Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
— 270 — |
presa mi aveva ricondotto in patria? Le risposte che gli diedi non l’impedirono dall’accompagnarsi meco e dal cadere, dopo pochi passi, in discorso di Moser. Sapeva qualche cosa, non tutto, della disgrazia; quel tanto che aveva appreso da Guido, con cui egli, sempre uomo superiore, era rimasto in buona amicizia nonostante l’inimicizia ch’era divenuta sempre più grave tra lui e il Learchi padre, ora sindaco di Valdigorgo. Soavemente compianse la «gentile» Eugenia, la «amabile» Ortensia, la; «dolce» Marcella, e rievocò i bei giorni di Valdigorgo.
— Che bei giorni, eh, dottore?...; quando non pioveva....
Già: quel giorno che gli avevo dato dello sciocco, pioveva!
Ma il culto di così care memorie l’induceva a chiedermi un favore giande, memorabile anch’esso.
— Non mi dica di no.... La mia signora: sarà felice di rivederla! Mi faccia grazia.... di venire a pranzo da; noi, oggi.
Impossibile! avevo tante faccende!
— Lo credo, illustre amico; lo credo. Però dovrà pur rubarlo un po’ di tempo alle faccende, per desinare: lo rubi, e me ne faccia dono.
— Impossibile! — ripetei duro come un tedesco.
— Non vuol oggi? Ebbene: domani!
Dàlli e dàlli; gutta cavat lapidem; e, come si usa in ogni palese per levarsi un peso d’addosso, finii per preferire l’oggi al dimani. Che peccato non fosse a Milano anche Pieruccio! Era partito, il dì innanzi, per Modena; di dove tornerebbe, fra pochi mesi, con le spalline.