarsi al tiro al bersaglio per divenire un bravo ufficiale d’artiglieria.

Mio buon Mino!


X.


L’8 settembre, giorno di festa, Ortensia mi scriveva:

Sono felice, oggi! Se tu fossi qua, Carlo, saresti felice come me a vedere che oggi io sono proprio quella d’una volta. Domandalo alla mamma se non corro e canto e non l’abbraccio così forte che essa è costretta a dirmi, come allora, cervellina! Tutto il brutto è passato; non mi ricordo più di altro che ti voglio molto bene, che vi voglio tanto bene a tutti e che.... Zitto, signor dottore! Mi guardo nello [p. 359 modifica]

specchio; vediamo la sposa.... Poh!; non c’è male.... Il merito sai di chi è? dell’aria e della festa. Non senti anche tu che la festa è nell’aria, oggi? Dottore, se vi vedessi sorridere da incredulo mi dispiacerebbe, perchè io alla messa ho pregato per la nostra felicità e perchè sento proprio che la mamma ha ragione; bisogna aver fede. In questi luoghi cantano le litanie in un modo malinconico; eppure quando le donne e i ragazzi hanno finito il canto, mi pareva che tutti dovessero essere felici come me.

Quando siamo tornati dalla chiesa io e Mino, il babbo ci è venuto incontro tutto allegro anche lui e mi ha domandato:

— Sivori viene oggi?

Tu forse sospetti che egli cominci ad aprir gli occhi? No, no! sta sicuro! Solo non può ammettere che si stia allegri in casa senza la tua presenza. Gli ho detto che verrai domenica.

— Domenica non è oggi, — ha brontolato lui — e mi pare anche a me che questo sia vero.

Oggi avresti dovuto esser qui! Ma chi sa che prima di sera.... Se giungi, dico tutto al babbo, oggi....

P.S. Invece di te è arrivata una lettera di Marcella che annunzia per sabato o domenica la sua venuta con Bebe e con.... Non te lo dico con chi verrà invece di Guido; no e no!

La venuta di Marcella mi darà più forza per aprir gli occhi al babbo e per salvar Mino dal collegio.

Non voglio che restino qui soli, quest’inverno, i nostri vecchi!

E chi pensava più a Roveni?


XI.


Colui il quale invece di Guido accompagnò Marcella a trovare i suoi era, manco a dirlo, il cavalier Fulgosi. Ma per che complesse vicende famigliari la gelosa signora Fulgosi se n’era andata in licenza a Varezze con il tenente Piero suo figliolo, [p. 360 modifica]lasciando o relegando il marito a Valdigorgo? Forse la sua fosca gelosia s’era spenta al brillare delle spalline figliali? O la gloria delle figliali imprese l’inteneriva come l’avevano inasprita un tempo quelle del marito, e lui, il cavaliere, godeva di una relativa e nuova libertà? O con quali finezze diplomatiche giustificava egli le sue scappate da Valdigorgo a Milano e meritava il permesso d’accompagnar Marcella a Bologna?

Non so e non m’importa rispondere; so che il cavaliere m’accolse alla Ca’ Rossa con tutti gli antichi segni di deferenza e ammirazione. Mi avvertì subito che la scienza aspettava ansiosamente il profitto dei miei studi sulla malaria, o la pellagra, o il tifo, o il socialismo, o qualche altra malattia fisica o morale o sociale per cui mi fossi umiliato a medico condotto a Molinella.

Io intanto ammiravo lui. Con risoluzione eroica egli aveva raso dal mento e dalle ganasce la stopposa barbetta, conservando solo, per un più adeguato uso della tintura, gli esili baffi; e i capelli lasciati crescere dove ce n’erano e appiccicati a ricoprire, con economia, la lacuna nel bel mezzo del cranio, gli facevan da parrucca. Rideva ora a bocca un po’ più stretta per attenuare la novità di qualche dente. E anche l’abito bigio, attillato, e il gilet bianco e il ventaglietto, che gli risparmiava troppe assidue contemplazioni di sè medesimo nello specchio del pettinino, gli conferivano un’aria di baldanza tra giovanile ed estiva.

Marcella, la florida Marcella trovò opportunità a narrarmi che partendo da Milano il cavaliere s’era messo in mente d’apparire, agli occhi dei viaggiatori ignari, quale Suo marito e [p. 361 modifica]padre del bimbo. In vagone egli aveva discorso in modo da evitane l’uso del lei, e fino a un certo punto c’era riuscito. Ma quando Marcella aveva udito uno dei compagni di viaggio susurrare a un altro: — Che moglie giovane ha quel vecchietto! — aveva essa rotto l’incanto dicendo, per una dimanda qualsiasi: — Scusi, cavaliere....

Egli però si era consolato ad ogni stazione con l’esporre dallo sportello il bambinone, che accarezzava paternamente senza timore di passare per nonno.

A dir vero la timida Marcella, che rideva così di gusto, si era fatta ardimentosa! Ne diede prova anche più vivace mentre io e Ortensia ci rubavamo il suo Bebe. Ortensia pareva divorarlo a baci fragorosi, ed io glielo rapii.

Tivovi! Tivovi!

— Vuoi più bene a Sivori o alla zia? — gli chiese la madre.

Risposi io ch’egli voleva più bene a Tivovi, perchè lo baciava meno forte e non gli faceva male e lo faceva trottare su di un ginocchio.

— Già! — esclamò Ortensia fingendosi irritata meco: — io faccio del male anche quando faccio del bene? Cattivo! Oh come è cattivo Sivori!

E Marcella:

— Chi non vi conoscesse direbbe che siete cane e gatto, voi due!

Dimandò Ortensia:

— Ci conosci, tu?

— E come! Tutti e due.... (si battè coll’indice in mezzo alla fronte per dire che avevamo entrambi poco giudizio). Se vi metteste d’accordo, una buona volta! [p. 362 modifica]

— Faremmo una pazzia sola — io dissi ridendo.

— Ma la fareste finita: sarebbe ora!

Guardai Ortensia. Ella esclamò:

— Io non voglio, farla finita! Sempre cane e gatto noi due! E il gatto sono io!

Soffiava contro al bambino e lo minacciava con le unghie.

Egli mi sfuggì, per rincorrerla.

Allora Marcella mi susurrò:

— Se il babbo non fosse cieco, o io potessi parlare....

— Zitta!

— Sì, sì: starò zitta; ma è ora di finirla! Aspettatevi un tiro birbone, Sivori!

Ed io m’aspettai il tiro birbone. Chi m’avrebbe mai detto che Marcella me ne giocherebbe non uno ma due, e uno più ardito dell’altro?

Dopo colazione, Bebe e il cavaliere — che ci promise una grande, strepitosa notizia per l’ora del desinare, entre la poire et le fromage — andarono a godersi un meritato riposo; e mentre Ortensia attendeva a faccende e Claudio e Mino conversavano fuori all’ombra con Cleto l’ortolano, Eugenia mi disse che lei e Marcella avevano una cosa da dirmi.

Marcella m’aspettava nella camera da pranzo. Su la tavola era un piccolo pacco e a quello ricorsero gli sguardi delle signore, che sorridendo l’una all’altra non mi celavano un grande imbarazzo.

— Parlo io o parli tu?.

— chiese Eugenia alla figliola.

— Tu, mamma. Sivori mi mette sempre un po’ di soggezione. [p. 363 modifica]

— Poco fa non si sarebbe detto — osservai io, ridendo. E Marcella:

— Ma adesso si tratta di tutt’altra cosa!

— Che cosa mai?

Eugenia cominciò:

— La notizia, che il cavaliere ci ha promessa speriamo sia bella, ma è più bella questa che vi diamo noi ora. Grazie a Dio, Learchi s’è riconciliato con Guido.

La figliola scosse il capo:

— No, mamma; non cominci da quello che importa di più a me e a Guido.

E rivolgendosi a me:

— Anche voi dovete esservi meravigliato che Guido non facesse nulla per mio padre, quando avvenne la disgrazia. Allora tutti i rimproveri cadevano su di me. Ortensia....

— Questo è inutile — interruppe Eugenia. — Basta che Sivori sappia la minaccia di tuo suocero....

— Appunto! Noi non lo dicevamo, ma mio suocero aveva minacciato di diseredare Guido. Avete capito? Odiava tutti; me più di tutti, e la mia creatura....

Necessariamente Guido non aveva potuto compromettersi ad aiutar Moser con quel pericolo addosso: che alla morte del padre gli rimanesse solo la parte legittima dell’eredità.

Ripigliò Eugenia: — Il vostro intervento, Sivori, ebbe anche l’effetto di mitigare quell’uomo....

— E alla figliola: — Racconta tu....

— Adagio, mamma! Prima bisogna dire che cosa la signora Redegonda mi scrisse dopo che il marito ebbe ricuperato il suo avere. Mi scrisse che quell’avaraccio riteneva il dottor Sivori un [p. 364 modifica]gran galantuomo e cominciava a ritenere l’ingegner Roveni una canaglia. Allora lei non lo lasciò più vivere; gli diceva sempre: — Bella figura avete fatto col dottor Sivori quando venne a trovarci! Bella stima avrà di voi il dottor Sivori a udire che odiatie fin il vostro sangue!; — e così via.

Dopo aver disposto il marito a vergognarsi, un bel giorno la signora Learchi aveva detto di voler andare a Milano. Il imarito rifiutava di accompagnarla. — Andrò sola — disse lei.

E sì che la signora Redegonda non aveva mai viaggiato da sola; non era uscita da Valdigorgo che due o tre volte in vita sua! Il marito dovè cedere; l’accompagno; ma giurò che non avrebbe messo piede nella casa di suo figlio.

E la signora Redegonda: — Ci andrò sola. Mi aspetterete su la porta. — Ma quando furono su la porta giurò a sua volta che non sarebbe discesa finché il marito non fosse salito a prenderla.

Di nuovo animosa e rapida Marcella riferiva la scena intercalando frequenti: avete capito? capite?

Guido, capite? arriva a casa e vede.... suo padre con nostro figlio in braccio!

Anche Eugenia rideva di gusto.

Già: Learchi era salito; era entrato in casa chiamando ferocemente:

— Redegonda! Andiamo via! Vado via!

Ma la moglie voleva desinare, prima. E si era messa ad apparecchiar la tavola, mentre Marcella fingeva di preparare in fretta il desinare già preparato.

Bebe piangeva a veder quel vecchiaccio; la signora Redegonda, glielo pose in braccio perchè lo quietasse lui. Allora arrivò Guido. [p. 365 modifica]

— Bella scena! — ripetevo io.

Ma Learchi si era vendicato a tavola; perchè tra un boccone e l’altro non aveva risparmiato mortificazioni, e alla fine si era alzato dicendo al figlio:

— Il vino è amaro; ma ho mangiato bene....

Buon pranzo; bella casa! Devi guadagnar molto.

Guido colse la palla al balzo:

— Guadagno abbastanza; se continuo così, in pochi anni pago i debiti.

Immaginarsi la faccia del Cerbero!

— Debiti! Debiti! Hai dei debiti?

Era una bugia credibile quella di Guido, giacchè Learchi ignorava gli aiuti che la signora Redegonda dava a Guido.

Marcella proseguì:

— Debiti! debiti! — urlava il vecchiaccio. — Andiamo via! Via! — Strappò seco la signora Redegonda, la fece sin piangere.... alla sua maniera.

Ride anche quando piange — notò Eugenia.

— In conclusione.... Adesso parla tu, mamma....

(Eravamo al quia e Marcella perdeva l’animo tutto in una volta).

— In conclusione, qualchie tempo fa la signora Redegonda ispedì a Guido una certa somma, quella lì sulla tavola, che ottenne dal marito perchè il figlio pagasse alcuni debiti. Oh non una gran somma! Ma per di più la buona donna annunciava che Liearchi assegnava al figlio un tanto al mese, sempre per estinguere quei famosi debiti e non farne altri.

— Guido però ne ha abbastanza, per la famiglia, di quel che guadagna e dell’assegno materno.... [p. 366 modifica]

— Guadagna davvero, Guido — asserì Marcella.

— ....e Guido desidera assumersi lui il credito che avete voi con Claudio.

Me l’aspettavo!

— Capite? — interloquiva Marcella per aiutar la madre. — Non abbiamo più alcun timore per l’eredità.... La belva è amnansata. Senza sacrificio possiamo mettere in disparte qualche cosuccia ogni anno....

— Eccovi intanto cinquemila lire in contanti — conchiuse Eugenia porgendomi il pacco, e quindicimila in cambiali in bianco, con la firma di Guido e della signora Redegonda.

Che dire?

— Non vi offenderete.... — pregavano a una voce Eugenia e Marcella.

— Lo sa Claudio? — domandai.

— Sì, e trova giusta la cosa.

Allora dissi:

— Sia dunque fatta la vostra volontà! Ma vi dichiaro che non credo sia della signora Redegonda la parte principale di questa storia: è vostra, cara Marcella.

Ella rise, pur protestando:

— Ho detto la verità; credetemi.

Eugenia mi porse la mano.

— La restituzione della somma non ci sdebiterà con voi. La nostra gratitudine è anzi più grande perchè non ve ne avete a male.

Eh! altro che avermene a male! Accettando, affrettavo la mia felicità. Infatti Marcella preparava il secondo tiro; e si valeva questa volta del fratello per lanciare una bomba a dirittura.

Mino in quel giorno di festa passeggiava e correva per ogni parte con un libro (chiuso) in [p. 367 modifica]mano; tanta aveva voglia di studiare! Con Marcella abbondava in carezze: a un certo punto si vide che le confidava le sue pene. Ne seguì un lungo colloquio; ma mentre fratello e sorella andavano a braccetto su e giù per la loggia, m’insospettirono le occhiate che il ragazzo mi volgeva di traverso. Poi, a un tratto, egli cercò Ortensia e le balzò al collo a baciarla senza dir nulla. La udivo gridare per liberarsene:

— Diventi matto?

Che diavolo mai gli aveva suggerito Marcella?


XII.


Prolungando la nostra aspettazione e acuendo la nostra curiosità il cavalier Fulgosi accresceva l’importanza della notizia che ci aveva promessa.

.

— Cavaliere, la notizia? — La notizia, cavaliere?

Resistè fino a mezzo il desinare; poi solennemente, dall’alto della sua prosopopea cominciò:

— Signore e signori! Ho, non dico l’onore, non dico il piacere, ma la bonne chance di parteciparvi per primo che l’esimia artista di canto signorina Anna Melvi da qualche giorno ha giurato fede di sposa all’egregio giovane signor....

— Ingegner Arturo Roveni! — conchiuse precipitosamente Marcella.

A un oh! di stupore seguiron particolari commenti.

— Disgraziata! — fece Moser.

— Bene accompagnati! — mormorò Ortensia. [p. 368 modifica]

E Eugenia guardandomi:

— Così va il mondo!

Io tacevo. Provavo un senso di nausea e nello stesso tempo un’apprensione di malefizio.

— Che interesse ha avuto Roveni a legarsi a quella donna? — chiesi al cavaliere.

— Anna guadagna molto — Marcella disse ingenuamente. — Canta benissimo.

— Benissimo! — ripetè il cavaliere, che era rimasto deluso dalla consapevolezza di Marcella. — Ma se ella signora mia, ha appreso dai giornali ciò che io ho appreso per partecipazione diretta, ella, mi consenta dirlo, non può sapere il perchè o i perchè di questo matrimonio. Io sono in grado di rispondere alle dimande del dottor Sivori.

Si fece assoluto silenzio; ma allora l’eloquenza del cavaliere arrembò dinanzi a una difficoltà non preveduta nel primo slancio. Bisognava parlare in modo da non offendere orecchie caste, e proprio allora non gli vennero in mente frasi inglesi che fossero del caso.

— Sono due le versioni che corrono di così inopinato avvenimento. Secondò l’una.... ehm!... si tratterebbe di.... riparazione. Mi spiego? L’ingegnere.... ehm! si sarebbe lasciato cogliere dalla signora Melvi madre....

— Basta! — esclamò Claudio. — Se continua, cavaliere, chi sa dove va a finire!

— Secondo l’altra versione, che ho da miglior fonte....

— Sentiamo! — interruppi io — ; perchè la prima è inverosimile. Roveni non è uomo da riparare!

— Secondo, dicevo, una miglior fonte, un [p. 369 modifica]g e n t l e m a n inglese del Transvaal, capitato a Milano quando Anna cantava al Lirico, se ne sarebbe innamorato e....

— Avanti! — coniando Mòser.

L’oratore proseguì di corsa:

— ... .l’inglese avrebbe offerto un impiego nelle miniere all’ingegner Roveni, altro ammiratore della diva, e l’ingegnere avrebbe sposata la diva per compenso, e tutti e tre en bon ménage sarebbero partiti da Milano alla volta del Transvaal. Mi sono spiegato?

Moser rispose: — Anche troppo!

— Questo è certo che gli sposi sono già in viaggio.

Dopo una pausa Fulgosi mi domandò se la seconda versione mi pareva più verosimile ed io risposi che la credevo nel vero. Era uno scandalo degno dei personaggi!

— .... Per savoir vivre — il cavaliere concluse senza più timore di pericolare — bisogna savoir faire. La fortuna il più delle volte è soltanto ruse.

Ora bisogna sapere che quando il cavaliere parlava, Mino l’ascoltava con ammirazione manifesta. Che brav’uomo! pareva dire il ragazzo ad ogni vocabolo francese o inglese ch’egli non capisse.

Ma di ciò che non capiva Mino non aveva mai chiesto schiarimento; forse per una riverenza quasi religiosa che gli imponeva di non sciupare l’efficacia del misterioso eloquio, o forse perchè pensava: verrà il giorno che ti comprenderò anch’io! Se non che a quella parola ruse, o fosse per la sua propria singolarità di suono o fosse per il modo perfettamente parigino con cui il [p. 370 modifica]cavaliere la pronunciò, il ragazzo rimase sbigottito. Che conseguenza ebbe questo sbigottimento! Produsse lo scoppio della bomba che Marcella aveva predisposta e affidata al fratello, dopo colazione.

Ruse — Mino si provò a ripetere. — Cosa vuol dire?

Io, che avevo visto negli occhi di Eugenia e di Ortensia quant’esse disdegnavano la teoria del cavaliere e che sentivo il bisogno di sfogarmi, risposi:

Ruse, nel significato che vi attribuisce il cavalier Fulgosi, vuol dir accortezza per far quattrini a prezzo dell’infamia; vuol dire sguazzare nel fango senza affogarvi; vuol dir l’abilità di contaminare la virtù, l’onore, la dignità umana senza incorrere in alcuna pena.

Il cavaliere s’inchinò esclamando: — Bravo!

Ma tant’è la significazione che può assumere una parola, che Moser rivolto a Mino aggiunse per conto suo:

— Quella parolaccia vuol dire anche che non sempre chi ha ingegno, è bravo, ha voglia di lavorare, è un galantuomo. Chi poi non ha nemmeno voglia di studiare....

Ne prevedesse, del tutto o in parte, la conclusione morale Mino interruppe il padre con un’affermazione che gli pareva incontestabile:

— Io sono un galantuomo!

— No — ritorse l’altro, inquieto. — Chi non ha voglia di studiare non è un galantuomo!

Ma Mino non tacque. Consultò, guardandola, Marcella, e nel modo di chi medita tra sè e sè disse:

— Adesso dovrò studiare più di due ore al [p. 371 modifica]giorno perchè non ci posso più andare, in collegio.

— Eh?!

A quell’eh?! paterno ma feroce io e Ortensia ci scambiammo un’occhiata che diceva «ci siamo», e invano Ortensia cercò di trattenere il fratello chiamandolo a nome; anzi fu peggio.

— In collegio non ci vado più! — il ragazzo rispose, risoluto, a suo padre.

Questi con uno sguardo più feroce che mai gli imponeva di chiarire il perchè di così nuova oltracotanza; e la spiegazione precipitò mentre Marcella abbassava gli occhi sul piatto.

— Chi ci resta con te e la mamma se Ortensia sposa Sivori?

Che cosa accadde alla rivelazione? Non è difficile immaginarlo. Io feci una risatia sciocca; Ortensia, rossa rossa, gridò: — Ma Mino! — ; Mino gridò: — È stata Marcella! — ; Marcella gridò: — Non è vero! — in modo da confermare l’accusa; Eugenia sorrideva guardandomi e il cavaliere era già in piedi col bicchiere in mano e un toast sulla punta della lingua, aspettando che Claudio deponesse la forchetta. Perchè Claudio faceva paura, in parola d’onore: i suoi occhi partendo da Mino avevano scrutato foscamente ogni volto intorno alla tavola e a scorgere gli indizi di una complicità universale egli era rimasto con la bocca aperta, non per ricevere il boccone che la forchetta tratteneva a mezz’aria, ma per lasciar passare un’esclamazione tremenda che non voleva uscire. Per fortuna dovè pensare che era impossibile infilzarci tutti quanti se prima non liberava la forchetta d’ogni impedimento, e ingoiò il boccone; e il boccone [p. 372 modifica]respinse in gola l’esclamazione tremenda; sicchè, dopo, Claudio non seppe più che dire.

Disse:

— M’avete preso, tutti quanti, per un imbecille?

Nessuno rispose; o meglio, per timore del proverbio «chi tace conferma» credemmo meglio ridere tutti in una volta.

— Dunque è vero? — urlò egli con l’arma rivolta verso il principale colpevole, che ero io e tacevo.

Chi tace conferma: sì, è vero non che tu sei un imbecille, ma che io sono felice!

E Ortensia mi salvò. Si alzò; venne a susurrare non so quali portentose parole all’orecchio del padre. Vittoria! Claudio mosse all’indietro la testa per attingere dagli occhi della figliola una conferma e, persuaso alla fine che essa diceva sul serio, si diè per vinto benchè gridasse:

— Son brutti scherzi!... Una congiura!... Un tradimento! — E con voce già malsicura: — Ma se è vero.... Cavaliere, faccia pure il brindisi!

— Bene auspicando.... — Etcetera: il brindisi si prolungò in un’orazione che ebbe per termine il motto sursum corda! S’alzarono invece i bicchieri, ma al tocco di essi parve proprio che si toccassero i cuori.

Quando ci levammo da tavola io non pensai affatto a disingannare Claudio; il quale, sempre per uscir dal dubbio d’essere quel che aveva detto, borbottava: — Un tradimento! Tutti d’accordò.... anche Mino! È stato un tradimento!

Io ero ansioso di giustificarmi con Eugenia.

Ella parlò prima di me.

— Lo sapevo da un pezzo che vi volevate bene.... [p. 373 modifica]Ma se l’avessi saputo anche prima, quando — vi ricordate? — vi dissi, lassù, delle intenzioni di colui....

— Il mio silenzio d’allora — esclamai — ; la mia dissimulazione fu la mia colpa. Voi sapete perchè tacqui?

— L’ho imaginato: Ortensia era tanto giovane! Eppoi, non volevate ammogliarvi,...

Non bastava a mia scusa; e la buona donna cercò togliermi ogni traccia di rimorso:

— La colpa, del resto, fu più mia che vostra. Io, io avrei dovuto accorgermene.... Ma è un destino che in certe cose io sia come Claudio: non abbiamo occhi per vederle al momento opportuno. E forse,...; lo lo credo, Carlo: credo che voi e lei siate stati provati così duramente per essere più felici adesso.

Era una felicità troppo grande?

Eugenia sembrò leggermi negli occhi la dimanda e non potè non dire di Roveni e della Melvi:

— Ora quei due.... se ne vanno lontani; non abbiamo più nulla da temere.

Marcella udì queste parole. E poichè io mi accompagnavo a lei, nel prato, per ringraziarla del suo tiro birbone, anche lei prevenne quel che volevo dirle, e scampando in atro discorso, disse sommessamente:

— È strano! Un’impressione, di ieri....; e me ne son ricordata solo poco fa. Quando a Bologna, fummo scesi dal treno, e cercavamo l’uscita, mi parve di veder uno che rassomigliasse a Roveni in una carrozza di coda.... Un’impressione, vi ripeto. Non poteva esser lui. Ma è strano che non ci abbia più pensato affatto.

Io.... Ah io l’avevo ancora la spina nel cuore! [p. 374 modifica]

— Che hai? — mi chiedeva Ortensia.

~ Finalmente! — risposi soltanto all’anima mia.

Finalmente potevam dirci che tutti sapevan del nostro amore. Però nessuno al mondo immaginava quanto ci amavamo!

Ma appena l’aria si fu rinfrescata io presi a braccio il cavalier Fulgosi (che era ancora insolitamente rosso e faceva complimenti a Marcella fin in Milanese) e lo sottoposi a un’inquisizione.

— Da chi aveva appreso che i Roveni eran già in viaggio?

Aveva la prova in tasca; e mi esibì un biglietto di Anna dattato da Milano e scritto press’a poco in questi termini: ‘‘Sul punto di partire per Genova e per altri lidi sento il dovere di ringraziarla di quanto fece per me, anche a nome di mio marito,,. Il marito aveva aggiunto di proprio pugno: ‘‘Saluti dal suo dev. Roveni „.

— In relazione?... Ecco: si era imbattuto in Anna un giorno, sotto la Galleria.... Essa gli aveva annunziato il suo imminente matrimonio:

Come evitare di mandarle un bouquet il dì delle nozze? Era stato lui, il cavaliere, a introdurla al Lirico....

— E dal giorno dell’incontro non s’eran più riveduti?

— No: in fede di gentiluomo!

— E quel giorno avevan parlato d’altro? dei Moser?

— Anna aveva chiesto: I Moser sono a Bologna, è vero?

(Il cavaliere ebbe una reticenza).

— Dovevo non dire di sì?

— Soltanto? Non aveva detto qualche cosa di più?

— Anna aveva domandato, sempre con aria di semplice curiosità: ‘‘Lei andrà a trovarli?,, Ed egli [p. 375 modifica]s’era schermito con un “forse„. Null’altro, in fede di gentiluomo!

Ma ahi! Anche i gentiluomini possono dimenticare qualche parola di poca importanza. — Il cavaliere, per esempio, potè dimenticarsi d’aver risposto, invece, che andrebbe a trovare i Moser “forse.... tra qualche giorno„.

Io però, allora, mi tenni pago, anzi contento dell’inchiesta. — Non c’era dubbio! Marcella senza dubbio si era ingannata! I coniugi Roveni navigavano per altri lidi.


XIII.


E alla Rita....

Lasciatemi indugiare in questi grati ricordi. Sono di un uomo che per troppo tempo aveva sol visto, in tutti e in tutto, infelicità e tristezza.

Fino il sorriso che i miei poveri ammalati trovavano al mio saluto, mi era, in questi giorni, d’augurio; e tornando dalle loro case ristavo al rezzo dei pioppi.

Nei fossati scorrevano limpide le acque; nei maceri, già ripuliti della canepa, si specchiavano nitidamente case e alberi; nei campi le glebe riflettevano il sole dal netto taglio dell’aratro e le grida che incitavano i buoi passavan lente ma non sgradevoli, quali voci di tranquilla pazienza; dalla terra dissodata, dalle vigne cariche d’uva e dalle acaciaie sorgevano festose schiere di passeri e storni, e invisibili nel più cristallino cielo di settembre, le allodole s’inebriavano di voli, di trilli e di sole. Osservavo e ascoltavo.... Nè io potevo più sentir punture della spina che mi [p. 376 modifica]restava nel cuore, se Dio con tanto impeto di vita mi penetrava nel cuore. — Dio, Dio mi voleva felice! Dio doveva aver attutito la vendetta nel cuore del perfido, che ora navigava dimentico....

E alla Rita dissi che, che secondo l’usanza del paese, mi preparasse presto gli zuccherini nuziali. Non mi credeva, credeva scherzassi. Ma poichè insistetti, mi domandò se la sposa sarebbe quella che s’intendeva lei, la figliola del signor Claudio?

— Certo! Chi vuoi che sia?

Non scherzavo; e la vecchia cominciò a urlare:

— Biondo, correte! Correte!

Il Biondo sapeva che la moglie da cinque mesi giuocava, ogni settimana, più numeri che con cabala sapiente aveva ricavati dalla gran disgrazia dello zingaro, e perciò egli trottò verso di noi domandando:

— Son venuti? Ambo o terno?

I quattrini fan sempre piacere! Ma la moglie rispondeva:

— L’ha avuto lui, il signor Carlo, il terno secco! Meglio di un terno secco ha avuto! Non vedete che faccia? Non ve lo dicevo: date tempo al tempo?

E così via; finchè il Biondo ebbe appreso che la mia sposa era proprio quella che s’intendeva lui:

— La figliola del signor Claudio!

Si trasse la berretta e alzando la testa e le braccia al soffitto cantò, col più sincero fervor religioso: Te Deum laudamus!

Ma dopo, per tutto quel giorno, il Biondo tenne le palpebre abbassate. Chi gliele avesse alzate avrebbe forse aperta la strada a due lagrimoni. E non segò nè piallò, quel giorno; nè andò nel campo a guardar all’uva; non andò in paese a comprar tabacco. Solo fece fretta alla moglie che mi preparasse la cena e, n’avessi voglia o no, fui condotto a cenare mezz’ora [p. 377 modifica]prima del solito. Mentre io cenavo il vecchio veniva sempre a farmi compagnia. Quella sera però egli taceva, e invano cercava un pizzico nella tabacchiera.

A un tratto mi diresse uno sguardo di sottecchi e contemporaneamente una domanda, che mi fece ridere!

— Me lo sa dire lei perchè il Signore non m’ha dato un figlio?

In verità io non potevo sapere quel che ignoravano lui e la Rita!

Ma egli non attese alla celia, e adagio adagio, come soleva, mi disse che se il Signore non gli aveva dato un figlio poteva ben dargli un figlioccio; e che un figlioccio sperava d’averlo se il primo figlio che mi nascerebbe glielo lascerei tenere al battesimo. Fui per rispondere: è un onore!; perchè mio figlio o mia figlia (egli si contentava anche di una figlioccia) non avrebbe potuto desiderare per santolo un galantuomo più galantuomo del Biondo. Parve invece che troppo onore fosse concesso a lui e che egli avesse studiato il modo di meritarlo. Riprese a dire che non poteva dimenticarsi dei miei vecchi, da cui aveva ricevuto del bene; e che io e lui eravamo senza parenti degni, e che la sua donna aveva quel tal nipote sciupone e vizioso; e la sua donna poteva chiamare erede anche il nipote se così le piaceva; e che lui, a sua volta, nominerebbe erede chi più gli piacerebbe. In sostanza, il podere che era stato dei miei vecchi potrebbe tornar proprietà della mia famiglia e dei miei discendenti.

— Dipende da lei — concluse il Biondo, tabaccando senza tabacco fra le dita.

Io gli espressi la mia gratitudine scherzando ancora.

— Ah! dipende da me? Dunque se tu non ne hai avuti dei figlioli....

Comprese dove sarei andato a parare; scrollò il capo e il fiocco della berretta; mi minacciò con la [p. 378 modifica]mano e rise, e trottò via leggero a comperar il tabacco. Rimasi a considerare quel che un tempo io aveva pensato del Biondo; liberale, lo credevo, soltanto nel regalar le casserelle per i piccoli morti; galantuomo sì, ma non alieno dallo sfruttarmi per avarizia.

Dalle quali considerazioni non favorevoli anch’esse alla mia psicologia, ne sorgeva un’altra contraria del tutto al mio antico pessimismo.

Alla generosità con cui mi ero prestato per Moser facevan riscontro la generosità della signora Redegonda per un verso, e la generosità del Biondo per l’altro.

Sarebbe vero che chi semina bene raccoglie bene?


XIV.


Ma quale fu il mio stupore allorchè, giungendo due giorni dopo alla Ca’ Rossa, Ortensia mi venne incontro e mi disse tranquilla, sebbene un po’ pallida:

— Anna mi ha scritto!

— Non è partita! — esclamai; e pensai: ‘‘Marcella non s’ingannò! Roveni era a Bologna’’.

— È partita — Ortensia continuò. — Ti confesso che ho voluto leggere alcune righe della sua lettera infame e stupida prima di stracciarla. Diceva in principio: ‘‘Quando riceverai questa mia, sarò molto lontana.„ Era la lettera che io aveva temuta da tanto tempo!; la lettera della calunnia e della vendetta: solo che Roveni, invece di mandarla anonima, aveva voluto che sua moglie, con ardimento degno [p. 379 modifica]d’entrambi, affermasse o confermasse lei ad Ortensia la colpa della madre e mia.

— E tua madre, sa?...

— No. Per fortuna la mamma era entrata in casa allora, quando il portalettere mi fece segno, mi chiamò dal cancello. Non gridò, come al solito, ‘‘posta!,, ‘‘Ecco perchè — pensai — Roveni venne a Bologna„. E chiesi:

— Che data aveva la lettera? Hai visto? — insistetti io.

— Sul timbro di Genova c’era un quindici: son certa.

— Già; alla metà d’ogni mese partono molti vapori da Genova....

Rapidamente facevo tra di me questo calcolo: il nove od il dieci settembre Anna aveva inviato al cavaliere il biglietto datato da Milano; l’undici Fulgosi e Marcella erano alla Ca’ Rossa.

Mentre Anna partiva per Genova, Roveni aveva potuto seguir Marcella e il cavaliere a Bologna; prendervi disposizioni perchè la lettera andasse a posto, proprio in mano d’Ortensia, essere il quattordici a Genova; dettare e spedir la lettera, e imbarcarsi colla moglie. Tutto ciò era possibile; verosimile, vero. Era vero dunque che i nostri nemici navigavano per altri lidi! Finalmente m’era tolta del tutto la spina del cuore! Infatti Ortensia diceva:

— Un’infamia stupida! Ho visto che Anna mi dava la notizia del suo matrimonio, eppoi:

‘‘E tu, Ortensia, quando ti sposi? Bando agli scrupoli!...„

Nel riferire queste parole Ortensia ebbe il volto improntato del velenoso sorriso che Anna aveva dovuto avere scrivendole. Ma si ricompose; tornò lei, [p. 380 modifica]fiera e cosciente della sua fierezza: — Non ho letto altro! Ho stracciato...; non ho voluto un nuovo rimorso. Il solo rimorso che mi resta sai quale è? Quello d’aver ascoltato il giuramento che tu mi facesti a Molinella. Per me doveva essere inutile!

— Io, io, — esclamai — non avrei dovuto giurare quel che non è dubbio: che il sole passa sul fango e non s’imbratta! La virtù di tua madre è limpida come il sole! Ma io cercavo il momento di prevenire l’ultimo colpo, che mi aspettavo, che è venuto; io cercavo, piuttosto che difendermi, difenderti da, una nuova offesa....

— Povero Carlo, avesti ragione: ma adesso siamo tranquilli per sempre. Nessuna ombra turberà più la nostra felicità!

Oh nel dirmi questo che luce Ortensia aveva negli occhi!... Eppure libero da ogni dubbio, io aveva tuttavia bisogno di schiarirmi l’azione di Roveni.

Aveva potuto credere che in tanti mesi non avessi preso alcuna precauzione contro la tua vendetta? Rispondevo ch’egli era convinto che io fossi stato l’amante di Eugenia. E la sola precauzione di sicura efficacia che io avrei potuto prendere sarebbe stata appunto quella di predisporre Ortensia a respingere l’odiosa accusa assicurandola con un giuramento. E Roveni non mi credeva uomo da giurare il falso. Dunque sperava certo l’effetto da lui sperato nella lettera di Anna.

Ma Roveni non avrebbe dovuto prevedere che Ortensia straccerebbe la lettera accusatrice? No — mi rispondevo — Roveni sa che Ortensia è fiera e forte. Chi è fiero e forte straccia prima di leggerla un’anonima; non la lettera di un nemico. — E infatti Ortensia aveva letto quanto a parer di lui sarebbe bastato al suo fine. [p. 381 modifica]

Così mi dicevo. — Eppure nella vendetta del nostro nemico sentivo ancora qualche cosa di inferiore, di meschino; mi pareva inferiore alla sagacia di lui quella sua gita di lui a Bologna per poi fare impostare la lettera a Genova e studiare qua il modo più sicuro perchè la lettera andasse a posto.

Ma la smania della vendetta rende gretti l’animo e l’intelligenza. E che torbidi commovimenti doveva dare la passione a un uomo come Roveni!

Pensavo: quando egli possedeva Ortensia nella sua immaginazione, attendendo di possederla in realtà, che cosa lo tratteneva dal cedere alle seduzioni di Anna Melvi? Il confronto fra Anna e Ortensia. Le delizie che gli promettevano la bellezza di Ortensia superavano di tanto le tentazioni della Melvi che lui uomo sensuale, resistette; non si compromise. Ora fra le braccia di Anna quel confronto sarà tornato alla sua mente, e quale tempesta avrà suscitato nella sua mente e nel suo animo! Quale disgusto avrà egli di quella donna, e quale amarezza gli darà il pensiero del bene perduto! Anna, che non ha mai amato, Anna da cui ha un aiuto ignobile, l’accompagnerà da per tutto per rimprovero continuo della sua bassezza; Anna già lo vincola per pena della sua sconfitta, lo stringe per incitamento ai rimorsi....

Che castigo sarebbe questo se Roveni non trovasse lenimento nella vendetta! E perciò si capisce quello studio, quella cura a far pervenire ad Ortensia, con assoluta certezza, la infame lettera. Ma Roveni ha commesso un errore più grande del mio! Io non conobbi lui; ma lui non ha conosciuto Ortensia. — Così mi dicevo.

Ma no: anche con tutto questo, troppo, troppo in basso mi pareva che Roveni fosse precipitato! La immagine di lui s’affoscava ancor più nella penombra [p. 382 modifica]in cui egli stesso aveva sempre cercato, d’involgersi. Qualcuno o qualche cosa al di fuori della volontà sua mi pareva dover averlo spinto a tale abiezione.

Il destino? Forse il destino si era valso di Roveni quasi di uno strumento cieco? Sì: forse era stato necessario che quell’uomo attraversasse il nostro cammino e si comportasse in tali modi perchè io, dopo uno stato d’infelicità morbosa e con l’amore, l’errore, il rimorso, riuscissi a concepire altrimenti la vita; perchè Ortensia, dopo tanti patimenti ed affanni e con l’energia del suo animo, fosse risollevata a quella fede nella vita ch’ella sola aveva saputo ridarmi.

Ma se così era, oh io potevo finalmente guardare al destino senza più trepidare! Chiaramente ora vi leggevo il perchè della umana necessità del soffrire: per l’elevazione dello spirito umano. La nobiltà, la redenzione del dolore, ecco quel che cominciavo a leggere in faccia al Destino!


XV.


E perchè la vecchia Rita faceva bagnar dalla guazza e imbiancar dal sole la tela più fina ch’essa tessè al tempo delle sue materne speranze? Un corredo di tovaglie e tovaglioli era forse il dono che destinava alle mie nozze. — E perchè il Biondo si era dato a rilevar di scalpello sul legno, lavorando zitto e cheto e accarezzando l’opera con sguardo d’artista, di dietro gli occhiali e di sotto le cateratte? Non componeva una delle solite casserelle: forse una culla?...

Solo affliggeva il povero Biondo il prossimo obbligo d’indossare, per la prima volta in vita sua, un vestito pienamente nero. — Il sarto, che glielo faceva, [p. 383 modifica]andava propalando per tutto il paese che sarebbe appunto il Biondo uno dei testimoni al matrimonio del dottor Sivori. Sempre fortunato quel vecchio.!

È già nella tabella delle pubblicazioni matrimoniali, appesa nell’atrio del Municipio, si leggevano insieme il mio nome e quello di Ortensia. Se non chè a non pochi quel cognome di Moser urtava i nervi; le ragazze di Molinella si chiamano più alla buona; nè perciò ve n’era alcuna disposta a ritenersi inferiore per bellezza a una straniera, francese o inglese o tedesca che fosse, e per bella che fosse! Intanto Ortensia ripeteva: — Sono contenta! — , con la stessa vivacità d’una volta. Era contenta perchè avevo acconsentito che si celebrassero le nozze non a Milano o a Bologna, ma al mio paese; era contenta perchè un giardiniere disegnava aiuole nel prato della mia vecchia casa, e perchè nelle vecchie camere si rinnovavano le tinte e le stampe senza mutarle....

— Ma tu mamma, non sei contenta?

— Che vuoi? — Eugenia le rispose una sera. — Stento a credere che devi lasciarmi anche tu.

Per abituarsi a questo pensiero Eugenia si pose al collo il vezzo di perle che portava lei quand’era fidanzata....


Ed io benedicevo il giorno che nacqui, se fin da quel giorno m’era destinata la felicità che m’attendeva imminente; benedicevo le tristezze della mia fanciullezza pensosa e della mia adolescenza solinga; benedicevo le audacie e gl’inani sforzi della giovinezza ambiziosa e le rodenti invidie e le frenesie dell’orgoglio, indomito prima e poscia abbattuto, se per tutti questi mali avevo meritato il bene che mi attendeva; benedicevo la mortificazione delle energie fisiche in cui m’ero annichilito e l’intorbidamento della mente e [p. 384 modifica]l’abbassamento dello spirito, se m’erano stati mali necessari affinchè tanta gioia mi venisse con la guarigione, la purificazione e l’elevazione di tutte le mie facoltà; benedicevo la scienza che pur dopo le ruinose delusioni m’aveva serbato tanto di sè da lasciarmi intendere, ai dì della gioia, armonie segrete e remote bellezze della vita e del mondo; benedicevo il sentimento religioso che dai miei umili avi mi era disceso nel sangue e che avevo rinnegato nei più oscuri giorni, e che adesso mi rifluiva liberamente al cuore come per un aumento di fiducia e di gaudio rivelandomi totalmente l’amore.

Benedetta sii tu da tutti i cuori che sentono e da tutte le menti che pensano, o arcana Onnipotenza d’amore, che Ti riveli così formidabile nella immensità dei cieli come pia nella brevità terrestre!

Sii benedetta, o amore infinito in tutto quanto ci circonda, e infinito nel mio cuore che vuole che io ti benedica!

Così io pensavo; così io sentivo....


E non per altro che per questo, — per l’amore, — ho scritto, — capite adesso? — la mia storia.


XVI.


Finirò la mia storia con lo strazio, lo spasimo che mi tiene in vita. E mi bisogna pur dirlo il perchè ho scritto finora, comprimendo in cuore un dolore insanabile per rammentar fin particolari della verità che talvolta facessero sorridere!

Oh io non ho voluto soltanto dolermi della [p. 385 modifica]giustizia umana che si lasciò sfuggire un colpevole!

Narrando tutto della mia storia io ho avuto per iscopo il mistero dell’esistenza umana.

Dopo uno stato di infelicità morbosa con l’amore, l’errore, il rimorso, il sacrificio io ero riuscito a concepire altrimenti la vita e credevo essere divenuto degno della felicità. Valendomi sin della fosca tragedia del risaiuolo io avevo elevato la mente a considerare la felicità della vita!

Ma che dico di me? Ortensia, Ortensia che io e la sventura traemmo a così lungo soffrire, Ortensia che da tanti turbamenti e affanni fu risollevata, per la energia del suo spirito a quella fede nella vita ch’ella solo aveva potuto ridarmi, Ortensia io credevo meritasse di essere felice!

Ebbene: io domando se il coso, solo il caso, o la malvagità di un uomo, solo la malvagità di un uomo, potè arrestarci al punto di toccare la meta; o se fu piuttosto il destino non mio, non d’Ortensia, ma il destino che pesa su tutta l’umanità. Io domando se quando ero caduto in così squallida miseria di pensiero e di cuore e quando la vita pareva anche a me inutile miseria, io non ero più nel vero allora che dopo, quando con vigoroso animo e intensa vitalità percepivo tutte le gioie dell’esistenza e con sguardo inebbriato d’avvenire vedevo come fosse mio l’universo. O — io mi domando — fui travolto dalla fatalità per una colpa di cui mi sfugge la conoscenza?... O la colpa che meritò tanto castigo fu il mio pessimismo non abbastanza punito, la mia antica disperazione e tristezza?

Ma chi mi risponde? Io sono qua solo, in faccia al Destino; e mi par d’esser solo a [p. 386 modifica]interrogarlo con l’animo sopraffatto da tutta l’infelicità umana....


XVII.


....Ogni giorno all’approssimare dell’ora che suo padre soleva tornare a casa, Ortensia gli andava incontrò per la viottola fra l’orto e la vigna.

Mino restava nella sua camera perchè Claudio, rincasando lo trovasse a studiare; e studiava infatti, povero ragazzo, per i prossimi esami.

Ma a quando a quando, egli svagava l’occhio dalla finestra, socchiusa per non essere visto, e invidiava la sorella che andava, incontro al padre per la viottola, al tramonto.

Così il 29 settembre. Mino è alla finestra e Ortensia è a mezza via. Come al solito, quando sarà al pioppo sradicato, laggiù, ella siederà ad attendere il babbo e torneranno insieme....

Quand’ecco dalla vigna sbuca, d’improvviso, un uomo; s’imbatte quasi in Ortensia. Non è l’ortolano. È un operaio.... o un povero? Ortensia si è fermata un istante e si rivolge: fa alcuni passi tornando indietro.... L’uomo resta immobile, con un braccio teso quasi per trattenerla. Ortensia si ferma; si rivolge di nuovo. Parlano; si comprende dai gesti d’Ortensia ch’essa lo sgrida. Che cosa dirà? Dirà: — Andate a lavorare, vagabondo!

Ma perchè non chiama Cleto? Dove sarà Cleto, l’ortolano? La vigna è già vendemmiata; e Cleto sarà lontano, nell’orto.... [p. 387 modifica]

— Mamma! mamma! Vieni a vedere! Corri!

Mino vede; ha paura.

— Mamma! — urla subito dopo; e si slancia fuori della camera. Ha visto quell’uomo gettarsi su Ortensia, atterrarla.... — Aiuto! L’ammazza!...


XVIII.


Da un giornale:

«Un’audace aggressione è avvenuta ieri sera, verso le ore diciotto, nei pressi dell’Arcoveggio. Mentre la signorina Ortensia Moser, figlia dell’ingegner Moser direttore della Società Renana di fabbriche laterizi, passeggiava nella località denominata Ca’ Rossa, è stata affrontata da un individuo, in apparenza operaio, che con insistenza le ha chiesto denaro. Al rifiuto di lei, il malfattore l’ha assalita strappandole dal collo una collana di perle e tentando soffocarla perchè non gridasse. Fortunatamente il pronto accorrere dell’ortolano Cleto Gualandi ha impedito l’efferato proposito. L’aggressore scomparve in una vigna attigua e finora è riuscita vana ogni ricerca per arrestarlo e identificarlo».


XIX.


Colui che doveva consegnarmi il telegramma mi credette presso un malato mentre io ero da un altro più lontano; ed io tornai a casa a s’era ormai tarda, quando il messo era ancora in cerca di me. [p. 388 modifica]

Di chi poteva essere il telegramma? Di Ortensia? di Moser? perchè? quale disgrazia?

L’ebbi finalmente; diceva:

Coraggio vieni subito — Claudio.

Come un baleno in una notte buia, nelle tenebre della mia mente corse l’idea che la vendetta di Roveni era compiuta!

E non c’era più un treno in partenza per Bologna! Trovammo un cavallo che andasse un po’ più forte che quello del Biondo....

....Di quel viaggio eterno mi restano nella memoria sensazioni piuttosto che pensieri.

Pareva che il galoppo del cavallo mi si ripercotesse nel cervello e un’eco continua l’accompagnasse: — Roveni, Roveni, Roveni....

....Morta? Se Ortensia, al mio arrivo, fosse morta?

A lunghi tratti la povera bestia che mi trasportava, cessava il galoppo nonostante le frustate, per rifiatare. Io, similmente interrompevo l’angoscia per sperare.

Nell’apprensione esagerata del pericolo, quale si fosse, senza dubbio Claudio non aveva compreso che terribile cosa potrebbe significare quella sua parola coraggio! Raccomandava coraggio a me lui, suo padre! quasi ci minacciasse una sventura più crudele per me che per lui, suo padre! Non era possibile!...

Roveni, Roveni, Roveni....

Morta?

Provavo la sensazione d’un sogno in cui, per sfuggire a un pericolo enorme, si corre, si corre, e un abisso vi si apre improvvisamente dinanzi, e bisogna precipitarvi.

Ricordo anche l’urlo di un birocciaio che a [p. 389 modifica]stento evitò la carrozza; e ricordo che a una borgata vidi una fiammella dinanzi a una Madonna; in una osteria altercavano.

Eppoi, quando giunsi alla Ca’ Rossa?

Claudio su la porta mi abbracciò singhiozzando, e nella loggia, illuminata da una candela, due occhi sbarrati, Immobili, mi guardavano....: Mino.

A piè della scala, per informarmi o prepararmi, mi arrestò uno sconosciuto: il medico. Io sembravo ascoltarlo attento e freddo, ma di quel che diceva non afferravo che poche parole.

— Trauma.... per spavento.... Sincope con paralisi.... minaccia al cuore.... Vano ogni tentativo di ridestare le facoltà psichiche....

Salimmo. Entrando scorsi nello stesso tempo il volto cereo di lei, in una apparenza di morte soave, e, accosto al letto, un mucchio di vesti nere; era Eugenia....

.............


— Ortensia!

Non aveva più udito suo padre, sua madre; udì la mia voce; ma le labbra livide non ebbero che un tremito.

Io sentivo il polso; guardai le pupille; le posi una mano sul cuore.... Fra poco.... E tutto ciò avvertivo come per una morente estranea al mio affetto. Ma per una estranea mi sarebbe parso inutile ricorrere a qualsiasi eccitazione.

Il medico, che assisteva, scosse il capo, per dire anche lui che tutto era inutile....

— Faccia ancora un’iniezione!

Volevo. Accondiscese; ed io col ribrezzo di una profanazione ritrassi lo sguardo. La morte era più forte e vinceva: era della morte oramai la [p. 390 modifica]persona che avrebbe dovuto essere del mio amore.

Ma la voce, quella voce ancora una volta sarebbe mia! mie le ultime parole! mio l’ultimo sospiro!

Ecco.... Le pupille si rianimavano; le labbra livide si muovevano.

— Lasciatemi solo — dissi.

Anche Eugenia s’alzò....

Con viso senza lagrime, con espressione dura, imperiosa, sua madre venne a me e toccandomi al braccio:

— Una parola.... sia per Dio.

Ah la religione sarebbe più spietata della morte? Per Dio sarebbe l’ultima parola d’Ortensia; non per me!

— Carlo....; il tuo Carlo — dicevo, col viso al viso di lei.

A un tratto la morente fu scossa in tutto il corpo: il viso, che aveva già una dolcezza di mortale riposo, si contrasse; gli occhi, che parevano già spenti, espressero un terrore, uno spavento di follia. Sollevò una mano, gridò:

— Roveni là.... Roveni!... Senti, Carlo! Dice: fermati.... se no.... t’ammazzo.... Ah senti? dice: Non devi sposarlo.... l’amante di tua.... Assassino! Menzogna! assassino! Carlo!... Mamma.... aiuto! Carlo!

Ricadde; e Eugenia, rientrando, s’abbattè ancora in ginocchio presso il letto con le mani giunte, ma gli occhi al Cielo.

Un prete s’avanzava....

Io sentivo il polso sempre più debole e vedevo il volto cereo contratto dalla convulsione riprendere quell’espressione di dolcezza. Fra poco sarebbe morta e non sarebbe diversa a vederla. [p. 391 modifica]Eppure io.... come se fossi impietrato, nel cuore. L’insensibilità d’una volta?

Vi ricorsi col pensiero e frenai un grido al ricordo, al riscontro pauroso, alla fatalità misteriosa che mi travolgeva.... Quel giorno che avevano portata Eugenia convalescente nel giardino non avevo io pensato di uccidere Ortensia così.... come Roveni?

Abbandonai il capo su le coltri.... Ma i singhiozzi mi s’annodarono alla gola; finchè il grido trattenuto proruppe.

— Ortensia! — gridai con tale strazio che Eugenia allora gemette: — Dio! Dio!

Non poteva sopportare di più. E il prete ristette, in disparte; Dio gl’impose d’aver pietà di me.

.... Quella voce! quella voce, ancora una volta!

Io la chiamavo per l’ultima volta....

Ella sorrise.... balbettò:

— Sorellina....

FINE.