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VI.


Quel triste giorno di febbraio era sull’imbrunire quando io sonavo all’uscio del dottor Guido Learchi in via Manzoni, a Milano. Una voce di donna e una voce infantile dicevano forte: — Il babbo! — Ba-bo! — e la cameriera, aprendo, rimase stupita come il bambino che aveva in braccio a veder me invece del padrone.

— Il signor dottore?

— Tarderà poco....

— La signora...?

La signora mi corse incontro, sorpresa e commossa.

— Sivori! che miracolo! che fortuna!

— Marcella.... — Anch’io non trovavo parole.

— .. .. E Guido?

— Tarderà poco. Come resterà a vederla!

Eravamo appena nella linda cameretta da desinare (ove già dalla tavola fumava la zuppiera) che Guido arrivava tutto rubicondo, con tale confusione di, piacere che si dimenticò di darmi del tu.

— Lei!... Sivori! — Ci gettammo l’uno nelle braccia dell’altro.

— Hai fatto benissimo, Sivori, a arrivarci addosso così all’improvviso! — proseguì Guido rimettendosi. — Io l’ho sempre pensato che se non cascava il mondo tu, un giorno o l’altro, ci avresti sorpresi, me e Marcella, con un rampollo degno di noi, proprio a quest’ora: all’ora di desinare! — Egli rideva di gran gusto; e mi ob-