Bestie
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FEDERIGO TOZZI
BESTIE
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1917
SECONDO MIGLIAIO.
BESTIE
Che punto sarebbe quello dove s’è fermato l’azzurro? Lo sanno le allodole che prima vi si spaziano e poi vengono a buttarsi come pazze vicino a me? Una mi ha proprio rasentato gli occhi, come se avesse avuto piacere d’impaurirsi così, fuggendo.
Che chiarità tranquille per queste campagne, che si mettono stese per stare più comode! Che silenzii là dall’orizzonte e dentro di me!
La strada per tornare a Siena è là. Vado.
Le case si facciano un poco a dietro, e quel mendicante non mi cada addosso. Almeno, l’altro è seduto per terra! Dio mio, tutte queste case! Più in là, più in là! Arriverò dove trovare un poco di dolcezza!
Dio mio, queste case mi si butteranno addosso! Ma un’allodola è rimasta chiusa dentro l’anima, e la sento svolazzare per escire. E la sento cantare.
Verso il settentrione; dov’è di notte l’orsa, dove la luna non va mai!
Ora, se anche io t’amo così, o allodoluccia, vuol dire che tu puoi restare dentro la mia anima quanto tu voglia; e che vi troverai tanta libertà quanta non ne hai vista dentro l’azzurro. E tu, certo, non te n’andrai mai più.
Non fai né meno ombra!
Esciamo dalle strette delle case e dei tetti. La città si chiude sempre di più; le case sono sempre più vuote; e non vi troveremmo niente per noi.
Lasciamola, qui, questa gente che metterebbe me al manicomio e te dentro una gabbia!
Sono le tue ali che tremano oppure è il mio cuore? Credo che sia passata la morte, in cerca non si sa di chi. Oh, ma la chiuderemo dietro qualcuno di questi cancelli, in uno di questi vicoli senza sfondo, insieme con la spazzatura! A Siena, ce ne sono di questi cancelli che nessuno apre mai, perché non servono più a niente; dalla parte di dietro a qualche orto che nessuno coltiva; di fianco a qualche palazzo disabitato.
Nel tinaio, sotto un vecchio barile che aveva perduto anche i cerchi, ritrovo una tavola di sorbo. Perdio! Se mi riesce a segarla come voglio, mi ci viene un bel tagliere. Prima, con la lima a triangolo, arroto i denti della sega, poi mi metto all’opera. È legno così duro che, per quanto consumi tutta la sugna che tenevo incartata su la cappa del camino, non giungo alla fine. La sega brucia e doventa pavonazza. E poi, non mi riesce d’andare a filo. Allora prendo un accettino e concio la tavola alla meglio. Quando ho quasi finito, m'accorgo che c'è un buco fatto da un tarlo. Lo voglio trovare! Spacco nel mezzo la tavola; e in fondo al buco, che gira quasi come una spirale, lo trovo; bianco e tenero, con una puntina rossa. Lo lascio stare: io sono Dio, ed egli è un solitario dentro una Tebaide.
Da ragazzo, mi compravano pochi libri. Mio padre voleva ch'io non leggessi; e, con la scusa che mi sarei sciupato gli occhi, non cavava mai un soldo di tasca. Quei cinque o sei che avevo, li tenevo insieme con la biancheria; e m'avveniva che, quando tiravo il cassetto per prendere una camicia o altro, ne aprivo uno e leggevo senza muoverlo dal suo posto.
Ma, un capodanno, la mia donna si decise a comprarmi per regalo, avendo io insistito fin da un mese prima, quel libro del Verne che si chiama Nel paese delle pellicce. Io cominciai a leggerlo, ma non andavo mai in fondo; perché tornavo sempre alle pagine addietro. Finalmente, dopo un tre mesi, giunsi all'ultima pagina come se quelle avventure fossero toccate a me. E più d'ogni altra cosa, forse, mi rimase a mente una figura dov'era un orso che voleva entrare dentro una capanna.
Tutte le volte che ho visto orsi veri, ho sempre pensato a quello; e come, guardandolo, per un bel pezzo mi scuotevo e mi smuovevo tutto.
Mi ricorderò sempre degli otto mesi che, a Siena, precedettero il mio matrimonio; forse perché non mi accadeva mai niente, e tutti i giorni, due volte, scrivevo alla mia fidanzata.
Stavo a retta in Via del Refe Nero, in fondo alla scesa. La mia padrona vendeva il vino, e dalla sua fiaschetteria si poteva salire in casa: di lì passava sempre lo sguattero di quella trattoria che avevo incaricato di mandarmi il pranzo e la cena.
Per pigliar moglie aspettavo che i miei interessi, essendomi morto anche il padre, fossero stati sistemati. Parentele non c'erano; ed io vedevo molto di rado anche i miei amici. Andavo a trovarne qualcuno la sera, quando mi ero sentito troppo solo. Anche con la mia fidanzata parlavo, si e no, tre volte il mese, di nascosto, fuori di città, perché suo padre non aveva ancora voluto dare il suo consenso, permettendole nondimeno di ricevere le mie lettere e di rispondermi: credo che volesse aspettare la sistemazione della mia eredità, ch'egli supponeva molto al disotto di quanto è stata. C'erano, è vero, molti debiti da pagare; ma non abbastanza da sciuparmela!
Il mio amore sincero per Clementina aveva molto influito su la mia vita e sul mio carattere. Mi ricordo che una volta, per esempio, avrei potuto veder nuda, riflessa dal suo specchio, la mia padrona di casa, che non era né brutta né vecchia, ed io invece entrai in fretta nella mia camera. Un'altra volta, d'estate, mi ritrassi dalla finestra perché a un'altra finestra, dall'altra parte della strada, a un piano più basso, c'era una ragazza che si spogliava. Ora non lo farei più!
Ogni giorno m'accadeva di vedere e di osservare le stesse cose e le stesse persone. Il calzolaio, di faccia, che faceva invano la corte alla mia padrona: era un ometto piuttosto basso, magro, con i baffetti sottili e gli occhi glauchi: ad ogni momento, lavorando, seduto sul suo panchetto, si passava il dorso della mano, quella libera, sopra i baffetti.
Un altro vinaio che stava su la porta della sua fiaschetteria a guardare sempre quella della mia padrona: qualche volta faceva anche pochi passi, nella strada, con le mani incrociate: portava un grembiule con una gran tasca dove teneva i soldi e le chiavi, un berrettino scuro; e aveva i baffi neri, alto e sempre serio, a capo basso. Quando entrava un cliente nella sua bottega, lo lasciava passare innanzi e dava un'occhiata a quella della mia padrona. Sopra la sua insegna c'era una Madonna, ad affresco, scalcinata e stinta: tutti i sabati le accendeva il lumino, tirando giù la fune a cui era attaccato: riconoscevo perfino il lieve cigolìo della carrucolina. E poi restavo, dietro i vetri, a guardare quel lumicino che faceva scorgere soltanto le mani e le ginocchia della Madonna.
Nella casa di faccia alla mia, un poco di sghembo, perché la via non è dritta, c'era un laboratorio di sarta. Una delle ragazze, saranno state quasi una dozzina, non andava, nell'ore di riposo, a mangiare come facevano le altre; ma socchiudeva la finestra dietro la quale prima aveva mangiato, in piedi, il suo spicchio di pane con il companatico, per fare all'amore con uno studente che aveva la finestra di fianco alla mia. Il sole le batteva, tra l'una e le due, proprio su la faccia, ma stava per tutto quel tempo quasi immobile: era biondissima, con una carnagione più rossa che rosea. Non sorrideva mai, forse per nascondere di più agli altri il suo motivo di star lì.
Sopra a me, abitava la moglie di un pizzicagnolo, e tutti i pomeriggi il vicecurato della nostra parrocchia saliva da lei: ne sparlavano, ma non ci credo. Era pallida e con un collo così gonfio che mi faceva pensare a quello di un'anatra quando ha il gozzo pieno.
Qualche sera, io escivo e andavo in Piazza di Provenzano: c'era più fresco e vedevo la campagna doventar madreperlacea, dietro le mura della città, tutte rosse e più alte o più basse secondo la forma dei poggi che, di seguito, salgono e poi scendono. In fondo, il Monte Amiata che brillava come una seta azzurrognola; mentre gli avvallamenti del terreno, quasi tutto creta, si empivano di un'ombra violetta, e i rialzi s'illuminavano di giallo o di bianco. Poi l'ombra velava ogni cosa, i colori si confondevano e sparivano: e tutta la campagna mi dava un senso di solitudine che mi scoraggiava. Quando m'allontanavo dal murello, su cui m'ero appoggiato con il petto e con i gomiti, i tre lampioni della piazza erano già stati accesi, la facciata della Chiesa era più grigia, la cupola pareva per sparire nel cielo con la sua palla dorata che non luccicava più. Via Lucherini, in salita, era oscurissima: io tornavo a casa toccando uno per volta i colonnini dalla parte del mio marciapiede. Qualche volta, da un uscetto, che è più alto della strada due scalini, esciva una meretrice che ci stava di casa. Ed io, per guardarla, una volta, buttai giù, urtandoci, una gabbia con un merlo; che un ciabattino teneva attaccata ad uno stipite fuor della sua bottega.
La mia anima è cresciuta nella silenziosa ombra di Siena, in disparte, senza amicizie, ingannata tutte le volte che ha chiesto d'esser conosciuta.
E così, molte volte, escivo solo, di notte, scansando anche i lampioni. Per lo più andavo fino alla Piazza dei Servi, tutta pendente dalla scalinata della Chiesa, con due abeti in mezzo a due piccoli prati, divisi tra loro dalla imboccatura della strada. Accanto alla Chiesa, un convento; quasi di faccia, un altro; da una parte, un muro con sopra i mattoni messi ad angolo; di là dal muro, Siena con tutta la sua torre. Allora pensavo alla mia fidanzata.
Siccome mi riesciva di vivere, così, separato da tutti, ogni volta che qualcuno mi guardava con quella sua curiosità acuta che m'offendeva, io doventavo più triste; e facevo la strada più corta possibile. Non passavo mai per Via Cavour, che è quella principale; ma, dal Vicolo della Torre, rasente il Palazzo Tolomei, le cui pietre sono ormai nere, attraversavo e scendevo per il Vicolo del Moro: in fondo, a sinistra, c'era la mia casa.
Basta ch'io mi ricordi di quelle mie tristezze perché mi sembri cattivo anche il cielo di Siena. Specialmente la sera soffrivo troppo, e non accendevo il lume per non vedere le mie mani: la tristezza stava sopra la mia anima come una pietra sepolcrale, sempre più greve; e mi sentivo schiacciato su la sedia. E avrei voluto morire.
La mattina, quando incominciavano i soliti pettegolezzi e le chiacchiere — la mia padrona, Marianna, non poteva fare a meno, magari con una parola sola, di farmene sentire subito la feroce persecuzione — andavo subito in collera; ed ero certo che sarei stato male tutta la giornata.
O strade che mi parevano chiuse sotto campane di vetro!
O amicizie sognate, e soffocate per forza dentro la mia anima, con ira!
Quando andavo a lavarmi le mani e il viso in cucina, sotto la cannella, quasi sempre una lumaca aveva scombiccherato, con il suo inchiostro luccicante, tutta la porta.
Egli è tisico: con il viso giallo e incavato. Soltanto la punta del naso ha pavonazza e con qualche bitorzolo. Porta gli occhiali, e dentro i suoi occhi pare che cada la cenere. Cammina a lunghi passi rigidi; smuovendo, secondo il piede, le spalle.
Ella si vergogna di mettersi una rosa! I suoi guanti sgualciti e sfondati, la sottana che le resta tra le gambe, il cappello ch'era stato di moda dieci anni prima, le scarpe con i tacchi storti.
Si conobbero a una birreria, accanto al pubblico passeggio, di domenica: i tavolini di pietra, rotondi, gli sgabelli di ferro verniciato, l'orchestrina stonata, diretta dal maestro calvo.
Si sposarono.
Non escono quasi mai insieme; ed ella è seguita da un canettaccio bastardo, spelacchiato e rattrappito, che dopo ogni trenta metri s'arresta per non cadere su le gambe di dietro.
Mi ricorderò sempre dei bei prati verdi che cominciavano dalla mia anima e da’ miei piedi, e finivano quasi all'orizzonte. Pareva che tutta la terra stesse zitta per forza! O lunghe ventate, che non mi davano tempo di pensare! Forse, non ero triste quanto oggi; e tutte quelle mattine passate in ozio mi facevano bene.
Vedevo i contadini lavorare, di lontano, sul terreno a poggetti: e mi proponevo di andarci a parlare. Ma, fatti pochi passi, non ne avevo più voglia. Allora guardavo le case dei poderi, sempre dietro una sfilata di cipressi, con la strada in salita dove i carri avevano lasciato solchi larghissimi, sciupandola e portando via qualche strisciatura dai greppi. Forse, lo ripeto, non ero triste quanto oggi; e nel mio cuore i sogni non erano come vipere che si sentono buone. Allora, una giornata trascorsa non mi pareva un'altra ruga della mia fronte; e non avevo voglia di piangere, come ora, anche per piccola cosa e anche per niente.
Ma, forse, mi pentirei io di piangere?
Io sono soffocato dal mondo; e, quando parlo, mi pare che la mia anima riesca ad escirne fuora. E perché posso sentire odori che forse né meno esistono?
Io avevo in mente di trovare alberi, ed alberi erano da per tutto. Ma quel cielo, tutto turchino uguale, che mi pareva fossesi chiuso soltanto pochi momenti innanzi che io arrivassi, mi metteva un rimpianto di sogni.
Su i poggi cretacei l'aria splendeva, i fieni tremavano e luccicavano; e dalla strada, ch'io non vedevo, si fermavano, quasi salendo sopra i greppi, lunghe striscie di polvere dietro le automobili. Quella polvere pareva gialla; ma, diradandosi sempre di più, cominciava a brillare proprio nel momento ch'era per sparire affatto.
Dopo aver guardato, scendevo lungo i confini umidi del mio campo, dove l'erba era sempre più fitta e più alta. Talvolta nascondeva l'acqua traboccata dal fossetto; e mi bagnavo tutte le scarpe. Arrivavo fino ad un pinzo, dov'era un nocciolo selvatico: fermatomi dinanzi a lui, a poca distanza, non andavo via senza aver prima troncato un ramicello che mettevo subito in bocca. Risalendo il confine, verso casa, mi chinavo, senza fermarmi, per strappare un ciuffo di nipitella; e la sfregavo tra le mani.
Sul mio poggio, rivedevo i cipressi e le siepi. Allora guardavo lungamente il turchino, ed ero contento di vedervi un pettirosso che ruzzava con le sue ali.
Io non so chi fosse il morto. La marcia funebre suonata dalla Filarmonica mi fece balzare da sedere: il carro a cavalli aveva già voltato per un'altra strada, e le fiamme delle torce mi fecero caldo al viso. Passò la folla degli amici e dei curiosi. Le corone, sorrette a mano, si comportavano così bene che ciascuna s'appoggiava su le braccia dei due uomini come se non avesse potuto più resistere al pianto della musica. I ceri cercavano di cadere. Lo stendardo, verdastro e sporco, faceva di quando in quando alzare gli occhi agli incappucciati di bianco; le cui medaglie attaccate alla cintola sbattevano.
Quando tutto il corteo fu passato, io rimasi alla finestra rodendo con i denti il legno della persiana. E mi distrassi, a poco a poco, guardando una zanzara le cui ali parevano infilate a due pezzetti di capello.
Invidio quel ciabattino che suona così bene la chitarra quando non ha più voglia di farsi male alle dita con la lesina. Una ventina d'anni, una gamba sola, e poca voglia di lavorare.
Le donne, che tornano invano più d'una volta a riprendere le scarpe, stanno con lui sempre a chiacchiera.
Quando ha fatto colazione, stende la gamba di legno su la seggiolina del compagno il quale va a cucire in fondo alla stanzetta: il suo bel viso esprime una contentezza, quasi cattiva e viziosa: ha i capelli lunghi e a zazzera, gli occhi chiari, furbi ed anche intelligenti. Se poi si mette a cantare, quando ha finito ride, seguitando a fare qualche accordo più piano che è possibile e pigiando perciò subito la mano su le corde. Quella sua chitarra ha una voce che riconoscerei fra cento altre: con le corde un poco lenti e molli, rauca e triste.
Egli dà la baia a tutte le ragazze che passano, alzando il viso dall'uscetto. Ma essendo la sua bottega, senza finestre, più bassa della strada quattro scalini, le ragazze lo sentono e non vedono nessuno. Ho notato che qualcuna trattiene il passo per capire da dove viene quella voce.
Egli dice più bestemmie che non dia punti alle suole. Ha bestemmie inventate da lui e che, dagli altri, ridendo, sono lodate così: — Me le insegna Fonfo!
La sua bottega assomiglia a quella di tutti i ciabattini: non è difficile ch'egli ve la faccia ammirare, se andate a parlargli.
Nella parete più larga, quella dinanzi alla porta, ci ha impastato un calendario tredici anni fa, quand'era un ragazzino. Il suo babbo, religioso, teneva una madonna quasi all'altezza del soffitto, e sopra una tavoletta sorretta da due mensoline di gesso le accendeva il lume ad olio tutti i sabati. Ora c'è rimasta la madonna e il bicchierino del lume che invece d'olio è pieno di polvere nera.
Ma non so definire l'effetto che mi produce Fonfo quando fa saltare in cima alla gamba di legno, tenendola su più alta del capo, la gazza spennacchiata, sudicia e sempre fradicia, perché entra nel catino dov'egli bagna il cuoio.
Il Migliorini è un uomo che lavora la terra a un tanto il giorno; cambia padrone quasi tutte le stagioni, ed è bravo a potare le viti.
Egli comprò, da un suo amico rigattiere, la Gerusalemme e l'Orlando: dieci volumi di quella carta che pare cencio, e con una piccola figura sopra ogni canto. Quando è l'ora di riposo cava dalla sporta, lasciata a un ramo di qualche pianta, un volume, e lo legge agli altri.
L'anno che lo conobbi, se pioveva entrava dentro una grotta vicina al mio podere, dove ci potevano stare a pena in dieci, seduti sopra pezzi di legno secco e avanzi di potature. L'acqua sgocciolava da per tutto e colando dal tronco di un pesco, nato quasi a traverso l'imbocco, faceva una pozzanghera proprio nel mezzo. Ma il Migliorini, con la zappa, scavando un fossetto e alzando un argine con la terra smossa, aveva provveduto in modo che le scarpe non se le bagnavano più. Poi, acceso un poco di fuoco, arrostiva le fette del pane, infilandole ad una frusta che egli girava, tenendo l'Orlando aperto sopra una coscia e stando in ginocchio con l'altra gamba.
Io mi ci sarei indolenzito subito.
Ad ogni ottava, faceva il commento a modo suo; e poi: — State a sentire com’è bella! Non pare vera?
E batteva le lunghe dita terrose sul libro. Sapeva dire in poche parole la storia d’ogni personaggio; e rispondeva a tutte le domande che gli facevano i compagni. Aveva gli orecchi bucati; ma aspettava che morisse un suo zio che gli avrebbe lasciato due anelli d’ottone. Portava i capelli lunghi di dietro, come una ragazza a cui stanno per ricrescere dopo che le sono stati tagliati. Teneva il cappello sopra gli occhi, ed era molto alto. Quando tornava a casa, infilava la sporta al braccio fino al gomito: d’inverno aveva un pastrano turchino; e al cappello, in vece del solito nastro, una trina nera, da donna.
Una volta, veduto un rospo, insegnò come si uccidono: si prese di bocca, con un dito, la cicca che biascicava; e, messala in cima al coltello, gliela cacciò dentro la gola. Il rospo cominciò a tremare doventando quasi giallo: apriva e chiudeva gli occhi, che parevano più piccoli e più lucidi. Quando venne il padrone, perchè l’ora del desinare era passata, con un calcio tirarono in fondo alla balza la bestia già morta, dove facevano le fosse per le viti. E quando, l’anno passato, ripulirono un gran fontone putrido e verde che pareva un padule, di fianco a un bosco di querci e di castagni, pieno di macigni e di radici nere, cavavano fuori dell’acqua i rospi con una rete fatta con il filo di ferro, per metterli dentro un secchio. Quando il secchio era colmo, aprivano una buca con una vanga; e ve li zeppavano dentro. Poi li ricoprivano di terra; e, sopra, dopo averci pigiato con i piedi, lasciavano uno di quei macigni più pesi.
Io andavo da una pianta all’altra senza dir niente, perchè sarebbe stato impossibile farli smettere; con il cuore doventato mencio. Ma come mi s’empì la bocca di saliva, che pareva bava, quando vidi una rospa che pareva un grande involto! E poi che ella mi guardava con quei suoi occhi di ragazza brutta, forse più acuti dei miei, mi sentii venir male.
Ma due anni fa, dopo il vespro, per tornare a casa, io dovevo camminare lungo un viottolo fatto sul margine di un torrente, scansando a ogni passo i salci e i pioppi. La mia scontentezza cresceva come le ombre; e niente c'era di peggiore della sera diaccia. Le nebbie salivano lungo il torrente; i salci sgocciolavano, con le gocciole che si fermavano un poco in punta alle foglie all'ingiù; i pioppi erano umidi. I poggi s'oscuravano, e le terre lavorate doventavano più nere. A qualche podere vedevo una finestra con il lume. Le chiese avevano già suonato, e i loro echi m'erano parsi di un azzurro così cupo e taciturno come erano taciturni gli usci rossi delle capanne chiuse e le aie deserte.
Siccome la strada era lunga, mi si faceva buio presto; e, se nessuno s'accompagnava con me, camminavo più piano quantunque mi crescesse la fretta d'arrivare. Che tristezza desolante e silenziosa! Qualche volta un rovo, i cui tralci erano stesi in terra, mi s'attaccava ai calzoni: prima di distrigarmi, mi approfittavo d'esser stato fermato per sfogare la mia scontentezza guardando l'ombra dietro a me. Ma tutto il torrente era pieno di rospi da dove ero venuto a dove andavo, anche così lontano che gli ultimi a pena s'udivano; e la loro voce che mi pareva tranquilla, ed è invece tremula, mi consolava. Tutti gli altri che avevo veduto morti o agonizzanti ricordavo allora! Quello a cui con una frusta di salcio avevano fatto un nodo scorsoio e l'avevano lasciato lì ciondoloni; quello infilato, dal ventre, a una canna aguzzata: la canna riesciva dalla bocca, e il sangue colava giù grosso e scuro; quello a cui avevano schiacciato con i sassi tutte e quattro le zampe; quello accecato con i tizzi della brace; quello sbudellato con un colpo di falcino; quello schiacciato dalle ruote del carro, a posta; quello lanciato in aria dando un colpo sopra una tavoletta messa in bilico; quello pestato dai due fidanzati: questi sono i rospi che ho visto morire, silenziosi, con quei loro occhi che di notte luccicano.
Dietro la mia aia ci sono due pagliai quasi uguali, l'uno accanto all'altro che a pena ci passa tra il mezzo un uomo. Sedendomi in cima all'aia, dove tira meno vento, vedo tra i due stolli un pezzo d'orizzonte. Non c'è mai niente: né meno le stelle, perché stanno più alte; ma non so perché seguito mezze ore a tenerci gli occhi pensando tante cose.
Una sera mi divertivo a veder le nuvole che, a brancate fitte, una dietro l'altra, passavano tra quei due legni. Era già più di un'ora; ma il vento tirava sempre eguale facendo un brusio tranquillo dietro le mie spalle, nel bosco di una villa. A volte, ascoltando, pareva che il brusio crescesse sempre di più; ma mi accorgevo subito che era un'illusione.
Dunque, le nuvole venivano forse per ruzzare, ma senza mai urtarsi o trattenersi dubitando della strada: talvolta, se tenevo il capo riverso, mi pareva un'enorme nevicata a sguiscio, orizzontale: e, in fatti, quelle nuvole parevano immensi fiocchi di neve; ma non traballavano e non deviavano. Da dietro all'ultima collina facevano a pena in tempo ad apparire che già erano sopra i due stolli: di quelle passate dietro di me non me n'occupavo, ma mi pareva di udirle correre cadendo sopra l'altra cerchia di poggi dove tramonta il sole. Ad un tratto, si diradarono; il vento cambiò, mulinando un poco e buttandomi su gli occhi la polvere dell'aia. Allora una nuvola sola, grande, piatta, candida nel chiaro di luna, ma soffice e leggera leggera, si fece avanti. Di mano in mano che s'avvicinava, si stese di più, perse qualche lembo; si forò, ma si richiuse: non molto compatta, quasi per cadermi addosso: a pena sorretta dal vento che doveva durare fatica a smuoverla. A mezzo cielo, si fermò. Allora m'accorsi che tutto l'orizzonte ormai ne era coperto. La luna, che io non potevo vedere, la illuminava così bene di sotto che quasi abbagliava gli occhi; specie la sua punta; mentre il turchino del cielo s’era fatto più nero, senza stelle. Quando smisi di guardarla, e girai gli occhi intorno, mi sentii smarrito e per morire subito; ed avrei avuto bisogno di appoggiarmi: ma mentre così aspettavo che mi passasse il malessere e di tornare bene in me per andarmene, mi rasentò, come se fosse mandato da quella stesa di nebbia così alta, un vipistrello.
Dove vai tu ch’io sento parlare e perciò riconosco? Tu non esisti, ma io vedo lo stesso come sei vestita; ti vedo camminare, ti sento vicina; e scorgo bene il tuo viso. Allora, non mi rimane che mettermi a scrivere, perché ci sentiamo già d’accordo; ed io qualche volta suggerisco e finisco i tuoi pensieri, e qualche volta bisogna che ti ascolti. Tu sparirai come una bolla di sapone; anzi bisogna ch’io mi affretti perché tu mi giri intorno con troppa fretta, rapidamente.
E se m’avvicinasse una persona di casa, ecco tu, o allucinazione, te ne andresti dietro la porta; ed è probabile che tu non tornassi.
Potrei raccontare con precisione come sei pettinata, come tieni le mani.
Ma ecco sento chiacchierare da vero; e un piccione, beccando a un vetro della finestra, ti strappa da me.
Per lo più i nomi di quelli che fanno parte d’una famiglia acquistano un’armonia che li riunisce, sembrano fatti d’una stessa materia, come i chicchi d’un rosario. Già i nomi, che si tramandano da avo a nipote, completano questa fisonomia. Delle persone che amiamo, dei nostri parenti, non rimane nel tempo che il loro nome; quand’essi non sono né meno doventati fotografie sbiadite negli angoli meno visibili del nostro salotto.
Siccome la mia zia era morta povera, non avevo mai più aperto l’armadio dove stavano ancora i suoi abiti. Soltanto dopo cinque anni, dovendo ripulire la casa per prender moglie, untai con la penna e con l’olio la serratura prima di ficcarci la chiave ricoperta di ruggine.
Dunque dicevo che la mia zia aveva una voce che ricordava le pasticche biascicate senza che nessuno se n’avveda. Tutte le volte che veniva a cercarmi, ch’io l’avessi chiamata o no, teneva le mani, una dentro l’altra, nel grembo. Quando se ne andava, era certo che le moveva perché aveva intenzione di mettersi a qualche faccenda.
Si chiamava Betta, ed aveva cinquant’anni quando morì di male nervoso.
La sua vita ch’ella non mi confidava, il suo modo di parlare per nascondersi più che fosse possibile: per me non era che una vecchia vestita male, con molte grinze, senza denti, senza sentimenti, affezionata, paziente, modesta.
Accendeva i fiammiferi soltanto su l’impiantito, a mangiare ci metteva tre volte più di noi e mangiava meno, voleva esser l’ultima ad andare a letto, la prima ad alzarsi; quando non faceva niente s’appoggiava sempre a qualche cosa, in cucina alla madia; si confessava ogni mese; era di stomaco debole; non le piaceva l’agnello; non sapeva né leggere né scrivere; canticchiava quand’era sola. Tutte le cose che diceva riguardavano soltanto quelli di famiglia. Per solito cominciava così: «Il mio povero marito....». Aveva tre figliole tutte sposate, che andava a trovare per le feste solenni.
Era invecchiata tra cinque casupole, che chiamano Ferraiola, a ridosso d’una scorciatoia scavata sul galestro e le macchie di ginepro. Questa scorciatoia è l’ultima svoltata, dinanzi al lavatoio, che si trova per salire a Pari; e porta, passando da Casale, fino a Paganico e poi a Grosseto.
La prima figliola stava a Pari, ossia distante meno di mezzo chilometro da Ferraiola; ma la zia non si sarebbe mossa da casa senza mettersi il migliore vestito, e parlava di Pari come di un territorio straniero, a cui non s’appartiene e con il quale non c’è niente da vedere, dove non si va che di rado e il meno possibile e per qualche ragione speciale. Non importava che dalla sua finestra vedesse tutto il cocuzzolo del caseggiato!
L’ultima volta che la mia zia venne da me, mi portò, dentro un fazzoletto, due conigli da razza che le graffiarono le mani.
Bisognò disinfettargliele; ed ella non voleva e ci pianse.
Nei grandi prati, che mi piacevano anche prima di leggere il Petrarca, torno per vedere i fiori che avrei offerto, molti anni fa, a qualche ragazza che me l’imaginavo come ora la vedo disegnata in qualche libro. Doveva esser sopratutto buona e sentimentale; e mi doveva amare sempre lo stesso quantunque l’avessi sposata. E, qualche volta, rileggendo le nostre lettere, dovevamo sospirare insieme.
Ma i fiori ci sono anche quest’anno e forse di più, perché il tempo è stato meno secco; e allora mi vien voglia di correre verso l’orizzonte per vedere se mi riesce d’abbracciare questa donna che mi pare più viva di prima.
Ma c’è soltanto una rondine che stride.
Le notti d’estate non dormivo: e, s’ero andato a letto piuttosto presto, mi rialzavo e uscivo. È strano come la notte mi sia impossibile pensare a quel che ho fatto il giorno! È per me un altro mattino che comincia. I miei sogni, allora, sapevano d’aceto od erano voluttuosi.
E le strade solitarie, dove i lampioni parevano acchiapparsi al muro per non cadere dalla stanchezza, svegliavano tutti i miei brividi: e cercavo per l’indomani gli amici e la donna da amare, che non amavo mai. Quando tirava vento, qualche manifesto staccato, sotto un arco, sbatteva nel muro; e anche il mio cuore sbatteva.
Quando amavo sempre la medesima, mi piacevano i tetti rossi e i geranii. Di primavera m’ostinavo a doventar cattolico e d’inverno sognavo di doventar ricco.
Ah, non dimenticherò che ella si faceva togliere le calze da me perché le baciassi i piedi, si faceva sbucciare le frutta, mi bruciava il viso con la sua sigaretta! E perché, quand’ella mi teneva abbracciato, io guardavo noi due nello specchio e non sapevo se fossimo di qua o di là da esso? E perché dimenticavo perfino il mio nome? Ella mi aveva ingannato sempre; ma ero così abituato a lei che l’amavo ugualmente. E per la stessa ragione che l’orsa la notte splendeva, così doveva esserci il mio amore; e mi pareva che la mia bocca fosse nata soltanto per baciare lei. Ah, sì!
Mi piacevano i tetti rossi, i platani pieni di foglie, le acacie quando avevano messo i loro fiori, i muri delle strade e le finestre chiuse! Ma più di tutto, lo ripeto un’altra volta, mi piacevano le distese dei tetti rossi ch’erano una festa per la pioggia e per il chiaro di luna che mi faceva stare con la testa ai vetri.
Pensavo, invece, a cose che avrebbero dovuto nascere l’indomani e che io stesso dimenticavo. Non so di che mi vergognassi.
In campagna mi fermavo sotto un albero che aveva i rami troppo schiacciati, e gli offrivo di sorreggerli con la mia anima. E prima d’entrare in una strada io mi ci affidavo tutto. La stessa città mi pareva forse più di cento città: quella di quando avevo venti anni non somigliava a quella di venticinque; la molta gente che conoscevo, mi faceva lo stesso effetto di un pianoforte se si pigiassero insieme tutti i suoi tasti.
Rientrato in casa, deliberavo di star con la finestra aperta; e allora la notte aveva una dolcezza piena di estasi sovrapposte, come accordi, dal silenzio. Palpavo, con le braccia scosse dai brividi, il mio letto dove m’aspettava il sonno come un compagno. Ma io ero certo di non aver mai dormito; e mentre la musica della notte entrava, quasi di corsa, dalla finestra, io ascoltavo in piedi nel mezzo della stanza: la mia giovanezza era una cosa sola con il tempo, che mi trasportava con sé. E respingevo da me l’ultima donna, la cui nudità mi faceva un poco di ribrezzo.
Ma perché, dunque, quando due briachi cantarono io non chiusi la finestra? Perché la loro voce mi dava una gioia irrefrenabile, una contentezza che non mi faceva star fermo? Sapevo forse spiegarmi quel che fosse avvenuto? Non potevo io aver ucciso molta gente? Di che cosa temei, all’improvviso? Perché non morii in quel momento di dolore?
La voce dei due briachi divenne come un disperato singhiozzo lungo, una tristezza che mi faceva raccapriccio. E, quando, affievolita, fu per sparire, io mi sporsi dalla finestra: le stelle mi parvero più belle, e lì ad aspettarmi.
E capii perché un gatto, accovacciato su la porta di casa mia, fosse scappato quando gli fui vicino.
Che primavera disperata e terribile! Avevo ancora da pagare il conto del fabbro, quello del falegname, quello del carraio, quello della spazzatura, dello zolfo, del maniscalco; e i soldi non c’erano. Il tepore dell’aria mi faceva girare la testa.
Andavo per il mio campo, da un filare all’altro, quasi tutto il giorno, senza perché, come un cane che cerca un osso qualunque. La sera, prima di dormire, soffrivo anche di più; e mi sforzavo di non pensare a niente, ma di sognare subito. Una mattina mi alzai con la voglia di uccidermi: dalla finestra pareva che anche il mio campo si travolgesse come me, nel vento; come mi volesse portar via tutti gli olivi. I muri della camera si facevano sempre più stretti, accostandosi insieme, e il mio respiro si mescolava con il loro: sentivo il sapore della calcina. Sono certo che piangevo! Mi pareva di cadere con la testa in giù, senza aver niente a cui sorreggermi.
Un tratto, proprio dinanzi alla mia bocca, io vidi un ragnolino, quasi trasparente, attaccato, come un peso, al suo filo.
Era dopo mezzanotte. Ogni passo che facevo verso la mia casa pareva che mi troncasse le gambe. E dovevo arrivare a tutti i costi! Io non amavo più la donna che mi aspettava; e perciò, qualche volta, mi soffermavo con gli occhi fissi alle stelle, sentendomi doventar pazzo e cattivo. E già vedevo il tetto della casa, nell’ombra di otto cipressi, più suoi che miei; perché niente mi pareva mio all’infuori della donna che non amavo.
La mattina dopo, avrei avuto la forza di andar via, perché il suo pessimo amore non corrompesse più il mio sangue? Per fortuna non l'avevo sposata, e non volevo più che la sua anima, falsa come due dei suoi denti, sebbene non m'avesse mai tradito, cercasse la mia quando sognavo l'amore che devastava tutta la mia anima. Mi pareva di durar fatica ad attraversare il chiaro di luna, così silenzioso, tra le ombre delle fronde e quelle delle cancellate dinanzi alle ville.
Quando fui presso un pino, sentii un usignolo; io feci un grido, e poi gli tirai un sasso. Avessi avuto un fucile!
Una sera d'estate mi sedei a piè d'un greppo e cominciai a fumar sigarette l'una dopo l'altra. Era molto scuro, e le stelle parevano così piccole che certo avrebbero bucato. Avrei voluto con me un amico per parlare di qualche cosa, o meglio per ascoltarlo. Quando voglio bene ad un amico, mi piace di più star zitto fumando.
Quasi annoiato e intristito a star lì, appuntellai le mani sull'erba e feci per alzarmi. Allora un grillo, così vicino che non raccapezzavo dove, cominciò a cantare. Era tra le mie ginocchia, forse? Era dietro a me? Né meno. M'era saltato addosso? Mi scossi tutto: no. Dovetti andarmene, e mi misi a piangere.
A diciannove anni mi venne l'idea che sarei morto tra qualche mese. Non so perché, tanto più che non ero ammalato né avevo mai tossito. Ma m'ero convinto e basta.
Con l'ebbrezza della mia adolescenza mi sentivo doventare amico di tutte le cose, ed io mi preparavo a salutarle qualche sera, quando la luce del tramonto si stendeva sopra i tetti di quella parte della città che guardavo, seduto su la mia poltrona dove sarei certamente morto. E nel tempo delle vacanze, non mi voltavo né meno verso il mio scaffale pieno zeppo dinanzi alla scrivania inclinata; della quale avevo contato scrupolosamente, con angoscia, tutte le macchie d'inchiostro.
Ma i tetti erano là, cominciando dal mio davanzale, come un pendio che volesse precipitare la mia anima nell'oscurità silenziosa e diaccia della campagna. Qualche sera, escivo e andavo fuori di porta fino a Pescaia dove stava un contadino che teneva sette mucche. La mia malinconia aumentava con la sera; e i lumi a olio, che vedevo dentro la stalla di quel contadino, perché per lo più l'uscio lo lasciava aperto, mi tormentavano come una dolcezza che non potevo spegnere con me. Dopo di me avrebbero bruciato ancora; e, forse, qualcuno li avrebbe guardati volentieri. E siccome non potevo mangiare, perché digerivo male, dicevo al contadino che volevo bevere un bicchiere di latte a pena avesse munto. Quando l'avevo bevuto, sempre con due sorsate che cercavo di fare uguali, guardavo le mucche che avevano il muso dentro la mangiatoia.
Qualche mattina, anzi giorno, sono entrato nella Basilica di San Francesco; a Siena. I colori delle vetrate erano lividi, come pezzi di diaccio, con i santi e le sante intirizziti, dentro e attraverso.
Cercavo di camminare in punta di piedi per non udire il mio passo, e m'avanzavo fin sotto l'altare maggiore; poi, tanto a destra che a sinistra, andavo da una cappella all'altra, cercando, con superstizione, di fermarmi, dentro ciascuna, più nel mezzo che mi fosse possibile ma senza troppo tempo a misurare lo spazio con gli occhi, e restandoci finché non avessi contato fino a cinquanta. Dopo ogni cappella la mia esaltazione mistica si faceva sempre più completa; e mi veniva in mente di non escire più dalla Basilica. Tutto il mondo, attorno alle sue alte mura, diveniva sempre più dolce e più religioso. Qualcuno faceva segni di croce che rimandavano indietro le folgori e arrestavano il vento. Gli organi cantavano insieme con la mia anima, che fruttificava come un miracolo fatto sopra una vigna. (Certo il ricordo di qualche leggenda manoscritta, letta alla Biblioteca Comunale.) Le campane suonavano, le ore battevano; e tutto era musica. L'azzurro del soffitto di una cappella si moveva e si apriva; gli angioli venivano fuori come se fossero stati sospinti dall’infinito. Gli affreschi del Lorenzetti si animavano: tutto il medio evo era dinanzi a me: io mi sentivo una spada in mano, e dovevo per primo cominciare battaglie che duravano secoli.
Io sorridevo guardando il sagrestano che zoppicando portava la scala da un punto all’altro delle lunghe pareti.
I sacerdoti mi benedicevano, il papa m’invitava a trovarlo.
Scricchiolò in una cappella, da un lato, una cassapanca antica: corse attraverso tutto l’impiantito, sparì, come il brivido dalla testa ai piedi, un topo.
Gli interessi tra mio padre e i miei fratelli ci facevano inasprire: e, a poco a poco, cominciammo a odiarci l’un l’altro come se fossimo i peggiori nemici. Evitavamo di parlarci, e quando non era possibile farne a meno, per quanto vivessimo tutti separati, le discussioni finivano sempre a pugni e a legnate: anzi, una volta, ci mancò poco ch’io non ferissi, con una coltellata, mio padre. Quando li lasciavo, mi sentivo arso dall’odio; come se tutto il mio sangue doventasse veleno per loro, e le mie maledizioni attraversavano l’aria come quei lampi che vengono proprio sopra la testa. Un giorno o l’altro avrei minato le case!
Me ne tornavo, una volta, così pieno d’ira e d’odio che ne subivo, quasi immediatamente, una stupefazione densa, molle, paniosa, che soddisfaceva la mia anima. Alla mia anima appiccavo i miei fratelli e mio padre; e mi sentivo il sangue più arido della terra screpolata dall’estate; fermandomi a rompere con i tacchi qualche zolla entro la quale s’eran perfino seccati i fili di gramigna le cui punte bianche apparivano fuori. Se qualcuno m’avesse raggiunto e m’avesse detto: «sono tutti morti», finalmente la mia anima si sarebbe riavuta. Ma no, no; mai!
Voglia Dio che l’azzurro che respirate, così bello e limpido, divenga fiele o così duro che moriate subito a bocca aperta con i denti troncati in vano per roderlo! Che le vostre case entrino dentro la terra; e sopra ci verrò a ballare con un’intera banda di musicanti che pagherò quanto vogliano! Cada il veleno dal cielo, e stasera sappia che siete affogati in quel fiume che vi farei bere per forza!
Quando fui in cima alla salita, vicino a un aratro, vidi una lucertola morta, con le gambe aperte all’insù, così sottile e pallida che singhiozzai.
Con mia madre che mi voleva molto bene, andavo, da luglio ad ottobre, in villeggiatura. Mangiavo il pane dei contadini, che di nascosto mi facevano bevere il loro vino anche a mezzi bicchieri per volta. Io stavo quasi tutto il giorno insieme con i loro ragazzi, a cui insegnavo a rotolarsi giù per le balze del tufo sodo, a fare gli archi con una frusta o con un laccio delle scarpe. Senza che ne avessimo bisogno, andavamo a rubare negli altri campi; e, così, mangiavo tante pesche, la maggior parte acerbe, che mi sentivo la pancia più dura d’un muro. E noi ci divertivamo a picchiarci, vicendevolmente, cazzotti sopra. M’ero fatto scuro e grasso: bestemmiavo e cantavo lungo i borri in fondo alle vallate, camminando tra i roghi, le canne e i pioppi; che si sentivano tremare sotto le nostre mani. Qualche volta andavamo a pesticciare su i seminati, scappando a tempo con le scarpe che non si alzavano più da quanto fango c’era rimasto attaccato. Ma ero contento di non portare più il colletto e d’avere una giubba non meno rattoppata di quella dei miei amici. Ci sentivamo con un mezzo fischio, ci capivamo a volo storcendo a pena la bocca o alzando le sopracciglia e raggrinzando la fronte: certe nostre risate avevano significati impossibili agli altri; e, ormai, non c’era più nascondigli dentro i quali non fossimo stati. O zufoli di canne e di buccia di castagno! O fruste agili e flessibili, con le quali qualche volta ci segnavamo le gambe nude! O ginocchi incrostati di sudicio, pieni di ferite e di lividi! O dormite fino alla mattina, finché non m’avevano chiamato due o tre volte! E chi dirà la mia gioia quando, grattandomi i capelli con l’unghie, la mamma mi disse che m’avevano attaccato i pidocchi?
Io ho sempre avuto poco tempo di voler bene a qualcuno.
Quell’estate era così calda che né meno in cielo c’era posto per lei. Pareva che il sole si levasse sempre più grande, ed era impossibile farsi un’idea di quando sarebbe tramontato.
Siepi polverose, cipressi che parevano per seccarsi, alberi morti, saggine e granturcheti doventati bianchi, fili di ragno così lucenti che parevano di metallo che tagliasse le mani, usci screpolati, botti sfasciate, la terra così dura che non la lavorava più nessuno, i letti dei torrenti senza libellule e con l’erba appassita, salci che non crescevano più, gelsi con la foglia piccola, vomeri lucenti, sassi che scottavano, nuvole rosse come fiamme, stelle cadenti!
Una cicala, sopra il nocchio d’un olivo, canta: la vedo. Mi ci avvicino, in punta di piedi, stando in equilibrio dall’una zolla all’altra. La stringo. Le stacco la testa.
L’aria dava una sensazione di violenza. Nel cielo c’era una nuvola che pareva una fiamma; e vapori bianchicci e torbidi, quasi pigiati da tutto l’azzurro grande, un azzurro un poco violaceo e umido. Ma che m’importava, se io avevo perfino paura di guardare intorno a me?
La notte innanzi, destato tra un sonno e l’altro, avevo sentito portar via le stelle e l’obbligo di non arrivare fino alla sera dell’indomani. Ed ecco, invece, ch’io m’ero messo ad aspettare questa sera! Ecco che io volevo vivere per forza ed inutilmente, quantunque tutte le cose rifuggissero da me. Ecco che per un tempo indefinibile, un anno forse, io mi esponevo a ritrovare i segni della mia sofferenza tutte le volte ch’io avessi voluto aprire gli occhi e il respiro. Ma io vi andavo incontro come ad un cadavere che avessi dovuto seppellire dopo aver desiderato di assomigliargli. Ecco che la mia tristezza veniva ad oscurare definitivamente la mia anima.
Ma ora avrei voglia di scrivere una novella, i cui personaggi fossero burattini di legno. Io credo che essi possano meglio di noi goder della luce e dell’altre cose belle. Chi non ha visto quanto piacere hanno quando sono mossi dai loro fili? Essi recitano volentieri: e sento tutto il baccano che fanno entro la trama della novella. Inoltre, Rosaura non m’ha ingannato mai; e il vestituccio se lo cambia pure che voglia io. Tutta la mia tristezza sentimentale non costa l’occhiata di vernice della mia dolce Rosaura. Vedo che nessuna donna vera è gelosa di lei; ma ha torto.
Oggi (già passato un anno?) il cielo è in un modo che pare rosolio: e i calabroni se lo bevono tutto.
Ah, si, ella mi ama tanto che mi viene da piangere! E, come se io non l’avessi amata mai, sento tutt’insieme la voglia di vederla e di mettere la testa sopra il suo petto.
Ma perché soffro così, e non vado a trovarla? Non c’è più la mia casa, i muri si spalancano; ed io mi metto fermo; così fermo da sembrare che le cose si muovano.
Il mio alito fa appannare i vetri della finestra, ma lo specchio sembra un abisso che divora tutto. Una canzone che forse canterebbe qualcuno andandosene; il respiro del tempo, che io sento lo stesso quantunque tanto lontano che c’è da impazzirne; la mia giovanezza che non è più con me; quelle rose vere che, se doventassero grosse e larghe come le voglio io, ne proverei sollievo; e quella mosca che si move, sopra il tavolino!
Non ho mai guardato dentro un pozzo senza pensare alla morte. Quando la brocca, tirata su dalla contadina, la rivedevo dondolare al gancio della fune, mi pareva che fosse stata salvata. E, prima di beverci, mettendola piegata alla bocca, lo sguardo a quell’altra acqua dove i riflessi del cielo si spezzavano!
Aprendo la finestra, la mattina, la prima occhiata era al pozzo; la sera, rientrando in casa, mi allontanavo in fretta dal pozzo; il meriggio non mi riesciva a capire che cosa fosse un pozzo. E i mendicanti che si fermavano a bere! E le loro lingue molli della sua acqua! E la bella pioggia, limpida e allegra, che v’andava dentro giù per le grondaie contorte, attorno alla mia casa! E l’annaffiatoio che non ne aveva paura! E la capra che, belando, vi s’arrampicava!
La strada dove non sono più stato è quella che m’era piaciuta tanto, forse più delle altre.
Già non vi passava nessuno! L’erba v’era alta, con il muschio così verde che pareva una vernice a olio, sciolta.
Sempre l’ombra del muro altissimo, scrostato, scalcinato; un’ombra che pareva più pesa del muro, fredda, silenziosa.
E di là, a pochi metri di distanza, il sole chiaro e caldo; e le farfalle che quando si son prese in mano bisogna ucciderle!
In fondo a un cassetto, che odora di stantio e di cose andate a male, quante brìcciche ritrovo! Un pezzetto di canna, con la quale volevo fare uno zufolo, un giornale illustrato, un coltello che non taglia più, un manico di lesina, tre bottoni e poi un cartoccino, giallo, legato stretto con un filo bianco.
L’apro per vedere che c’è: semi; semi di papavero. Quando sono per buttarli via dalla finestra, perché ormai non devono nascere più, vedo un piccolo insetto che non conosco: una specie di scarabeo verde e d’oro, quasi trasparente come un vetro prezioso. Mi dispiace.
Volerti dimenticare! E i discorsi che ti fo! E i miei sorrisi, e la voglia di venirmi a inginocchiare, e la luce dei tuoi occhi! E il tempo con il quale riempio la distanza tra me e te! E qualche tua parola che par viva e sola! E il pensiero che, se t’amassi, sarei felice! E tu che non mi hai rimproverato mai! E i nostri ricordi! E il tempo che siamo stati insieme, così dolce, così bello! E il mio ostinato silenzio! E le mie strette di mano, quando le nostre mani sapevano tutto della mia anima! Sei ancora bella, o forse di più? Mi piaceresti lo stesso? Potrei tacere ancora, se ti rivedessi? Ti accorgeresti di niente?
E questa rondine che corre dinanzi al suono della campana, per non farsi raggiungere!
Quante volte il freddo del mio cadavere fa le veci della mia anima! I monti mi paion la terra scavata attorno alla mia fossa, e il cielo mi fa tenere gli occhi chiusi: come se fosse lo spruzzo dell’acqua benedetta che non potrò sentire. E il mio cuore non batte come le manciate di terra che mi getteranno addosso?
O morte che sei bella nei fili alti dell’erba, tremolanti nel vento fresco, e rugiadosi! che sei da per tutto! Morte che non mi farai udir più le rane quando è vicino a piovere!
Un poco di primavera entro l’acqua della fontana; ma pareva che i fiori le fossero ostili e non ne volessero sapere. Le violette malcontente, i peschi sfioriti presto, quasi per far piacere al vento, qualche usignolo stonato; e il chiù non si sentiva mai. Le mattinate accosto alle sere come se fossero state legate per una ghirlanda; e il mezzogiorno sempre breve e rapido, benché con qualche raccoglimento abbastanza intenso verso l’ora del pranzo. Ma nessuna vera voglia di vivere: piuttosto una specie di scontentezza piacevole, con la quale stavo bene anche a finestre chiuse. Anzi le cose, di là dalla finestra, parevano più belle; come se fossero state troppo lontane o quasi di un passato commemorativo. E i suoni delle campane s’attaccavano e non venivano via più dai campanili; ed ero curioso di sapere perché. Troppa luce e troppo sole, che però mi facevano dimenticare meno le mie giornate fredde e tristi quando non si riesce né meno a imaginarlo più il sole!
Ma se guardavo l’acqua della fontana, di marmo, a poligono, piena di alghe che si staccavano dal fondo per andare a galleggiare, un poche alla volta, quasi salissero ad amoreggiare con il tepore del sole che combaciava con la superficie liquida, io vedevo e sentivo la primavera come forse mai più.
E allora non comprendevo le violette: ma soltanto il loro odore come una serenata alla luce. E la mia anima sopra quell’odore s’ingrandiva fino a sentirmela dentro i miei occhi. Ma i miei occhi erano attaccati all’acqua, con l’anima tutta a riverso per prendere un poco di sole e di luce; e sentivo, allora, una primavera paziente, tutta dipinta di silenzii casalinghi, e non volevo convincermi di trovarmi sempre solo, come se fossi andato a spasso e non avessi più voglia di tornare a casa.
Io sentivo che la mia faccia tentava in vano d’invecchiare la mia anima, e per questo io m’attaccavo all’anima. Ma tutto m’ero arso di me stesso, con una cenere che mi faceva lacrimare.
Perché quel pesce rosso, nascondendosi sotto le alghe, guizzò?
La primavera è proprio da per tutto, anche dove non ce n’è bisogno. Anche tra i sassi del muro franato l’erba è voluta crescere. Per i sentieri più scoscesi, tra i tronchi degli alberi che furono abbattuti con l’ascia, con un’ambizione di farsi vedere che pare perfino ingenua. La primavera assomiglia, questa volta, un poco alla stanza che la nostra amica, aspettandoci, ha adornato di fiori comprati a posta. C’è uno sciupio di gemme e una voglia di fiorire che pare una di quelle accoglienze da segnare poi nel nostro calendario. La primavera in tutti gli stili, perfino roccocò; con certe manie di fare effetto per forza. E pensando a tutto questo lusso, ci si prova ad esser contenti. Le margheritine bianche, quelle dei prati, fanno di tutto per darvi nell’occhio; e gli stessi prati si sono lisciati con la rugiada e il fresco che pare perfino bizzarria e voglia di divertirsi. I pini metton fuori la loro resina come se volessero regalarvela a tutti i costi, e ci si avvicina a loro per guardarli meglio; mentre anche l’azzurro rimane lì per lì un poco rintontito, quasi non sapesse che fare; e, forse, vergognoso di non odorare né meno quanto una violetta. E c’è modo, del resto, per tutti di far qualche cosa.
Ma perché, proprio ora, un maggiolino morto?
Sentirsi solo è un piacere che spaventa.
Un’ora dopo la mezzanotte non avevo più sonno né stanchezza; e la conversazione fatta con un amico e un’amica, quantunque di poche ore innanzi, cominciando da quando avevamo cenato insieme, mi pareva già sì lontana che pensavo se l’indomani ambedue si ricordassero di conoscermi.
Con il chiaro di luna in bocca, credevo di masticarlo; e c’era tutta la strada che voleva saltarmi addosso.
Prima ancora di sapere perché, mi viene freddo e poi distinguo la voce della civetta.
Oggi sono rientrato nella chiesa della mia parrocchia. Lo scialbo bianco è uguale a quindici anni fa: ho creduto riconoscere, su una colonna, vicino a una panca, una scalcinatura che ogni domenica allargavo sempre di più con le unghie. E mi son ricordato dei fiori finti, a mazzolini, portati al curato dalle due zitelle che andavano sempre insieme e facevano poca elemosina; e tutti dicevano che erano avare. Oggi mi dispiace d’averle odiate con feroce avversione, quasi sempre inciampando se mi voltavo a perseguitarle con gli occhi.
E tutte quelle ragazze, forse ora madri, e non le riconosco, di cui ero un poco innamorato!
Ma quanto piansi quando mi confessai per la prima comunione!
Ora non ho più paura quando suonano le campane, ma mi piace ch’io volessi mettere al collo di una di quelle ragazze un nastro uguale alla riga ch’era per margine in ogni pagina del libro di preghiere della mamma. La voce di quella ragazza mi faceva lo stesso effetto di quando mi guardava; ed io ridevo che la mamma sapesse a pena leggere, ma mi pentivo tanto d’aver ficcato pezzetti di cartasuga dentro il calamaio.
Riesco fuori della chiesa, sicuro che il suo scialbo sia più fresco della primavera che inonda la piazzetta sbilenca di San Donato; e, scesi gli scaloni, mi volto a dietro, in su, a guardar le campane.
Me ne vo con meno dispiacere, perché vedo che un branco di passerotti hanno il nido sul tetto.
Piove tanto che ormai i fichi sono sciapiti. Allora assaggio l’uva; e, con un grappolo in mano, piglio attraverso la vigna. Qui c’è un palo da rialzare, là una vite da buttar via. Ma io sono il padrone: mi faccio ubbidire anche dal grano, e mi volto alla luce per dire: domani tornerai e seguiterai a maturarmi l’uva. Io assaggerò il mosto.
Come odiai uno de’ miei pavoni, che capii più orgoglioso di me!
La mia anima, per aver dovuto vivere a Siena, sarà triste per sempre: piange, pure ch’io abbia dimenticato le piazze dove il sole è peggio dell’acqua dentro un pozzo, e dove ci si tormenta fino alla disperazione.
Ma i miei brividi al tremolio bianco degli olivi! E quando io stavo fermo, anche più d’un’ora, senza saper perché, allo svolto di una strada, e la gente mi passava accanto e mi pareva di non vederla né meno!
Città, dove la mia anima chiedeva l’elemosina, ma non alla gente! Città, il cui azzurro mi pareva sangue!
Dal podere, le mie viti scendevano fino a una sua strada; e l’anima di quella che sarà per sempre la mia fidanzata mi teneva compagnia, nel silenzio folle; e qualche mia parola, che le scrivevo in fretta, era stata il mio respiro più di una lunga settimana.
Siena, da sotto il mio ciliegio, pareva un arco che non si potesse aprire di più, e le sue case, giù per le sue strade a pendio, parevano frane che mi mettevano paura; con i tetti legati dall’edere cresciute su per le mura della cinta, le mura che non si apriranno mai. Ed io allora andavo a guardare la città da un’altra parte, quasi da quella opposta, dalla Porta Ovile. E vedevo i suoi orti squadrati entrare, con un angolo più alto degli altri, tra le case più rade; oppure, l’uno appresso all’altro, farsi largo e posto, ma fermati da una fila di cipressi la cui ombra oscurava il verde dell’erba; e qualche pesco fiorire e maturare accanto alle campane d’una chiesola, e qualche olivo chiamarsi dietro tutta la campagna soave che impallidiva lontano, rasente i monti chiarissimi, talvolta più luminosa del sole; con una tenerezza che mi commoveva.
E, se guardavo la città da un’altra altura, da Vignanone, le voci degli uccelli s’allargavano nell’azzurro come il vento. E tal’altra volta le campane tutte insieme mi parevano un’armonia discorde, e mi veniva voglia di morir subito. Le rose dei giardini, senza colore e senza profumo, la cingevano tutta: le finestre erano aperte.
Da parecchie miglia lontano, io vedevo invece le sue torri come tizzi ritti che si spegnevano ultimi nella cenere del crepuscolo.
E i temporali con tutto il cielo nero addosso! Pareva che i lampi la dovessero schiantare; ma, dopo, l’aria era più fresca e si respirava meglio; gli uccelli la varcavano a frotte; e il sole la rasciugava.
Perché, dunque, io vi soffrivo? Perché la mia anima non vi è mai voluta stare?
Lo sapeva, forse, quella mia tartaruga che riuscii a tener chiusa in casa una sera, e la mattina dopo non la trovai più.
A Vico Alto i vecchi cipressi si fermano all’abside della chiesa di pietre. L’Osservanza non è lontana, e si vedono le strade prima sparire e poi ritornare verso Siena, quasi aspettate. Le strade sciupano i bei verdi simmetrici, ma l’erba riescirà a rinascerci un’altra volta sopra. Se di quassù si sentisse crosciare il torrente, che si tiene con sé i salici e i gelsi! Ma siccome è domenica, la gente passa proprio per il viottolo che lo rasenta: gente vestita bene e che si sofferma di quando in quando, forse incuriosita, a guardare attorno. Alcuni merendano, con un giornale steso nel mezzo. Vengono, per quell’altra strada che fa il giro lungo, le sordomute e poi le convittrici.
Un contadino, appoggiato a un cipresso, fuma.
Oh, anch’io voglio fare all’amore e voglio passare lungo il torrente; perché m’annoio a guardare le salamandre che scendono e risalgono dentro questa fonte dove le alghe mollicce e viscide intasano l’acqua!
Era una mattina d’estate, calda e accecante. Camminavo piano, e sempre di più la natura mi pareva un sogno immenso della mia anima. Il cuore mi batteva di contentezza. I cipressi, uscenti dalle siepi dei poderi, attorno alle case tutte impergolate, in Toscana, parevano piantati lì dall’aria stessa.
Odori di ginepri, di marruche, di sanguinelle, di mentastri! Sopra un muricciolo, vidi un ramarro. Mi fermai, perché non scappasse. Allora, guardando i suoi occhi paurosi e intelligenti, provai una delusione dolorosa: e feci il viso rosso di vergogna.
Chi non ricorda come si trascina una farfalla ferita, toccando la terra con le ali tremanti!
Ma chi può vedere, ne’ suoi occhi, l’espressione del suo dolore violento e improvviso?
La farfalla va presto a rincantucciarsi, sapendo sparire dalla nostra curiosità. È come qualche cosa, allora, che riesce a non aver contatto con noi, ad evitarci.
Era di settembre, e l’uva cominciava a maturare; ma i chicchi parevano trasparenti quando i raggi del sole entravano tra i pampini. Ero in mezzo a una vallata, vicino ai pioppi, tutti contorti, di un borro. Mi pareva che la vallata si sollevasse su, attratta dalle due colline piene di oliveti e di vigne. Le pesche erano mature, e pensavo di mangiarne almeno una. Ma esitavo a muovermi. Tra due viti, vidi una ragnatela: era un poco umida, e mi venne voglia di toccarla con la punta di un dito, ma senza romperla. La peluria della prima donna ch’io ebbi non era così morbida.
Non so ancora spiegarmi, da otto anni, perché la mia amante, una volta, dopo aver bevuto la birra, chiudesse con il ventaglio aperto, dentro il suo bicchiere, una vespa che v’era entrata. Prima era entrata nel mio; ed ella l’aveva guardata sorridendo, divertendocisi quasi.
Io cercai di farle muovere il braccio, ma ella, con tutta la sua forza, non mi dette retta. Mi disse:
— Parliamo d’altro.
Al podere, che ora ho dovuto vendere, tenevo molte galline, insieme con alcuni tacchini e i loci. Quando non avevo voglia di far niente o quando soffrivo troppo non saprei di che, andavo nel pollaio e mi mettevo a guardare. Un locio, che pesava parecchi chili, dondolandosi tutto per camminare, saliva a ogni momento sopra la sua femmina. Vi restava, dopo un poco, come stordito; e poi cadeva svenuto, battendo il dorso, con le gambe per aria e immobili, con gli occhi velati come quando muoiono. Tutte le galline parevano spaventate, e non ci si avvicinavano.
M’era venuto il tifo, e la febbre cresceva sempre. La mamma non poteva tenermi compagnia a tutte l’ore e quanto avrebbe voluto: e io dovevo restarmene a letto solo solo, ad aspettarla. Vedevo, dalla finestra socchiusa, con i vetri non più lavati da quando stavo male, passare le nuvole, e la cima d’un ciliegio che rabbrividiva come me quando sentivo la febbre.
Una mattina avevo fame dopo aver preso la solita cucchiaiata di medicina. E non veniva nessuno. Avevo voglia d’alzarmi, ma più di piangere. Le coperte mi schiacciavano come le montagne; e mi pareva che tutte quelle nuvole me le facessero più grevi. C’era a capo del letto il campanello elettrico, ma non lo suonavo perché il suo squillo mi faceva peggio. Ero proprio per gridare, spaventato delle coperte alzate dai miei ginocchi, con l’illusione che si alzassero fino al soffitto, per soffocarmi.
Entrò un’ape. Mossi la testa per guardarla meglio. Sbattendo contro i vetri, cominciò a ronzare; ma con un ronzio così dolce che mi fece subito un effetto di benessere. Allora, mi ricordai dei fichi maturi e di tutte le altre frutta. Chi sa quale odore giù nei campi! Mi pareva, perfino, di sentir sapore in bocca!
L’ape girò da un travicello all’altro, e poi tornò alla finestra! Non piangevo più, assorto in quel suo rumore uguale, che allora mi pareva una specie di musica, a cui avrei dovuto trovar le parole.
Quando venne la mamma, facendola fuggire, mi dispiacque; e ci pensai tutto il giorno, sorpreso di non pensare ad altro.
Era stato un temporale orribile, dopo mezzogiorno, d’agosto. I lampi erano così fitti che non si faceva a tempo a respirare e a segnarsi. La mamma s’era seduta nella sua poltrona, io m’ero messo in ginocchio con la testa sopra a lei. Le sue mani mi tappavano gli orecchi. Ma non avevo il coraggio di chiudere gli occhi; e, piangendo, senza muovermi da quella posizione, mi segnavo, cominciavo l’avemaria senza mai finirla.
Il bosco, vicinissimo alla casa, quasi sopra il tetto, crosciava con il vento e la grandine. Si era fatto così oscuro, che la donna aveva acceso la lucernina d’ottone, mettendola nel mezzo della tavola.
Diceva la mamma:
— Se avessi un poco d’olivo benedetto, per bruciarlo! Fa tanto bene!
Due fulmini caddero nel bosco, e io li vidi. La pioggia luccicava; la grandine, sempre più grossa, empiva il davanzale della finestra, e la campagna pareva tutta bianca.
Finalmente i tuoni si fecero sempre più lontani; l’aria tornò serena. Lampeggiava ancora sopra la città; ma, dalla parte opposta, era apparso l’arcobaleno così dolce!
Riaprimmo le finestre e poi le porte, per escire. Allora, un contadino, venendo dalla strada, ci fece veder una rondine, ancor viva, che il temporale aveva abbattuto. Le sue penne eran bagnate e lucide: pareva stordita, e stava da sé nel cavo della mano, palpitando; ma quasi rassegnata. Provai tanta gioia che battei le mani.
Con la mia moglie era un affar serio, ogni giorno di più! Bastava un pretesto qualunque per leticare parecchie ore. Una volta, la minestra mi parve sciocca; anzi, era certamente. Glielo dissi. Mi rispose:
— Perché non vai a trattoria?
— Se fossi più furbo!
— Vai, dunque.
— Me lo vorresti proibire tu?
E la guardai con tutto il mio odio; ed ella altrettanto. Ma io non glielo volevo permettere. Allora, feci l’atto di darle uno scapaccione. Si alzò, rigida come uno stecco; e si mise a guardarmi fisso. Pareva che i suoi occhi si allargassero sempre di più; ma mi sentivo tanto più forte di lei che non pensavo né meno a offenderla. Mi disse:
— Vuoi scommettere ch’io vado dal procuratore del re?
— E perché no? Potevi esserci andata. Così mi sarei fatto fare la minestra più salata, se non c’eri in casa!
Si slanciò; io mi riparai con un braccio piegato.
In questo mentre vedemmo, tutti e due insieme, non so come, una formica che dall’orlo del fiasco stava per scender dentro o cadervi.
La rabbia finì subito. Ella la prese con le dita e la scaraventò lontano. Io dissi:
— Per fortuna l’hai vista! Avremmo dovuto buttar via tutto il vino!
E il pranzo finì bene, quella volta.
Alla dottrina cristiana ci sarei andato volentieri, ma da quel prete no da vero! Quando entravo nel suo studio, siccome, avendo cominciato più tardi degli altri comunicandi, dovevo rimettermi in pari, sentivo una specie di freddo che m’agguantava l’anima come uno per la giubba. C’era un tavolino con un tappeto rosso, forse rovesciato; il ritratto del papa, quattro o cinque seggiole che parevano tutte nere come le loro spalliere; e un odore tra l’intingolo o l’incenso o la cera bruciata. C’era poca luce, perché la finestra dava in un piccolo orto sotto certe mura antiche ricoperte di edere; e mi veniva sempre voglia di andarmene prima che il prete fosse venuto. E quella zoppa che m’apriva l’uscio! Certi occhi che mi facevano pensare alla panna inacidita.
Ma tra le tende, tutte polverose e sbiadite, c’era una gabbia appesa, con un canarino così giallo che pensavo fosse colorito con i tuorli dell’uova che si davano al prete quando veniva a benedire le case. Saltellando, faceva oscillare la gabbia e anche un poco le tende, a motivo delle quali mi scansavo in fretta; quasi per paura. Io mi vergognavo di lui, che mi vedesse con il mio libricciolo sotto il braccio lì ad aspettare. Ed ecco perché l’osservavo sempre, quando il prete m’interrogava, prima di rispondere!
Un giorno glielo portai via; e, piuttosto che ritrovarlo in quella gabbia, lo schiacciai con il tacco delle scarpe.
Un mio amico era in agonia. Caduto da una scala aveva battuto l’occipite, non riprendendo più i sensi. Siccome non l’aveva potuto comunicare, il prete gli lasciò la stola sopra i piedi dopo aver detto molte preghiere.
La mamma del moribondo stava nella stanza accanto, con l’uscio aperto, a piangere; io, stringendo i ferri a pie’ del letto, lo guardavo. Il suo volto acceso dalla febbre aveva, di quando in quando, una contrazione lunga e lenta; ma gli occhi restavano chiusi, sempre più in dentro.
Una ragazza, dall’altra parte della strada, cominciò a cantare: io la feci star zitta. Il rantolo diveniva sempre più forte, alternandosi con un sibilo così dolce che mi ricordava, con terrore, tutte le nostre allegrie. La febbre gli aveva seccato le labbra. Io pensavo come bagnargliele, quando entrò una delle sue due tortore. Prima ch’io facessi in tempo a rimandarla in dietro, era già volata sul letto, proprio sopra il guanciale molle di sudore. Allora, perché non si mettesse a svolazzare, buttando in terra qualcosa, aspettai che tornasse via da sé, come credevo che avrebbe fatto.
Gli montò su la fronte, che s’increspò; e, allungando tutto il collo, gli diede una beccata tra le labbra. Egli era uso a farsi prendere di bocca i chicchi di granturco o di granella.
Allora, troppo tardi, la scacciai. Ma, dal labbro di sotto, dovetti asciugare con il cotone idrofilo le gocce di sangue, che smisero soltanto all’ultimo respiro.
So che una vipera ha morso uno che m’odia. Pari e patta.
Ricordo sempre queste sensazioni: dopo la scuola attraversare il corridoio del seminario, fresco ed annaffiato allora; l’attesa d’un rimprovero; la prima comunione; parole alla fidanzata; un campo troppo verde; un’ape che esce da un fiore senza che mi fossi avvisto che c’era.
O ciliegie, sapore del maggio!
Farei ridere se raccontassi quanto le amo, ora che non ho altro da amare. Ed io per poco non mi crederei sciocco.
Ma la mia bocca è cieca; e non è fatta che per mangiare.
Mettete un piatto grande di ciliegie sopra la mia anima: non le lasciate troppo maturare, perché le passere le beccano tutte.
E quella finestra che vedevo dal mio podere scintillare tutte le mattine quando il sole si levava; una finestra che è delle prime case di Porta Camollia.
Non ho mai saputo chi ci sta: del resto, mi sarebbe stato difficile, perché quell’abitazione è dalla parte degli orti tra le mura e la chiesa di Fontegiusta; un orto dopo un altro che non finiscono mai.
A entrar là dentro bisognava anche attraversare un andito sempre buio, con l’impiantito sempre molle; perché, in fondo, c’è un pozzo e le donne vi vanno ad attingere l’acqua con le brocche e le sbattono ai muri troppo stretti.
Le scale da una parte, tutte a pianerottoli, sudicie e sciupate.
Ho pensato che fosse di quella vecchia che tiene in casa il nipote cieco che fa l’impagliatore di seggiole; poi, di quella fruttivendola sorda; oppure della tabaccaia tisica o di quel maestro impazzito.
E pure, quando sento cantare, e bisogna che il vento tiri da Siena, specie la sera, e non so chi è, credo che sia dentro quella stanza; e allora me la imagino con quei mobili vecchi ma riverniciati di verdolino e con le righe attorno alle serrature e alle maniglie di ottone, rosse e fatte a mano: più larghe e più strette, brutte. E, a una parete di fianco, un gran crocifisso doventato leggiero come una galla perché i tarli l’hanno tutto vuotato; e, infilato tra i piedi, un ramicello di olivo che si è seccato e che non si può smovere perché le foglie, color tabacco, cadrebbero subito e sporcherebbero il pavimento; che dev’essere spazzato ogni giorno e annaffiato con l’acqua a pìsciolo, facendoci quei disegni tutti intrecciati che si allargano da sé.
E questo farfallino grigio scommetto viene di là; perché ha le ali tinte di polvere.
Quel melo, il più bell’albero del mio campo, lo saluto tutti i giorni dalla finestra.
So che l’ha piantato il mio zio Pellegro. Ma lo avevo visto la prima volta quando mio padre dovette tagliare i legacci di salcio perché lo stringevano troppo; e il fusto, ingrossando, s’era quasi reciso.
Allora gli cambiarono il palo.
L’anno dopo fece tre mele; e mezza mi fu data ad assaggiare.
Per altri tre o quattro anni non lo vidi più.
Ma quando ripassai di lì, s’era fatto irriconoscibile: una buccia lucida e tenera che veniva via a toccarla con l’unghia; tanti rami e così alto che lo guardai rovesciando la testa in dietro.
Vidi che era cresciuto prima di me e che mio padre ne faceva gran conto. Gli avevano zappato la terra attorno come agli olivi; ma, siccome era autunno, gli erano rimaste poche foglie sbiadite; e nelle punte dei suoi fuscelli i segni dove stavano le mele: una sola, anzi, gialla e grinzosa. La guardai meglio, prima di staccarla con una zollata; ma, raccattatala, m’accorsi che dalla parte di sotto c’era il buco di un bacherozzolo. Allora la tirai lontano.
L’anno dopo, a primavera, lo ritrovai fiorito tutto bianco; come una gran festa.
L’avevano potato e i suoi rami facevano una specie di circonferenza un poco vuota nel mezzo.
Ma uno dei suoi quattro rami che venivano su dal gambàno era gobbo e un poco più corto perciò.
Quasi tutti i contadini, passando sotto, ci ficcavano la punta della falce per cercar meglio con tutte e due le mani nelle saccocce del panciotto la cicca e i fiammiferi.
L’anno dopo ebbe la prima disgrazia: ogni fronda fu fasciata da centinaia di ragnatele piene di bruchi; che gli mangiarono in meno d’una settimana i fiori e le foglioline. A maggio, era già per seccarsi. E per due anni non fiorì né meno più.
Allora mio padre lo fece scapitozzare; e dentro una rigonfiatura, a metà del gambàno, lo trovarono pieno di bachi carnosi, duri e grossi più delle dita; ed avevano capocchie tonde e rosse più del sangue. Furono uccisi con il coltello, a pezzi; e la pianta si riebbe.
Ma di mele n’ha fatte sempre meno. Ora, cinque o sei sole, che se le mangiano gli uccelli e le vespe.
La mattinata è fresca come le rose umide; ma tuttavia non riesce a convincermi che io posso odorarla.
Tutti quei tetti attraventati addosso alla collina di Ovile si abituano a farsi guardare di quassù, di sbieco, da questo muricciolo così scalcinato che tra mattone e mattone c’entra un dito. Se la primavera ci fosse già, potrei divertirmi a guardare gli alberi fioriti; ma son venuto troppo presto, in vano impaziente. Scommetto che quando la primavera ci sarà da vero, io non ci verrò né meno. Ma finalmente capisco perché mi ci prenda questa dolcezza con la quale voglio prepararmi a scrivere alla mia fidanzata. Là, da una parte della piazza, dove la ghiaia è più consumata, c’è la porta del Seminario, verde e sbiadita, con l’architrave di marmo doventato quasi giallo, contenta di essere accanto a San Francesco, quasi sotto il campanile. Mi pare ancora di entrarci per andare a scuola. Ma c’entra il sole, con una lunga striscia che va a ritrovarsi con quella di dentro il chiostro.
Ed io resto nella piazza. Giù la Porta Ovile, poi campi di olivi e di viti; e, su in alto, la piccola stazione con i vagoni carichi di sacchi e di legname; con una strada, per salirci, che gira più di un esse fatto per ridere sopra un muro da qualche ragazzo. È una dolcezza che, se qualche volta pare stanca, tuttavia si sente anche lontano lontano, tra le pieghe verdi dei colli dove non sono stato mai.
Il campanile con i grappoli delle campane, che fanno escire per la piazza i rondoni!
Ed i tetti hanno la pazienza di stare lì e l’abilità di non lasciarsi andare per riposarsi un poco!
Qui, pensando alla fidanzata, ritrovo molta della mia vita: anche quando andavo, d’estate, all’ombra, sotto il muraglione delle Figlie di Maria ad imparare la chitarra; e dove m’ebbi un pugno e riescii a non piangere; e ricordo il cavallo che scappò dalla caserma dei carabinieri.
La siepe, addirittura nera, tagliava le spiazzate dei campi, verdi o arati, l’uno accanto all’altro, l’uno addosso all’altro. Gli uccelli volavano con un volo sempre più basso, tremolando un poco; impauriti delle quattro nuvole, quasi quadrate, che avevano coperto il tramonto: le quattro carte da gioco.
Nel Pian del Lago c’era nebbia, a strisce sempre più sovrapposte e larghe; Montemaggio e la Montagnola di un verde più nero della siepe; e voli di colombacci che a stento proseguivano, randelloni, con le ali appiccicate nel cielo d’un turchino che voleva smettere.
Per tornare a casa, ci sono sempre nel mezzo della strada quelle sette stelle dell’Orsa, che me l’hanno buttata là chi sa perché.
Il vento, che batte su la faccia, viene di là.
E tutta la bellezza della sera vorrebbe entrare dopo di me; e spinge in qua l’uscio, sì che duro fatica a richiuderlo.
Perché la gatta miagola e si spenzola dalla grondaia?
All’ombra, il carraio verniciava di cinabro mescolato al minio le ruote dei carri da contadini; e poi, con un fusello infilato nel mozzo e tenuto tra ambedue le palme, le portava al sole, appoggiate al muro. Qualche volta andava a levare con il manico del pennello una mosca che c’era rimasta attaccata. Tutte le mattine passavo il tempo così, senza parlar mai al carraio, sedendomi sopra un mucchio di breccia che lo stradino teneva già pronta per l’inverno.
Mattinate dolci di sole, quando cominciavo a sbadigliare di fame; e io ne provavo un senso indefinito, quasi di sonnolenza e di piacere! Pensavo, allora, che da grande avrei scritto un libro differente a tutti quelli che io conoscevo: qualche storia ingenua e tragica che pareva uno di quei pampini che il vento mi faceva cadere tra le ginocchia; ecco: come c’è questo pampino, ci sarà il mio libro.
E sentivo un fremito.
Il carraio seguitava a verniciare; e, talvolta, m’illudevo che anch’egli vedesse riempirsi, la distanza tra me e lui, delle persone che mi pareva di vedere.
Egli è buono, pensavo; egli non dice niente né a me né a loro perché io non creda che gli si dia noia.
Tutta la strada era piena di persone, come un incubo trasparente e leggero, che si movesse anche ad un alitare di vento; come si moveva la mia anima.
Alla fine dovevo supplicare questa gente che mi desse un poco di tregua: la sentivo attorno alla mia giovanezza come insetti attorno ad un lume acceso allora allora. Qualcuno mi perseguitava e mi faceva venire i brividi; un altro voleva stare in casa con me, ed io non potevo mandarlo via.
Ecco che il mio libro doventava la vita stessa, la gente cioè che conoscevo!
Ma soffrivo e sentivo una specie di malessere vertiginoso; e m’invogliavo di pigliare a sassate, per scherzare.
In vece, i moscerini m’entravano negli occhi; e mi venivano le lacrime.
Una strada scende: anche un’altra scende e le viene incontro: si fermano insieme. Dalla prima, a metà, se ne parte un’altra che scende per un altro verso e ne trova subito un’altra, più bassa, che fa lo stesso.
Su la prima se ne butta un’altra; poi la prima e la seconda, dopo la fermata, se ne vanno giù insieme e a un certo punto incontrano quella più bassa di tutte. Altre strade le tagliano e scendono. Le case hanno paura a stare ritte tra questi precipizii e si toccano con i tetti pendenti. Ma anche i tetti, a pendere così, non potrebbero cadere tutti giù?
Le case, per fortuna, sono soltanto a due o tre piani; e la gente, alle finestre, ha l’aria di far loro da contropeso; perché non seguitino ad andare più in giù, tutte insieme, verso la Porta Fontebranda, da dove certo non passerebbero essendo così stretta. Le vie della città guardano queste quasi per scendere loro addosso; con la Cattedrale nel mezzo e con San Domenico sopra il tufo giallo. Ma la Fontebranda è ficcata giù sotto terra, e i Macelli se ne stanno stretti stretti rasente la balza che regge metà di Siena. La vasca natatoria è verdastra dietro le punte nere e taglienti del suo cancello; i lavatoi hanno l’acqua saponata; gli archi delle conce piene di cuoia ad asciugare. Quanta solitudine e quanto silenzio anche con il vocio delle donne e dei ragazzi! Quando le donne di Fontebranda cantano, con quelle cadenze d’una stanchezza tanto dolce!
È un silenzio che sta lì come le case; quasi assurdo. E perché quel cadere perpetuo dei tetti insieme con le strade?
Non si ha, al contrario, il senso che le strade salgano: si sente soltanto la discesa fatta in fretta, con ansia: e, dal punto più basso, anche il meriggio è così lontano che resta soltanto per gli altri rioni di Siena.
Cominciano le strida dei porci scannati; ognuno basta ad empire di sangue due secchi.
Quel che vedo e penso è come se lo leggessi.
Leggerò, forse, fino a stasera; ma il libro non lo chiuderò: resterà aperto tutta la notte e troverò i sogni su le pagine come se fossero figure.
In vece, no. Allora percepisco solo le cose, che stanno vicine a me: e, perché sono seduto sotto la mia pergola, mi metto a guardare un pampino: forse, uno dei più larghi. Perché non capisco quel che fo, lo strappo dal tralcio e lo butto dietro di me, di là dal pancone verniciato di verde.
Il sole, tra gli altri pampini, taglia gli occhi con i suoi pezzetti di vetro.
Una cavalletta mi salta su una mano.
Nel bosco cerco l’albero che, tagliato a bara, imputridirà sotto terra con me.
Gli voglio tanto bene: forse, è quello dove ora c’è sopra un merlo.
Quando ci sono io, tutto ciò che è nella mia casa vive con me.
Io stesso ho insegnato a tutte le cose, scegliendole, come dovevano fare per piacermi e perché io le amassi.
Queste pareti riconoscono la mia voce; e la loro fedeltà è profonda.
Ma guardando, dalle mie finestre, chiuse o aperte, la fila degli orfani che escono a prendere aria, capisco che i miei occhi non vedono tutto. Mentre, se guardo lavorare i contadini, mi farei aprire il cuore dai loro vomeri, per dar loro la gioia di doventare anch’io terra da sémina.
E se guardo i cavalli che tirano i barrocci, riparo in vano le sferzate.
Se sento cantare i vagabondi e gli ubriachi, io mi rattristo; se guardo gli orti, mi piacciono le campane che fanno finta di annaffiarli; e cambierei di posto volentieri con le stelle.
Ma la luce della luna si diverte a farmi sentire le civette.
Io m’ero messo in testa di trovare il violoncello che udivo tra gli alberi del bosco: quando tira vento, non sta più zitto niente! Credevo che fosse a pochi passi da me; e, allora, andavo là, quasi di corsa. Non c’era più: più lontano ora; ma distante da me quanto prima. Andavo lo stesso. Né meno! Sempre, sempre vicino a me; ma non dovevo vederlo né trovarlo mai! Così, sul fiume, il riflesso del sole camminava sempre avanti a me; e, dove era stato prima, l’acqua tornava ombra turchina, senza che vi fosse nessuna traccia di quell’incendio finto.
Così i monti non erano più azzurri quando, dopo mezza giornata di strada, vi ero giunto; ed allora vedevo altri monti; ma era inutile che io camminassi a posta per questo!
Così le onde che il vento faceva sopra il prato: dov’ero io, attorno alle mie gambe, tutto era fermo come me.
Così i miei sogni quando mi sono destato.
Né, da vicino, ho mai potuto guardare la trasparenza violacea che aveva un piccolo padule del fiume: non c’era più.
Così, da ragazzo, l’eco della mia voce: un’altra voce, ma senz’anima.
Così i pappi di certi fiori, quando volevo portarli in mano.
Il violoncello del bosco l’avrei voluto comprare, per darmi l’aria di essere ricco. E suonarlo i giorni di festa della mia anima; ammaestrando un liocorno, color di carta bianca, che prenderei da qualche favola vecchia.
Dieci anni che abito nella mia casa, comincio soltanto da oggi a sentirne la realtà. Tutto quel che vi avviene è la compilazione d’una storia che riguarda me. Ma, quando io stesso non saprò dirla, nessuno ci penserà più.
Così come quella fonte che ho ritrovato morta, ed io non lo sapevo.
Morta da due mesi, e nessuno me lo aveva detto.
Ma l’aria, oggi, è gaia; e mi sento bene. Forse, vivrò parecchio tempo ancora; ché di me non sento nessun segno di morte; e tutto quel che vedo fa parte della mia esistenza.
Il limone già tagliato, i bicchieri puliti, la tovaglia di bucata; e la voglia di mangiare.
Sono impaziente: mi guardo le mani, mi specchio ai vetri della finestra. Nessuna stanza è bella come questa; e la mia anima è anche più gaia dell’aria: il limone, i bicchieri, i piatti sono belli perché miei. Il senso di averli e loro stessi sono una cosa sola. Ed una sola realtà.
Ma, a pena mi sono seduto a tavola per il pranzo, sento cantare, da un ragazzo, una canzone che io conosco senza averla ancora imparata.
Mi vengono i brividi.
Portava gli agnelli a vendere.
Vorrei leggere come un ragazzo, vorrei capire come un ragazzo. Là giù, nel bosco fresco di verde e di ombre, ho lasciato il giocattolo del mio passato, perché si sono rotti i fili. Ma io mi metto a guardare fisso il turchino perché me ne venga un altro; magari fatto come una nuvola. Anche la pioggia è il giocattolo con il quale ruzzano le fontane del giardino; anche il mio sorriso è un giocattolo, come il mio cuore che batte.
E la mia ombra è il giocattolo del sole; la mia voce è quello della mia anima.
Quando siamo morti non si parla, e allora quel che s’è detto lo ripetono gli altri.
Anche la bara è il giocattolo, che si mette sotto terra.
E, s’io fossi un ragazzo, vorrei chiedere a Dio che questa fresca erba bella la lasciassero in pace; e mi scriverei da me il libro di lettura.
Farei doventar buone anche le vipere.
Ecco la sera, quando le cose della stanza doventano pugnali che affondano nella mia anima: maniache che mi attendono.
Qualche altra volta, mi erano sembrate — libri, tavoli, sedie, tagliacarte, cuscini, lampade, pareti — poemi immensi. Mai, in nessun modo, sono riescito ad essere indipendente dinanzi a loro.
Ma questa sera hanno atteso tutte d’accordo.
Siete sicure di essere sincere? Ormai io vi lascio.
La mia anima, se qualche volta si ricorderà di voi, crederà di mettersi a suonare un organetto di Barberia per fare ridere le serve e piangere chi non c’è.
Il cardellino morirà di fame: il pane intinto non glielo darà più nessuno.
Il cielo sta per doventare uno specchio: è già impossibile guardarlo.
Qualche uccello, che di rado vedo entrare in una boscaglia di pini, fa credere che sia disseccato come quelli imbalsamati; e la sua ombra affonda passando nella polvere della strada.
C’è una piccola sorgente che a pena è buona ad escire di tra i ciuffi dell’erba verde, sotto l’ombra di una querce. L’acqua, al buco della sorgente, un ago che si spezza sempre, scintilla e poi sparisce.
In giro c’è nata questi dieci metri quadri di erba che lustra; e basta.
Il luogo è così silenzioso che par di udire l’erba. E la fonte, con lunghi rigagnoli, che non smettono più, va giù per il prato a fare la calligrafia.
Quando ritorno nella strada, la polvere scotta; e io cammino adagio, per non sudare.
Anch’io ho avuto due carri verniciati di rosso, che mi destavano la mattina quando i contadini li portavano con i bovi nel campo. Carri di concime o di uva, di granturco o di grano, di saggine o di pomodori.
Li ebbi da mio padre, ed io li vendei perché avevo da pagare un debito.
Io non avevo mai posseduto niente, che mi fosse durato molto. Mi ci ero tanto abituato che anche i miei sentimenti, scambiandoli per balocchi da pochi centesimi, li ascoltavo sempre con malevola e giusta ironia. Non era, forse, l’unico modo per non ingannarmi più? Impazzito per aver pensato subito che io potevo finalmente credere: effetto del mio bisogno di credere. Dopo tanto tempo, ecco che in vece di altre cose innumerevoli, di ogni genere, io ripenso ai due miei carri. E alla mia vita quale avrebbe dovuto essere.
A me non era lecito escire dal mio paese. Ascoltare là le musiche della domenica, passeggiare con tutti gli altri le mezze giornate intere per la strada che gira attorno alle case, amare qualche ricca fantoccia.
E, sopra a tutto, avere ancora i due carri verniciati di rosso.
Il gallo che la mattina fa tremare il cuore di gioia; le noci mangiate con il pane, ancora in maniche di camicia; le cipolle strofinate sul sale tenuto nel palmo della mano. La dolcissima aia costruita bene e spazzata!
Fedeltà ed amicizia dei campi verdi!
Le prime pesche vendute, i vitelli comprati alla fiera, il vino assaggiato dai tini, ancora caldo e torbido; e il suo afrore! Gli acquazzoni che fanno ridere; la terra che sporca le mani!
E le feste di campagna con gli organetti, briachi, a singhiozzare lontano tra i campi; e fanno venir voglia di andarci anche noi, dietro; le feste che restano per sempre nell’anima con i fuochi artificiali e i palloni di carta che vanno a cadere quando pigliano fuoco!
E la cometa che fa paura!
E il temporale livido, con la grandine bianca bianca; con i lampi che accecano! E tutte queste case del paese, che ci sono non si sa perché; con le strade lontane per la maremma di Grosseto e verso Siena; e si sperdono, giù nelle vallate, dopo dieci o quindici chilometri; le strade che aspettano. In vece, non l’ho né meno più visto questo bernoccolo di case! I miei carri non mi destano più; e il gallo, benché duro, l’ho mangiato.
Mi piacciono molto quelle persone che adoprano, parlando, modi di dire differenti a tutti gli altri. Mi sembrano, le loro conversazioni, riconoscibili, amicizie a cui ci si possa affidare di più.
E, così, ho imparato che le cose hanno per ogni persona una fisonomia differente.
Una persona si distingue più profondamente dal suo modo di parlare che dal suo viso.
Con quale voce, per esempio, dovrei parlare di un bel prato verde? E con quale altra di questa crocetta d’oro ritrovata per caso e che la mia mamma portava?
Ed ho la certezza che sia viva da vero, la mia mamma! Sono venti anni che è morta? No; non è vero. È viva ancora.
Ecco ancora le sue vesti, ch’ella si metterà. Ecco il suo armadio, le bottiglie dei profumi, il suo cappello.
La porta della mia camera l’ha lasciata aperta lei: stasera non mangerò, se non c’è insieme con me.
Le farò trovare un gran piatto di fichi maturi: ne è ghiotta. Il pane fresco; e lo metterò, al suo posto, su la tavola. Il suo bicchiere alto e scannellato, di vetro un poco verde e con il fondo rossiccio di vino che non si può lavare di più.
Ho imparato a vivere con la mia anima! Ora devo imparare a vivere con la mia mamma.
Non abiterò più nessuna casa dove non sia anche lei: io la seguirò con un’obbedienza che i fanciulli non hanno.
Io non parlerò che alla mia mamma.
Ed ella mi ricomprerà un paio di piccioni; a cui taglierà le ali, perché non mi volino via.
Tutti quei fiori, che ho sognato!
La mia anima, dunque, sapeva di qualche funerale che io non so. La mia anima è stata a qualche funerale.
In fatti, tutt’oggi nella mia casa, vuota e deserta, c’era un senso di cose tragiche, nascoste a me. Quand’io aprivo gli usci, avevo paura; e la carta delle pareti aveva un’aria di silenzio quasi timido; non canzonatore o vispo, come altre volte.
Tra le stanze c’era un’intesa e un accordo di non dirmi niente: qualche parola che se la passavano quand’io voltavo le spalle. I miei libri facevano di tutto perch’io non li prendessi in mano; le stoviglie nel salottino da pranzo erano mute e così tristi che io non mi sarei arrischiato ad adoprarle né meno una; perché mi sarebbero cadute.
E ricordandomi, in vece, nettamente, qualche altra giornata quand’ero stato tanto bene in casa mia, quando non m’ero né meno accorto di esserci!
Io, dopo tanto tempo, devo domandarmi ancora per chi erano quei fiori. Ma le tortore hanno fame; e dico che comprino il miglio perché mangino.
Ci si sta così bene a piangere con la faccia su l’erba fresca, che arriva fino all’anima!
L’allodola! Piglia la mia anima!
FINE.